Una faina senza
zavorra
Di Gian Antonio Stella,
tratto dal libro "Tribù", Mondadori
Editore.
«Un
giorno si avvicina a un gruppo di giapponesi e coi
suoi modi sussiegosi li ricopre di insulti, sicuro che quelli non lo avrebbero
capito: “Pidocchiosi, teste di cazzo, coglioni”. Così per ridere. Anche
loro ridevano...» Chissà se Francesco Storace si lascerebbe
andare anche oggi in confidenze come quella fatta pochi anni fa al «Giornale» sull’idea eccentrica di svago del Signor Vicepresidente
del Consiglio del «Berlusconi secondo» onorevole dottor Gianfranco Fini. Chissà se riderebbero ancora, i giapponesi vittime
della cameratesca goliardata. E chissà se riderebbe lui, il vatusso
bolognese che tiene assai all’immagine che si è dato nel tempo di asciutto statista. Certo è che, come persona, appare un
po’ più complesso di quanto lasci pensare la sua
figura di freddo e distaccato professionista della politica. Basti ricordare
cosa rispose il giorno in cui gli chiesero se «sinceramente» non stesse
pensando di scaricare il suo amico Silvio, che passava giorni di grande difficoltà. Rispose: «Sinceramente non me lo può
chiedere. Io non sono sincero quando parlo di queste cose. Anzi, sono
reticente».
Francesco
Cossiga, che pure non ha mancato di dargli qualche
scappellotto («Se non la smette di dire che D’Alema è
comunista tornerò a chiamare lui fascista»), è arrivato a definirlo «un Tony Blair di destra» e a donargli un giudizio apparentemente
lusinghiero: «È il migliore. Porta avanti il suo gioco politico con una buona
lucidità. Ma è privo dei supporti dottrinari. Non so
se legga qualche libro. So che mischia un po’ tutto: Evola
e il liberismo, la conservazione e il libertarismo».
Traduzione dal cossighese: un grande
tattico esperto di pura tattica. Senza tante ideologie. E
senza spessore.
«Cuore»
gli dedicò un titolone folgorante: Voto Rutelli.
Questi fascisti mi fanno paura. Il sommario diceva: «Mi sento anche un po’
extracomunitario, ebreo e comunista, per non parlare delle mie nuove tendenze
omosessuali. Sconcerto tra i suoi sostenitori: d’accordo capo, basta col
fascismo, ma possiamo almeno rimanere nazisti?». Una forzatura di quella
canaglia di Michele Serra. Il quale coglieva, però, un punto
chiave dell’uomo che sarebbe diventato vicepresidente del Consiglio: il
pragmatismo assoluto. Un impasto di ambizione,
disponibilità a liberarsi di ogni zavorra simbolica, capacità di adattare la
linea agli eventi, indifferenza alle accuse di incoerenza.
«Faina
in forcing.» Così lo ha ribattezzato, con l’anagramma del nome, Stefano Bartezzaghi. Faina sì, il resto meno. Dopo aver tentato
spesso di smarcarsi dal ruolo di spalla ed esser stato via via
fermato da una tranvata elettorale, l’ossuto Fini
decise infatti di giocare non più in forcing, ma in
surplace. Accettando fino in fondo il ruolo di numero due,
anche con la vicepresidenza del Consiglio senza delega, alla larga da ogni
responsabilità diretta e quindi da ogni grana, ogni polemica, ogni attacco,
salvo quelli che lui stesso decide di andarsi a cercare. Come quando
volle prima mostrare personalmente i muscoli a Genova nei giorni del G8, e poi
si schierò a spada tratta nella difesa acritica di tutti i poliziotti e tutti i
carabinieri «sottoposti a un linciaggio» dalla
sinistra, indifferente agli inquietanti retroscena che sarebbero emersi e alle
accuse che sarebbero arrivate dai governi stranieri. Deciso a
restare defilato e insieme vestire i panni dell’Uomo Forte anche in dissonanza
con le prudenze berlusconiane. Esattamente il
ruolo in cui Mario Segni lo aveva immaginato anni fa: «Con la sua fredda
astuzia sembra il duca Valentino dei Borgia, che
aspetta il logoramento del Cavaliere per proporsi come il vero leader della
destra».
