Liberazione 6 maggio 2003

 

Meno diritti uguale più occupazione: MA LA PROVA NON C’E’

 

Con una lettera pubblicata sabato su Liberazione il Prof. Ichino ha cortesemente replicato ad un mio articolo del 1° maggio scorso. Nella lettera Ichino sostiene di non avere mai dichiarato che ci sia una correlazione tra le tutele contro i licenziamenti e il tasso di disoccupazione. Devo dire che il comportamento del Prof. Ichino lascia sempre più interdetti dal momento che, sollecitato da Giuliano Ferrara nella puntata di Otto e mezzo di martedì scorso, egli aveva chiaramente confermato proprio la correlazione che adesso si affretta a smentire. Se il Professore si ostina a negarlo sarò lieto di visionare con lui le registrazioni della trasmissione. Ad ogni modo, piuttosto che puntare il dito sull’incoerenza nella quale egli è caduto, credo che ai fini del buon andamento della campagna referendaria sia più utile accettare la sua (pur implicita) rettifica. L’auspicio è che, dopo “lo strano caso del Prof. Ichino”, da qui al 15 giugno nessun altro super-esperto cada nell’imperizia di trascurare le doverose, innumerevoli qualificazioni che ogni studioso che si rispetti dovrebbe pronunciare prima di discutere dei possibili legami tra la libertà di licenziamento e gli andamenti dell’occupazione.

                Tutta questa prudenza si rende indispensabile a causa di un fatto tanto noto agli addetti ai lavori quanto pressoché sconosciuto al grande pubblico. Il fatto è che, nonostante gli sforzi compiuti da numerosi economisti di orientamento liberista, nessuno è finora riuscito a dimostrare che la libertà di licenziamento implichi un abbattimento della disoccupazione. Un tentativo, in questo senso, era stato compiuto dall’OCSE, in uno studio del 1999 dedicato alle rigidità del mercato del lavoro. Ma contrariamente alle attese di molti apologeti della flessibilità, quello studio rivelò la sostanziale assenza di legami tra i vincoli ai licenziamenti e il tasso di disoccupazione.

Si osservi a tal proposito il grafico qui a fianco, estratto proprio dalla suddetta indagine dell’OCSE e riferito agli anni ‘90. Sull’asse orizzontale è riportato un indice di protezione dell’impiego nei vari paesi esaminati, vale a dire una misura complessiva dell’entità dei vincoli ai licenziamenti, alle assunzioni a tempo determinato e ad altre possibili iniziative degli imprenditori. Più alto è l’indice maggiori sono i vincoli per le imprese e le tutele per i lavoratori. Sull’asse verticale è invece riportato il tasso di disoccupazione. Ebbene, il grafico chiarisce che non vi è la benché minima possibilità di affermare che vincoli più stringenti comportino una più elevata disoccupazione. Basti notare in proposito come l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda e l’Irlanda, paesi caratterizzati da bassissimi livelli di protezione dei lavoratori, abbiano fatto registrare negli anni ’90 dei tassi di disoccupazione elevatissimi, superiori all’8% e con punte del 13-14%. Al contrario, paesi come la Germania, la Svezia, la Norvegia o il Portogallo, caratterizzati da regimi di protezione dell’impiego molto più favorevoli ai lavoratori, hanno generato dei risultati decisamente migliori sul piano della disoccupazione, con tassi ben al di sotto dell’8%.

Per quanto riguarda l’Italia, bisogna dire che il grafico evidenzia l’elevata disoccupazione che ha caratterizzato il nostro paese nell’ultimo decennio, ma esclude al tempo stesso in modo categorico che essa sia potuta dipendere dalle tutele contro i licenziamenti. Un risultato, questo, che agli occhi del Prof. Ichino e di molti altri meticolosi analisti del mercato del lavoro potrà apparire sconcertante, ma che da un punto di vista macroeconomico dovrebbe risultare pressoché ovvio. La macroeconomia infatti ci insegna che i tassi di disoccupazione dipendono da un’infinità di fattori, tra i quali le norme che regolano il mercato del lavoro non rivestono affatto un ruolo predominante. L’analisi macroeconomica  ci ricorderebbe, piuttosto, che negli anni ’90 sulla nostra penisola il “ciclone Maastricht” si è scatenato con una violenza molto maggiore che altrove, generando fortissimi effetti depressivi sulla produzione e quindi sull’occupazione.

