LA REPUBBLICA 26 luglio 2001

Genova, un poliziotto racconta cosa è successo nella caserma
del Gruppo operativo mobile di polizia penitenziaria

La notte dei pestaggi
a Bolzaneto il lager dei Gom

"Calci, pugni, insulti: i diritti costituzionali
erano sospesi. E dicevano: tranquilli, siamo coperti"


di MARCO PREVE

 

GENOVA - Un poliziotto che presta servizio al Reparto Mobile di Bolzaneto, e di cui Repubblica conosce il nome e il grado ma che non rivela per ragioni di riservatezza, racconta la "notte cilena" del G8. "Purtroppo è tutto vero. Anche di più. Ho ancora nel naso l'odore di quelle ore, quello delle feci degli arrestati ai quali non veniva permesso di andare in bagno. Ma quella notte è cominciata una settimana prima. Quando qui da noi a Bolzaneto sono arrivati un centinaio di agenti del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria".


E' il primo di uno dei molti retroscena sconosciuti del drammatico sabato del G8. Il nostro interlocutore ammette che "nella polizia c'è ancora tanto fascismo, c'è la sottocultura di tanti giovani facilmente influenzabili, e di quelli di noi che quella sera hanno applaudito. Ma il macello lo hanno fatto gli altri, quelli del Gom della penitenziaria".


E il pestaggio sistematico nella scuola? "Quello è roba nostra. C'è chi dice sia stata una rappresaglia, chi invece che da Roma fosse arrivato un ordine preciso: fare degli arresti a qualunque costo. L'intervento lo hanno fatto i colleghi del Reparto Mobile di Roma, i celerini della capitale. E a dirigerlo c'erano i vertici dello Sco e dirigenti dei Nocs, altro che la questura di Genova che è stata esautorata. E' stata una follia. Sia per le vittime, che per la nostra immagine, che per i rischi di una sommossa popolare. Quella notte in questura c'era chi bestemmiava perché se la notizia fosse arrivata alle orecchie dei ventimila in partenza alla stazione di Brignole, si rischiava un'insurrezione".
La trasformazione della caserma di Bolzaneto in un "lager" comincia lunedì con l'arrivo dei Gom, reparto speciale istituito nel 1997 con a capo un ex generale del Sisde, e già protagonista di un durissimo intervento di repressione nel carcere di Opera. Appena arrivati - vestiti con le mimetiche grigio verde, il giubbotto senza maniche nero multitasche, il cinturone nero cui è agganciata la fondina con la pistola, alla cintola le manette e il manganello, e la radiotrasmittente fissata allo spallaccio - prendono possesso della parte di caserma che già alcune settimane prima del vertice era stata adattata a carcere, con annessa infermeria, per gli arrestati del G8.


La palestra è stata trasformata nel centro di primo arrivo e di identificazione. Tutti i manifestanti fermati vengono portati qui, chi ha i documenti li mostra, a tutti vengono prese le impronte. A fianco alla palestra, sulla sinistra, accanto al campo da tennis, c'è una palazzina che è stata appositamente ristrutturata per il vertice ed è stata trasformata nel carcere vero e proprio. All'ingresso ci sono due stanzoni aperti che fungono da anticamera. Qui, la notte di sabato, fino a mattina inoltrata di domenica, staziona il vicecapo della Digos genovese con alcuni poliziotti dell'ufficio e qualche carabiniere.

 

"Quello accaduto alla scuola e poi continuato qui a Bolzaneto è stata una sospensione dei diritti, un vuoto della Costituzione. Ho provato a parlarne con dei colleghi e loro sai che rispondono: che tanto non dobbiamo avere paura, perché siamo coperti".


Quella notte. "Il cancello si apriva in continuazione - racconta il poliziotto - dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all'interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano faccetta nera. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei Gom la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli... insomma è inutile che ti racconto quello che ho già letto".


E voi, gli altri? "Di noi non c'era tanta gente. Il grosso era ancora a Genova a presidiare la zona rossa. Comunque c'è stato chi ha approvato, chi invece è intervenuto, come un ispettore che ha interrotto un pestaggio dicendo "questa non è casa vostra". E c'è stato chi come me ha fatto forse poco, e adesso ha vergogna". E se non ci fossero stati i Gom? "Non credo sarebbe accaduto quel macello. Il nostro comandante è un duro ma uno di quelli all'antica, che hanno il culto dell'onore e sanno educare gli uomini, noi lo chiamiamo Rommel".


