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Intervista con
Bruno Boissière
Segretario generale dell'Union
Européenne des Fédéralistes
a cura di Francesco Gui,
X/96
Puo' un uomo essere
prima europeo e poi attaccato alla sua terra? E puo' succedere che lasci
la carriera politica nazionale per fare il militante dell'Europa? E vedi
mai che non si tratti magari di un francese... Inaudito, ma la stranezza
sembra proprio percorribile. Bruno Boissière, che 40 anni li ha
appena compiuti e a questo punto riuscira' forse a governare il ciuffo
di agretti neri che gli casca sulla fronte, si strofina un naso dalla rotondita'
invitante. Effettivamente a lui e' andata proprio cosi'. Non per niente,
il giorno che fu eletto deputato europeo dei verdi, giugno '89, non e'
che prese il treno da Lione (dove e' nato in verita' piuttosto di passaggio)
per raggiungere Bruxelles intruppato con i colleghi. Caso mai l'inverso,
essendo comunque buona regola comparire ogni tanto fra gli elettori dell'esagono.
Perché Bruno, sulla Grand-Place, ci si era trasferito gia' da un
pezzo. Esattamente da quando la grandeur patriottica, al laureato in sc.
po. di Grenoble, era venuta a noia. Difatti aveva optato per il collegio
europeo di Bruges, piegando infine sull'ecologismo, via una serie di ricerche
su societa' e agricoltura presso un Centre di studi sindacali, rigorosamente
europeo. Cosi' gli amici l'avevano messo in lista, lui che non ha mai lasciato
la residenza in Belgio, per la sua padronanza delle dodici stelle. Dal
'94, incidenti di percorso, Boissie're non e' piu' europarlamentare in
verde, causa il tracollo elettorale del partito. Ma la delusione maggiore
gliel'ha data la vita pubblica nazionale, fatta di conflitti fratricidi
e di polemiche montate spesso sul niente. Sicché alla politica politicata
ha assestato un taglio netto. Anzi, a quanto dice,"per sempre". Tanto,
la sua patria si chiama Europa, magari un po' volubile, piu' o meno come
ai tempi della storiaccia con Giove passatosi per toro, ma lui la bestia
la tiene stretta per le corna, sempre in groppa dalle parti di Bruxelles.
Oggi, la sua testa ben portata su silhouette tipicamente mediterranea,
Bruno l'ha messa a disposizione dell'Unione europea dei federalisti, l'UEF,
dove lavora da segretario generale - aggiunto, puntualizza - ma di fatto
alla guida dell'apparato, per la verita' un po' esiguo e da rimettere al
piu' presto in moto. All'UEF ha portato in dote anche un forte carica di
idealismo. Perché la sua ferma convinzione, adesso come allora,
e' di aver visto giusto a correre il rischio dell'Europa. D.
Cioe', Bruno, tu dici che per il federalismo torna il ciclo dell'alta
marea? R.
Secondo me si', le condizioni ci sono. Gli europei devono rendersi
conto di essere alla fine di un sistema. Un paio almeno fra le cose maggiori
che hanno inventato, lo stato nazione e la societa' industriale, sono all'impasse.
E un' Europa responsabile deve per forza trovare una soluzione ai due problemi
che ha creato. D.
Nel senso? R.
Che sul primo punto l'unica risposta possibile e' il federalismo, visto
che altre non ne conosco. Per il secondo la via d'uscita si chiama sviluppo
sostenibile. D.
Nell'imbarazzo, cominciamo dal secondo. R.
Bisogna liberarsi dalla religione della crescita consumistica, che
e' sinonimo di esclusione sociale. La priorita' assoluta deve passare all'obiettivo
contrario: difendere gli interessi della maggioranza e delle generazioni
future, due soggetti che questo modello di sviluppo danneggia ogni giorno
che passa. Poco da fare, la societa' industriale e' produttivista e materialista:
da una parte crea sempre piu' drogati ed emarginati, conseguenza diretta
dell'egoismo che ne e' alla base, dall'altra sfrutta senza scrupoli l'ambiente,
a tutto danno di chi verra' dopo di noi. D.
Per cui... R.
Per cui e' inutile tentare di guarire la nostra societa' con i rimedi che
sono causa della malattia. La logica che mette il business al governo del
mondo e' di per s? catastrofica. Serve un progetto globale, sociale, culturale
e ambientale, a partire da quanto e' stato delineato dalla conferenza di
Rio, dal gruppo di Lisbona (Riccardo Petrella) o dalle idee di uno come
Jacques Robin, che collabora con Edgar Morin alla rivista Transversales. D.