Nipote
di un nonno comunista (paterno: Alfredo) e di uno fascista (materno: Antonio,
partecipante alla Marcia su Roma), figlio di un funzionario della
gulf socialdemocratico, studente disastroso al
ginnasio (5 in italiano, 5 in latino, 4 in greco, 4 in francese: bocciato),
buono alle magistrali, laureato in pedagogia a Roma con una tesi sui decreti
delegati, racconta a tutti di essere diventato missino dopo che i rossi gli
avevano impedito di assistere al film Berretti verdi con John
Wayne. Meglio: più che missino, fascista. Lo dice
lui. Smentendo lo stesso amico Silvio che s’affanna a sdrammatizzare: «Macché
fascista: se è nato nel ’52!». No: «Sono un postfascista,
ma sarebbe meglio dire un fascista nato nel
dopoguerra».
Lo
diceva nel 1988, mentre stava per essere eletto segretario nazionale del msi. Al ballottaggio, ma con voti reali. La prima volta non
era andata così. Alle elezioni per la carica di capo del Fronte della Gioventù, nel ’77, era arrivato quinto su sette
candidati. I camerati, più fanatici e maneschi di lui, lo consideravano infatti troppo moderato. «Per noi era un vile» avrebbe
spiegato anni dopo Valerio Fioravanti, che a quei tempi stava slittando con la
futura moglie Francesca Mambro verso la scellerata
scelta della lotta armata.
Uno che preferiva la parola al manganello, il dibattito
allo scontro fisico.
Onore al merito, per noi. Non per i suoi camerati, che nelle sezioni caldissime
di Acca Larentia o di via Sommacampagna lo chiamavano «er Caghetta». E lo accusavano, secondo le testimonianze
raccolte da Goffredo Locatelli e Daniele Martini,
autori d’una biografia del leader destrorso, di cose inimmaginabili nell’ottica dei balilla: «Veniva ai cortei in giacca e
impermeabile. Così al primo pericolo si infilava nei
negozi e si spacciava per poliziotto». Figurarsi se lo avrebbero fatto capo dei
giovani missini. Almirante non aveva, però, voluto sentir ragioni: dal quinto l’aveva
cooptato d’autorità al primo posto. A riprova di quanto «Faina» avrebbe
spiegato anni dopo. E cioè d’aver appreso «i valori
della democrazia» proprio dentro il msi.
Seccato
dalla fama di debolezza muscolare, dirà: «Ne ho date e ne ho prese, credo
d’esser finito in pareggio». L’unico pestaggio di cui si abbia
notizia, tuttavia, non glielo impartirono i rossi ma i camerati amici del
marito di quella che, in seconde nozze, sarebbe diventata sua moglie, Daniela
Di Sotto: «Sospettavano di me e di lui». Un passo indietro. Daniela, che oggi
si veste con minigonne e spacchi da sventola e ha un
fisico da palestra coi bicipiti luccicanti ma allora era una cicciona di
settantacinque chili che lavorava come tastierista al «Secolo d’Italia» dove
Gianfranco faceva il giornalista, si era sposata molto giovane
con Sergio Mariani, che tutti chiamavano «Folgorino» perché era stato
nella Folgore, un manesco così manesco da essere spedito per un anno in
soggiorno obbligato in Sardegna.
Cosa
fosse successo, in quell’anno di provvisoria
vedovanza, tra Daniela e il futuro presidente di An non si sa. Niente, dicono loro. Certo è che quando il
marito rientrò, lei scoprì che non ci poteva più vivere insieme. Anni più tardi
avrebbe raccontato: «Dopo mesi di totale estraneità, un giorno gli dissi: “Sto
uscendo, vado dall’avvocato”. Lui mi rispose: “Se ci vai mi sparo”. Chiusi la
porta, uscii sul pianerottolo, chiamai l’ascensore.
Sentii un colpo di pistola. Sergio si era sparato alla pancia. Chiamai l’ambulanza, avvertii il partito. Fu operato subito
e per fortuna si salvò. Ma da quel momento io per
tutti diventai il carnefice e lui la vittima. Io la donnaccia
senza cuore che non prova pietà, lui il poverino che per causa mia aveva
rischiato addirittura la vita. Furono mesi, anni terribili. Tutti gli
amici, il partito, si schierarono contro di me; nessuno, vent’anni fa, ammetteva che una donna, di destra per
giunta, potesse scegliere di vivere la propria vita, di alzare la testa, di
tornare a sorridere dimenticando l’infelicità».