Che fine hanno fatto i poliziotti democratici? "Siamo ancora molti - risponde il poliziotto - ma oggi abbiamo paura e vergogna".

(26 luglio 2001)

 

 

da "il manifesto" del 01 Agosto 2001


Noi per Genova. Parla un celerino

"Le violenze alla Bolzaneto sono cominciate venerdì, con i Gom. "Faccetta nera"? L'ho sentita"
FRANCESCO PATERNO'

Celerino, in forza a uno dei reparti impiegati a Genova nei giorni del G8, ha prestato servizio anche alla caserma Bolzaneto. Una storia e una cultura molto di sinistra ("no, non mi sento in contraddizione, come poliziotto penso di dover difendere le istituzioni democratiche"), un passato di tifoso ultrà di una squadra di calcio di serie A. Ha accettato di parlare con il manifesto di quei tragici giorni. Ne conosciamo ovviamente nome e grado.
"Le violenze contro i manifestanti portati alla Bolzaneto - inizia il racconto - sono cominciate già il venerdì sera. A compierle, sono stati quelli della penitenziaria, i signori del Gom. Gente presa a calci con estrema violenza e in modo sempre più scientifico, fino al trasferimento all'interno dove nessuno di noi dei reparti mobili ha potuto vedere quel che succedeva. Anche se mi risulta che alcuni colleghi, finito il servizio, si siano uniti a loro nel picchiare. Per picchiare non intendo uno scappellotto, uno spintone, quello ci può stare. Poi c'è stato il pestaggio della domenica, frutto di un'operazione collettiva e fatto da personaggi esterni alla truppa dei reparti mobili. Chi canticchiava ai fermati Pinochet e cose razziste? Sicuramente personaggi esterni alla caserma, gente che conosce bene quel retroterra di destra estrema. Anche se 'Faccetta nera' nella suoneria di un telefonino l'avevo già sentita prima".
Sotto accusa, dunque, torna a essere la figura del "personaggio esterno", riconducibile agli uomini della penitenziaria. Presenti a Genova in una settantina, provenienti da Roma. Perché loro? "Vengono utilizzati - risponde il nostro interlocutore - per operazioni delicate. I Gom sono addestrati all'applicazione di tutte quelle che sono le garanzie di sicurezza legate al trattamento di personaggi sottoposti a regime di carcere duro. Qui, credo, ci sia stato l'errore: è gente abituata a trattare mafiosi, e un mafioso picchiato non parla, a differenza di un manifestante politicizzato che sa di poter contare su referenti politici esterni. I Gom debbono gestire trattamenti di sicurezza particolari, badando anche a salvaguardare loro stessi. E possono passare da trattamenti duri ad altro, qualcuno può eccedere di questo regime anche se io ritengo si tratti esclusivamente di colpe personali. Non ci sono ordini scritti ed è impossibile rintracciare le responsabilità. Ma a questo punto è tutto un gioco di scaricabarile. A cominciare dal capo della polizia che è stato messo alle corde". Alla Bolzaneto sono dunque stati usati i Gom perché davano maggiori "garanzie", se così si può dire? "Lasciare dei fermati alla furia cieca di quattrocento persone di un reparto mobile impegnato in piazza ai limiti di una guerra civile è una responsabilità talmente grande, che avrebbe potuto portare anche a morti in caserma. Così i vertici devono aver pensato di affidare la gestione di questa cosa a chi ha le competenze. Per identificare, fermare, picchiare".
Sabato notte, l'incursione dentro le scuole Diaz e Pertini. Perché? "Non so da chi è partito l'ordine. Di sicuro, lì non c'erano i reparti mobili, ma una settantina di agenti del 7 raggruppamento di Roma, l'élite, quelli del nucleo antisommossa. Io ho una personalissima opinione: questa operazione non sarebbe avvenuta con un governo di centrosinistra, perché non avrebbe mai promosso un'azione che poteva anche essere giusta ma con significati politici di una rappresaglia. In un'informativa ricevuta dai servizi segreti, c'era l'annotazione che dentro la Diaz erano nascosti 15 terroristi di livello internazionale. E invece è stata portata via dentro i sacchi a pelo gente sanguinante". E' stata rappresaglia anche domenica dentro la Bolzaneto, con i fermati picchiati e maltrattati per ore? "Chiamiamola così - continua il nostro interlocutore -certo c'è stata un'esacerbazione degli animi portata avanti due giorni, la violenza era nell'aria anche se il vertice era finito, c'erano ancora voci che si rincorrevano da una parta all'altra della città che trasformavano per esempio un carabiniere ferito a un occhio in un carabiniere morto".
Che tipo di cultura c'è dentro i vostri reparti? "La base ha una cultura di destra, una cultura militare. Alla Bolzaneto ci sono simpatizzanti di Forza Nuova, si vede in giro qualche svastica. Ma nella celere non si va per vocazione, è il settore operaio della polizia di stato. E' una scelta di prima destinazione, per chi esce dalle scuole e non ha calci per finire da qualche altra parte. Magari qualcuno chiede di andare in sedi particolari, lì c'è un reparto mobile e così ti ritrovi nella celere e sei stato pure accontentato. C'è cultura della violenza, a molti piace l'idea di picchiare. Il livello di cultura è medio basso anche tra gli ufficiali, tutti di destra. E si sentono discorsi che rasentano il limite dell'incostituzionalità, di sfiducia estrema nelle istituzioni democratiche. La violenza nasce da questo retroterra".


