VERSO IL REFERENDUM

 
Per la Cgil è l'ora di scegliere


ANTONIO CASTRONOVI* - il manifesto 19.3.2003


Presto saremo chiamati a pronunciarci su un quesito referendario che propone l'estensione dell'art.18 della legge 300 a tutti i lavoratori contro i licenziamenti illegittimi. Una opposizione degna di questo nome, in particolare la sinistra, dovrebbe valutare seriamente l'opportunità di sostenere e fare propria una campagna politica sul tema della tutela e difesa dei diritti sociali e democratici oggetto degli attacchi demolitori dell'azione governativa. Invece finora la sinistra cosiddetta moderata ha balbettato, parlando un linguaggio contraddittorio - l'indispensabilità di una legge e nello stesso tempo la sua impraticabilità - mentre parte di essa si prepara a sostenere la campagna per il NO. Nel frattempo, il governo dichiara di voler sostenere direttamente la causa del NO. Il quesito riguarda i diritti di circa otto milioni di lavoratori ed elettori, gran parte dei quali hanno votato a destra alle ultime elezioni, e che però hanno condiviso le lotte della Cgil a difesa dell'art 18. Il 95% delle imprese nel nostro paese è occupa meno di 10 addetti, non vi si applicano i diritti sindacali e le tutele dell'art.18. Quelle direttamente interessate dal quesito sono circa tre milioni, i cui rappresentanti hanno siglato il Patto per l'Italia e la controriforma dell'art 18 contro la Cgil, e sono stati, con Confindustria grandi elettori della Casa delle Libertà. Insomma, sembra di capire che questa sinistra si preoccupi molto di non «regalare» tre milioni di piccoli imprenditori alla destra piuttosto che di conquistare il consenso di circa otto milioni di lavoratori e di qualche milione di disoccupati che ambirebbero a un lavoro non precario. I piccoli imprenditori da «tutelare» hanno già condiviso col governo una politica che flessibilizza e precarizza il mercato del lavoro e hanno convenuto sull'attacco all'art. 18. Invece di difendere i diritti di chi lavora, si afferma che per la sinistra sarebbe vitale mantenere un'alleanza tra classe operaia e ceti medi produttivi, minacciata dal referendum.
Purtroppo la cultura di sinistra ha smesso di ragionare secondo categorie sociali e non è più in grado di comprendere la natura dei conflitti. Prevale una cultura conservatrice ed opportunista, che fa perno sulla concezione togliattiana, decontestualizzata, del «blocco storico», sull'alleanza tra classe operaia e ceti medi produttivi. E' ancora attuale una simile visione del problema del consenso nell'attuale contesto? Il vecchio compromesso tra lavoro e ceti medi produttivi, fondato su tutele contrattuali a garanzia della certezza dell'occupazione e del salario, è ormai in crisi. Il blocco sociale alla base del successo della sinistra negli anni `70 oggi non esiste più, travolto dai processi di trasformazione dell'impresa nell'economia globalizzata, che ha destrutturato la classe operaia fordista e modificata la natura sociale della piccola impresa e il suo rapporto con le imprese pubbliche e private. Esse rappresentano sempre più funzioni esternalizzate e decentrate nel campo della produzione e dei servizi qualificati e no, dipendono strettamente dalle imprese madri o sono comunque subalterne a queste nell'organizzazione del lavoro e nella cultura di impresa. Il rapporto con i lavoratori non è più quello dell'imprenditore-lavoratore che condivide con i suoi dipendenti una comune etica del lavoro. La natura della prestazione lavorativa e del rapporto tra lavoro e datore di lavoro tende sempre più a somigliare a quello tra «servo» e «padrone», col lavoro ridotto ormai a merce che si può trovare a prezzi di saldo. Uno degli argomenti che oggi viene utilizzato «da sinistra» contro i promotori del referendum è che questo obiettivo dividerebbe il fronte unitario che ha sostenuto la battaglia della Cgil per la difesa dei diritti. Le manifestazioni e gli scioperi della Cgil hanno mobilitato e unificato il mondo del lavoro frantumato e diviso: giovani e anziani, disoccupati, studenti, lavoratori stabili e precari, interinali, stagionali, pensionati che hanno incontrato i ceti medi intellettuali, la cultura liberale e democratica e i movimenti critici della globalizzazione liberista. La sinistra benpensante si è attardata invece a preoccuparsi delle divisioni sindacali e a fare le pulci al tasso di riformismo o di massimalismo della linea della Cgil, invece di sostenere senza ambiguità e incertezze la sua battaglia contro Governo e Confindustria.

Sarebbe più interessante, per capire, rispondere alla domanda del perché questo sia successo. Cosa è stato, infatti, se non la logica e l'interesse di classe e una idea della competitività basata su compressione dei diritti e riduzione dei costi a far firmare alle piccole e medie imprese e alle centrali Cooperative, anche quelle storicamente legate alla sinistra, un patto contro la Cgil che destruttura il mercato del lavoro e attacca l'art.18? Oggi la sinistra sul piano sociale fa fatica a rappresentare gli interessi del lavoro dipendente vecchio e nuovo, che non riesce a conciliare con quelli di quei ceti medi produttivi - sempre meno in verità - che votano a sinistra e che fanno però accordi con la destra contro i diritti dei lavoratori!

Quel che resta del vecchio blocco sociale della sinistra è solo ormai un mini- blocco elettorale confinato in qualche regione del paese, senza nessuna capacità di attrazione e di egemonia sul resto del paese. I flussi elettorali indicano che i partiti che intercettano oggi prevalentemente il voto dei lavoratori, degli operai e dei pensionati, non solo in Italia, sono quelli di destra. I nuovi ricchi che caratterizzano il capitalismo globale sono individualisti, egoisti, non disposti a nessuna mediazione, ma solo a farsi rappresentare da chi promette loro libertà dagli obblighi e dalle solidarietà collettive.

Oggi una effettiva battaglia di opposizione contro il Governo Berlusconi, contro l'attacco ai principi costituzionali e allo stato di diritto, passa attraverso una rottura del blocco sociale che vede insieme ceti imprenditoriali, ceti popolari e parti consistenti di lavoro dipendente. È questa base di consenso sociale interclassista, cementata dalla ideologia populista, la fonte di legittimazione della sua azione contro la democrazia.

Non ci troviamo quindi di fronte ad una proposta di compromesso democratico tra capitale e lavoro! Ma a un modello corporativo di società che segnerebbe il definitivo distacco tra sinistra e lavoratori, l'emarginazione e la fine dell'autonomia contrattuale del sindacato, condannando il nostro paese ad un ruolo marginale nella economia mondiale. Questa è stata la motivazione politica fondamentale che ha guidato la Cgil nello scontro contro Governo e Confindustria. Per queste ragioni la Cgil non potrà sottrarsi ad un pronunciamento chiaro sul quesito referendario. Una buona legge che nel futuro affronti anche le tutele non contenute nel quesito referendario passa attraverso la vittoria del SI, che incrinerebbe il fronte sociale della destra e creerebbe serie difficoltà alla strategia governativa di attacco ai diritti. Non c'è contrapposizione tra legge e referendum. Una eventuale diffidenza o indifferenza della «aristocrazia operaia», o di ciò che ne resta, nello scontro referendario per l'estensione dell'art.18, rischierebbe di segnare un riflusso della grande battaglia sui diritti e una rottura nella grande alleanza sociale costruita intorno alla difesa dell'art.18. La Cgil lo dica forte e chiaro quel SI.


* Segr. Camera del Lavoro Roma Centro