LE RAGIONI ECONOMICHE DEL REFERENDUM
di
Emiliano Brancaccio[1]
Introduzione
“Chi vuole più lavoro dica no. Togliamo il
freno al lavoro. Non rimanere indietro. No alla disoccupazione”. Riportati su grandi manifesti a sfondo rosso e
diffusi in tutta Italia, questi slogan sono stati coniati dalle organizzazioni
imprenditoriali al fine di contrastare il referendum del 15 giugno per l’estensione dell’articolo 18. Gli slogan evocano una
visione del sistema economico che negli ultimi anni ha goduto
di un notevole successo, e che attualmente appare piuttosto radicata
nell’opinione dei cittadini. Si tratta della visione secondo cui l’elevata flessibilità
del mercato del lavoro costituirebbe un imprescindibile fattore di stimolo per la crescita, l’occupazione e la
competitività di un paese. Nel corso degli ultimi anni questa
idea ha rappresentato il sostegno logico fondamentale a tutte le
proposte di rimozione dei vincoli che attualmente regolano il mercato del
lavoro, dai minimi salariali fissati per legge o per contratto alle norme che
limitano la libertà di licenziamento.
Gli economisti di orientamento
liberista hanno sempre offerto rigorose argomentazioni in difesa della
flessibilità del mercato del lavoro. Arthur Cecil Pigou, ad esempio, riteneva
che la disoccupazione di massa degli anni ’30 dipendesse soprattutto da salari
troppo elevati rispetto alla produttività del lavoro, e che solo accettando una
riduzione degli stessi si sarebbe raggiunta la piena occupazione.[2] Pigou
giunse addirittura a nobilitare la figura del crumiro, sostenendo che il suo
comportamento, fiaccando i sindacati e rendendo i salari flessibili verso il
basso, avrebbe prima o poi favorito il raggiungimento
dell’equilibrio di pieno impiego. Più di recente il premio Nobel James Heckman,
tra gli altri, ha sostenuto che la cosiddetta eurosclerosi, ovvero la
difficoltà per l’Europa di raggiungere gli elevati tassi di crescita e i bassi
tassi di disoccupazione americani, dipende in modo significativo
dalle forti rigidità presenti nei mercati del lavoro del vecchio continente
rispetto al mercato statunitense.[3]
Questi argomenti risultano
ben noti al grande pubblico, dal momento che la maggioranza dei politici e dei
commentatori usa riproporli a mo’ di litania in tutte le occasioni di confronto
e di discussione. Ciò di cui il grande pubblico non è
a conoscenza, invece, è che la visione che considera la flessibilità del
mercato del lavoro uno stimolo irrinunciabile ai fini della crescita, della
competitività e dell’occupazione, risulta in ambito scientifico sostanzialmente
minoritaria. Tra i numerosi oppositori di questa visione basterà citare i premi
Nobel Robert Solow e Joseph Stiglitz, i quali hanno più volte dichiarato che i
problemi del basso saggio di sviluppo, dell’elevata disoccupazione e della
scarsa capacità di innovazione tecnica di un paese
andrebbero risolti sul terreno delle politiche macroeconomiche, della lotta ai
monopoli e alle rendite, della spesa pubblica per la ricerca e della creazione
di infrastrutture, molto più che attraverso la flessibilità dei salari o lo
smantellamento dei regimi di protezione dei lavoratori.[4] Una
posizione, questa, che è stata condivisa e ulteriormente rafforzata, tra gli
altri, dalle centinaia di economisti sottoscrittori del manifesto per una
politica economica alternativa in Europa.[5]
La scarsa conoscenza dei contributi
di questi studiosi, e soprattutto la diffusa riluttanza a tradurre
politicamente le loro idee, hanno finora dato luogo a
un triste paradosso: la visione liberista, fautrice della flessibilità del
mercato del lavoro, benché scientificamente minoritaria riesce tuttora in
ambito politico a riscuotere i consensi più ampi. Questo paradosso ha
fortemente condizionato l’intero dibattito di politica economica europea. E in
Italia, in particolare, esso ha finora pregiudicato l’avvio di una seria,
credibile discussione attorno alle iniziative sindacali e politiche dell’ultimo
anno e mezzo volte al mantenimento e all’estensione
dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A botta di slogan, infatti, gli
avversari dell’articolo 18 stanno cercando di convincere i cittadini
dell’esistenza di un legame stringente tra la maggiore
flessibilità sul mercato del lavoro e il maggior benessere economico. I
sostenitori del referendum, dal canto loro, sono finora apparsi in difficoltà
di fronte a quegli slogan, e hanno
pertanto deciso di identificare la loro azione politica nella sola questione di
principio, nella “battaglia di civiltà” contro i licenziamenti ingiustificati.
