Viatosto

 

Avevo un asino: quelli che se ne intendevano dicevano che era un vero "sardagneul". Si chiamava Checca, grigia e bianca con le striature marroni sulla schiena e giù per le spalle, come tutti i "sardagneul": finimenti di cuoio, rossi, con il pettorale e il filetto imbottiti di lana di pecora, carrettino giallo, tipo "tumbarel" in scala ridotta. Uno splendore, ma io avrei preferito un cavallino.

Sulla strada che scendeva da Viatosto verso il Funtanin (terra battuta, rinforzata con pezzi di "maciafer" nero e viola, levigato dal transito dei carri, così liscio e lucido che brillava al sole fino ad abbagliarti), la facevo andare su e giù, e lei trottava allegra, come una sposa. Adesso che ci penso, originariamente, quando il nonno l'aveva acquistata, si chiamava Piera, ma un'amica di mia madre non gradì...

D'inverno, andavo a trovarla tutti i giorni, qualunque tempo facesse: partivo da corso Dante, in bici, e salivo sù, poi facevo la discesa del Funtanin e risalivo la collina verso la casa di mio nonno. Qui c'era la stalla con quattro posti: tre per i cavalli da tiro: Puli, Moro e Dora e uno per Checca. Mi facevo sentire da lontano, con un fischio che lei conosceva bene e la facevo ragliare di contentezza ancor prima che vedesse il sacchetto del pane secco e degli zuccherini; poi andavamo a correre nella neve. Ogni tanto dalla Madonna di Viatosto arrivavano i rintocchi dell'orologio che, d'inverno, risuonavano diversi, come da un campanile più lontano.

Poi era il turno dei cani: chi altri, all'infuori di me si ricordava di slegarli, ogni tanto?

Alè, alè, alè! si scatenavano in una sarabanda di girotondi velocissimi, atteggiando il muso ad un'espressione che non ammetteva dubbi: quei cani ridevano!

L'ebbrezza della loro breve libertà mi contagiava e diventava mia: la felicità era lì, in quel girotondo, in quella sarabanda nella neve, nei cani che ridevano; era in quell'asinello, pedalava con me su quella bici rossa, era nell'aria arancione e azzurra di quei gelidi tramonti di campagna.

Non c'era inverno che non nevicasse e quando nevicava, nevicava sul serio e non c'erano le ruspe e al Funtanin si andava a sciare (a turno, con un paio di sci per quattro) e, una volta, gli sci ai piedi me li sono tenuti fino in piazza Dante.

Quando nell'aria c'era l'odore del fumo e il cielo diventava grigio chiaro come la flanella grigio-chiaro, allora si poteva sperare nella neve. "Magari stanotte, niente di più facile". Era il rumore lontano di un'automobile che saliva in corso Dante in prima, con una catena messa male che sbatteva contro il parafango, a farti scendere dal letto e tirare su le persiane.

La neve era arrivata e bisognava svegliare tutti e ognuno diceva la sua: "Questa volta si ferma!" oppure. "E' bella asciutta" e ancora: "Fioca mni, ven ata fin al chi!".

Se poi non ci si svegliava di notte, era il badile del portinaio che raschiando, cadenzato, sul marciapiedi, annunciava con certezza che era nevicato e magari avrebbero chiuso anche le scuole. Chissà a Viatosto, quanta neve!

Poi, non ricordo bene come, forse, anzi, fu la Città con le sue lusinghe, come una cattiva compagnia, ad allontanarmi da quel mondo fatato e Checca e tutto il resto furono venduti. Adesso, dai e dai, sono tornato in zona, a mezza costa tra Viatosto e Valmanera, e ai miei bambini racconto che, una volta, Viatosto era la Chiesa, l'orologio che si vedeva da lontano, il Circolo e il Commestibili e che c'era quella strada con i pezzi di "maciafer".

Loro mi guardano e mi dicono che anche oggi Viatosto è la Chiesa, l'orologio che si vede da lontano, il Circolo e il Commestibili e che, in più, c'è il Bar e la strada è asfaltata... Praticamente non è cambiato niente...

Io li lascio dire, sorrido, e va bene così.