di Emiliano Brancaccio - pubblicato in “la
rivista de il manifesto”, febbraio 2003
Per quale ragione il referendum per
l'estensione dell'articolo 18 a tutti i lavoratori dipendenti dovrebbe esser
considerato una "iattura" ? e perché sarebbe opportuno abrogare
anziché estendere le tutele previste da quella norma ? I possibili nessi tra le
battaglie per l'estensione dei diritti e la necessità di abbattere i vincoli
macroeconomici.
__________________________________________________________
Per quale ragione il referendum per l'estensione dell'articolo 18 a tutti
i lavoratori dipendenti dovrebbe esser considerato una "iattura" ? e
perché sarebbe opportuno abrogare anziché estendere le tutele previste da
quella norma ?
Una risposta a questo interrogativo, proveniente dalle file del
centrosinistra, è contenuta in un volume dal titolo "Non basta dire
no", recentemente pubblicato da Mondadori. In esso, vari esponenti
dell'area liberal dell'Ulivo (da Franco Debenedetti a Tito Boeri, da Pietro
Ichino a Michele Salvati, da Paolo Onofri a Nicola Rossi) avanzano numerose
proposte di riforma del welfare, della previdenza e del mercato del lavoro. Tra
di esse, una posizione di assoluta preminenza è assegnata alla modifica
dell'articolo 18, finalizzata a sostituire l'attuale obbligo di reintegro del
lavoratore licenziato senza giusta causa con il solo pagamento di un
indennizzo.
E' difficile dire se, con questo libro, la corrente liberal del
centrosinistra abbia già tracciato le linee di un possibile programma di
governo. Sotto questo aspetto, le opinioni degli autori sulle priorità della
politica economica appaiono in troppe occasioni discordanti. E' il caso ad
esempio di Paolo Onofri, il quale afferma che per delineare una credibile
agenda di riforme bisognerebbe partire dalle politiche per la concorrenza sui
mercati delle merci e dei servizi e dall'aumento delle protezioni per i
disoccupati, piuttosto che dall'abolizione dell'obbligo di reintegro prevista
dall'art.18. D'altro canto, le dissonanze sui tempi appaiono compensate
dall'omogeneità di vedute sulle azioni da compiere. La maggior parte degli
autori si dichiara infatti d'accordo sulla necessità di metter mano alla
disciplina dei licenziamenti, magari attraverso la proposta di legge Debenedetti,
che mira a restringere l'ambito di applicazione del reintegro per sostituirlo
con un pagamento minimo di 6 mensilità al lavoratore licenziato senza giusta
causa.
I liberal, dunque, si contrappongono al referendum e a qualsiasi altro tentativo di invertire la
rotta delle riforme, e ribadiscono l'urgenza di rafforzare l'opera di
deregolamentazione avviata dal centrosinistra oltre un decennio fa. A sostegno
delle loro tesi essi avanzano vari argomenti, tutti connessi ai vantaggi che si
potrebbero trarre dalla maggiore flessibilità del mercato del lavoro. L'idea di
fondo è che rendere più facili i licenziamenti significherebbe favorire la
crescita economica, l'occupazione e la competitività del sistema. Debenedetti,
in particolare, afferma che "la bassa crescita europea è intimamente
dipendente dagli atteggiamenti degli individui verso il futuro, verso il
rischio, verso la loro propensione a
investire risorse proprie, personali o finanziarie". E aggiunge che
"il mercato del lavoro, là dove si incontrano imprese e lavoratori, è
quello in cui queste propensioni diventano individuali decisioni". Secondo
quest'ottica, dunque, il mercato del lavoro viene elevato a crocevia del
sistema economico, a luogo in cui si decide il destino della collettività.
L'idea di attribuire al mercato del lavoro un ruolo così prioritario, del
resto, non è affatto una novità. Debenedetti, per sua fortuna, può avvalorarla
richiamando i contributi di alcuni tra i massimi esponenti dell'ortodossia
neoclassica. Il pensiero economico dominante ha infatti sempre dedicato un
grandissimo spazio alla rigidità del mercato del lavoro e ai modi per
fronteggiarla. Arthur Cecil Pigou, ad esempio, riteneva che la disoccupazione
di massa degli anni '30 dipendesse soprattutto da salari troppo elevati
rispetto alla produttività del lavoro, e che solo accettando una riduzione
degli stessi si sarebbe raggiunta la piena occupazione. Pigou giunse
addirittura a nobilitare la figura del crumiro, sostenendo che il suo
comportamento, fiaccando i sindacati e spingendo i salari al ribasso, avrebbe
prima o poi favorito il raggiungimento dell'equilibrio di pieno impiego. Più di
recente, i premi Nobel Becker,
Sembrerebbe dunque che, autorevolmente confortato dai Nobel, Debenedetti
abbia ragione, e che il nostro benessere futuro dipenda soprattutto dalla
nostra volontà di rendere flessibile il mercato del lavoro. Eppure le cose non
stanno così. Dimostrare che l'abbattimento dei salari e dei costi di
licenziamento provoca incrementi nei livelli di produttività, di produzione e
di occupazione, rappresenta da oltre un secolo una delle sfide più ostiche per
i teorici neoclassici. Non è un caso, del resto, che proprio attorno al
presunto legame tra costi e prezzi da un lato, e produzione e occupazione
dall'altro, gli esponenti dell'ortodossia abbiano subito gli attacchi teorici
più vigorosi, e abbiano registrato le maggiori difficoltà dal punto di vista
del riscontro empirico. Tali difficoltà sono talmente note che un'eco delle
stesse è addirittura rintracciabile tra le righe del volume.