Ebbene, proprio al fine di vincere la battaglia di civiltà
per la tutela contro i licenziamenti ingiustificati, è giunto il momento di
confrontarsi con i fautori della flessibilità proprio sul terreno della
politica economica. E’ possibile infatti dimostrare
che il referendum per l’estensione dell’articolo 18 non costituisce
semplicemente una iniziativa ineccepibile sul piano etico, ma rappresenta
soprattutto un’occasione per mettere a conoscenza i cittadini dell’esistenza di
un razionale, credibile progetto di politica economica immediatamente
applicabile all’Europa e all’Italia, un progetto alternativo agli indirizzi
di matrice liberista tuttora dominanti.
Nel presente studio esamineremo le
principali critiche ai regimi di protezione dei lavoratori (e in particolare
all’art.18) avanzate dai fautori della flessibilità, al fine di evidenziare la
sostanziale inconsistenza delle loro argomentazioni. In uno studio successivo
proveremo invece a delineare lo scenario di politica
economica alternativa all’interno del quale l’iniziativa referendaria
troverebbe piena legittimazione, non solo sul piano etico ma anche su quello
più strettamente economico.
Una critica agli
argomenti degli avversari dell’articolo 18
1) L’articolo 18 pregiudica la crescita
dimensionale delle imprese[6]
L’argomentazione
è falsa, ed è davvero sorprendente che il governo Berlusconi l’abbia adoperata
a sostegno di una possibile deroga all’articolo 18. Se
questo articolo pregiudicasse la crescita delle
imprese, infatti, si dovrebbe registrare un addensamento delle stesse al di
sotto della soglia dei 15 dipendenti, a partire dalla quale l’articolo viene
attualmente applicato. Ma le indagini empiriche
smentiscono categoricamente l’esistenza di un simile addensamento.
Le piccole imprese infatti si concentrano
soprattutto attorno a una media di 3,6 dipendenti, ben lontana dal limite dei
15 previsto per l’applicazione dell’articolo 18.[7] A ciò
si aggiunga che in Italia il 95% delle imprese ha meno di 10 addetti ed assorbe
ben il 47% dell’occupazione totale, contro il 21% della Germania, il 22 della
Francia e il 27% del Regno Unito.[8]
Inoltre, tra il 1991 e il 1996, mentre tra le imprese
incluse nella classe 10-15 dipendenti si è registrato un calo dell’occupazione
del 2,7%, tra le imprese appartenenti alle classi 16-19 e 20-49 è stata
rilevata una crescita occupazionale rispettivamente dell’1% e dell’1,7%. Il tutto nonostante che l’articolo 18 si applichi
solo a queste ultime due classi di addetti, mentre la
prima ne risulta esentata.[9]
E’
stato poi rilevato che l’eventuale rimozione dell’articolo 18
avrebbe effetti assolutamente insignificanti sulla propensione a crescere delle
imprese. L’eliminazione dell’art.18 infatti
aumenterebbe la probabilità che un’impresa superi la soglia dei 15 dipendenti
di appena l’1,5%.[10] Oppure,
detto in altri termini, essa produrrebbe un aumento medio della dimensione
delle imprese inferiore all’1%, un risultato davvero modesto se si
considera che le imprese italiane soffrono di un deficit dimensionale rispetto
alle imprese del resto d’Europa che si aggira intorno al 50%.
Questi
dati hanno indotto l’Istat a dichiarare espressamente che “non sembra
apprezzabile l’effetto soglia per la crescita dimensionale intorno ai 15
dipendenti”.[11] Una conclusione categorica,
questa, che è stata tra l’altro confermata persino da
un gruppo di studiosi del Centro studi Confindustria, i quali nel 1999
affermavano: “Quanto alle soglie, l’analisi
empirica non sembra rivelare salti di rilievo nella numerosità delle imprese in
corrispondenza dei valori più critici (15 e 35 dipendenti), al contrario di
quanto dovrebbe accadere nell’ipotesi in cui la soglia fosse avvertita come un
limite da non valicare”.[12]
Considerata l’ostinazione con la quale il presidente D’Amato continua a
considerare l’articolo 18 un drammatico vincolo alla crescita delle imprese, si
deve ritenere che i vertici di Confindustria non coltivino molto l’abitudine di
leggere gli studi da essi stessi commissionati.
