Nota di commento alla proposta di "Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori"
di P.G. Alleva e G. Naccari

 Il progetto di riforma legislativa elaborato sotto la direzione di due notissimi giuristi, prof.ri Amato e Treu, e presentato ufficialmente dall’Ulivo, costituisce, senza dubbio, una interessante risposta all’esigenza di estendere all’intero mondo del lavoro e cioè a tutti coloro che prestano personalmente opera lavorativa, quei fondamentali diritti e tutele che sono oggi, per una serie di ragioni storiche, riservate essenzialmente ai lavoratori subordinati.

L’intento è condivisibile e costituisce una risposta al programma del Polo che, invece, fonda su un’ulteriore precarizzazione e sull’abbassamento generalizzato della garanzie la promessa di un allargamento del tasso di occupazione e insieme della competitività del sistema economico.

Ciò non toglie che le soluzioni adottate nella proposta di questa Carta dei diritti possono essere oggetto di critiche anche importanti da un punto di vista sia metodologico che contenutistico, proprio con riguardo alla miglior realizzazione dei condivisibili fini che essa si propone.

Va detto, allora, che la proposta di Carta dei diritti disegna un sistema di garanzie articolato per cerchi concentrici, collocando nell’area del cerchio esterno i lavoratori autonomi in senso stretto; nella fascia intermedia i collaboratori coordinati e continuativi di cui giustamente si riconosce una situazione di "dipendenza economica" comune ai lavoratori subordinati; e sull’area più interna, gli stessi lavoratori subordinati.

Per tutte queste tre categorie, la proposta prevede l’introduzione di garanzie che nel caso dei lavoratori subordinati si sommano a quelle già esistenti e nel caso degli altri costituiscono, invece, una novità assoluta.

Si può dire che le tutele assumono, man mano che dalla periferia ci si avvicina verso il centro, una densità progressiva ed una strumentazione più efficiente. Così, per portare qualche facile esempio, è comune a tutte e tre le fasce il principio garantistico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, enunziato, però, in termini generici per il lavoratore autonomo in senso stretto e, in termini più cogenti e specifici, per le altre due categorie. E lo stesso può dirsi per l’altro principio dell’equo compenso della prestazione o per quello della conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro ed ancora per quella del diritto all’apprendimento continuo e ai servizi per l’impiego.

¨ ¨ ¨

Bisogna riconoscere che la formulazione dei principi garantistici e dei diritti fondamentali contenuti nel titolo I, dedicato ai lavoratori autonomi in senso stretto, ha un valore talvolta solo enunciativo o perché ripetitivo di principi costituzionali o perché non traducibile in concreto in pretese giuridiche rivolte verso soggetti determinati. Così, ad es., l’art. 3 sancisce il diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero, che è, da un lato scontato, ma, dall’altro, scarsamente significativo, se riferito a lavoratori autonomi in senso stretto che istaurano con il singolo committente un rapporto solo occasionale, diversamente da quanto accade per i collaboratori continuativi e per i lavoratori subordinati.

Del tutto scontata e anche superflua è la previsione di un diritto dei lavoratori autonomi all’associazione professionale (art. 11) che è acquisito "ab immemorabili", o ancora l’enunciazione di un diritto alla sicurezza nello svolgimento della prestazione all’interno dell’organizzazione produttiva del committente (art. 4) di cui parimenti non si è mai dubitato. Così come non si è mai dubitato che in caso di durata indeterminata di un rapporto contrattuale non si possa recedere senza preavviso. Altre enunciazioni di diritti come quelli alla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro (art. 6), all’apprendimento continuo (art. 7,) ad un equo trattamento pensionistico e alla continuità del reddito (art. 9) rivestono, invece, un naturale rilievo, ma hanno un valore programmatico, implicando, in sostanza, un miglioramento e un perfezionamento dello stato sociale o delle istituzioni previdenziali categoriali del lavoro autonomo.

