AL REFERERENDUM
POPOLARE SULL’ARTICOLO 18
INDICE
I
materiali messi a disposizione sono distribuiti in tre sezioni e sono stati
raccolti tenendo conto che dei due quesiti presentati – estensione a tutti dell’articolo 18 e del Titolo terzo dello Statuto
dei lavoratori, attraverso l’abrogazione dell’articolo 35 – la Corte
costituzionale ha ammesso solo il quesito sull’articolo 18.
1. Come è nato il referendum sull’articolo 18
· La prima iniziativa pubblica pag. 7
· Il comunicato: i quesiti referendari sono stati depositati pag. 10
· L’appello per il comitato promotore pag. 12
2. I documenti del referendum
· Il deposito del quesito pag. 15
· La memoria difensiva pag. 18
· La sentenza di ammissibilità del quesito pag. 25
· Il comitato promotore pag. 32
· Il comitato nazionale per il SI pag. 33
· La legge prima e dopo il referendum pag. 34
3. Qualche contributo per capirne le ragioni
· Un referendum di tutti pag. 39
di Paolo Cagna Ninchi
· Le ragioni giuridiche del referendum pag. 44
Di Pier Luigi Panici e Carlo Guglielmi
· Le ragioni economiche del referendum pag. 53
di Emiliano Brancaccio
· Referendum: un’occasione a sinistra pag. 62
di Giovanni Palombarini
·
Oltre
le discriminazioni da «numero chiuso» pag. 65
di Alberto
Piccinini
· Referendum felix culpa pag. 67
di Pier Giovanni Alleva
· Articolo 18, perché votare SI pag. 69
di Luciano Gallino
·
Referendum del 15-16 Giugno e delega sul mercato
del lavoro pag. 71
di
Mario Fezzi
A cura del COMITATO NAZIONALE PER IL SI
Sede nazionale - via Tolero 9, Roma Tel. 06.8600664 – Fax 06.86202013
Portavoce - Paolo Cagna Ninchi – c.so
di P.ta Ticinese 48, 20123 Milano – Tel. 02.58101910 -
339.1170311
1
LA GIUSTA CAUSA: MAI PIÙ AL LAVORO SENZA DIRITTI
PAOLO CAGNA NINCHI - Comitato per le libertà e diritti sociali
Introduzione al dibattito pubblico del 16 gennaio 2002
Alla fine di agosto del 1999 costituimmo il Comitato per le libertà e i diritti sociali per rispondere alla campagna sui referendum cosiddetti sociali dei radicali che spacciava per liberali e libertari quesiti che intaccavano la dignità, prima ancora che i diritti, delle persone che svolgono un lavoro dipendente e la nostra era una indignazione anche culturale oltre che politica.
Il Comitato raccolse adesioni non solo nel mondo del lavoro, ma in ampi strati della società: avvocati, docenti, giuristi oltre che parlamentari e sindacalisti e questo ci consentì di svolgere un compito utile con un risultato assai rilevante: la presentazione di una memoria alla Corte Costituzionale, accolta per la prima volta nel dibattimento sulla legittimità costituzionale dei quesiti referendari e che contribuì a cassare ben nove degli undici quesiti “sociali”.
Il comitato sostenne la necessità di votare NO nel voto del 20 maggio del 2000 sul referendum per l’abrogazione dell’art. 18 S.d.L, l’unico NO che prevalse tra i quesiti ammessi, segno che il senso comune, l’opinione diffusa, a maggio 2000 non erano ancora pronti a superare l’ultimo ostacolo al totale dispiegamento dell’arbitrio nei luoghi di lavoro.
Oggi, quindi, possiamo partire da quel lavoro e da quel dato per costruire una proposta che nasce anch’essa da una reazione alla debolezza con la quale si risponde, nella società e anche nella sinistra, al più radicale degli attacchi al sistema di regole e diritti costruiti in un secolo di lotte sociali, politiche e giuridiche che riguardano il lavoro, attacco condensato nel “libro bianco” del ministro Maroni e soprattutto nella legge delega sul mercato del lavoro, di cui la sospensione dell’articolo 18 SdL è solo la punta dell’iceberg, attacco che stravolge l’intero diritto del lavoro -dalla tutela si passa alla istituzionalizzazione della precarietà — e propone una vera, profonda rivoluzione del patto sociale su cui si regge la Costituzione dello stato italiano. Una rivoluzione che il governo Berlusconi è ben intenzionato a portare a compimento, forte della sua maggioranza e della debolezza dell’opposizione che, a nostro giudizio, non offre una sponda sufficiente all’impegno e alla lotta del sindacato confederale, sottovalutando non solo il valore del lavoro nella società, ma soprattutto il significato e il valore generale che questo scontro assume.
