VITA RACCONTATA DA FRANCO FRANCHI 1928 Sono nato a Palermo il 18 settembre in vicolo delle Api. Sono registrato allanagrafe con il nome di Francesco Benenato. Mio padre era muratore e mia madre lavorava alla Manifattura Tabacchi. La mia era una famiglia ultranumerosa: in tutto tredici figli a cui vanno aggiunti cinque aborti. Contando i miei genitori avremmo toccato quota venti, quasi due squadre di calcio. Sono il quarto, prima di me ci sono tre sorelle: Ina, Margherita e Francesca che è morta. 1936 Da vicolo delle Api ci trasferimmo in via Terre delle Mosche, dove sono cresciuto. Può sembrare una battuta; già su questi progressivi passaggi da una specie di insetti allaltra, che parevano scandire altrettanti fasi della nostra vita, rivelai immediatamente la mia indole ilare. Dicevo infatti a mia madre: "Perché non andiamo ad abitare a piazza Zanzare?". Come si può immaginare le condizioni familiari erano disastrose: il lavoro era saltuario per mio padre che tentò la strada dellemigrazione, ma anche così riusciva a malapena a procurarsi da vivere per sè, rimanendo lontano da casa per lunghi periodi. Né bastavano i sacrifici di mia madre che usciva alle sei del mattino per raggiungere prima con il tram e poi per un bel tratto a piedi 1Acquasanta dove cera la manifattura. Lavorava fino a tardi e quando rientrava la sera, stanca e sfiduciata, doveva preparare da mangiare, per modo di dire, anzi evitava perfino di mettere la pentola sul fuoco per non consumare inutilmente il carbone. Lunico cibo che potevamo permetterci erano delle panelle, delle crocchette di patate chiamate "cazzilli" o le melanzane fritte. Quelle rare volte che si cucinava si preparava la pasta "saliata", cioè bollita e condita solo con il sale senza neanche il cacio: era questo 1unico pasto quotidiano, il resto rimaneva un sogno. Qualche volta allo spaccio della manifattura regalavano a mia madre pacchi di fagioli o di pasta del peso di due o cinque chili. Allora era festa. Per ridurre i costi della cucina, ricorrevamo a forme di collaborazione a carattere tribale. Una volta una nostra parente, che vantava il triste record di avere una famiglia più numerosa della nostra, propose una comunione dei rispettivi beni alimentari: "Voi mettete i fagioli ed io la pasta, facciamo un calderone e aggiungiamo castagne secche", un piatto povero oggi prelibato. Questa solidarietà era però solo apparente, in realtà nascondeva un diabolico espediente per eliminare dal banchetto gli affamati rivali. Mia sorella Ina mi spinse a ricorrere a qualsiasi sistema per non farli mangiare: senza perder tempo mi procurai due chili di sale da mia nonna che lo vendeva allangolo della strada. Lo versai senza nessuna pietà nella pentola, sicuro che gli ospiti si sarebbero ritirati dalla tenzone culinaria. La sorpresa di noi tutti, ad eccezione di mia madre alloscuro del complotto, fu che durante il pasto nessuno protestò perché si ingoiava senza minimamente gustare. Neanche Ina se ne accorse tanto che mi rimprovero aspramente, pensando che io non avessi adempiuto al mio compito. Si andava a letto digiuni e ci si copriva ognuno con la fame dellaltro per non sentire freddo. Ho frequentato la scuola fino alla terza elementare, poi ho capito che dovevo trovare un lavoro che mi desse la possibilità di sopravvivere. 1939 Mi arrangiai quindi facendo il madonnaro: disegnavo con i gessetti icone sacre sui marciapiedi, ma mio padre, non approvando, mi porto a bottega da un pasticciere sostenendo che quello sarebbe stato il mio mestiere. Non mi allettava lidea di fare il garzone ma accettai eccitato al pensiero di recuperarne la dimensione artistico-spettacolare: mi piaceva plasmare la pasta reale e far divertire gli altri ritmando sui vassoi e tegami, imitando personaggi e raccontando barzellette. Come si può immaginare non durai a lungo e fui licenziato. Tentai di aiutare a portare qualche valigia ai viaggiatori che arrivavano alla stazione di Palermo; ma andò male perché di solito non si ricorreva ai facchini e in più cera il timore che le volessi rubare. Per integrare le magre entrate non restava che fare qualche sortita alla Vucciria, il mercato della città, dove riuscivo ad alleggerire i commercianti di qualche mela, arancia o scatoletta. Per me era sufficiente ma la preoccupazione maggiore erano le mie sorelle più grandi, quasi in età da marito. Ero attento ad ogni occasione che mi si presentava ed una volta sono tornato a casa con un carretto di fichi dIndia su cui ci lanciammo tutti