Discorso diverso sembra, invece, si debba fare per il diritto all’equo compenso previsto dall’art. 5, poiché una tale disposizione applicata al lavoro autonomo in senso stretto costituirebbe una forte innovazione rispetto alla previsione codicistica dell’art. 2225 c.c., il quale consente al giudice di intervenire nel rapporto tra lavoratore autonomo e committente per fissare l’equo compenso solo ove le parti non abbiano provveduto a fissare loro stessi un compenso qualsiasi. Un facile esempio consente di apprezzare l’importanza della novità. Può accadere che il committente affidi un opera al lavoratore autonomo (sarto, meccanico, imbianchino, ecc.) senza che venga stabilito il compenso stesso, sul quale le parti si ripromettono di tornare ad opera ultimata. In tal caso l’art. 2225 consente l’intervento del giudice per determinare l’equo compenso ove le parti non trovino poi l’accordo, ma (almeno stando alla giurisprudenza prevalente) non ove esse l’abbiano preventivamente determinato consensualmente, sia pure in ipotesi, in misura iniqua e troppo ridotta per la debolezza contrattuale del lavoratore autonomo. Approfittamenti di questo genere sono tutt’altro che rari, quando, ad es. il lavoratore sia un soggetto marginale: si può pensare all’extracomunitario che sopravvive con lavori artigianali o di manovalanza per varia committenza; e in questo senso la novità legislativa sarebbe meritoria. Ma il possibile ambito di applicazione di questa novità ove essa vada effettivamente interpretata come superamento dell’art. 2225 c.c. sarebbe assai più ampia e tale da incidere sulle abitudini quotidiane della generalità dei cittadini. Infatti, se il diritto all’equo compenso, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto ha una pregnanza giuridica, essa comporta il potere del magistrato di determinare giudizialmente ex post il compenso dovuto al lavoratore autonomo, indipendentemente dall’accordo iniziale con il committente.

In definitiva, l’insieme di quanto viene enunciato nel titolo I della Carta dei diritti ha rilievo non tanto per ciò che stabilisce in concreto (salvo quanto ora notato per l’art. 5) per i lavoratori autonomi in senso stretto, immediati destinatari dello stesso titolo I, ma per la specifica applicazione e ulteriore strumentazione di quei diritti nel titolo successivo dedicato ai collaboratori coordinati e continuativi, che costituisce il vero cuore della proposta.

¨ ¨ ¨

Il titolo II riguarda le lavoratrici e i lavoratori economicamente dipendenti che tuttavia prestano l’opera senza vincolo di subordinazione e cioè, come chiarisce lo stesso art. 13, i collaboratori coordinati e continuativi, per i quali gli articoli successivi introducono una serie di diritti e garanzie.

Già qui, però, occorre segnalare, a nostro avviso, l’insufficienza della proposta dal punto di vista metodologico. Debolezza che si riflette, poi, sull’effettiva consistenza delle stesse garanzie introdotte. Si riconosce, infatti, che i collaboratori coordinati e continuativi sono economicamente dipendenti, al pari dei lavoratori subordinati in senso stretto, quelli cioè soggetti al potere direttivo, conformativo e disciplinare, ma non si dà loro quella tutela omogenea che dovrebbe derivare proprio dalla circostanza di essere in una omogenea condizione di dipendenza economica. Si individua, cioè, esattamente la caratteristica unificante che reclama garanzie, ma non se ne trae, poi, la logica conseguenza dell’unificazione delle garanzie stesse, diversificandole, invece, e in modo sostanziale, in relazione ad un elemento secondario e storicamente datato quale, appunto la sottoposizione al potere direttivo, che, nel senso pregnante della etero direzione della modalità della prestazione come svolta momento per momento, non è più qualificante e neanche funzionale al modo di produrre dell’economia post industriale.