TESTIMONIANZA IL MANIFESTO 
La festa della caserma

Pubblichiamo la testimonianza di un nostro lettore. Gli eventi a cui si riferisce sono avvenuti in una caserma del Veneto.
Sono un ragazzo di 28 anni e da 8 faccio parte delle Forze dell'ordine (almeno così le chiamano), in questi anni di servizio ne ho viste tante, ma quello che ho visto a Genova mi ha indignato! Non ero lì perché non ci stavo a difendere gli 8 distruttori del mondo, e in particolare l'uomo che porterà allo sfacelo l'Italia. Inutile raccontarvi quello che è successo a Genova, ormai ne siamo tutti a conoscenza, ma voglio solo dirvi i commenti dei miei colleghi al loro ritorno in caserma. Questa mattina ho visto nei loro occhi la soddisfazione di aver massacrato centinaia di giovani manifestanti, nelle loro parole frasi del tipo "è stato bellissimo spaccare le teste senza che loro reagissero" oppure: "Finalmente abbiamo potuto fare quello che abbiamo voluto" e ancora "Finalmente un governo che ci dà libertà di agire". Ho visto militari che si abbracciavano come se avessero vinto una battaglia. Ma quello che ancora di più mi ha indignato, sono state le crude parole dette durante le immagini dei funerali di Carlo, che per rispetto suo non vorrei ripetere. "Un morto è poco ce ne dovevano essere altri" dicevano. E poi anche "Un colpo è poco lo dovevano ridurre come un colapasta". Ridevano e si abbracciavano.
Presto lascerò il mio lavoro perché ho ribrezzo di indossare una divisa, mi sento un nemico del popolo. Un saluto a tutti i compagni e in particolare a Carlo, il tuo sacrificio servirà al mondo intero.


Pallottole di stato

Genova 1960, Genova 2001. La lunga scia di sangue lasciata nelle piazze dalla polizia
MARCO D'ERAMO

