Un referendum contro la CGIL

Carlo Ghezzi, segretario confederale – l’Unità 27 aprile 2003

 

I112 giugno 2002 il Comitato direttivo della Cgil nazionale ha votato a grande maggioranza un appello. al Comitato referendum perché desistesse dalla raccolta di firme per l’estensione dell’Articolo 18 alle piccole imprese.

Perché quell’appello, peraltro non accolto? La Cgil rinnegava forse il proprio obiettivo di estendere dirit­ti, tutele ed ammortizzatori sociali a tutto il mondo del lavoro, dalle imprese maggiori alle minori, dal lavoro atipico, al diffuso, al preca­rio?

Qui sta il punto poco esplorato da molti commentatori, l’Unità com­presa, che a me pare invece molto chiaro: la strategia che la Cgil si è data è diversa ed alternativa a quel­la dei promotori del referendum.

Per la Cgil la difesa dell’Arti­colo 18, attaccato da Berlu­sconi e da D’Amato, è la precondizione per lanciare una grande offensiva sulla estensione dei diritti, degli ammortizzatori e delle tutele, modulati in modo tale che nessun lavoratore ne sia escluso.

Lo schieramento sociale e politi­co che l’azione della Cgil ha rac­colto attorno alla manifestazione del 23 marzo 2002, i 5 milioni di firme raccolte a supporto delle sue proposte di legge per i diritti, sono l’asse portante dell’iniziati­va della Cgil, così come il ricorso al Referendum abrogativo se l’Ar­ticolo 18 fosse modificato dal Parlamento.

Il 23 marzo ha visto manifestare insieme con la Cgil esponenti di un vasto schieramento politico, da Rosy Bindi a Casarini ed un imponente schieramento sociale composto da lavoratori, pensio­nati e studenti, dai movimenti, da tanta intellettualità, tante pro­fessioni, tanto popolo.

Il mio macellaio ed il mio idrauli­co iscritti a quella Confcommer­cio che non ha condiviso l’attac­co all’Articolo 18, non hanno ma­nifestato ma hanno espresso con­divisione e simpatia, hanno soste­nuto economicamente la manife­stazione acquistando le cedole della sottoscrizione della Cgil.

I promotori del Referendum, gui­dati da Bertinotti e dalla Fiom diretta da Sabattini, mettono in campo una strategia alternativa negli strumenti, nei tempi, nelle modalità di svolgimento, nelle al­leanze, a quella della Cgil.

I referendari attaccano soprattut­to le alleanze del 23 marzo, divi­dono verticalmente quello schie­ramènto politico e sociale che l’iniziativa della Cgil ha aggrega­to, rifiutano la strada delle leggi, danno per acquisita (chissà per­ché) la difesa dell’articolo 18 così come oggi è, non puntano sul Referendum abrogativo che la Cgil ha annunciato per contrasta­re quelle modifiche all’Articolo 18 che il Parlamento ha ancora all’ordine del giorno, tolgono Berlusconi e D’Amato dal centro della scena e mettono sotto tiro il mio macellaio e il mio idrauli­co. Bertinotti e Sabattini, con al­tri, scelgono così di mettere radi­calmente in discussione la strate­gia che la Cgil, il suo Segretario Generale ed il suo gruppo diri­gente si sono dati e che ha avuto ed ha uno straordinario consen­so di massa.

Il Referendum è stato dunque pensato ed attuato contro la Cgil. Non è il figlio né legittimo, né illegittimo delle grandi mobili­tazioni del 2002, non unisce ma semina ‘divisioni negli schiera­menti sociali e politici democrati­co-progressisti.

Oggi pur tuttavia il Referendum è in campo. Il gruppo dirigente della Cgil sta riflettendo su come ridurre il danno e rilanciare la via maestra delle Leggi per i dirit­ti, per tutti.

Un gruppo dirigente coeso e solidale su valori, programmi e strategie, ha al proprio interno articolazioni di giudizio su quale è la tattica più appropriata per conseguire il male minore. Alcu­ni propendono per votare Sì il 15 giugno ed accompagnare a tale scelta le nostre critiche alla opzio­ne referendaria ed il sostegno convinto delle nostre proposte di legge.

La mia opinione è diversa, il Refe­rendum non è la nostra batta­glia, non so come voterò al Comi­tato Direttivo della Cgil del 6 e 7 maggio, voglio sentire la relazio­ne di Epifani e gli interventi. Og­gi penso, mi pronuncerei come il socialista Andrea Costa in Parla­mento, di fronte alla avventura coloniale in Africa promossa dai Governi trasformisti di fine 800:

non è la nostra battaglia, né un uomo, né un soldo.

È opportuno, a mio giudizio che la Cgil decida il voto libero ed ognuno valuti come ridurre il danno. Perché di danno sicura­mente si tratta.

Bertinotti e Sabattini sono com­pagni prestigiosi e generosi, ma a loro è già capitato di sbagliare strategia; sono stati tra i protago­nisti della più pesante sconfitta subita dal Movimento Operaio nell’Italia Repubblicana. Penso oggi sbaglino nuovamente.

Sulla Cgil dell’ultimo Lama, di Pizzinato e di Trentin ha pesato negativamente l’onda lunga del­la sconfitta alla Fiat del 1980. C’è voluta la Cgil di Cofferati, del confronto con Berlusconi sulle pensioni nel 1994, del contribu­to all’ingresso dell’Italia nel­l’Unione Europea, della manife­stazione del 23 marzo, dei 5 mi­lioni di firme raccolte, per rilan­ciare l’offensiva del Sindacato dei Diritti e delle Solidarietà con la partecipata strategia ché li sup­porta.

Io difendo il valore di questa stra­tegia e non intendo fare mie quel­le scelte che la avversano e che cambiano completamente le co­ordinate del confronto in cam­po. Le nostre opinioni divergo­no dunque sulla tattica da attua­re nel breve. Non scalfiscono ov­viamente il rapporto di stima e di solidarietà che nutro nei con­fronti sia di Epifani, che dirige la Cgil con autorevolezza, determi­nazione e prestigio, che nei con­fronti dei componenti la Segrete­ria della Cgil che sostengono pro­poste diverse dalle mie.

Ci unisce il giudizio critico sulla scelta referendaria, costruita con­tro la nostra organizzazione, così come ci uniscono le scelte strate­giche di fondo maturate in un grande Congresso della Cgil uni­tariamente concluso dopo 16 anni di discussioni e di divisioni.