A tutti i lavoratori i quali prestano in via continuativa ed in modo personale la loro opera secondo un piano d’impresa altrui e in una organizzazione di impresa altrui, vanno assicurati compensi equi e sufficienti, stabilità di reddito e di lavoro, protezione contro le sopravvenienze, prospettive di miglioramento professionale, proprio per le caratteristiche fondamentali della loro situazione lavorativa e cioè per la dipendenza economica e non certo perché siano soggetti, nell’espletamento delle mansioni, ad una disciplina più o meno rigida, a controlli più o meno capillari o a interventi continui di un capo officina nell’espletamento della prestazione. Questo errore di prospettiva non può che perpetuare la discriminazione alla quale, in linea di principio, si vorrebbe porre rimedio, giacché esse restano seppure, per così dire, non più con un differenziale da "0 a 100" ma solo da "30 a 100". E con la discriminazione si perpetua anche inevitabilmente il ripetersi degli abusi e della simulazione relativa (e cioè della etichettatura di comodo di rapporti di lavoro subordinato come rapporti di collaborazione) della cui scandalosa frequenza esiste ormai una diffusa consapevolezza. Lo dimostra il fatto che lo stesso art. 13 contiene una previsione, per la verità, anche essa scontata, di trasformazione del rapporto di collaborazione in rapporto di lavoro subordinato, quando in concreto sussistano le caratteristiche della collaborazione in senso tecnico: il principio è sempre esistito ma non ha risolto il problema e la sua ripetizione significa, appunto, che quel problema, anche con la Carta dei diritti, resta da risolvere.

La via è un’altra ed è quella che emerge dal documento approvato dal direttivo della Cgil e dai relativi documenti esplicativi che, pur essendo aperti all’approfondimento e al dibattito, indicano come soluzione preferenziale quella di un unitario contratto di lavoro in cui l’autogestione del proprio impegno lavorativo da parte del lavoratore (che è o dovrebbe essere il segno distintivo della collaborazione coordinata e continuativa) viene configurata come una semplice modalità esecutiva dell’unità del contratto (alternativa a quella tradizionale etero diretta), sulla base di una specifica pattuizione, fermo restando che le garanzie accordate al lavoratore discendono dal contratto stesso e non dalle sue modalità esecutive, così da essere per tutti uguale.

Nel merito delle garanzie testualmente introdotte dal titolo II della proposta "Carta dei diritti", devono essere positivamente apprezzate quelle contenute negli artt. 16 e 17 in tema di repressione anche penale delle molestie sessuali e dei comportamenti persecutori (mobbing) che colmano la lacuna di protezione sia dei collaboratori continuativi, sia dei lavoratori subordinati.

Per il resto si tratta di una estensione ai collaboratori dei diritti già riconosciuti ai lavoratori subordinati, talvolta integrale come nel caso del diritto alla riservatezza e alla sfera personale (art. 15), ma assai più spesso solo parziale o tendenziale come nel caso del diritto alla parità (art. 18, a proposito del quale le specifiche normative di legge dettate per il lavoro subordinato vengono dichiarate applicabili "in quanto compatibili con la natura del rapporto") o nel caso dei diritti di informazione (art. 21) e degli stessi diritti sindacali (art. 26). Si consideri, ad es., che ai collaboratori coordinati e continuativi il diritto di partecipare alle assemblee nelle unità produttive in cui collaborano non è garantito incondizionatamente, ma solo ove lo prevedano i contratti collettivi. Anche per i diritti di sicurezza sociale l’estensione è solo tendenziale, da realizzare gradualmente e con future normative, a conferma della contraddizione più sopra segnalata.

Di centrale rilievo sono le norme dell’art. 19 sul diritto al compenso e a condizioni di lavoro equo, e dell’art. 25 in tema di recesso. Sono i due fondamentali vuoti di tutela nella condizione del collaboratore. Quanto al primo, l’art. 19 ripete opportunamente in larga parte il principio costituzionale dell’art. 36. Il che significa che finalmente anche i collaboratori potrebbero reclamare dal giudice l’integrazione giudiziale (con gli arretrati) di compensi troppo bassi loro imposti con approfittamento delle condizioni di bisogno, anche se, va notato che, a ben guardare, si tratta di una tutela più tenue di quella stabilita dall’art. 36. Infatti, il riferimento è agli accordi collettivi applicabili, ove esistano, e certamente non in tutti i settori esistono o esisteranno, contratti collettivi per i lavoratori coordinati e continuativi, nonostante gli sforzi profusi dalle confederazioni sindacali per organizzarli. E ciò a tacere del fatto che, come si sa, l’art. 36 si impone anche ai contratti collettivi che possono nel caso concreto essere corretti dal giudice anche "a rialzo", ove per la debolezza della categoria prevedano tariffe troppo basse. Nel caso , comunque, di inesistenza di contratti collettivi, l’art. 19 rimanda ai compensi in uso per prestazioni analoghe e comparabili, che è formulazione equivoca, potendosi riferire tanto alle tariffe del lavoro subordinato quanto ai prezzi di mercato praticati per le stesse collaborazioni, nel qual caso, è evidente il pericolo del circolo vizioso, dal momento che la sotto remunerazione delle collaborazioni è, in realtà, diffusissima e prevalente.

