Il referendum sull'art.18 parla europeo
Presentata ieri a Roma dal Comitato promotore e dall'Associazione giuristi europei la campagna per l'estensione dei diritti. "Una battaglia che si può vincere". Reazioni scomposte da parte del governo Berlusconi. Maroni accelera sui comitati per il No
FRANCESCO PICCIONI il manifesto 2.2.2003


Il referendum sull'art. 18 diventa europeo. Soprattutto, visto che la "compressione dei diritti fondamentali sta diventando generale", diventa un'iniziativa "niente affatto difensiva"; una scadenza che può diventare il crinale di un'inversione di tendenza. La sala del Carroccio, in Campidoglio, ha ospitato ieri la presentazione del Referendum per l'estensione dell'art. 18, organizzata dal comitato promotore e dall'Associazione europea dei giuristi democratici. La ragione di questa simbiosi è semplice: l'attacco ai diritti del lavoro è generalizzato, va ben al di là dei confini. E avviene nel momento in cui la Convenzione sta scrivendo la Carta "costituzionale" dell'Unione. Una stesura che avviene nel peggiore dei modi, perché "c'è una sola Europa della moneta e del mercato, ma non c'è una sola Europa dei diritti". Non c'è insomma dibattito al livello dei cittadini, non c'è partecipazione, quindi neppure identificazione. L'Italia, a parere dei giuristi europei, è in una situazione davvero particolare: qui l'attacco neoliberista è più violento che altrove, ma è anche il paese in cui la vigente legislazione del lavoro è più avanzata. Nel secondo dopoguerra, il conflitto sociale è stato più intenso e duraturo. Un conflitto che per il movimento operaio ha avuto costi alti, ma ha anche prodotto il riconoscimento normativo più esplicito del lavoratore come titolare di diritti universali. "Siete un modelli per tutti noi", dice Michael Welschinger, presidente dell'associazione. Ma anche in Spagna, l'anno scorso, il conflitto ha pagato: uno sciopero generale ha bloccato sul nascere il tentativo di Aznar di abolire l'obbligo, per l'azienda, di retribuire il lavoratore licenziato nell'attesa della sentenza del giudice.

Chiaro dunque sia l'interesse continentale per l'esito della battaglia referendaria, sia la concezione "non difensiva" che emerge. "Una mossa in attacco", la chiama Paolo Cagna Ninchi, presidente del Comitato promotore. Quasi un contropiede che cerca di capitalizzare la "battuta d'arresto" subita proprio sull'art. 18 dal governo Berlusconi "in seguito alle 26 ore di scioperi generali e ai tre milioni di persone in piazza nello scorso marzo" e segnare un punto per "invertire la tendenza".

Circola un certo ottimismo, sia tra i politici che tra i sindacalisti presenti. "Questo è un referendum che si può vincere", dicono sia Pecorario Scanio e Alfonso Gianni (al posto di Bertinotti, ancora in viaggio da Porto Alegre), sia Giampaolo Patta (Cgil) che Cesare Salvi (Correntone Ds). Merito del sondaggio Eurisco sulle intenzioni di voto: l'84 per cento ha detto di voler andare a votare. E questo potrebbe magari spiegare anche perché il governo, con Maroni si stia battendo per promuovere i "comitati per il no".

Una battaglia "vera" sul referendum spiazza naturalmente il centro-sinistra (soprattutto i Ds) e la Cgil, che non hanno ancora preso posizione. Si dicono fiduciosi sia Salvi che Patta, perché "il quesito è chiaro: non c'è ragione per cui un diritto universale, come il reintegro in caso di licenziamento discriminatorio, debba essere limitato alle non molte aziende con più di 15 dipendenti" (circa il 37 per cento della forza lavoro). Per la Cgil, soprattutto, dicono in tanti, "non sarà possibile votare come dicono Berlusconi e D'Amato, né astenersi", perché in un referendum l'astensione indica "una contrarietà maggiore del no".

Ma non c'è da crogiolarsi "in attesa della scadenza" referendaria. Ci sarà infatti da scontare il silenzio o la contrarietà dei media controllati o posseduti da Confindustria e dal premier; nonché i passaggi parlamentari di altre "leggi delega che destrutturano il mercato del lavoro", come il disegno di legge 848 che andrà in discussione davanti alla Commissione lavoro la prossima settimana. C'è una battaglia offensiva, "in contropiede", si giocherà infatti molto sulla "capacità di mobilitazione", mostrando come il voto sia solo il momento politico e simbolico culminante di una partita che si gioca nella società.