LA
REPUBBLICA 26 luglio 2001 Genova,
un poliziotto racconta cosa è successo nella caserma |
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"Quello accaduto alla
scuola e poi continuato qui a Bolzaneto è stata una sospensione dei diritti,
un vuoto della Costituzione. Ho provato a parlarne con dei colleghi e loro
sai che rispondono: che tanto non dobbiamo avere paura, perché siamo
coperti".
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da "il manifesto" del 01 Agosto 2001
"Le violenze alla Bolzaneto sono cominciate venerdì,
con i Gom. "Faccetta nera"? L'ho sentita" Celerino, in forza a uno dei reparti
impiegati a Genova nei giorni del G8, ha prestato servizio anche alla caserma
Bolzaneto. Una storia e una cultura molto di sinistra ("no, non mi sento
in contraddizione, come poliziotto penso di dover difendere le istituzioni
democratiche"), un passato di tifoso ultrà di una squadra di calcio di
serie A. Ha accettato di parlare con il manifesto di quei tragici
giorni. Ne conosciamo ovviamente nome e grado. |
TESTIMONIANZA IL MANIFESTO
La festa della caserma
Pubblichiamo la testimonianza di un
nostro lettore. Gli eventi a cui si riferisce sono avvenuti in una caserma del
Veneto.
Sono un ragazzo di 28 anni e da 8 faccio parte delle
Forze dell'ordine (almeno così le chiamano), in questi anni di servizio ne ho
viste tante, ma quello che ho visto a Genova mi ha indignato! Non ero lì perché
non ci stavo a difendere gli 8 distruttori del mondo, e in particolare l'uomo
che porterà allo sfacelo l'Italia. Inutile raccontarvi quello che è successo a
Genova, ormai ne siamo tutti a conoscenza, ma voglio solo dirvi i commenti dei
miei colleghi al loro ritorno in caserma. Questa mattina ho visto nei loro
occhi la soddisfazione di aver massacrato centinaia di giovani manifestanti,
nelle loro parole frasi del tipo "è stato bellissimo spaccare le teste
senza che loro reagissero" oppure: "Finalmente abbiamo potuto fare
quello che abbiamo voluto" e ancora "Finalmente un governo che ci dà
libertà di agire". Ho visto militari che si abbracciavano come se avessero
vinto una battaglia. Ma quello che ancora di più mi ha indignato, sono state le
crude parole dette durante le immagini dei funerali di Carlo, che per rispetto suo
non vorrei ripetere. "Un morto è poco ce ne dovevano essere altri"
dicevano. E poi anche "Un colpo è poco lo dovevano ridurre come un
colapasta". Ridevano e si abbracciavano.
Presto lascerò il mio lavoro perché ho ribrezzo di
indossare una divisa, mi sento un nemico del popolo. Un saluto a tutti i
compagni e in particolare a Carlo, il tuo sacrificio servirà al mondo intero.
Pallottole di stato
Genova 1960, Genova 2001. La lunga scia di sangue lasciata
nelle piazze dalla polizia
MARCO D'ERAMO
Vincenzo Napoli aveva 25 anni ed era un piccolo
esercente di Licata in Sicilia; Afro Tondelli era fuochista a Reggio Emilia
dove vivevano anche gli operai Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Lauro Ferioli
e Marino Serri. Invece il mastromuratore Andrea Vella e il giovane manovale
disoccupato Andrea Gangitano erano di Palermo, mentre il ventiduenne Salvatore
Novembre era un disoccupato di Catania. Nomi sepolti dall'oblio, ma
quarant'anni fa destarono una commozione simile e diversa da quella che oggi
suscita Carlo Giuliani. Nomi, come il suo, di manifestanti uccisi dalla
polizia, dopo gli scontri di Genova (allora come oggi), 41 anni fa, nel luglio
(allora come oggi) del 1960.
Era il 30 giugno 1960 quando a Genova si aprì il
congresso del Movimento sociale italiano (Msi) di Giorgio Almirante, partito
dalla cui costola è nata l'attuale Alleanza nazionale di Gianfranco Fini. Dal
29 aprile di quell'anno sedeva a Palazzo Chigi Ferdinando Tambroni, ex-ministro
degli interni, il cui governo aveva ricevuto la fiducia grazie all'appoggio
esterno dei fascisti. Era la prima volta dalla fine della repubblica di Salò
che il Msi teneva un congresso da partito di governo, un preludio - anche
quello - alla situazione attuale in cui An detiene la vicepresidenza del
consiglio.