Vincenzo Napoli aveva 25 anni ed era un piccolo esercente di Licata in Sicilia; Afro Tondelli era fuochista a Reggio Emilia dove vivevano anche gli operai Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Lauro Ferioli e Marino Serri. Invece il mastromuratore Andrea Vella e il giovane manovale disoccupato Andrea Gangitano erano di Palermo, mentre il ventiduenne Salvatore Novembre era un disoccupato di Catania. Nomi sepolti dall'oblio, ma quarant'anni fa destarono una commozione simile e diversa da quella che oggi suscita Carlo Giuliani. Nomi, come il suo, di manifestanti uccisi dalla polizia, dopo gli scontri di Genova (allora come oggi), 41 anni fa, nel luglio (allora come oggi) del 1960.
Era il 30 giugno 1960 quando a Genova si aprì il congresso del Movimento sociale italiano (Msi) di Giorgio Almirante, partito dalla cui costola è nata l'attuale Alleanza nazionale di Gianfranco Fini. Dal 29 aprile di quell'anno sedeva a Palazzo Chigi Ferdinando Tambroni, ex-ministro degli interni, il cui governo aveva ricevuto la fiducia grazie all'appoggio esterno dei fascisti. Era la prima volta dalla fine della repubblica di Salò che il Msi teneva un congresso da partito di governo, un preludio - anche quello - alla situazione attuale in cui An detiene la vicepresidenza del consiglio.
Ma nel 1960 il governo Tambroni è un tentativo ben più audace: quello di disdire il patto costituzionale, fondato sulla Resistenza, di un'Italia antifascista. E tenere a Genova il congresso è una provocazione calcolata da parte del Msi di Almirante, di Caradonna, di Michelini: Genova è un città profondamente partigiana, con una presenza comunista massiccia, un fronte del porto combattivo (i camalli), un sindacato pronto a mobilitarsi. Così il 30 gennaio la Camera del lavoro di Genova proclama uno sciopero generale dalle 14 alle 20. Alle 15 e 30 partì il corteo, centomila persone, guidato dai dirigenti della Resistenza. Genova - scrisse Giorgio Bocca - "sembra in stato d'assedio; non menno di 10.000 poliziotti e carabinieri in armi circondano la città. Gli scontri scoppiano improvvisi alle 17 e 30 dopo i discorsi ufficiali. Presto si è alla guerriglia urbana, le camionette della polizia vengono date alle fiamme; i mitra strappati ai poliziotti e gettati su un grande rogo in Piazza De Ferrari. Alle 19.30, mentre la rivolta si estende, la Camera del lavoro proclama uno sciopero generale di 24 ore nella provincia; solo a tarda sera le autorità acconsentono a ritirare dalla città i reparti di polizia: 80 agenti sono contusi, 36 feriti, i fermati una sessantina, i feriti civili in numero imprecisato".
Scioperano anche Milano, Livorno, Ferrara. Il prefetto Pianese fa affluire a Genova altri 15.000 uomini. Dopo vari tira e molla, i missini accettano di spostare il congresso da Genova. L'indomani Genova celebra la vittoria antifascista con una manifestazione cui partecipano in prima fila i dirigenti comunisti Pietro Longo, Pietro Secchia, Umberto Terracini, Ferruccio Parri. Il governo Tambroni cerca la rivincita.
Martedì 5 luglio a Licata il sindacato proclama lo sciopero generale contro la disoccupazione, la miseria e contro... lo spostamento di una centrale termoelettrica a Porto Empedocle. Gli scioperanti occupano la stazione ferroviaria, bloccano i treni, sbarrano il traffico sulle strade 115 e 123. Verso sera la polizia apre il fuoco, uccide il 25-enne Vincenzo Napoli. Altri 24 scioperanti rimangono feriti.
Il giorno dopo l'esibizione delle forze di polizia si trasferisce a Roma. Nonostante il divieto del prefetto, un gruppo di deputati del Pci e del Psi si reca a Porta san Paolo a deporre due corone ai piedi della lapide che ricorda i combattimenti del settembre 1943. Gli squadroni a cavallo caricano i deputati, ne trascinano alcuni per terra, ne feriscono altri, altri ancora sono manganellati. Le case del Testaccio vengono rastrellate a una a una. La cronaca dell'Espresso (17/7/1960) riferisce: "Per molte ore, in quelle zone, chiunque non aveva la cravatta veniva fermato, interrogato, spesso bastonato".