Pietro Ichino ammette, in tal senso, che "i risultati della ricerca
economica non consentono di affermare che a un aumento della libertà di
licenziamento corrisponderebbe né una riduzione del nostro tasso di
disoccupazione né un aumento della competitività delle nostre imprese".
Evviva la sincerità.
Punto e a capo, dunque ? Niente affatto, perché secondo i liberal
sussiste ancora un motivo per restringere le tutele previste dall'art.18. Si
tratta dell'esigenza di garantire l'equità, ossia di eliminare le attuali
disparità di trattamento tra i lavoratori. Tito Boeri afferma, in proposito,
che "l'art.18 oggi protegge una minoranza di lavoratori. E molti dei non
protetti dall'art.18 non hanno accesso a forme di sostegno al proprio reddito
in caso di disoccupazione". E' la parabola degli insiders contro gli
outsiders, alla quale la più recente analisi economica ha assicurato una fortissima
legittimazione teorica, soprattutto grazie ai contributi di Lindbeck e
Snower (con i quali Boeri, nel 2000, redasse il contestato documento
Blair-D'Alema sulle riforme del mercato del lavoro).
In nome dell'equità, i sostenitori del referendum potrebbero tuttavia
obiettare che le disparità di trattamento verrebbero più efficacemente
eliminate proprio attraverso l'estensione dell'art.18. La replica dei liberal
appare a tal proposito incerta ed evasiva. Fa eccezione quella di Debenedetti,
il quale afferma che "volere estendere meccanicamente le tutele anche alle
categorie dei lavoratori che oggi ne sono prive è un'illusione: per l'industria
le tutele sono un costo, e il costo totale che il sistema delle imprese può
pagare dipende dal tipo di specializzazione produttiva".
Una simile affermazione sembra basarsi sull'idea, strana e pericolosa,
secondo cui la specializzazione produttiva del nostro paese dovrebbe esser
trattata come un dato esogeno, situato al di là delle variabili sulle quali la
politica è in grado di intervenire. Inoltre, la medesima affermazione può esser
letta in due modi complementari. C'è il modo economico, secondo il quale
l'aumento dei costi attesi generato dall'estensione delle tutele risulterebbe
insostenibile per gran parte delle piccole imprese italiane, e le
costringerebbe ad abbandonare il mercato. C'è poi il modo politico, meno
stringente ma forse più significativo, secondo cui estendendo le tutele si
corre il rischio, come dice Ichino, di "mettersi contro una parte consistente
del tradizionale elettorato di sinistra e di centro nel mondo dell'artigianato
e delle piccole imprese".
E' facile comprendere che la risposta più immediata e naturale a tutte
queste preoccupazioni risiede nell'attivazione della politica macroeconomica e
di bilancio. A differenza delle valutazioni sugli incerti nessi tra costo del
lavoro e crescita del prodotto e dell'occupazione, la letteratura economica è
infatti concorde nel rilevare come la specializzazione produttiva di un paese,
e la sua tendenza a generare innovazione tecnologica e quindi surplus,
dipendono in larghissima misura dalla capacità delle istituzioni politiche di
offrire beni pubblici, ossia dotazioni infrastrutturali e conoscenza diffusa.
Inoltre, riguardo all'impatto della estensione dell'art.18 su artigiani e
piccole imprese, c'è da ricordare che esiste tuttora un cuneo fiscale di enormi
proporzioni, la cui eventuale riduzione potrebbe largamente compensare
l'incremento dei costi attesi causato dalla generalizzazione dei vincoli ai
licenziamenti.