Ma nel 1960 il governo Tambroni è un tentativo ben
più audace: quello di disdire il patto costituzionale, fondato sulla
Resistenza, di un'Italia antifascista. E tenere a Genova il congresso è una
provocazione calcolata da parte del Msi di Almirante, di Caradonna, di Michelini:
Genova è un città profondamente partigiana, con una presenza comunista
massiccia, un fronte del porto combattivo (i camalli), un sindacato pronto a
mobilitarsi. Così il 30 gennaio la Camera del lavoro di Genova proclama uno
sciopero generale dalle 14 alle 20. Alle 15 e 30 partì il corteo, centomila
persone, guidato dai dirigenti della Resistenza. Genova - scrisse Giorgio Bocca
- "sembra in stato d'assedio; non menno di 10.000 poliziotti e carabinieri
in armi circondano la città. Gli scontri scoppiano improvvisi alle 17 e 30 dopo
i discorsi ufficiali. Presto si è alla guerriglia urbana, le camionette della
polizia vengono date alle fiamme; i mitra strappati ai poliziotti e gettati su
un grande rogo in Piazza De Ferrari. Alle 19.30, mentre la rivolta si estende,
la Camera del lavoro proclama uno sciopero generale di 24 ore nella provincia;
solo a tarda sera le autorità acconsentono a ritirare dalla città i reparti di
polizia: 80 agenti sono contusi, 36 feriti, i fermati una sessantina, i feriti
civili in numero imprecisato".
Scioperano anche Milano, Livorno, Ferrara. Il
prefetto Pianese fa affluire a Genova altri 15.000 uomini. Dopo vari tira e
molla, i missini accettano di spostare il congresso da Genova. L'indomani
Genova celebra la vittoria antifascista con una manifestazione cui partecipano
in prima fila i dirigenti comunisti Pietro Longo, Pietro Secchia, Umberto
Terracini, Ferruccio Parri. Il governo Tambroni cerca la rivincita.
Martedì 5 luglio a Licata il sindacato proclama lo
sciopero generale contro la disoccupazione, la miseria e contro... lo
spostamento di una centrale termoelettrica a Porto Empedocle. Gli scioperanti
occupano la stazione ferroviaria, bloccano i treni, sbarrano il traffico sulle
strade 115 e 123. Verso sera la polizia apre il fuoco, uccide il 25-enne
Vincenzo Napoli. Altri 24 scioperanti rimangono feriti.
Il giorno dopo l'esibizione delle forze di polizia
si trasferisce a Roma. Nonostante il divieto del prefetto, un gruppo di
deputati del Pci e del Psi si reca a Porta san Paolo a deporre due corone ai
piedi della lapide che ricorda i combattimenti del settembre 1943. Gli
squadroni a cavallo caricano i deputati, ne trascinano alcuni per terra, ne
feriscono altri, altri ancora sono manganellati. Le case del Testaccio vengono
rastrellate a una a una. La cronaca dell'Espresso (17/7/1960) riferisce:
"Per molte ore, in quelle zone, chiunque non aveva la cravatta veniva
fermato, interrogato, spesso bastonato".
Ma il peggio doveva ancora succedere. L'indomani, 7
luglio, la scena si sposta a Reggio Emilia nel cuore rosso dell'Italia. Gli
operai delle "Officine reggiane" non entrano in fabbrica per
protestare contro il pestaggio a sangue di un ragazzo da parte dei reparti
Celere. La Celere era la formazione adibita alla repressione antisommossa, e
perciò tristemente famosa in tutta la sinistra italiana. Il 7 pomeriggio 350
"celerini" armati di mitra e pistola affrontano così 300 operai in
camicia. La prima jeep si avventa sui dimostranti e schiaccia Afro Tondelli,
l'unico a non essere ucciso da colpi di arma da fuoco. Subito dopo comincia la
sparatoria e rimangono a terra altri quattro dimostranti: Ovidio Franchi ed
Emilio Reverberi, Lauro Ferioli e Marino Serri. E' di loro che parla una delle
più belle e più tristi canzoni del movimento operaio italiano, "Morti di
Reggio Emilia".