Per
capire il clima, bastino due dettagli. Il primo: per separarsi legalmente, la
donna fu costretta a rivolgersi a un avvocato
comunista. Il secondo: quando nacque la bambina, Giuliana, venne
momentaneamente registrata all’anagrafe come «nata da Fini Gianfranco e donna
che non vuole essere nominata». Tutte cose che, con ogni probabilità, avrebbero
contribuito a indurire il carattere di colui che, al
momento dell’elezione a segretario del msi, il
«Corriere» ribattezzò come il «Tenentino». E avrebbero
cementato un rapporto che, a sentire lei, che balla
come una pazza nelle discoteche e schiamazza come un camallo
allo stadio quando gioca la Lazio, tutto pare essere stato meno che impetuoso:
«In questo stato d’animo crebbe e divenne a mano a mano più profonda la mia
amicizia con Gianfranco ... Mi sentii come un
cagnolino abbandonato per strada: quando trova uno che gli fa una carezza gli scondinzola dietro ... Provavo e provo una grandissima
stima e tantissimo affetto nei suoi confronti...».
Ma torniamo dove stavamo. Eletto segretario nazionale dopo un duello con
Pino Rauti (al quale avrebbe ceduto poi la poltrona
per pochi mesi, giusto il tempo di prendere un paio di batoste elettorali),
Fini attacca mostrando i bicipiti. Manca una manciata d’anni alla svolta di Fiuggi quando mena
manganellate retoriche, raccolte nel libro "Il fascista del Duemila"
di Corrado De Cesare, di ogni tipo. Spiega: «Sono convinto che l’intuizione mussoliniana di una terza via alternativa al comunismo e al
capitalismo sia ancora oggi attualissima. Il nostro
compito è di attualizzare, in una società postindustriale alle soglie del 2000,
gli insegnamenti del fascismo che con la Carta del lavoro del 1927, l’Umanesimo
del lavoro di Gentile e i 18 punti di Verona della Rsi,
ha lasciato un testamento spirituale, dal contenuto
profondamente sociale, dal quale non possiamo prescindere».
Dice
che il duce è stato «il più grande statista del secolo» e «un esempio di amore per la propria terra e la propria gente». Che un
giorno l’Italia lo dovrà riabilitare e «insieme a
Cavour, Mazzini e Garibaldi, anche a lui saranno intitolate piazze e
monumenti». Che tutti devono interrogarsi «sul fascino che le
nostre idee conservano tra le nuove generazioni a cinquant’anni
dalla caduta del fascismo». Che «l’identità che
il MSI orgogliosamente rivendica non è tesa a restaurare il regime fascista,
bensì a rilanciare i valori che quel regime teneva ben presenti ed elevò alla
massima dignità».
La sua
stella polare è Jean Marie
Le Pen: «È più avanti di dieci anni. È un uomo
sanguigno, generoso, innamorato della vita. A Nizza si tuffò nel mare mentre
dal cielo nuvoloso piovevano paracadutisti...». È stregato da quel tuffo. Gli
ricorda i versi dannunziani: «Ei tuffa il capo al sibilo dei dardi / ma sempre
ha in pugno il libro delle gesta / immune sopra i flutti e sopra i fati!».
Vorrebbe tuffarsi anche lui.
Dirà
anni dopo, all’assemblea di Verona: «An non ha alcuna intenzione di utilizzare la storia e le tragedie del
secolo che si chiude come arma». Ci credo. Tutti possono rinfacciare a D’Alema d’aver parlato negli anni Cinquanta davanti a Togliatti nelle vesti di pioniere comunista o a Occhetto di aver urlato a metà
degli anni Sessanta «siamo il partito di Ho Chi Min e
di Giap, il partito della rivoluzione italiana».
Tutti, meno lui.
Nel ’91
scriveva: «Non occorre impostare un rilancio del msi
su una operazione di ridefinizione
ideologica. Tutti quanti diciamo che siamo i fascisti,
gli eredi del fascismo, i postfascisti o il fascismo
del Duemila», e spiegava: «Per essere di nuovo determinante
il msi deve saper essere anche figlio di puttana».