Ma il peggio doveva ancora succedere. L'indomani, 7 luglio, la scena si sposta a Reggio Emilia nel cuore rosso dell'Italia. Gli operai delle "Officine reggiane" non entrano in fabbrica per protestare contro il pestaggio a sangue di un ragazzo da parte dei reparti Celere. La Celere era la formazione adibita alla repressione antisommossa, e perciò tristemente famosa in tutta la sinistra italiana. Il 7 pomeriggio 350 "celerini" armati di mitra e pistola affrontano così 300 operai in camicia. La prima jeep si avventa sui dimostranti e schiaccia Afro Tondelli, l'unico a non essere ucciso da colpi di arma da fuoco. Subito dopo comincia la sparatoria e rimangono a terra altri quattro dimostranti: Ovidio Franchi ed Emilio Reverberi, Lauro Ferioli e Marino Serri. E' di loro che parla una delle più belle e più tristi canzoni del movimento operaio italiano, "Morti di Reggio Emilia".
L'indomani la scena si risposta in Sicilia. L'8 luglio, alle due del pomeriggio, poche centinaia di persone si riuniscono per manifestare davanti al Politeama di Palermo. La polizia comincia a caricare selvaggiamente, i dimostranti rispondono a sassate, finché in via Roma gli agenti estraggono i mitra e le pistole e uccidono Andrea Vella e Andrea Giangitano. Nello stesso giorno a Catania la polizia spara un altro manifestante, il 22-enne disoccupato Salvatore Novembre. L'unica consolazione, se tale può dirsi, è che il 19 luglio cade il governo Tambroni.
Non sarà l'ultima volta che la polizia ucciderà un dimostrante (vedi la cronologia qui accanto): appena due anni dopo toccherà Giovanni Ardizzone schiacciato da un'altra camionetta della Celere. E poi Avola, Battipaglia, Serantini, e così via per altri sedici assassinati, fino a Giorgiana Masi (1977). Da allora, dal 1977 - per quanto ci si possa fidare della memoria propria e dei propri coetanei - la polizia italiana (intesa in senso lato, compresi i carabinieri cioè) non ha più ucciso nessun manifestante.
Per il suo mega articolo sui fatti del luglio 1960, l'Espresso più su citato aveva come occhiellone "La violenza di stato". Ecco, dopo 24 anni ci eravamo dimenticati della violenza di stato e delle brutalità poliziesche. Quasi quasi, prima di vederli in tenuta antisommossa, li avevamo perfino presi per una specie di servizio sociale. Ci era come sfuggito che la definizione funzionale delle forze di polizia di uno stato è quella di "apparato repressivo" e che - in accordo con Max Weber - ciò che fa dello stato uno stato è il "detenere il monopolio della violenza" (legittima secondo Weber, ma anche illegittima quando è il caso).
Oggi, dopo il blitz notturno di Genova e l'esecuzione a bruciapelo di Carlo Giuliani, ci colpisce quanto tutto si somigli e quanto tutto sia diverso. Simili i governi di centro-destra. Simile la città (Genova) in stato d'assedio; simile la retorica sul terrorismo rosso, sui vandalismi e le devastazioni; sui benpensanti disturbati nello shopping; simili le lacrime di coccodrillo degli Emilio Fede di turno.
Ma allora si moriva per una centrale termoelettrica a Porto Empedocle o per il congresso di un partitino fascista; oggi contro il governo del mondo. Allora erano braccianti, manovali, disoccupati, fuochisti indigeni e autoctoni di Reggio e di Licata; oggi giungono a manifestare da Brema, Ostenda, Barcellona, Edimburgo, Los Angeles. Allora, contro una violenza poliziesca come questa, i deputati della sinistra erano pronti a sfidare le cariche degli squadroni a cavallo e i sindacati proclamavano lo sciopero generale. Oggi il Fassino di turno o il Bertinotti telegenico cadono dalle nuvole davanti alla violenza nella storia: all'improvviso ognuno si scopre dentro di sé un gandhismo per lo meno sospetto.
In un certo senso, il comportamento del ministro Scajola e dei suoi prefetti rimette le cose a posto, pone fine a un'amnesia di 24 anni. Perché è vero: ci eravamo dimenticati di quanto bieche, stupide e maramalde potessero essere le forze repressive dello stato, ma loro si sono dimenticati di un fattore ancora più fondamentale, e cioè che niente favorisce la crescita di un movimento quanto la vile angheria e la repressione cieca.
Viltà è parola troppo forte, direte, ma si rivela ineludibile, se si considera che là dove e là quando il movimento è stato più forte e più deciso - cioè i portuali e i partigiani a Genova nel '60, gli studenti nel '68 e gli operai delle fabbriche del nord nel '69 - lì la polizia non ha mai osato estrarre le armi da fuoco, anzi ha preferito farsele gettare al rogo come avvenne a Genova nel 1960.