Con riguardo poi al tema decisivo della stabilità del rapporto, va segnalato che l’art. 25 stabilisce bensì il principio della necessaria giustificatezza del licenziamento, ma prevede una tutela solo risarcitoria, ed anche indeterminata nella sua quantificazione ("un congruo indennizzo").

Al che, però, si aggiunge la circostanza forse anche più grave che la proposta "Carta dei diritti" consente che il contratto di collaborazione coordinata e continuativa possa sempre essere stipulato a tempo determinato, indipendentemente dalla dimostrazione di esigenze o di causali da parte del datore di lavoro e, ovviamente, reiterato sempre a tempo determinato. Si tocca, così, il nervo vitale della questione: anche con la Carta dei diritti il collaboratore coordinato e continuativo resta un lavoratore strutturalmente precario perché o a tempo determinato o a tempo indeterminato ma liberamente licenziabile, salvo un indennizzo monetario neanche quantificato pur ove non sussista un giustificato motivo.

È inevitabile concludere che l’edificio delle tutele (o delle parziali tutele) costituito dalla Carta dei diritti, finisce col poggiare sulle fondamenta di sabbia della precarietà ovvero del ricatto occupazionale che rischierebbe di rendere ineffettivi perché non concretamente esercitabili quelle tutele e quei diritti.

Val la pena allora di sottolineare che con la diversa soluzione prospettata dalla Cgil gli ex collaboratori avrebbero gli stessi diritti legali degli attuali subordinati, ma diventerebbero destinatari di una medesima contrattazione collettiva categoriale ed aziendale che ad essi potrebbe al più destinare, senza difficoltà, una sezione specializzata.

¨ ¨ ¨

Il titolo III della proposta, dedicato in specifico ai lavoratori subordinati contiene previsioni sicuramente positive e interessanti ancorché bisognose, per la loro realizzazione, di una normativa alternativa per la cui emanazione sono infatti previsti nel successivo art. 4 progetti di legge delega.

La positività della proposta risiede nell’esatta individuazione di diritti che a tutt’oggi non sono garantiti o lo sono in modo assai parziale nell’ambito dello stesso lavoro subordinato, quali i diritti di informazione, consultazione e partecipazione (art. 29), di apprendimento continuo e permanente (art. 30) e di tutela attiva del reddito in caso di disoccupazione volontaria.

È del pari prevista la estensione, quanto meno parziale e in forma diversificata, di tali diritti anche ai collaboratori coordinati e continuativi.

Anche qui, tuttavia, si impongono alcune riflessioni. Per quanto riguarda i diritti di informazione, consultazione e partecipazione, vi è un rinvio sicuramente troppo generale alla contrattazione collettiva, e in questo senso l’enunciazione contenuta nel testo della proposta, pur rivestendo notevole importanza di principio, non configura un vero sostegno legislativo, mancando la previsione di minimi comunque garanti legislativamente in caso di inefficienza dello strumento contrattuale.

Quanto al diritto all’apprendimento continuo e permanente, la sua realizzazione resta, comunque, affidata a istituzioni e fattori esterni al rapporto di lavoro, nel senso che si tratta pur sempre di un diritto che dovrebbe essere realizzato nella istituzione di fondi bilaterali paritetici, o attraverso varie incentivazioni, soprattutto fiscali, ai datori di lavoro che si impegnino nelle attività finalizzate alla formazione dei propri dipendenti, ma che non costituisce un vero diritto-pretesa del lavoratore nei confronti del datore di lavoro. L’apprendimento continuo e permanente, in altre parole, non entra ancora nella causa di scambio del contratto di lavoro e non è pertanto un debito del datore verso il prestatore come lo sono, ad es., quello di corrispondere retribuzioni o di garantire sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro.