Nel ’92
gridava: «È più che mai attuale il “Boia chi molla” di Ciccio Franco».
Nel ’93
rivendicava: «A cinquant’anni dalla fine della guerra
nessuno può pretendere che il msi faccia in qualche
modo un’abiura di ciò che è stato. Non dobbiamo sconfessare un bel niente».
Nel ’94
confermava: «Mussolini è stato il più grande statista
del secolo ... Ci sono fasi in cui la libertà non è
tra i valori preminenti».
«Berlusconi può eguagliarlo?» chiedeva Alberto Statera della «Stampa». Risposta: «Berlusconi
dovrà pedalare per dimostrare di appartenere alla storia come Mussolini».
Silvio
un po’ se la prese, ma non troppo: in tutte quelle sparate trovò infatti la conferma che cercava: Gianfranco era davvero «un
leader moderato». Moderatissimo...
Mai al
mondo un vecchio partito fascistoide ha subito una
sterzata rapida e radicale come quella impressa da
«Faina». Neanche il tempo di cambiarsi la cravatta (ne ha
cinquecento, dice Daniela) e già spiegava che nessuno era autorizzato ad avere
perplessità sulla sua svolta: «an ha fatto una netta
rottura col fascismo, scegliendo la democrazia: il fascismo non era una
democrazia, era una dittatura». «Siamo tutti figli della democrazia.
Come può un giovane, oggi, non essere democratico?» E per essere ancora più
esplicito, a un incontro con gli studenti
dell’istituto San Gabriele di Roma, attaccava «gli imbecilli e criminali che
coi capelli lunghi o rasati a zero, in nome di fraintesi ideali di destra,
professano il razzismo e la xenofobia. Essere di destra non è predicare la
superiorità della razza o altre coglionate di questo
tipo».
«C’è in
giro un tasso di trasformismo disgustoso» si lamentò un giorno. Guardati allo
specchio, gli ha risposto il musicologo parafascista Piero Buscaroli.
E gli ha inviato, mandandola per conoscenza allo «Stato», una
letteraccia: «Sei proprio un maiale e via della Scrofa è l’indirizzo più adatto
per te ... Ti maledico a nome dei morti e dei vivi ...
Ti aspetto seduto sulla riva, ti aspetto a ogni passaggio, di vergogna in
vergogna...».
«Fini ha eliminato il fascismo come fosse un calcolo renale»
scrisse dopo la rifondazione di Fiuggi Marcello Veneziani, tremando all’idea
che «quella di an diventasse una classe dirigente craxiana al servizio di una nuova dc...».
E spiegava: «Ho trovato molto povero il dibattito culturale da cui è nata la svolta. Svolta rapida e opportuna, ma senza alcun
travaglio culturale. In realtà il dibattito sul superamento del fascismo è in
corso da dieci anni ... ma è stato tutto esterno al msi
e guardato con grande diffidenza dalla nomenklatura
del partito, la stessa che oggi guida An».
Può
dunque fare il permaloso, il «Tenentino», se restano
perplessità sulla sua strambata? Se
per anni Bettino Craxi ha continuato a descriverlo
come «un vuoto incartato» e Romano Prodi come «l’ultimo vero esponente della politique politicienne: non l’ho
mai sentito parlare di qualcosa che non fosse formula, schema, parola allo
stato puro»? Se lo stesso
Silvio Berlusconi ci ha riso su dicendo che «si è
candeggiato: prima di me era il cavaliere nero sul cavallo nero, adesso è il
cavaliere bianco sul cavallo bianco»?
La
facilità con cui in questi anni, con l’accento di chi ogni volta declama una
sentenza inappellabile, definitiva ed eterna, ha detto tutto e il contrario di
tutto è testimoniata da chili di ritagli di giornale.
Prendete l’uninominale. «L’uninominale è un sistema elettorale voluto dalla dc, dal psi
e dal pds, dalla cupola della Confindustria
e dal potere sindacale per salvare il regime partitocratico
e riciclare i partiti sepolti da Tangentopoli. Il risultato, se vinceranno i sì
al referendum-truffa, sarà la fine dell’unità nazionale e l’Italia spaccata in
tre: un Nord leghista, un Centro di sinistra e un Meridione democristiano e
mafioso» dice il 15 marzo del ’93. Un anno dopo, il 16 maggio ’94, contrordine:
«Noi siamo per l’uninominale pura a turno secco, all’inglese».