avidamente, senza pensare alle conseguenti complicazioni intestinali. Fin da bambino risultavo spiritoso e brillante con i coetanei ed ero particolarmente attratto dalle bande musicali che intervenivano a feste, processioni e fiere. La musica mi affascinava e cercavo sempre di sistemarmi vicino al suonatore di trombone perché mi divertiva il gonfiarsi delle sue guance al ritmo del suono. Ero praticamente andato via da casa e feci perdere per anni le mie tracce. Spinto dal bisogno e dalla voglia di esibirmi entrai a far parte di un gruppo di "striscianti". Erano suonatori girovaghi considerati da tutti come una sorta di accattoni, di questuanti, di reietti della società, il cui repertorio era costituito soprattutto da nenie. Con una specie di chitarra, la cui cassa armonica era di latta e le corde di crine di cavallo, giravano per le case per eseguire cantilene. Ne composi una anchio ma con un tocco dissacratorio "San Giuseppe ce lo disse/alla Vergine sacrata/non toccare la pasta mia/se no ti scasso la pignata". Fu questo il primo passo verso quello che sarebbe divenuto il mio cavallo di battaglia: le parodie, che presentavo dopo i numeri degli "striscianti"; inoltre facevo capriole, mi mettevo a testa in giù e piedi in aria, suscitando la simpatia della gente che esclamava "Quanto e carino stu picciotteddu". In cambio avevamo più che i soldi i resti dei loro pasti. Battevo con queste "clownerie" la città rione per rione, vicolo per vicolo. Un giorno venne a cantare a Palermo un gruppo di suonatori ambulanti napoletani, due di essi vivono ancora e continuano a lavorare in processioni, feste e matrimoni. Uno e chiamato "a schiavuttella" e 1altro "Maria la napoletana" che in realtà e di Torre Annunziata; insieme a Ciro Capuozzo, Aldo Fiorelli e Salvatore Polara costituivano il complesso. Erano "posteggiatori" che mantenevano viva la tradizione dellantica "posteggia" napoletana, show-men disgregati, operanti ai margini dell'ufficialità, considerati quasi artisti dal pubblico ma snobbati e bistrattati dagli attori di palcoscenico. "A schiavuttella" e "Maria la napoletana" venivano scherniti per la loro ambiguità, anche perché interpretavano i personaggi femminili, essendo allora impensabile far recitare una donna per strada. Lassenza di mio padre fu in parte colmata da Salvatore Polara che, pur essendo un figlio di buona donna, mi accordo la sua protezione garantendomi il necessario per sopravvivere. Mi investi del compito di girare con la grancassa per richiamare lattenzione e di raccogliere i soldi con un berretto pronunciando queste semplici parole: "Signori, il teatro ci ha chiuso le porte. Noi facciamo spettacolo in piazza. Non è obbligatorio regalare ma se lo fate e un piacere. Se non date niente vi preghiamo di allontanarvi in modo da far posto a chi è ben intenzionato". Chi raccoglieva gli oboli non godeva della completa fiducia degli altri per cui era sottoposto ad un costante controllo. Questi artisti comunicavano tra loro con un linguaggio in codice incomprensibile per gli altri: una specie di "parlesia", quel particolare vocabolario usato ancora oggi dagli artisti napoletani. Quando si finiva di lavorare andavamo a mangiare nelle bettole e Polara razionava le porzioni proporzionalmente alle rispettive dimensioni fisiche, giustificando ciò con il timore che mi appesantissi senza essere più in grado di lavorare. Quando chiedevo un pagamento in denaro mi rispondeva che pensava lui a conservarli per me: era ovviamente una menzogna. Allarmato dalle minacce di andarmene, si decise a corrispondermi sei lire alla settimana. I 945 Stava per finire la guerra e ormai anchio ero un artista-girovago. Ci esibivamo anche nei paesi della provincia. Fu allora che mi si presento loccasione di creare nuove macchiette: Ciccio Ferrau ovvero la parodia del gigante buono dei paladini di Francia e Michele Coniglio, il cui leit-motiv suonava cosi : "Ti conobbi nelle acque di Coroglio/tra un mollusco e una conchiglia/Ti donai un cuor damore e un portafoglio/le tre cose le accettasti tutte tre. /Ma un bel giorno scartasti Coroglio/scartasti lo scoglio/e ti tenesti il portafoglio. /lo ti potrei uccidere, si/perché mo tengo la pistola carica/e posso sparare mo mo. /Ma poi penso che tengo famiglia,/che mi chiamo Michele Coniglio/ed essendo coniglio mi conservo la pistola e mi metto a cantare". Ma per questo non volevo rinunciare a suonare la grancassa. Polara, a cui nonostante tutto sono debitore di molte cose compreso il mio matrimonio, acconsentì. Le