Idea Vagante

 

Di malachite un guizzo
 

Nei tuoi silenzi
immersa
fruscio di seta
ogni respirare assorto
di giorni agonizzanti
tra le mani
(corolle nude di petali d’autunno).

Brancola
piede scalzo d’utopie
se scoglio di luce
morde la caviglia
e tra le grate imprigionata
l’anima ricerca zolla di cielo.

Flebile lamento su tastiera
scala in si bemolle
rompe l’attesa
e squarcia il buio
il miagolio di un gatto
che sgrana stupiti gli occhi

(di malachite un guizzo
là dove s’apre il vicolo,
forse speranza).

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A te

 

Apro il cassetto e torna prepotente
il tuo profumo di sandalo e tabacco
racchiuso qui, dove dà vertigine
lo spazio d’ere che ora ci separa.

M’inebrio al tuo sorriso che zampilla
da quella foto gialla accartocciata
in lampi di clemenza e d'abbandoni
nell’angolo lì in fondo fitto di ombre.

E passa l’ora sul quadrante immoto
e quasi s’addormenta ansia lontana
in sogno brulicante di promesse
quelle che stringi caparbio tra le ciglia

per sempre chiuse in quel tuo sonno nero.

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I due vecchi

Seduti su una pietra rugosa come loro
nel giardino
muti impietriti
lo sguardo fisso nel vuoto
(davanti dietro non importa)
stanno.

È cavo il cielo e l’ombra sempre più corta
sotto i loro passi che trascinano anni.

Seguono forse formiche di pensieri
in fila
o è nebbia di giorni che s’addensa
sui loro visi scolpiti già nel bronzo.

Si tengono per mano e in quella stretta
corrono nostalgie di primule a primavera
o forse un brivido d’inverno già alle porte.

Comunque sia, insieme come da tanto,
si fanno scudo reciproco alla paura
di quel tratto ultimo di strada
che sembra lungo e invece è già tritato.
 

T.F.

(2002)
 

Attends-moi, je te prie
 

Ti raggiungerò
ai confini estremi del silenzio,
su quelle rive d’ambra
dove i sogni fanno capriole nel finito
e nel cellophane incarterò
ogni tuo dire
che mi lasciasti
chiuso
nel cassetto centrale
della scrivania.

Arriverò
con passo di giaguaro
e con fierezza
bottoni di giaietto
ricucirò sul tuo gilet di seta,
lo stesso che indossava il tuo sorriso
quando d’orgoglio
mi sollevava al cielo
con braccia levate come vele
superbe di trasparenza d’acquamarina.

Ogni ombra avversa
dileguerà d’incanto
quando ti mostrerò l’ala di giada,
il moncherino d’anima che goccia
opalefuoco d’anni
mesi e giorni lenti
nel vetro scivolati di clessidra
da quando trasmigrasti
e nebulose
divisero i miei dai tuoi sospiri,

padre,

che chiarità d’albe con strazio d’artigli
accanto mi scolpisce di cristallo

sempre.
 

T.F.

(2002)
 


 

Come una perifrasi
 

Parafrasi
di gesti e di silenzi intonsi,
antiche nenie
a galla
al caldo del camino.

Di luce fioca
si coprono i ricordi

scoppiettano scintille
in quegli sguardi indietro

cenere tra mani
anchilosate
a stringere destini
gelosamente chiusi
in morsa di stagnola.

Quasi un istante
a fermare il tempo
tra nodi sinuosi
in fiamme

come la vita

perifrasi
che serpeggia
e brucia
mentre si dice.
 

T.F.

(2002)

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Sparolando
 

Viaggi per lande sterminate
senza bagagli
stretta nel pugno chiuso a morsa
zolla muschiata di terra persa fumante,
la stessa che t’accartoccia l’anima
a ogni passo che nell’aria tagli
a ogni gesto che ricuce spazi
né tramontana raggela il tuo disegno
che rinverdisce a ogni strappo fantasma.

Sparoli di strozzata nostalgia
quando dai forni s’alza crudele
quell’odor buono di pane
o di zucchero cotto in quei bocconi d’angelo
che tanto ti ricordano il tuo ieri in festa
che sfrigola ancora come olio dentro padella
e brucia agli occhi e artiglia la mancanza,
pudico amor di feto per le acque sue natali
dove nuotava caldo e desiderato.

Senza bagagli raccogli il tuo viatico
geloso di rapide e ventate
e guardi avanti a quella strada bianca
sempre più stretta e sorda ai tuoi richiami.
 

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D'abitudine ormai
 
 

Lusinghe di arpeggi
tra creste stramate di giorni
arruffati da fiati da vento
da umido dire
e tacere composto
l’assenza
scalfita da artigli e domande
incalzanti
impietrite su labbra
d’argilla
come crete truccate.

Pietà di sole
raggi ramifica
tra foglie di castagni,
le tue parole
chiuse a riccio di paura.

Libeccio infuria
e polveri solleva

d’abitudine ormai.
 

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Quando... allora... forse.
 
 
 

Quando

quando in fame di cieli
quando in fame di cieli strapperò
lembo dopo lembo
fino all’ultima nuvola
che mi separa da te
e approderò
a quei giardini bianchi
di livore antico
approderò
a quelle aiuole
su cui dita di pietà luminose
accesero roseti di ninnananne antiche

allora forse

allora forse morsi violenti
di nostalgia
mi prenderanno per mano
e mi guideranno alla terra
che a bocca spalancata
aspetta cibo sacrificale,
il cuore nomade del prodigo.

A quelle braccia materne
affiderò ogni ferita
che ride con labbra d'amaranto
tra drappeggi di teatro quotidiano

tra quelle radici di piovra
depositerò l’affanno
del feto
in tachicardia di ritorni
e voli amniotici.

Serenità di porto
da disseppellire

ancora.

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In smorfia di vita
 

Ne ho fatto un cartoccio
confezione regalo
di queste parole

confetti di pianto

di tanti colori
occhieggiano
invitano

rispecchiano mari.

In dono
l’ho messo
tra le tue mani
che tremano
e ignorano
l’agrodolce
di un dire
che sempre più
annaspa
per darsi sincero.

Sembrano miele
si sciolgono in bocca
e quel retrogusto
di sale e di amaro
ti punge negli occhi
nonostante il sorriso
che sempre più pesa
su labbra ricurve
in smorfia di vero

in smorfia di vita.

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A te oltre il varco suadente

Dedicato a: mio padre
 
 

Come onda che solo a sua riva
pace e riposo ritrova
umile arrivo alla meta,
in affanno m’accosto al cancello
che freddo mi macchia le mani
di ruggine d’anni e sospiri.
E pesa la colpa in fardello
che lieve si fa se a te arrivo
a deporre dopo lungo cammino
il mio fascio di pianto e di vuoto.

Adesso che il freddo imperversa
e lontano ormai batte la vita
non ho che un’ortensia grondante
di suoni e profumi arrochiti.
La metto nel vaso d’opale
che odora d’incenso d’oriente
insieme a edera e fame
di abbracci
che ancora la serrano a te
oltre il varco suadente.

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Idea Vagante


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