D'accordo, ma dov'e' il nesso con la critica dello stato nazione o con
la soluzione federalista? R.
Come la societa' industriale risulta in una continua aggressione alla
qualita' della vita, cosi' lo stato nazione aggredisce sistematicamente
la diversita', le minoranza e, ovviamente, la coesistenza con gli altri
a livello sovranazionale. E dunque va superato lo stato nazionale in tutti
e due i sensi, tanto dal basso, attraverso il federalismo delle regioni,
che dall'alto, con la federazione europea. Il federalismo, in fin dei conti
e' uno solo, quello che vuole la Francia federale, l'Europa federale, la
federazione mondiale. D.
Ecologia e federalismo. Gli assi cartesiani. Ma non dirmi che certe idee
te le hanno insegnate all'universita' di Grenoble. R.
Francia e Inghilterra sono gli stati piu' ostili al federalismo, piu' arroccati
degli altri sulla cultura statalista. E invece io non ho mai sopportato
certa retorica del mio paese. Se penso a quello che mi hanno insegnato
a scuola, o all'oppressione sistematica delle lingue minoritarie, o alla
force de frappe, alla retorica sul ruolo della Francia in Africa o sulla
"necessita'" di vendere armi al Terzo Mondo, capisco perché ho fatto
certe scelte. L'ENA (Ecole Nationale d' Administration) e' il centro di
quella cultura, eredita' congiunta di bonapartismo e gollismo, e l'ultima
cosa che volevo fare era lasciarmi integrare nel meccanismo. Ma, a dir
la verita', a Grenoble non e' che fosse tutto cosi'. In fondo e' li' che
ho scoperto il federalismo europeo. D.
Racconta. R.
A Grenoble imperversava la cultura marxista, a parte alcuni professori
gaullisti, isolati ma piuttosto seri. Pero' l'Istituto di Studi Politici
era un istituzione educativa decentrata, al contrario dell'ENA, una cosa
da valorizzare. In aggiunta, a Grenoble, durante gli studi, sono venuto
a contatto con un pensiero che mi ha cambiato nel profondo, che mi ha convinto
a farne una scelta di vita. Il libro galeotto, opera di Denis de Rougemont,
si chiama L'avenir est notre affaire, uscito nel '76. Il messaggio suonava
chiaro e sintetico: ecologia, regioni, Europa federata. Alla base c'era
una sorta di pessimismo attivo: battersi per evitare la catastrofe. Con
un'idea guida in testa: la decadenza di una societa' comincia quando ci
si domanda "cosa succedera'?" invece di chiedersi "cosa posso fare?". Quel
libro mi ha messo le idee in ordine. A quel punto avevo gli strumenti per
superare certi schemi dell'esagonalismo, rifiutando la cultura delle frontiere
nei rapporti fra gli stati, nei comportamenti individuali, nello schierarsi
a destra o a sinistra, persino tra le confessioni religiose e nelle arti. D.
Pensiero e azione, come Mazzini, come l'ossessione di Spinelli. Ma de Rougemont
e' riuscito a dimostrarti che la cosa era praticabile sul serio, o e' rimasto
un riferimento letterario? R.
Moltissimo devo anche ai professori di Bruges. Mi parevano fantastici,
come Brugmans, con il suo spirito un po' utopistico sull'Europa, o Jean-Marie
Pelt, l'ecologista molto noto. E poi nel collegio c'era quell'aria di intelligenza
collettiva, docenti visitatori da tutta l'Europa, persino americani. Pero'
a de Rougemont e alla sua terna, ecologia, regioni, federalismo, sono rimasto
fedele proprio sul piano delle scelte esistenziali. Perché lui e'
sceso nella vita pubblica per la sua idea. Difatti, non solo ha pubblicato
libri, ma ha accettato la presidenza dell'associazione "Ecoropa", ispirando
i movimenti ecologisti impegnatisi nelle diverse campagne elettorali. D.
A quel punto, anche tu sei entrato in lizza con il ruolo di Monsieur Europe. R.
Beh, prima ho fatto la gavetta come tutti gli altri. Pero', conoscendo
abbastanza bene il quadro comunitario, tenevo i rapporti con gli altri
ecologisti europei. Ci siamo impegnati contro il nucleare civile e militare,
per una politica di forte protezione dell'ambiente, per il regionalismo
e contro la centralizzazione. A forza di battaglie, dopo i due tentativi
falliti del '79 e dell' '84, abbiamo sfondato alle elezioni europee dell'89. D.
E cosi' sei arrivato in parlamento. R.