2) I regimi di protezione dei lavoratori, e in
particolare l’articolo 18, disincentivano le assunzioni e creano disoccupazione
Siamo ancora una volta di fronte ad un’argomentazione
insostenibile. La verità è che, nonostante gli sforzi compiuti da numerosi
economisti di orientamento liberista, nessuno è finora
riuscito a dimostrare che la libertà di licenziamento implichi un abbattimento
della disoccupazione. Un tentativo, in questo senso, era
stato compiuto dall’OCSE, in uno studio del 1999 dedicato alle rigidità del
mercato del lavoro.[13] Ma
contrariamente alle attese di molti apologeti della flessibilità, quello studio
rivelò la sostanziale assenza di legami tra i vincoli ai licenziamenti e
il tasso di disoccupazione.
Si osservi a tal proposito la figura 1, estratta proprio
dalla suddetta indagine dell’OCSE e riferita agli anni ‘90. Sull’asse
orizzontale è riportato l’indice di protezione dei lavoratori
(EPL) nei vari paesi esaminati, vale a dire una misura complessiva
dell’entità dei vincoli ai licenziamenti, alle assunzioni a tempo determinato e
ad altre possibili iniziative degli imprenditori. Più alto è l’indice
maggiori sono i vincoli per le imprese e le tutele per i lavoratori.
Sull’asse verticale è invece riportato il tasso di disoccupazione. Ebbene, il grafico chiarisce che non vi è la benché minima
possibilità di affermare che vincoli più stringenti comportino una più elevata
disoccupazione. Basti notare in proposito come l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda e l’Irlanda, paesi caratterizzati da
bassissimi livelli di protezione dei lavoratori, abbiano fatto registrare negli
anni ’90 dei tassi di disoccupazione elevatissimi, superiori all’8% e con punte
del 13-14%. Al contrario, paesi come la Germania,
la Svezia, la Norvegia o il Portogallo, caratterizzati da regimi di protezione
dell’impiego molto più favorevoli ai lavoratori, hanno generato dei risultati
decisamente migliori sul piano della disoccupazione, con tassi ben al di sotto dell’8%
!
Fig. 1 – Assenza
di correlazioni tra l’indice di protezione
Dei lavoratori e
il tasso di disoccupazione
Un simile risultato non dovrebbe del resto sorprendere. E’
chiaro infatti che l’unico effetto certo e immediato
dei licenziamenti facili è la crescita dei disoccupati, mentre il possibile stimolo
degli stessi alle assunzioni è molto più dubbio e controverso, dipendendo
soprattutto dalle condizioni del mercato e in particolare dal livello della
domanda di merci.[14]
Per quanto riguarda l’Italia,
bisogna dire che il grafico evidenzia l’elevata disoccupazione che ha
caratterizzato il nostro paese nell’ultimo decennio, ma esclude al tempo stesso
in modo categorico che essa sia potuta dipendere dalle
tutele contro i licenziamenti. Un risultato, questo, che agli occhi di molti
meticolosi analisti del mercato del lavoro potrà apparire sconcertante, ma che
da un punto di vista macroeconomico dovrebbe risultare
pressoché ovvio. La macroeconomia infatti ci insegna
che i tassi di disoccupazione dipendono da un’infinità di fattori, tra i quali
le norme che regolano il mercato del lavoro non rivestono affatto un ruolo predominante.
L’analisi macroeconomica ci ricorderebbe,
piuttosto, che negli anni ’90 sulla nostra penisola il “ciclone Maastricht” si
è scatenato con una violenza molto maggiore che altrove, generando fortissimi
effetti depressivi sulla domanda, sulla produzione e quindi sull’occupazione.
