VITA RACCONTATA DA CICCIO INGRASSIA

1923

Sono nato il 5 ottobre a Palermo in un quartiere poplare, il rione Capo. Fui registrato all’anagrafe con il nome di Francesco Ingrassia. Le condizioni economiche della famiglia erano disagiate: mio padre Pietro, poi deceduto, era muratore e mia madre, Nunzia Motta, tutt’ora vivente, era casalinga. Sono il quarto di cinque figli (2 femmine e 3 maschi), dei quali e rimasto un fratello più giovane di sei anni.

1928

Sono cresciuto per strada. La mia vita e ricca di aneddoti fin dall’infanzia: gai dall’asilo cercavo di fare il comico rotolandomi per terra, sbucciandomi i ginocchi per fare il buffone e far ridere cosi i miei compagni, al punto di tornare a casa sempre sanguinante. Questo precoce impegno era ripagato con un pezzetto di cioccolata, un mandarino o altro, dispensato dai bambini i cui genitori, pur essendo poveri, potevano permettersela. Mia madre sospettava che io la rubassi non potendo credere che un altro nelle mie stesse condizioni potesse dividere con me quello che aveva, in cambio di qualche innocente "clownerie".

1936

Vicino casa c’era la caserma dei carabinieri "San Vito", tutt’ora esistente, dove noi ragazzini andavamo ad esibirci sotto le finestre in giochi vari (saltarello, corsa del sacco, ecc. ), facendo divertire i militari che ci lanciavano in premio pagnotte dure, gallette o qualche moneta da un soldo provocando una baruffa per accaparrarsela.Mia madre voleva a tutti i costi che io studiassi ma marinavo troppo spesso la scuola ed in più non avevo i mezzi economici per acquistare un grembiule o un libro. Nonostante tutto, riuscii pero a raggiungere l’ambito traguardo della licenza elementare a forza di raccomandazioni e grazie anche ad una insospettata versatilità in economia domestica, che dirotto verso i mercati ortofrutticoli quel suo pur minimo potenziale di applicazione nello studio. Essendo infatti il più "anziano" della classe (dodici anni già suonati) e il più alto dei miei compagni, l’insegnante mi utilizzava a mo’ di attendente, mi mandava durante le ore di lezioni in un mercato nei pressi della scuola a fare la spesa che poi consegnavo a casa, dove la moglie approfittava della mia presenza per affidarmi le pulizie domestiche. Passavo per scuola solo per ritirare la nota degli acquisti: giunsi cosi alla scadenza degli esami di licenza senza sapere nulla del programma dell’anno in corso e di quelli passati, tanto che pensavo di sottrarmi ad un inutile massacro. Ma il mio maestro, che era anche presidente della commissione esaminatrice, fugo le incertezze incoraggiando a presentarmi. Fui l’ultimo della classe ad essere esaminato: prima di me erano stati tutti promossi. Quando mi vide arrivare, si mise a ridere. Prima che lui parlasse lo precedetti dicendo: "Professore, non mi interroghi sul programma scolastico perché sono preparato solo sui prezzi aggiornati di lenticchie, fagioli, pasta e Sidol". Il maestro rise ancora di più e ribattè: "Promosso, Ingrassia, promosso. Bravo. Puoi andare alle scuole superiori". Con il miraggio di indossare per la prima volta in vita mia un vestito tutto per me, mi iscrissi al primo ginnasio dell’istituto "De Cosme", pur sapendo di non poter continuare gli studi. Mi allettava infatti l’idea di ricevere in dono una divisa da marinaretto ed un giaccone blu con i bottoni dorati e gli alamari di corda, che il fascismo elargiva quale incentivo ai ragazzi che proseguivano gli studi. Non mancai ovviamente di svettare dopo solo due mesi per la mia totale misconoscenza di tutte le materie. Gli insegnanti, convocata mia madre, appresero dei mio passato di massaia coatta e fui quindi contento di abbandonare la scuola dopo essermi fregato la divisa. Ricordo che sfilai nelle prime posizioni quando Benito Mussolini venne a Palermo nel 1936 a posare la prima pietra del Palazzo di Giustizia, finito solo in questi ultimi anni.