O il giudizio su Umberto da Giussano: «Occhetto è l’avversario, Bossi il nemico. Non accetteremo
mai nessun accordo tecnico con la Lega» assicura nel febbraio del 1994. Due
mesi dopo ci va al governo insieme. «È un criminale. Un ubriaco. Un animale.
Con lui non prenderò mai più neppure un caffè» dice dopo il ribaltone. Caffè no, champagne sì: in Quirinale, al
giuramento insieme nel «Berlusconi secondo». E la finanziaria ’95 di Dini? «an è cosciente che la manovra va certamente approvata»
dichiara il 16 febbraio. «La manovra noi non la votiamo e basta» taglia corto il 4 marzo. E il
federalismo? «Se quello che vuole la Lega è quello di
Miglio, con i quattro cantoni o le tre macroregioni, non ci sono margini di
trattativa» spiega il 6 aprile del ’94. Sei mesi dopo, è in prima fila al
lancio della costituzione migliana con le quattro
macroregioni: «Molto interessante».
Il fronte sul quale si è esibito al meglio con l’avanti e
’ndrè è però quello del giustizialismo. «Borrelli
vive uno sfrenato protagonismo, Davigo è sopra le
righe, questi pensano di essere una casta sacerdotale di aristocratici»
spiega nella primavera del ’97. «Dobbiamo liberarci della malattia infantile
del giustizialismo» sentenzia tre mesi dopo. «Si
continua a fare un uso politico della giustizia per eliminare dalla scena gli
avversari politici» dice alla fine del ’99. E vota contro le autorizzazioni a
procedere o all’arresto richieste non solo per Cesare Previti, Marcello Dell’Utri,
Gaspare Giudice o Amedeo Matacena ma perfino per
l’Umberto Bossi che era accusato di aver urlato davanti a migliaia di leghisti:
«Col tricolore io mi pulisco il culo».
Un garantista a quattro ruote motrici. Fermo nelle sue convinzioni come un paracarro.
Così come era fermissimo pochi anni prima. «Basta con il
garantismo, basta con questa larva di Stato impotente, basta con la legge che
premia i delinquenti e abbandona i cittadini onesti!» «I capi mafiosi vanno
passati per le armi, bisogna ripulire il Paese dal cancro della malavita.» «Dalla questione morale non si esce se i magistrati non
andranno fino in fondo e chi parla di congiure e complotti ha
invece il dovere di rinunciare all’immunità parlamentare!» «La questione morale
deve diventare l’Algeria della Repubblica italiana nata dalla Resistenza!»
Immortale
resterà, per retorica e indignazione, la lettera inviata a Francesco Saverio Borrelli il giorno dopo che il Parlamento aveva votato no all’autorizzazione a procedere nei confronti
di Bettino: «Lo sdegno e l’amarezza che pervadono la Nazione di fronte allo
scandaloso verdetto di autoassoluzione
che il regime si è confezionato con il voto dell’aula di Montecitorio
sul caso Craxi sono da noi interamente condivisi. La
nostra forza politica chiede l’immediato scioglimento delle Camere e nuove
elezioni proprio per consentire alla giustizia di procedere nel suo corso senza
intollerabili franchigie e pretestuosi ostacoli. Che sia il popolo sovrano, nel
nome del quale la giustizia si esercita, a superare l’inammissibile scudo della immunità parlamentare e a consentire ai giudici
italiani di svolgere sino in fondo la loro irrinunciabile funzione. Con i più
cordiali, deferenti saluti».
Chi pensi di metterlo in difficoltà ricordandogli questi
valzer o dicendo, come Vittorio Sgarbi, che Gianfranco «nelle retromarce
esprime se stesso», però, se lo scordi. «Faina», come scrive Pietrangelo Buttafuoco sul «Foglio», ha profondamente innovato lo
slogan del duce: «Se il motto spavaldo dei vecchi fascisti era “me ne frego”,
quello del neghittoso Fini è peggiore: “Me ne fotto”».