Ufficialmente sono stato deputato dal dicembre '91, perché avevamo
attuato la rotazione fra i primi della lista alla meta' del mandato. Quindi,
nella prima metà legislatura, collaboravo con una collega, alla
quale sono poi subentrato io. Ma tanto facevamo tutto insieme, dividendo
i soldi (o almeno quelli che non andavano al partito) e prendendo le decisioni
collettivamente. D.
Su cosa ti sei impegnato di piu'? R.
Stando a Bruxelles coordinavo la delegazione francese, poi, da parlamentare
effettivo, ho dato priorità alla commissione istituzionale, collaborando
con Adelaide Aglietta, e alla commissione per la politica regionale. Il
nostro merito maggiore e' stato forse quello di far accettare il federalismo
a tutto il gruppo verde, che era il quarto per consistenza numerica a Strasburgo.
Da vicepresidente anch'io ho fatto la mia parte, curando anche le relazioni
con la federazione europea dei partiti "verdi", i quali non condividevano
la scelta federalista con altrettanto vigore. D.
A dir la verita', non e' che il mondo esterno si accorga molto di quel
che avviene nell'europarlamento. R.
Parecchia colpa ce l'ha la stampa. Il nostro insuccesso del '94 e'
dipeso anche dal fatto che i media non informavano il pubblico, né
sulle cose si facevano la' dentro, né di quanto fosse importante
per i francesi avere dei deputati ecologisti. Pero', certo, il mio giudizio
sul Parlamento non e' favorevole, caso mai il contrario. L'assemblea non
ha la coscienza del suo ruolo, o di quello che potrebbe fare se avesse
una volonta' politica sul serio. Prima fanno la voce grossa, poi si piegano
ai governi. D.
Esempi? R.
Le esperienze piu' scoraggianti sono state il rapporto Herman sulla costituzione
europea, lasciato cadere miseramente, e la retromarcia sull'entrata dei
nuovi paesi (Svezia, Austria e Finlandia) nell'Unione. Il Parlamento aveva
minacciato il veto se prima non ci fosse stato un passo in avanti sulla
democratizzazione e l'efficacia delle istituzioni europee. Non se ne e'
fatto niente. I deputati sono troppo dipendenti dalle famiglie politiche
e dai governi nazionali. Ci vuole qualcosa di nuovo e di piu' deciso. D.
E cosa potranno mai fare i federalisti se neanche gli ecologisti hanno
concluso granché? R.
Gli ecologisti hanno un discorso globale. Ci si deve occupare di cose che
interessano la maggioranza, come il lavoro che manca, i problemi sociali
nel loro complesso, la sicurezza nel mondo. La tradizione dell'UEF, una
volta piu' di adesso in verita', era molto sociale e molto mondialista,
due temi che il federalismo deve assolutamente mettere in connessione.
Andrebbero proposti all'opinione pubblica con molta convinzione, al di
la' della moneta unica o del grande mercato, che mi sembrano la riproduzione
su scala europea di quel che fanno gli stati nazione a casa loro. D.
E sul terreno delle istituzioni? R.
Se il parlamento europeo ottenesse il potere di codecisione legislativa,
e se i deputati fossero piu' coraggiosi, potrebbe aprirsi un grande momento
di partecipazione dell'opinione pubblica, sui temi di interesse generale.
Non e' vero che "uno spazio pubblico europeo" non esiste. Per esempio,
la questione del regionalismo, o del federalismo a tutti i livelli, o del
decentramento delle istituzioni educative, e' di enorme attualita' e ogni
paese ne e' toccato. L'Italia ne sa qualcosa, come la Spagna, il Belgio
o le minoranze dell'Europa D.
Che metodo di azione proponi all'UEF? R.
I federalisti devono occuparsi delle istituzioni, ma anche offrire occasioni
ai mass-media, magari coinvolgendo la gente di spettacolo, come abbiamo
fatto recentemente in Francia e in Belgio. Poi c'e' da riprendere il lavoro
con i sindacati, per non dire dell'azione di collegamento e di impulso
verso i militanti UEF. Nell'immediato mi sembra molto importante il "Forum
della societa' civile", al quale partecipiamo e che sta organizzando una
serie di assemblee europee, da quella di Bruxelles, del '26 novembre, all'incontro
di Roma il 25 marzo, per i quarant'anni dei trattati CEE. Tutto nella prospettiva
del vertice di Amsterdam del giugno prossimo. In quell'occasione potrebbero
trovarsi insieme centinaia di migliaia di persone da tutta Europa. Allora
si vedra' se siamo davvero ancora in tempi di bassa marea. D.
Purché l'UEF faccia la sua parte...
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