A noi pare che rispondere a questo attacco a tappeto non è possibile limitandosi a un’azione puramente difensiva e di contenimento dell’aggressività di una destra che ha vinto con un programma chiarissimo: impresa e competitività al governo dell’economia, del lavoro e dello stato sociale; attacco al modello universale di scuola e sanità; messa in discussione della mediazione sociale realizzata attraverso il ruolo delle rappresentanze sociali e politiche su cui si fonda la nostra Costituzione.
Certo molte cose sono cambiate da quando lo Statuto dei Lavoratori diventò legge nel maggio del 1970. L’Italia degli anni 70 era quella del protagonismo sindacale sia all’interno delle grandi fabbriche dove nascevano i consigli di fabbrica, sia nella società che evolveva nella cultura e nel costume. A questo processo corrispose la crescita della sinistra politica, culminata nel voto a metà degli anni 70. Oggi, trent’anni dopo, siamo di fronte alla crisi della politica, e quindi della sinistra, che ha radici prima di tutto nella grande difficoltà ad affrontare la questione dei diritti sociali dopo l’enorme rimescolamento di carte di questi anni.
In questi trent’anni sono profondamente cambiati la struttura produttiva, l’organizzazione e il mercato del lavoro:
- gli addetti nelle medie e grandi imprese erano maggioranza ora il rapporto si è rovesciato a favore delle imprese sotto i 15 dipendenti;
- negli ultimi dieci anni si è rovesciato anche il rapporto tra lavoro a tempo determinato e lavoro a tempo indeterminato;
- si è ridisegnata la struttura sociale con due grandi fratture che si intersecano tra loro: una tra lavoro ed esclusione sociale e una tra lavoro regolare e lavoro irregolare.
- è andato in pezzi il vecchio sistema per cui lo sviluppo dell’industrialismo, attraverso la concentrazione e la massificazione del lavoro, favoriva lo sviluppo della sinistra e la sua organizzazione: il sindacato sul fronte sociale, il partito su quello politico-istituzionale.
In un quadro così profondamente mutato e di fronte a un attacco così decisivo la proposta del COMITATO PER LE LIBERTÀ E I DIRITTI SOCIALI è di mettere in campo un’azione altrettanto profonda e incisiva che chiami il Paese a decidere di fronte a un’alternativa secca: da una parte un mondo del lavoro senza diritti e quindi una società senza democrazia, dall’altra il tema dei diritti del lavoro come fondamento della cittadinanza e dell’inclusione sociale nella struttura democratica.
Intorno a questa scelta netta si può rilanciare l’iniziativa, aggregando segmenti di società, riunificando i pezzi sparsi della sinistra sociale e politica, i nuovi movimenti e chiunque ritenga segno di civiltà e modello di convivenza il riconoscimento di dignità e diritti al lavoro.
La proposta che facciamo è quella di lanciare una grande campagna - estesa, unitaria, duratura e non episodica - su un progetto cardine del principio dell’universalità dei diritti che leghi insieme: le questioni della rappresentanza, come diritto del cittadino lavoratore; l’estensione dell’art. 18 come diritto alla dignità della persona; la parità dei diritti e delle tutele sul lavoro a prescindere anche dalla nazionalità del lavoratore.
Occorre una campagna che affronti e ponga, nei luoghi di lavoro e nella società, la questione delle caratteristiche di una società civile nel terzo millennio e su questo sappia mobilitare le coscienze. Una campagna articolata e approfondita in tutto il Paese, che coinvolga i luoghi di lavoro, le donne e gli uomini che lì vi operano, con l’insieme della società della quale quelle donne e quegli uomini vogliono far parte a pieno titolo di cittadinanza.
Come strumento di questa campagna proponiamo un progetto articolato su una combinazione di referendum e di proposte dileggi di iniziativa popolare che ci veda impegnati, per tutto il 2002.