Alcuni sostenitori della flessibilità del mercato del lavoro hanno tentato di rimediare all’assenza di
correlazioni tra l’indice di protezione dei lavoratori e il tasso di
disoccupazione proponendo un diverso tipo di misurazione. Essi, in particolare,
hanno suggerito di sostituire il tasso di disoccupazione (cioè
il rapporto tra i disoccupati e la forza lavoro, data dalla somma degli
occupati e dei disoccupati) con il tasso di occupazione (ossia il rapporto tra
occupati e popolazione in età di lavoro).[15] E’
difficile esimersi dal considerare tendenziosi simili salti da un indice
all’altro alla strenua ricerca di quello in grado di confermare le correlazioni
desiderate. Ad ogni modo, è in effetti vero che in
presenza di un alto indice di protezione dei lavoratori si registra solitamente
un basso tasso di occupazione. Tuttavia, è stato più volte chiarito che questa
correlazione potrebbe non implicare alcuna relazione causale tra bassa
protezione ed elevata occupazione. Si è detto ad esempio che la correlazione
potrebbe banalmente derivare dal fatto che i più forti livelli di protezione
dei lavoratori si registrano nei paesi mediterranei, nei quali il rapporto tra
occupati e popolazione risulta basso soprattutto a
causa della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro.[16] Inoltre, è interessante notare come il tasso
di occupazione non sia assolutamente in grado di incorporare il dramma
fondamentale della disoccupazione. In linea di principio, infatti, per come
sono costruiti gli indici si potrebbero registrare
elevatissimi tassi di occupazione in corrispondenza di tassi di disoccupazione
altrettanto elevati. Ma soprattutto, al fine di sgombrare il campo da qualsiasi
dubbio, è opportuno ricordare che nell’ormai ben noto studio dell’OCSE del
1999 si afferma effettivamente che la libertà di licenziamento produce aumenti
del tasso di occupazione delle donne e dei giovani, ma
si aggiunge pure che li produce a scapito degli uomini adulti ! La libertà di licenziamento, insomma, tende a produrre un banale
effetto di sostituzione dei maschi adulti con donne e giovani, con un evidente
risparmio per le imprese sul costo del lavoro.
3) L’Italia è un paese ad elevata rigidità del mercato
del lavoro
Gli avversari del referendum per l’estensione dell’art.18
potrebbero tuttavia prendere spunto dal grafico dell’OCSE per farci notare che
l’Italia presenta comunque un indice di protezione dei
lavoratori molto alto rispetto agli altri paesi. Essi potrebbero quindi
affermare che non si può pretendere di accrescere ulteriormente quell’indice
attraverso l’estensione dell’articolo 18, ma
occorrerebbe piuttosto ridurlo al fine
di uniformarlo alla media europea. Di fronte a un
simile suggerimento si potrebbe semplicemente obiettare che, nella totale
assenza di motivazioni, non si vede perché non si possa auspicare una tendenza
della media europea verso indici di protezione più elevati anziché imporre
all’Italia una convergenza al ribasso. Ma l’intera discussione risulterebbe immediatamente superata se si desse anche solo
un’occhiata all’ultima relazione annuale della Banca d’Italia.[17] Gli
economisti di via Nazionale hanno infatti notato una vistosa incongruenza
nell’indicatore di protezione dei lavoratori che l’OCSE ha assegnato
all’Italia. In quell’indicatore, infatti, è incluso il TFR come costo del
licenziamento, laddove anche i non addetti sanno che in realtà le somme dovute
ai lavoratori per il trattamento di fine rapporto rappresentano un salario
differito che va pagato sempre, sia che il lavoratore venga
licenziato sia che si dimetta o che vada in pensione. Inoltre, tutto si può
dire eccetto che il TFR rappresenti una penale per le imprese, dal momento che
queste lo considerano un vantaggiosissimo finanziamento agevolato. Seguendo
dunque la critica rivolta all’OCSE dagli economisti di Bankitalia si
giungerebbe a modificare radicalmente la posizione dell’Italia sul grafico. Infatti, rimuovendo il TFR dall’indicatore, il nostro paese
scenderebbe nella classifica della rigidità dal 5° al 18° posto assoluto!