Una volta però che si sia chiamata in causa la politica economica, i nodi
vengono al pettine. Infatti, ancora tramite Debenedetti, i liberal si
affrettano a ricordare che la riforma del mercato del lavoro "è la sola
leva in mano ai governi. Non ci sono molte risorse per i tagli alle imposte, la
svalutazione è impossibile, la politica monetaria è nelle mani della Bce, e i
margini per quella di bilancio, patto o non patto, con un debito pubblico come
quello italiano sono modesti". E una tale enfasi sull'impotenza
macroeconomica nazionale è addirittura presentata quale matrice identitaria dei
'veri riformisti', i quali si distinguerebbero dai massimalisti proprio
per la loro capacità di "assumere il vincolo delle compatibilità con
le risorse esistenti". Questo spiega, tra l'altro, l'ostinazione con la
quale Salvati stabilisce, in modo a dir poco forzoso, il carattere alternativo
e non complementare del modello mediterraneo di tutela del posto di lavoro
rispetto al modello nord europeo di tutela sul mercato del lavoro. E spiega,
inoltre, la costante esigenza dei liberal di accompagnare il restringimento
delle tutele previste dall'art.18 con una serie di proposte per l'ulteriore
contenimento della spesa previdenziale. Il tutto al fine di reperire un po' di
risorse per i sussidi di disoccupazione, ed evitare di ricadere nella vecchia,
penosa pantomima dalemiana della "riforma a costo zero".
Sorge spontaneo chiedersi, a questo punto, se tali sedicenti riformisti
subiscano oppure condividano gli attuali vincoli alla politica macroeconomica.
A sgombrare il campo da ogni dubbio provvede immediatamente Nicola Rossi:
"Già nella passata legislatura non mancò chi, nel centrosinistra, si
illuse di poter guardare allo stato patrimoniale - e in particolare, ai flussi
connessi con il suo passivo - per risanare le finanze pubbliche. Fu una
scommessa che facendo leva sulle aspettative non mancò, nel breve periodo, di
produrre risultati. Anche importanti. Ma che non poteva risolvere le questioni
strutturali nascoste nelle tendenze e nella composizione di entrate e uscite
correnti. In questo senso era, appunto, un'illusione". Rossi, insomma, non
solo dichiara piena lealtà ai vincoli di Maastricht, ma arriva persino a
tacciare di lassismo la strategia di rientro del deficit con la quale Carlo
Azeglio Ciampi riuscì a garantire l'immediato ingresso dell'Italia nell'Unione
monetaria europea ! Una dimostrazione di scarsa gratitudine, considerato che è
solo grazie a quella strategia, tutta basata sul calo del differenziale sui
tassi d'interesse, che il centrosinistra ha potuto governare senza suicidarsi,
e che Rossi ha avuto il privilegio, per un po' di tempo, di respirare l'aria di
Palazzo Chigi.
Dovrebbe esser chiaro, in definitiva, che l'ossessione dei liberal per la
riforma del mercato del lavoro scaturisce in larga misura dalla loro piena,
convinta adesione ai vincoli macroeconomici su cui l'Unione monetaria europea
si è fondata. In quest'ottica il loro impianto di proposte appare non
semplicemente organico e coerente, ma pressoché ineludibile. Ciò significa che
sul versante opposto, il Prc, la Fiom, il movimento e tutti i sostenitori del
referendum per l'estensione dell'art. 18, dimostreranno altrettanta organicità
di pensiero e coerenza d'azione solo rimarcando, giorno dopo giorno, l'assoluta
infondatezza dei vincoli macroeconomici ai quali, da oltre un decennio, siamo
sottoposti. Del resto, grazie ai contributi dei Nobel Modigliani e Stiglitz, e
alle analisi di Pasinetti, dei sostenitori della Marx-Keynes connection e di
molti altri, la letteratura specialistica è ormai gravida di attacchi
all'ortodossia e al palinsesto neoliberista dell'Unione che da essa scaturisce.
Se si decideranno ad attingere a piene mani da tali contributi, i sostenitori
delle battaglie per l'estensione dei diritti riusciranno ad assolvere al
compito che oggi spetta loro: diffondere la convinzione che solo puntando alla
radicale riforma in senso democratico della politica macroeconomica
dell'Unione, la sinistra saprà ritrovare l'identità, la coesione e i consensi
perduti.
Il nesso stringente tra la volontà di estendere i diritti e la necessità
di sferrare un attacco agli attuali vincoli di politica economica ci aiuta
infine a comprendere la linea di coloro che, di fronte alla sempre più evidente
spaccatura della sinistra tra liberal e referendari, ancora si affannano alla
ricerca di una improbabile linea intermedia. Questo sembra essere, tra gli
altri, l'attuale orientamento di Cofferati e della dirigenza della Cgil,
ingabbiati tra l'elevazione dell'art.18 a "diritto intangibile" da un
lato, e la sudditanza ai vincoli di bilancio che impediscono di promuovere una
tutela generalizzata dall'altro. E' bene chiarire che, a meno di voler proporre
agli italiani cinque anni di mero galleggiamento, tale posizione si rivelerà
insostenibile. Per uscire da essa, e iniziare a delineare un serio programma di
governo, sarà bene evitare di limitarsi alla soluzione parziale della legge sui
parasubordinati. E' necessario, piuttosto, che chi si candida alla guida del
paese abbia il coraggio di cambiare idea, e si decida a chiamare tutta la
sinistra a discutere, una buona volta, sul nodo della riforma dei Trattati
europei.