L'indomani la scena si risposta in Sicilia. L'8
luglio, alle due del pomeriggio, poche centinaia di persone si riuniscono per
manifestare davanti al Politeama di Palermo. La polizia comincia a caricare
selvaggiamente, i dimostranti rispondono a sassate, finché in via Roma gli
agenti estraggono i mitra e le pistole e uccidono Andrea Vella e Andrea
Giangitano. Nello stesso giorno a Catania la polizia spara un altro
manifestante, il 22-enne disoccupato Salvatore Novembre. L'unica consolazione,
se tale può dirsi, è che il 19 luglio cade il governo Tambroni.
Non sarà l'ultima volta che la polizia ucciderà un
dimostrante (vedi la cronologia qui accanto): appena due anni dopo toccherà
Giovanni Ardizzone schiacciato da un'altra camionetta della Celere. E poi
Avola, Battipaglia, Serantini, e così via per altri sedici assassinati, fino a
Giorgiana Masi (1977). Da allora, dal 1977 - per quanto ci si possa fidare
della memoria propria e dei propri coetanei - la polizia italiana (intesa in
senso lato, compresi i carabinieri cioè) non ha più ucciso nessun manifestante.
Per il suo mega articolo sui fatti del luglio 1960,
l'Espresso più su citato aveva come occhiellone "La violenza di
stato". Ecco, dopo 24 anni ci eravamo dimenticati della violenza di stato
e delle brutalità poliziesche. Quasi quasi, prima di vederli in tenuta
antisommossa, li avevamo perfino presi per una specie di servizio sociale. Ci
era come sfuggito che la definizione funzionale delle forze di polizia di uno
stato è quella di "apparato repressivo" e che - in accordo con Max
Weber - ciò che fa dello stato uno stato è il "detenere il monopolio della
violenza" (legittima secondo Weber, ma anche illegittima quando è il
caso).
Oggi, dopo il blitz notturno di Genova e l'esecuzione
a bruciapelo di Carlo Giuliani, ci colpisce quanto tutto si somigli e quanto
tutto sia diverso. Simili i governi di centro-destra. Simile la città (Genova)
in stato d'assedio; simile la retorica sul terrorismo rosso, sui vandalismi e
le devastazioni; sui benpensanti disturbati nello shopping; simili le lacrime
di coccodrillo degli Emilio Fede di turno.
Ma allora si moriva per una centrale termoelettrica
a Porto Empedocle o per il congresso di un partitino fascista; oggi contro il
governo del mondo. Allora erano braccianti, manovali, disoccupati, fuochisti
indigeni e autoctoni di Reggio e di Licata; oggi giungono a manifestare da
Brema, Ostenda, Barcellona, Edimburgo, Los Angeles. Allora, contro una violenza
poliziesca come questa, i deputati della sinistra erano pronti a sfidare le
cariche degli squadroni a cavallo e i sindacati proclamavano lo sciopero
generale. Oggi il Fassino di turno o il Bertinotti telegenico cadono dalle
nuvole davanti alla violenza nella storia: all'improvviso ognuno si scopre dentro
di sé un gandhismo per lo meno sospetto.
In un certo senso, il comportamento del ministro
Scajola e dei suoi prefetti rimette le cose a posto, pone fine a un'amnesia di
24 anni. Perché è vero: ci eravamo dimenticati di quanto bieche, stupide e
maramalde potessero essere le forze repressive dello stato, ma loro si sono
dimenticati di un fattore ancora più fondamentale, e cioè che niente favorisce
la crescita di un movimento quanto la vile angheria e la repressione cieca.
Viltà è parola troppo forte, direte, ma si rivela
ineludibile, se si considera che là dove e là quando il movimento è stato più
forte e più deciso - cioè i portuali e i partigiani a Genova nel '60, gli
studenti nel '68 e gli operai delle fabbriche del nord nel '69 - lì la polizia
non ha mai osato estrarre le armi da fuoco, anzi ha preferito farsele gettare
al rogo come avvenne a Genova nel 1960.