4)
L’articolo 18 genera costi che soprattutto le
piccole imprese non sarebbero in grado di sostenere
Questa idea appare smentita dal fatto,
più volte rilevato dalle indagini statistiche, che i paesi
caratterizzati da maggiori protezioni per i lavoratori sono anche quelli in cui
si pagano i salari più bassi.[18]
Insomma, l’analisi economica suggerisce l’idea che siano gli stessi
lavoratori ad assumersi i costi delle protezioni, accettando remunerazioni più
basse rispetto a quelle prevalenti nei paesi caratterizzati da una maggiore
flessibilità sul mercato del lavoro! Questa evidenza può essere rilevata in
molti modi. Uno di questi consiste nel rapportare l’indice di protezione dei
lavoratori (EPL) alla quota dei salari sul Pil. Ebbene, anche depurando la
correlazione dalle eventuali distorsioni generate dalla diversa presenza di
lavoratori autonomi nei paesi considerati, si rileva che indici di protezione
più alti corrispondono a una quota salari più bassa:
Fig. 2 – A un’alta protezione dei lavoratori
corrisponde una bassa quota salari
A questa evidenza vale poi la
pena di aggiungere che il modo in cui solitamente si affronta il problema degli
elevati costi di una sentenza sfavorevole all’imprenditore è del tutto fuorviante.
Consideriamo ad esempio la seguente ipotesi. Assumiamo che a distanza di circa
24 mesi dalla data del licenziamento[19] una
sentenza dichiari quest’ultimo ingiustificato. Assumiamo inoltre che la
retribuzione mensile lorda del lavoratore, maggiorata dei ratei delle mensilità
aggiuntive, ammontasse alla data del licenziamento a
1500 euro. Assumiamo inoltre che in
seguito alla sentenza, come accade nella maggioranza dei casi, il lavoratore opti per l’indennità di 15 mensilità piuttosto che per la
reintegrazione sul posto di lavoro. Aggiungiamo infine spese legali per un
totale di 5000 euro. Alla fine l’imprenditore si ritroverà a pagare una somma
complessiva di 63500 euro.
Somme del
genere risultano indubbiamente elevate, e sono state
spesso richiamate per dimostrare che una piccola impresa non sarebbe in grado
di sostenerle.[20] Ma questo modo di
ragionare è altamente discutibile. Per poter affrontare correttamente la
questione è necessario infatti ragionare ex-ante,
ossia occorre mettersi nei panni dell’imprenditore che sta per decidere se
assumere un lavoratore oppure no. L’imprenditore, in altri termini, non può
considerare il costo di una eventuale sentenza a lui sfavorevole come se fosse
un dato a sé stante, ma deve rapportare quel costo alla probabilità che il
lavoratore che egli sta per assumere venga licenziato, lo citi in giudizio e
arrivi a vincere la causa. Un semplice calcolo ci permetterà di chiarire che,
anche nell’ipotesi peggiore, il costo atteso della sentenza è bassissimo, per
non dire trascurabile. Noi sappiamo in proposito che nel 1998 le sentenze per
licenziamento ingiustificato sono state 2216, e che nel 56% dei casi esse sono risultate sfavorevoli all’imprenditore.[21] Se
ora moltiplichiamo il numero delle sentenze sfavorevoli (2216 x 0,56 = 1241)
per il numero medio di anni di permanenza del lavoratore in azienda (circa 3
anni),[22] e
dividiamo il tutto per il totale dei posti di lavoro creati in un anno
(1.100.000),[23] otteniamo una stima tanto
grossolana quanto significativa della probabilità che l’imprenditore incorra
effettivamente in una sentenza che dichiari ingiustificato il licenziamento del
lavoratore che egli sta per assumere: appena lo 0,3%, che diventa lo 0,02% se
si divide per il totale degli occupati alle dipendenze anziché per il flusso di
posti creati. Pertanto, moltiplicando il costo medio di una sentenza
sfavorevole (63.500 euro) alla più alta probabilità che
questa si verifichi (0,3%), si ottiene che il costo medio atteso di un
eventuale licenziamento ingiustificato ammonta a 190,5 euro per tre anni, ossia
ad appena 63,5 euro all’anno per ogni lavoratore assunto !
Siamo insomma di fronte a una
cifra che, in presenza di un mercato finanziario e assicurativo privo di imperfezioni,
potrebbe essere agevolmente sostenuta da qualsiasi impresa, piccola o grande
che sia. Quest’ultima potrebbe infatti assicurarsi
contro il rischio di una sentenza sfavorevole, semplicemente pagando un piccolo
premio per ogni lavoratore impiegato.[24]
Si potrebbe a questo punto
obiettare che il mercato finanziario e assicurativo non è affatto perfetto, e
che attualmente non sussistono le condizioni per
garantire alle piccole imprese la stipula di contratti assicurativi di questo
tipo. Ma di fronte a una simile obiezione si può ribattere
solo in un modo: non saranno certo i lavoratori a pagare il costo
dell’inefficienza e dei regimi non concorrenziali in cui versano i mercati
finanziari e assicurativi italiani !