I referendum che proponiamo rendono praticabile: il principio della universalità dei diritti in generale, in particolare il principio di giustizia che non si può essere licenziati senza giusta causa come prevede anche nella Carta europea dei diritti fondamentali e infine il principio secondo cui non si può ricevere un’offesa senza tutela.
In concreto essi riguardano quindi:
• l’estensione dell’articolo 18, con l’abolizione della parte che ne limita l’applicazione alle aziende sopra i 15 dipendenti;
• l’abrogazione dell’art. 35 legge 300 con conseguente estensione dello statuto a tutti i lavoratori;
Ai referendum, e con essi strettamente intrecciati, si accompagnano le proposte di legge di iniziativa popolare sui diritti e le tutele dei lavori, sulla rappresentanza e il diritto di voto per quanto riguarda contratti e accordi sindacali: diritti elementari del cittadino lavoratore e completamento della definizione di cittadinanza.
Per questo progetto a noi riserviamo il compito di lanciare la proposta: le forze del Comitato per le libertà e i diritti sociali non sono straordinarie, ma nella nostra scelta di lanciare questa proposta, ci ha confortato l’esperienza passata di lavoro insieme a soggetti tra loro diversi intorno all’obiettivo chiaro — anche allora la parola d’ordine era LA GIUSTA CAUSA - di respingere la barbarie di una società concepita come una giungla in cui prevale il diritto del più forte. E ci spinge la convinzione che, se non si tira il sasso, l’acqua non si increspa e oggi è necessario sollevare una tempesta sulla palude che ci sta inghiottendo.
A questo progetto noi vogliamo lavorare insieme con tutti coloro che ne condividono l’ispirazione e rifiutano la ideologia liberista e la pratica dell’arbitrio sociale. Siamo convinti che intorno a esso, senza logiche di primazia o di schieramento, si possa costruire un fronte sociale e politico molto ampio che: restituisca alla sinistra le ragioni per un’azione unitaria, in una prospettiva di ricomposizione e di crescita intorno a un’idea di società solidale; offra anche ai nuovi movimenti, come i molti Forum sociali che stanno crescendo nel Paese e ai giovani che vi aderiscono con passione, l’occasione di una partecipazione e di una mobilitazione perché i diritti non abbiano confini, perché il lavoro non sia una merce, perché la dignità non abbia un prezzo.
DIRITTI UGUALI PER
TUTTI - Comunicato stampa
Il Comitato per le libertà e i diritti sociali ha depositato il 28 febbraio 2002 presso la Corte di Cassazione di Roma i quesiti referendari per abrogare le norme che impediscono l’applicazione di diritti e tutele a tutti i lavoratori.
Questa scelta è il frutto del lavoro degli ultimi tre anni finalizzato a contribuire ad una integrazione europea non solo economica ma anche giuridica, con la necessità di adeguare il sistema normativo italiano alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea adottata a Nizza, ed iniziato con la mobilitazione contro i referendum antisociali dei radicali che già nel 2000 proposero l’abolizione dell’articolo 18. Allora il Comitato espose formalmente con una propria memoria - e ciò fu consentito per la prima volta - le ragioni della inammissibilità di una parte delle richieste referendarie e la Corte Costituzionale ritenne fondate tali ragioni e conseguentemente bocciò nove degli undici referendum cosiddetti “sociali”.
Le nuove norme contenute nella legge delega sul mercato del lavoro - su privatizzazione dell’avviamento al lavoro con la legittimazione della intermediazione parassitaria (leasing di manodopera), collocamento, lavoro a chiamata, lavoro a progetto, buoni lavoro, modifica del part-time, articolo 18 - sono tutte finalizzate a stravolgere il diritto del lavoro dandogli connotati di flessibilità e di arbitrarietà, che non hanno paragoni negli altri Paesi sviluppati: dalla tutela si passa alla istituzionalizzazione della precarietà quale condizione permanente di “normalità”.
Lo scontro tra parti sociali e governo trova il suo epicentro nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che ormai ha assunto un valore simbolico che va ben oltre i suoi effetti reali. Basti pensare che a fronte di una media annuale di 250.000 licenziamenti per processi riorganizzativi, per riduzione di attività ed altro, sono soltanto circa 1200 i casi di reintegrazione sul posto di lavoro con sentenza di un giudice.