Si tratta di una impostazione metodologica in definitiva piuttosto arretrata, da cui non può discendere né la generalità ed effettività del diritto all’apprendimento, né tanto meno la sua esigibilità.

Ben diversa situazione si determinerebbe se il lavoratore fosse invece giuridicamente debitore della formazione, salva poi ogni opportuna misura di rimborso parziale o totale dei costi da lui affrontati da parte sia della finanza pubblica, sia di altre istituzioni di carattere privato o contrattuale. Sicuramente apprezzabile è la previsione, contenuta nell’art. 31, di una estensione all’universo dei lavoratori di forme di garanzia del reddito in caso di disoccupazione involontaria e di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa , di cui oggi non gode una ampia parte dei lavoratori operanti nelle piccole dimensioni di impresa e particolarmente nel settore terziario.

Si ha tuttavia l’impressione, leggendo poi quanto previsto dall’art. 34 punto 3, lettera b, che contiene il relativo progetto di delega, che questa pur positiva estensione dei trattamenti di integrazione salariale corrisponda a una collocazione dell’istituto nell’esclusivo ambito degli strumenti previdenziali e assistenziali, anziché mantenere salde radici nella dialettica delle relazioni industriali. Vi è in altre parole tutta una problematica, a monte o a valle di una integrazione salariale, che non può essere ignorata o cancellata, perché si tratta di sapere da dove deriva la crisi occupazionale e produttiva e come e con quali prospettive possa essere governata e risolta. Il lavoratore sospeso dal lavoro non è solo un soggetto che necessita di una continuità di reddito, ma una persona alla quale vanno garantiti con l’azione collettiva, in un rapporto sindacale dialettico con la controparte, il mantenimento dello status occupazionale e la prospettiva occupazionale futura. Il miglioramento puro e semplice e la generalizzazione delle forme di sostegno al reddito potrebbero anche dar luogo, nel silenzio del legislatore, ad una politicizzazione e desindacalizzazione della crisi produttive e occupazionali, ad una rinunzia del sindacato ad incidere sulla riorganizzazione, o peggio a uno scambio informale fra misure assistenziali migliorate e mano libera dei datori di lavoro.

Non poche perplessità infine suscita l’art. 33 riguardante un c.d. "diritto alla composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro". Occorre dire in proposito che in materia di mezzi di soluzione preventiva e successiva delle controversie di lavoro, la proposta di Carta dei diritti aveva prestato il fianco, nelle precedenti stesure informali, a ben meritate critiche (arbitrato d’equità, certificazione dei rapporti, ecc). Il testo attuale contiene previsioni generiche circa un diritto di accedere a forme di composizione conciliativa e arbitrale delle controversie (diritto che per il vero è sempre esistito) e una disposizione precisa, ma, a nostro avviso, inaccettabile e anche bizzarra: che sulle somme attribuite al lavoratore in sede conciliativa o arbitrale venga applicato uno sconto contributivo e fiscale. Come a dire che la stessa pretesa del lavoratore es. ad un arretrato retributivo lordo di cinquemila euro darebbe luogo ad un introito netto di tre mila euro se assegnato dal giudice ordinario. Si tratta di una forma di "dumping"che francamente non sembra meritare una contestazione troppo impegnativa.

Gli altri progetti di delega in materia di tutela e sicurezza del lavoro e di incentivi all’occupazione meritano un giudizio generalmente positivo, salva l’evidente perplessità sull’opportunità politica di utilizzare lo strumento stesso della delega che lascerebbe, comunque, un ampio spazio al governo di centro destra per realizzare in concreto normative di tipo peggiorativo o comunque non coerenti con l’ispirazione che ha guidato i proponenti della Carta dei diritti.