5)
L’articolo 18 incentiva
il sommerso e il lavoro nero
L’affermazione può essere smentita in molti modi.
Innanzitutto, le ricerche chiariscono che proprio negli anni in cui si sono
registrate le riforme più significative in direzione
della flessibilità del lavoro, si è rilevata la crescita più significativa del
sommerso in percentuale del Pil. Si osservi a questo proposito la seguente
tabella. Nella prima colonna è riportata la variazione, tra la fine degli anni
’80 e la fine degli anni ’90, dell’indice di protezione dei
lavoratori: una variazione negativa indica che le protezioni si sono ridotte e
che la flessibilità del lavoro è aumentata. Nella seconda colonna è invece
riportata la variazione della quota di sommerso in rapporto al Pil.[25]
Paese |
Variazione EPL |
Variazione sommerso |
Italia |
-0,8 |
+5,1% |
Spagna |
-0,6 |
+3,2% |
Svezia |
-1,3 |
+2,1% |
Norvegia |
-0,4 |
+2,7% |
Danimarca |
-0,9 |
+7,9% |
Germania |
-0,7 |
+4,2% |
Francia |
+0,3 |
+6,5% |
Regno Unito |
0 |
+3,7% |
Austria |
0 |
+1,7% |
Stati Uniti |
0 |
+2,4% |
Naturalmente, sarebbe errato trarre da questi dati una
qualsiasi relazione causale. E’ evidente cioè che la
correlazione tra i due fenomeni è spuria, ossia con ogni probabilità a sua
volta dipendente da un terzo fattore non considerato. Meriterebbe di essere
indagata, a tal proposito, l’esistenza di eventuali
correlazioni tra queste variabili e un indice del potere contrattuale dei
lavoratori. Non si può escludere, infatti, che la riduzione di quest’ultimo
possa spiegare buona parte sia della riduzione delle protezioni che dell’aumento del sommerso nel corso degli anni ’90.
Ad ogni modo, ciò che risulta piuttosto evidente è la totale assenza di elementi
in grado di sostenere l’idea che le protezioni generino sommerso e che
quest’ultimo verrebbe riassorbito solo se si eliminassero le prime. A ulteriore sostegno di questa evidenza è possibile riportare
anche il seguente dato nazionale. La percentuale di lavoro irregolare sul
totale degli occupati nell’industria ammonta nel Mezzogiorno d’Italia al 41,8%,
mentre il Centro-Nord si attesta su un modesto 12,1%.[26] Considerato che le norme di protezione dei lavoratori si
applicano uniformemente sull’intero territorio nazionale, si deve ritenere che
queste siano in grado di spiegare ben poco del divario esistente tra le due
aree del paese.
6)
L’articolo 18 genera inefficienza e impedisce
l’innovazione tecnologica
Anche questa obiezione appare
smentita dai fatti. La realtà è che un elevato grado di protezione dei
lavoratori non risulta affatto associato a una bassa
crescita della produttività e dell’innovazione. Se si pongono a confronto
l’indice di protezione dei lavoratori da un lato e la crescita media della
produttività del lavoro dall’altro, si rileva la sostanziale assenza di correlazioni
tra le due variabili o al limite una correlazione moderatamente positiva, non certo negativa:
Questa evidenza risulta
sostanzialmente confermata per il caso della spesa in ricerca e sviluppo. In un
recente studio dell’OCSE, infatti, si ammette che gli effetti del livello di
protezione dei lavoratori sulla ricerca e lo sviluppo risultano
“complessi e ambigui”.[27] Da
un lato, infatti, le innovazioni impongono licenziamenti e nuove assunzioni,
che risultano ovviamente agevolate nel caso di bassi indici di protezione.
Dall’altro, però, gli elevati livelli di protezione possono indurre le imprese
ad assicurare ai propri dipendenti un continuo training innovativo, il che
tende a favorire l’attività di ricerca interna all’azienda.
