Prefazione
Più di qualsiasi messaggio pubblicitario o campagna promozionale volti a persuadere delle opportunità offerte da Internet, queste poesie di Maurizia Fervari attestano la positività del web quando ci si imbatta in siti gestiti con serietà, passione e professionalità e quando l’intelligenza dell’utente riesce a utilizzare il mezzo, senza peraltro lasciarsene dominare. Testimone attenta di questi processi che vedono la scrittura creativa coniugarsi più o meno brillantemente con le potenzialità della rete, posso affermare senza tema di smentite che i versi qui proposti sono nati proprio grazie alla felice suggestione esercitata sull’Autrice dalla frequentazione di un sito di scrittura dal nome accattivante <www.scritturafresca.org>.
Su questo sito mi è appunto capitato di leggere le poesie della Fervari, che ho visto quasi giorno dopo giorno prendere forma. Inizialmente timide e bisognose di supportarsi con le voci del gran Libro della letteratura italiana quasi a chiederne certezze e sostegno, esse manifestavano un indiscusso rapporto con la tradizione e un amore per la scrittura come velato da un senso di pudore che sembrava imbrigliarle. In seguito, lungo il loro cammino all’ombra del web – un cammino che ho seguito con crescente interesse –, si sono mostrate invece sempre meno timorose e, contemporaneamente, più consapevoli dell’“enciclopedia” umanistico-letteraria di cui disponevano, fino ad assumere fattezze di compiaciuta e divertita disinvoltura quando si sono cimentate con la composizione di haiku e di acrostici, assumendo quindi su di loro gli oneri e gli imperativi formali sottesi a tali tipi di componimenti, che prevedono ‘binari’ e ‘griglie’ ineludibili. Da questo percorso si origina la raccolta Tessere in surplus, le cui quattro sezioni testimoniano fin dalla titolazione l’indagine compiuta dalla Fervari e il suo articolarsi finanche ludico (Giocando con le parole).
Alla ricerca di un tragitto più
personale,
in cui convivessero le parole dei classici con le suggestioni della
contemporaneità, questa scrittura, pur tradendo un’innegabile
predilezione per
la lezione degli ermetici Quasimodo e Montale, con cui intrattiene
fertili
debiti, si è tuttavia mantenuta sempre fedele a quello che
è il suo peculiare
microcosmo poetico. Infatti, se si sono verificate trasformazioni a
livello
formale, sul piano dei contenuti essa si è conservata sempre
coerente alle
atmosfere e ai temi prediletti. Così è la nebbia, che
talora si converte in una
lucida miopia, a farsi elemento catalizzante della domanda che percorre
i
versi, continuamente tesi ad auscultare la realtà e a chiederle
risposte, anche
falsificabili, per poter dare una motivazione agli interrogativi
interiori di
cui si alimentano:
L’anima insonne interroga il buio
e il sangue pulsa in vene insospettate.
(Notturno)
Tentata fino allo spasimo dal demone del “consuntivo”, di un bilancio che registra puntualmente degli “ammanchi” anche se “inspiegati”, la scrittura si confronta spesso con il tempo e lo frammenta in segmenti in cui il ritmo delle stagioni si alterna a quello dei giorni. L’ora topica, la sera, è quella che letterariamente più si presta ad essere abitata dall’assenza, altro stilema ricorrente nella raccolta. Un’assenza che diventa quasi materica e sopraggiunge a colmare un vuoto, non necessariamente di natura referenziale:
Mai come stasera
Il vuoto fu pieno di te.
(Mai come stasera)
La forza evocativa del sentimento di
mancanza è talmente alta, anche se trattenuta in un grido di
scrittura muta,
che riesce a concretizzare la presenza in una “impercettibile”
risposta. La
poesia compie il miracolo e sconfigge la realtà, né manca
di riconsegnare
epifanie del passato in quei segni profumati “di zagara e agrumeti” che
sembrano sprigionarsi “da grumi di colore su una tela” fino a
restituire il
sorriso perduto tra le pieghe del tempo, fino a tradursi in un breve
trasalimento. E quando il silenzio, severo compagno di questi versi, si
accalca
all’intorno e imbeve gli oggetti del quotidiano, ecco che diventa “carta” e avvolge le parole:
In carta di silenzio
avvolgo le parole
che non so dirti
(Di rugiada e silenzio)
Nonostante la lucida
consapevolezza di confrontarsi con un linguaggio che denuncia tutta la
sua
inadeguatezza nel processo di rappresentazione del reale, la
scrittura sgrana parole taglienti di dolcezza mista a una leggerissima
ironia, “come una lama” o come
verità
ostinatamente rifiutate, a disegnare “la tela surreale / del presente”,
di un qui e di un ora continuamente
esorcizzati da lapilli che esplodono dal magma di
un dis-correre poetico in continua ricerca della chiave risolutiva, in
continua
attesa di “plausibili risposte / all’eterno quesito” dell’esistenza. E,
mentre
la poesia cesella la dignità di quel “male di vivere” caro a
Eugenio Montale,
muove a riassemblare le tessere di un mosaico in filigrana, che nel
corso della
raccolta assume anche la struttura delle composizioni giapponesi, in
quanto
nella loro brevità, condensano voci di una realtà non
solo umana, ma anche e
soprattutto di natura. Sobrio, preciso, essenziale, eppure
semanticamente
denso, l’haiku sembra congeniale allo stile della Fervari, che in una
sezione
di questa raccolta (A ritmo di haiku)
si affida proprio alla scansione interiore da esso evocata per dare
voce all’esigenza
della rarefazione in cui sospendere immutabile ed effimero, per
lessicalizzare
dettagli cromatici come elementi minimi del paesaggio, rintocchi di
memorie e
schegge di pensieri, rapidi come lampi. E sulla tela del testo le
tessere vanno
a disporsi per comporre figurazioni in bilico tra un fiero guardare
negli occhi
la sofferenza e la musica di un pianto sublimato in versi in
tonalità ora
sfumate ora venate di un’acredine, che viene rapidamente risolta in
sorriso
agrodolce. Grazie a un equilibrato dominio del livello semantico,
l’enigma si
converte in gioco linguistico, in sfida, mentre presenze, assenze e
frammenti
di tempo e di memoria vanno a dar corpo ad acrostici che, su diverso
pentagramma, ripetono quel sentimento di mancanza che è la cifra
inconfondibile
della migliore produzione lirica italiana.
Urbino,
luglio 2003
Teresa
Ferri