1939

Dopo la scuola ho fatto tutti i mestieri: barbiere, falegname, calzolaio, salumiere, ma, ossessionato da mio padre che voleva ad ogni costo fare di me un bravo muratore, cambiavo vertiginosamente lavoro. Cercava di convincermi che facendo il muratore non sarei mai morto di fame ma le finanze familiari lo smentivano: cinque figli erano tanti da mantenere, non avevamo neanche le scarpe. Tanto che una volta calzavo due scarpe dello stesso piede, il sinistro, e per di più di due modelli diversi, ma cercavo di camuffare l’evidente emergenza dicendo ai miei compagni che si erano deformate a furia di dare calci al pallone: chissà se se la bevevano. In seguito mi sono affermato come tagliatore-modellista di calzature e qui ebbe inizio un periodo discreto della mia vita: avevo l6 anni e con i primi guadagni acquistai il primo vero abito. Avevo già la stessa statura di oggi e mi sentivo un uomo fatto. Allo scoppio della guerra non partii militare perché ero troppo giovane ma in me, contemporaneamente, scoppio la "febbre del teatro", dalla quale tranne qualche breve periodo di "convalescenza" non sarei più guarito. Assistevo rapito a tutti gli spettacoli teatrali che arrivavano a Palermo accedendo gratis quale "claquer" a sale cinematografiche di terz’ordine, come l’Orfeo, il Maqueda, il Panormus che ospitavano l’avanspettacolo. Locali questi ben diversi dai prestigiosi Nazionale e Politeama, dove recitavano attori affermati come Totò, Macario e il mitico Angelo Musco, che ammirai dal loggione del teatro Biondo. Per me come per molti altri 1’idolo era Totò: lo ricordo nel ’37 nella famosa macchietta "Agata", uno dei pezzi forti dei numeri di varietà nei quali si esibiva, in cui alla buttuta "Agata, guarda, stupisci!", uno spettatore in segno di sfida gli anticipò l’ultima parola e, giocando sul doppio senso, la trasformo incautamente in "stu ’ pisci". E Totò, forgiato dalla dura scuola di pubblici canaglieschi che arrivavano anche a scurrili tenzoni con gli attori, lo rimbecco prontamente dicendo "Tienatillo stritto, stritto" (stringilo bene in mano). Con l’idea fissa di fare del teatro cominciai ad esibirmi in feste, matrimoni e battesimi dove cercavo di riproporre le macchiette già viste: quella di "Agata" era il mio cavallo di battaglia, e per ripetere la stessa battuta che avevo ascoltato ricorrevo alla complicità di un commensale. Un cappelletto stretto ed un pantalone corto in aggiunta al mio fisico allampanato erano sufficienti a provocare risate tra i convitati: mi illudevo di essere bravo. Per la mia affermazione nel mondo dello spettacolo l’altezza e stata determinante come è stata per qualcuno la bassa statura, ad esempio Renato Rascel.

1 944

Durante la guerra peggioro per la mia famiglia, come per tutti, la condizione economica che io cercavo disperatamente di risollevare facendo un po' di contrabbando con altri coetanei girando per la provincia. Mio fratello sotto le armi e mia sorella erano morti. L’occupazione americana rischiaro tempi che erano stati bui.Facevamo un po' gli "sciuscià" della situazione ed io, grazie al mestiere di tagliatore-modellista, riuscivo a rimediare qualche scatoletta in più. La "febbre del teatro" mi attanagliava ed un giorno del ’44 invece di presentarmi al lavoro in bottega, diedi una svolta alla mia vita andando al "Bar degli Artisti", dove oggi c’è l’Arena Trianon. Avevo qualche soldo da parte. Li investii affidando 1’incarico ad un maestro di comporre delle musiche di accompagnamento per dei numeri di varietà che avevo in mente. Fu in questa occasione che conobbi Enzo Andronico, che oggi e uno dei più valenti caratteristi del cinema italiano, e un comico denominato Ciampolo: formammo cosi il trio "Sgambetta" che debuttò in settembre-ottobre a Termini Imerese, in provincia di Palermo. Il capocomico della compagnia pose come condizione del nostro debutto l’uscita in palcoscenico con smoking e calze di seta, a cui però dovevamo provvedere a nostre spese. Lo smoking lo affittai grazie all’aiuto di uno zio che credeva nel mio talento artistico ma non al punto di pagarmi anche le calze. Senza perdermi d’animo rimediai tingendomi con la vernice nera le caviglie che addirittura scintillavano: poco dopo però i piedi cominciarono a bruciare ma 1’emozione dell’esordio era tale che non sentivo niente. Da quel giorno non ho più lasciato il teatro. Abbandonai il mestiere di tagliatore-modellista e mi dedicai al palcoscenico: iniziò cosi anche la fame e una vita da cani, proprio come quella del film.Gli stenti e i sacrifici erano troppi perché la sfiducia più di una volta non prendesse il sopravvento con periodi in cui ero tentato di gettare definitivamente la spugna.