mie macchiette assumevano contorni più precisi grazie allapplicazione diretta sui testi musicali, (ovvero le "copielle" i fogli cioè su cui erano stampate le parole e le musiche), ed una attenta osservazione dei film di Totò. Cercavo di riprodurre fedelmente la maschera del Principe: con un vestito, una bombetta e un farfallino, del tutto simili a quelli del grande comico, mi snodavo come lui in sincronia con il rullare della grancassa. Ero capace perfino di far toccare il mento e il naso, cosa di cui mi spaventavo io stesso. La gente impazziva alle mie piroette: era lapoteosi. Anche se si stava fermi, a differenza degli "striscianti", gli spettacoli dei posteggiatori nelle piazze erano massacranti, duravano anche cinque o sei ore. Tra il pubblico numeroso, fatto soprattutto di pescivendoli o verdumai, si intravedeva anche qualche donna e qualche signore o impiegato di passaggio che era tanto preso dal divertimento da perdere il tram. Cominciò a diffondersi a macchia dolio la voce di un guitto che strabuzzava gli occhi e si contorceva tutto; ciò mi inorgogliva perché stava nascendo il personaggio. Gli occasionali spettatori mi chiedevano di fare le macchiette, per quella di Ciccio Ferrau erano disposti a pagare di più, proventi che rimanevano tutti in tasca di Polara. I nostri rapporti divennero tesi e quando minacciavo di abbandonarlo mi rabboniva concedendomi qualche fetta di carne e qualche soldo in più. Ne approfittai e divenni più esigente avanzando ogni giorno nuove richieste, sicuro di essere accontentato; un paio di scarpe nuove ed una giacca a quadri come indispensabili strumenti di lavoro. Cominciai ad applicare la comicità in chiave dissacrante anche alla sceneggiata; era il periodo in cui andavano per la maggiore quella di Oscar di Maio e Cafiero e Fumo e canzoni del tipo "Mamma perdonami", "I figli", "Guappo songio", tra i cui interpreti uno dei migliori era Mario Abate, allora giovanissimo. Capii che non potevano fare a meno di me ed esigetti la "sala", come si dice in gergo, ovvero una parte fissa nello spettacolo. Fui accontentato e diventai ben presto il beniamino, inventando "gags" che risultavano gradite. Anche la "vile richiesta" di danaro al pubblico in cambio delle macchiette, la impreziosivo con garbate prese in giro, riuscendo a spillare oltre che somme consistenti anche sigarette per tutti. Finita la guerra, nel mio repertorio furono privilegiate le imitazioni di Hitler e Mussolini. Entravo in piazza sorretto dai colleghi per dare limmagine della rigidità del Führer facendo discorsi in pseudo tedesco, ad esempio "cappotto" diventava "kappotten". Venivano a "spiarmi" molti artisti di palcoscenico, compreso Ciccio che conoscevo di vista, che la sera poi riproponevano i miei sketches negli spettacoli di varietà e avanspettacolo, a cui spesso assistevo. Mi sembrava, il loro, un mondo irraggiungibile, anche perché molti di essi cercavano di convincermi che il mio pessimo italiano era un insormontabile handicap per laccesso al teatro. Ma questa protervia non era sufficiente a distorgliermi dal fermo proposito di calcare al più presto finalmente le scene, armato anche di una tenace volontà di imparare, sapere e capire. Ricordo che un signore mi regalò un dizionario che consultavo voracemente ogni volta che sentivo una parola sconosciuta. Mi chiedevo perché non potessi fare strada con tanti attori sulla piazza che trovavo mediocri e che con gli anni ho poi scoperto non essere pedissequi seguaci di Dante. 1950 Finii anche in un piccolo circo, il circo Curatola, dove facevo di tutto: dal clown allinserviente, dallacrobata allattore, ma senza usare gli artifici scenici classici. Ricordo che interpretai storie del tipo "Santa Genoveffa", "La bella addormentata nel bosco". "La jena del cimitero". Ero ormai un giovanotto, cominciavo a conoscere le ragazze e non sopportavo lidea di dover chiedere soldi per strada. Prendevo parte come animatore a matrimoni e battesimi guadagnando parecchio. Rinnovai così il guardaroba fino allora assai poco provvisto. L'attività di posteggiatore era diventata per me un marchio indelebile, sufficiente a mettere in guardia i genitori di qualsiasi ragazza. Mio padre stesso, tornato dallemigrazione, si vergognava perché mi considerava irrimediabilmente perduto. Convogliavo in un impegno frenetico tutte le energie di cui disponevo: in una sola serata riuscivo a fare tre, quattro spettacoli oltre il lavoro mattutino per le strade. Suonavo la batteria e la fisarmonica che pareva