Il Prof. Ichino e gli altri avversari del referendum per l’estensione dell’art.18 potrebbero tuttavia prendere spunto dal grafico dell’OCSE per farci notare che l’Italia presenta comunque un indice di protezione dei lavoratori molto alto rispetto agli altri paesi. Essi potrebbero quindi affermare che non si può pretendere di accrescere ulteriormente quell’indice attraverso l’estensione dell’articolo 18, ma occorrerebbe piuttosto ridurlo  al fine di uniformarlo alla media europea. Di fronte a un simile suggerimento si potrebbe semplicemente obiettare che, nella totale assenza di motivazioni, non si vede perché non si possa auspicare una tendenza della media europea verso indici di protezione più elevati anziché imporre all’Italia una convergenza al ribasso. Ma l’intera discussione risulterebbe immediatamente superata se si desse anche solo un’occhiata all’ultima relazione annuale della Banca d’Italia. Gli economisti di via Nazionale hanno infatti notato una vistosa incongruenza nell’indicatore di protezione dei lavoratori che l’OCSE ha assegnato all’Italia. In quell’indicatore, infatti, è incluso il TFR come costo del licenziamento, laddove anche i non addetti sanno che in realtà le somme dovute ai lavoratori per il trattamento di fine rapporto rappresentano un salario differito che va pagato sempre, sia che il lavoratore venga licenziato sia che si dimetta o che vada in pensione. Inoltre, tutto si può dire eccetto che il TFR rappresenti una penale per le imprese, dal momento che queste lo considerano un vantaggiosissimo finanziamento agevolato. Seguendo dunque la critica rivolta all’OCSE dagli economisti di Bankitalia si giungerebbe a modificare radicalmente la posizione dell’Italia sul grafico. Infatti, rimuovendo il TFR dall’indicatore, il nostro paese scenderebbe nella classifica della rigidità dal 5° al 18° posto assoluto !

                Verrebbe a questo punto da chiedersi perché mai gli economisti italiani dell’OCSE non si siano accorti di un errore così madornale. Tuttavia le nostre congetture ci porterebbero troppo lontano, e ci impedirebbero di rispondere all’ultima sollecitazione del Prof. Ichino. Questi infatti ha tenuto a precisare che nei suoi interventi egli ha sempre e solo fatto riferimento all’impatto dei vincoli ai licenziamenti sul tasso di occupazione (ossia sul rapporto tra occupati e popolazione in età di lavoro) e non sul tasso di disoccupazione (cioè sul rapporto tra disoccupati e forza lavoro). Mi riprometto di mostrare in futuro ai lettori di Liberazione quanto poco convincente risulti essere un simile spostamento di attenzione da un indicatore all’altro. Per il momento mi limito a pregare il Prof. Ichino di non dimenticarsi della puntualizzazione la prossima volta che gli capiterà di finire in tv in qualità di super-esperto. Ma soprattutto, gli ricordo che nell’ormai ben noto studio dell’OCSE del 1999 si afferma effettivamente che la libertà di licenziamento produce aumenti marginali del tasso di occupazione delle donne e dei giovani, ma si aggiunge pure che li produce a scapito degli uomini adulti !

                A quanto pare, dunque, il Prof. Ichino e gli altri esperti della sinistra liberal non hanno di meglio da proporci che un triste “riformismo a somma zero”, in cui la torta spettante ai lavoratori è data (o magari sempre più piccola e variabile) e si tratta solo di ripartirla in modo un po’ più uniforme tra i sessi e le generazioni. Noi invece riteniamo che sia giunto il momento di far crescere la torta a favore di tutti i lavoratori, ed è proprio per questo che il 15 giugno voteremo sì all’estensione dell’art.18.

 

                               Emiliano Brancaccio*

 

* Comitato promotore nazionale del referendum per l’estensione dell’art.18