1948

Il 25 aprile 1945 giorno della Liberazione, mi trovavo con questa piccola compagnia di avanspettacolo al teatro Arsenale di Taranto, dove restammo un mese mangiando regolarmente foraggiati dai marinai. Mi trasferii poi a Torino dove cominciai a sperimentare le parodie che risultavano gradite al pubblico. Ebbi un discreto successo e come "spalla" avevo al fianco Gino Bramieri allora esordiente: il suo numero era quello dell’ubriaco. La mia permanenza nel capoluogo piemontese ebbe anche un tocco di "giallo": in seguito ad un furto in una latteria vicino alle abitazioni di noi meridionali, ci fu una retata della polizia in cui incappai anche io sulla base di una testimonianza di qualcuno che aveva sentito l'accento siciliano durante il fatto. Solo dopo tre giorni di accertamenti fui scagionato. La passione per il teatro era tale e tanto forte da farmi tollerare i disagi di una vita al limite dell’abbrutimento: si viaggiava sui respingenti dei treni o a piedi e come unica proprietà avevo un fagotto con un cappello, una cravatta zozza ed un vestito frusto, che adoperavo sia per la scena che per l’uso quotidiano.Una volta che recitavamo ad Atri, vicino Pescara, comincio a nevicare: ero attrezzato per l’evenienza e quel giorno indossate un paio di mutande di lana che avevo acquistato d’occasione in un mercato di Foggia. Avendo le gambe al caldo, dimenticai di mettere i pantaloni e con cappotto e cappello mi diressi in strada ansioso di ascoltare i commenti del pubblico sullo spettacolo della sera precedente. Enzo Andronico, dalla finestra della pensione dove dormivamo nella stessa stanza, mi mostrava i pantaloni, mentre i passanti naturalmente ridevano a crepapelle vedendomi conciato in quel modo, ma io credevo che quella ilarità fosse dovuta allo spettacolo i cui avevano assistito. Poi ci fu lo storico incontro con Franco Franchi che già conoscevo di vista, avendolo notato esibirsi per le strade di Palermo, e conseguentemente la nascita della coppia.

1960

Nel 1950 nacque un altro trio formato da me, Cece Doria (il cui vero nome era Cesare Campi) e un certo Maurel. Giravamo in tournée con una serie di numeri tra cui il pezzo forte dei tre travestiti scritto da Arnaldo Padella, specializzato in testi d’avanspettacolo. Si può immaginare la reazione del pubblico quando entravamo in scena vestiti da donna. A Milano nel 1957, quando io e Franchi facevamo parte della compagnia di Giovanni di Renzo, conobbi quella che poi sarebbe diventata mia moglie: Rosaria Calì. Apparteneva all’orchestra chiamata "complesso Calì", i cui componenti erano suo padre, due fratelli e tre sorelle, artisti siciliani ma conosciuti in campo nazionale, ai quali spettava il privilegio di chiudere le serate in quanto "pezzo forte" dello spettacolo. Cominciai già da allora a litigare con il mio futuro suocero su chi dovesse conquistarsi l’applauso di chiusura: io e Franchi facevamo la parodia della canzone "Core n’grato" mandando il pubblico in delirio. Al debutto chiusero loro ma, da buoni professionisti, intuirono che dopo la nostra esibizione era difficilissimo far superare il divertimento che riuscivamo a suscitare noi. Mio cognato penso allora di risolvere il conflitto facendoci uscire insieme a loro: era l’apoteosi. Rosaria l’ho conosciuta alle prove: certamente non ha avuto per me il classico colpo di fulmine, semmai un colpo di bastone in testa. Ci sono voluti ben tre mesi per convincerla a fidanzarsi; in quel periodo avevo molto bisogno dell'affetto di qualcuno, in famiglia non ne ho avuto e Franchi non era certo il partner ideale: e sempre stato un selvaggio. Avevo già una certa età: 34 anni non erano pochi. Mio suocero, vecchio pianista, sapeva bene che il teatro e l’avanspettacolo non garantivano un avvenire tranquillo ed era perciò contrario a questa unione. Mi difendevo dicendogli che avevo pur sempre un mestiere da parte e che quindi non sarei morto di fame; cosi lo convinsi anche grazie a mia moglie che, con la profetica sicurezza di chi ha respirato la polvere dei palcoscenici fin da bambino, quando vide me e Franchi debuttare disse: "Voi arriverete al successo". Ma questi primi riconoscimenti furono turbati nel 1960 da un gravissimo incidente: il pullman che trasportava la compagnia da Rieti, il teatro "Massimo" di Pescara in una curva de L’Aquila precipitò in un burrone. Il bilancio fu di due morti (una fisarmonicista ed il capocomico (Giovanni di Renzo) e di molti feriti; io uscii miracolosamente illeso. Dopo un paio di giorni la compagnia riprese a lavorare sostituendo gli elementi venuti meno. Il "complesso Calì" allora non era più in compagnia: il capocomico sosteneva che si potevano ingaggiare orchestre a costi più bassi ottenendo lo stesso successo. I Calì furono scritturati nella compagnia di Beniamino Maggio ed Elena Sedlak. Rosaria mi e stata di grande aiuto nella vita. Ci sposammo il 5 settembre 1960 a Genova, al matrimonio parteciparono sedici invitati, tra cui naturalmente anche Franco e sua moglie, e per recarci in chiesa affittammo una Lancia Aprilia. Stavamo a Genova da una settimana con lo spettacolo al teatro "Augustus" e avevo già pronti i documenti necessari senza pero mai stabilire la duta. Decisi quindi improvvisamente di sposarmi il lunedì. Nel pomeriggio stesso partimmo per Rapallo per il "viaggio di nozze" che duro solo un giorno. L’indomani infatti ripartimmo per Roma perché iniziavano le prove di "Rinaldo in campo". L’anno successivo il 18 novembre 1961, nasceva il mio unico figlio Giampiero, attualmente iscritto al primo anno di giurisprudenza. Non pensa di entrare nel mondo dello spettacolo ma possiede comunque dell’umorismo.

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