elettrificata grazie ad un particolare gioco di gambe. Intanto la figura del "posteggiatore" era sulla via del tramonto e convinsi Polara che bisognava conquistare nuove piazze: Bagheria, Termoli, Messina. E cosi fu. La stanchezza pero ebbe il sopravvento; nonostante i sacrifici le prospettive non erano incoraggianti, inoltre il numero dei componenti del complesso aumento a dismisura per cui si faticava di più. Piantai tutto e tornai a casa arrangiandomi a rubare agli americani qualche copertone, bottiglie, eccetera. In questa fase la mia parabola artistica segna una deviazione delinquenziale; fui anche ospite delle patrie galere. La prima volta me la cavai con la condizionale per un furtarello di biancheria, ma in altre due occasioni, trattandosi di borseggio, dovetti regolare i conti con la giustizia. Mi dedicai al furto con impegno, la mano diventava sempre più lesta: volevo primeggiare anche in questo campo. Ero specializzato nel classico borseggio da tram; individuata la vittima simulavo un malore costringendola a soccorrermi e in quel momento lo alleggerivo abilmente del portafoglio, scendendo poi di corsa. Davo anche consigli ad aspiranti borsaioli. I "posteggiatori" tornarono alla carica decisi a conquistare le strade del nord. Recitammo a Bologna in piazza XXVIII Agosto e sulle Riviere. Riuscivamo a monopolizzare lattenzione e perciò a guadagnare quanto serviva a vivere da gran signori. Avevo intanto conosciuto Irene Gallina, mia futura moglie, attraverso Salvatore Polara, che abitava di fronte a lei e faceva da "messaggero damore", era una ragazza semplice a cui tenevo molto; suo padre che conosceva i miei trascorsi mi temeva e, pur essendo contrario, era costretto a tollerare tutto. Deciso ad abbandonare definitivamente il lavoro di strada, promisi di sposarla dopo aver fatto fronte agli obblighi di leva. Intanto cominciai a frequentare altri ambienti dove ero stimato; riuscendo a dar da vivere anche ai miei fratelli. Il "nuovo corso" non fu interrotto dal servizio militare a Bologna dove anzi ebbi la fortuna di incontrare il maggiore Enna di Catania, che, rilevata la mia buona indole, mi accetto in famiglia raffinando i miei costumi. Scaduta la ferma ripresi sporadicamente a fare spettacoli in piccoli centri della provincia dove lavorava anche Ciccio, ma sempre sognando il teatro che arrivò nel 1950 quando debuttai a Palermo al "Golden": avevo 22 anni. 1957 Dopo tre anni di teatro il 17 settembre del 1953 mi sono sposato. Ci fu poi 1incontro con Ciccio e il debutto in coppia a Castelvetrano lanno dopo. Mio padre morì nellottobre del 1957 il giorno dellesordio con lavanspettacolo a Como dove riscuotemmo un grande successo. Ricordo che dovetti spedire lintera paga della serata per sostenere le spese del funerale che altrimenti non si sarebbe potuto celebrare. Subentrai formalmente a mio padre, che già da anni sostituivo di fatto, accollandomi tutti gli oneri. Alla famiglia ho dato tanto: i miei fratelli ancora oggi mi adorano, ho sempre anteposto loro ad ogni altra cosa, soprattutto quando non conoscevano nemmeno la carne. Attualmente alcuni vivono a Palermo, altri a Torino, chi impiegato alla FIAT, chi allENEL, chi gestendo un garage, chi un ristorante o un bar. Limportante e che lavorino tutti. 1965 Posso affermare con orgoglio che mi sono fatto da me, grazie ad una straordinaria volontà e tenacia. Sono capace infatti di tapparmi in casa per otto, nove ore fino a quando non partorisco uno sketch o una canzone, è 1unico modo per continuare a fare questo mestiere. Il giorno che non mi riuscisse più dovrei arrendermi. Ciò che mi dà la spinta ad andare avanti è la passione; dopo venticinque anni di carriera professionale potrei anche adagiarmi, invece faccio le cose con lentusiasmo dei neofiti. Sostenuto da una grande vitalità mi metto continuamente alla prova sperimentando le mie antiche capacità di catalizzare 1attenzione del pubblico o di conquistare una donna. Sono uno spirito inguaribilmente eclettico: pur non avendo studiato musica sono in grado di trovare ad orecchio gli accordi al piano e comporre una canzone, dipingo anche e leggo di tutto. Attualmente mi interesso di astronomia. Non ho complessi verso il sapere e ai due miei figli, Maria Letizia nata il 3l luglio 1961 e Massimo nato il 10 maggio 65, cerco di trasmettere linteresse per lo studio. Il più giovane studia ragioneria e chitarra, spero che anche lui abbia del talento come me che, a digiuno di ogni conoscenza, composi una canzone in tre mesi. |