Sussistono del resto ottime
ragioni per ritenere che un elevato grado di protezione dei lavoratori induca
le imprese ad essere più efficienti ed innovative. In primo luogo, lavoratori
più sicuri sono più propensi a investire in capitale
umano specifico, ossia risultano più disposti ad uniformare il proprio percorso
di formazione alle esigenze dell’azienda presso cui lavorano. In secondo luogo,
in presenza di alti livelli di protezione per i
lavoratori, le imprese cercheranno di massimizzare la produttività degli
stessi, attraverso la crescita del capitale e la continua innovazione di
processo.
Basti notare, a questo proposito,
come la Svezia, la Germania, il Giappone, la Francia,
la Corea e molti altri paesi caratterizzati regimi di protezione del lavoro
piuttosto elevati, sono anche quelli in cui la spesa privata per la ricerca
risulta tra le più alte del mondo.
In un certo senso, è come se in
questi paesi, invece di accrescere la libertà delle imprese attraverso la
rimozione delle tutele dei lavoratori, si sia deciso
di vincolare l’azione delle prime attraverso l’estensione delle difese di
questi ultimi. Un vincolo decisamente fruttuoso,
dal momento che ha indotto le imprese a generare una maggiore spinta verso
l’innovazione e la ricerca.
Conclusioni
In questi giorni il governo socialdemocratico tedesco si
appresta ad introdurre una riforma del mercato del lavoro finalizzata ad
accrescerne significativamente la flessibilità, e in particolare a rendere più
agevoli i licenziamenti. La giustificazione avanzata a sostegno di questa iniziativa è che occorre ridimensionare i regimi di
protezione dei lavoratori per far sì che l’economia tedesca riprenda a crescere
e a creare occupazione.
In tutta
Europa, insomma, si continua a cercare di risollevare il malato con la ricetta
sbagliata. Al fine di assecondare un mondo imprenditoriale infiacchito e una
comunità finanziaria sempre più potente e privilegiata, ci si ostina a proporre
riforme nella sola direzione della compressione della spesa pubblica e della
flessibilità del mercato del lavoro. Si evita invece
accuratamente di affrontare il nodo cruciale della crisi di questi anni, quello
relativo al palinsesto macroeconomico e al regime di
restrizione monetaria e fiscale imposto dal Trattato dell’Unione e dal Patto di
stabilità.[28] Per uscire da questo
vincolo cieco e per spostare finalmente il fuoco del dibattito sui temi
cruciali della riforma del palinsesto macroeconomico europeo, delle politiche
di lotta ai monopoli e alle rendite,
della programmazione industriale e delle dotazioni infrastrutturali, è
necessario lanciare un segnale politico, quello secondo cui il tempo dello
smantellamento delle tutele dei lavoratori è finito. Il referendum
rappresenta un’occasione importante, in questo senso. La migliore occasione,
dopo anni di incontrastato dominio dell’ideologia e
della pratica liberista.
[1] Università Federico II di Napoli e Università del Sannio. Comitato promotore nazionale del Referendum per l’estensione dell’art.18. Ringrazio il dott. Francesco Pingue per l’aiuto nella ricerca e nella elaborazione dei dati riportati in questo studio. Indirizzo per la corrispondenza: emilbra@tin.it.
[2] Pigou (1931).
[3] Heckman J. (2002).
[4] Solow (1998), Stiglitz (2002).
[5] Manifesto for an Alternative Economic Policy in Europe (2001)
[6] Maroni (2002), Galli (2002).
[7] Istat (2002).
[8] Governatore della Banca d’Italia (2002).
[9] Elaborazioni IRES su dati Istat.
[10] Borgarello et al. (2002).
[11] Istat (2002).
[12] Traù (1999).
[13] OECD (1999).
[14] Cfr. Bertola et al. (2002).
[15] Cfr. Ichino (2002) e la risposta di Brancaccio (2002).
[16] Layard e Nickell (1998).
[17] Banca d’Italia (2002).
[18] Cfr. tra gli altri Boeri (2002).
[19] La durata media di una sentenza è di 744 giorni. Cfr. Istat (1998).
[20] Ichino (1995).
[21] Istat (1998).
[22] Contini (2002).
[23] Ibidem.
[24] Bertola e Garibaldi (2002).
[25] Bianco (2002). Dati Università di Linz e ILO.
[26] Dati Svimez.
[27] OECD (2002).
[28] Brancaccio (2002a, 2002b).