Perché allora tanto accanimento? Tanto più che oggi licenziare non è di fatto un problema, se non nei limitati casi in cui il motivo del licenziamento non sia giustificato, perché del tutto arbitrario.
Il problema reale è che intervenendo sull’art.18 non si intende solo cambiare la normativa in materia di licenziamenti; si mira a mutare complessivamente la materia relativa a tutti i diritti in azienda.
L’art.18 infatti rappresenta la condizione di effettività della tutela del diritto al lavoro.
Il ripristino formale della libertà incontrollata di licenziamento ha ricadute sostanziali su diritti fondamentali quali la libertà di pensiero, di espressione, di adesione a partiti politici, a formazioni sindacali, su ogni altra forma di tutela e su ogni altro diritto di fonte contrattuale e legale.
Senza la tutela reale
dal licenziamento arbitrario, il lavoratore pubblico e privato vive sotto un ricatto permanente, che
non consente il concreto ed effettivo esercizio dei propri diritti e che
inoltre impoverisce il suo contributo alla qualità del lavoro a detrimento
anche dell’impresa.
Da un lato vi è quindi
una questione che riguarda dignità, sicurezza sul posto di lavoro (3 milioni di infortuni all’anno di cui più di 1300 mortali) e libertà
dei lavoratori, dall’altro tutele e norme devono avere un carattere generale. Quindi deve valere per
tutti.
Soprattutto nella
situazione attuale, nella quale le diverse fasi della produzione vengono distribuite in varie parti del mondo, considerato
quale centro produttivo indifferenziato e globale, facendo così emergere
differenze di trattamento, disparità di condizioni di lavoro e frammentazioni
dei diritti dei lavoratori. Da una parte quindi unicità della
produzione senza confini e, dall’altra, diritti confinati.
Ed è sulla base di tali considerazioni che il Comitato per le libertà e i diritti sociali depositando i quesiti ha inteso aprire un confronto a tutto campo con sindacati, partiti, associazioni e singoli cittadini, per definire insieme tempi e modi di una campagna referendaria che realizzi una adesione ampia e una mobilitazione duratura e non episodica, incardinata sul principio di universalità dei diritti.
E’ importante che su questa proposta tutti i soggetti sociali e politici si muovano in sintonia, ma è soprattutto importante che si riesca a stimolare nel Paese una partecipazione trasversale che coinvolga tutti e non solo alcuni settori più consapevoli o già impegnati. Una proposta rivolta a tutti senza logiche di schieramento o di primazia politica: basti pensare a quanti sono i lavoratori che hanno votato per il centrodestra, esclusi o inclusi che fossero nella tutela dell’articolo 18.
La nostra proposta è costituita dai referendum che abbiamo depositato per:
- estendere lo Statuto a tutti i lavoratori con l’abrogazione di quella parte dell’articolo 18 e dell’art. 35, che ne limitano l’applicazione alle aziende sopra i 15 dipendenti;
Referendum da accompagnare con proposte di legge di iniziativa popolare su diritti e tutele di tutti i lavori, compresi quelli cosiddetti atipici, e su rappresentanza e diritto di voto per contratti e accordi sindacali: diritti elementari del lavoratore e completamento della definizione di cittadinanza secondo i principi di giustizia e di universalità dei diritti. Questione che riguarda tutti ed è a tutti che bisogna rivolgersi.
APPELLO PER LA
GIUSTA CAUSA: MAI PIÙ AL LAVORO SENZA DIRITTI
Negli ultimi dieci anni sono stati licenziati 2.500.000 lavoratori, mentre ne vengono reintegrati ogni anno in forza dell’articolo 18 circa 1300.
Questo vuol dire che nel nostro Paese si può licenziare liberamente per ragioni che riguardano l’andamento dell’impresa. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori impedisce soltanto che un lavoratore possa essere licenziato senza giustificato motivo e, nel caso ciò avvenisse, consente che quel lavoratore possa rivolgersi alla magistratura, ovvero a un giudice terzo, per ritornare in possesso di ciò che gli è stato ingiustamente tolto: il posto di lavoro. Vale a dire, citando Massimo D’Antona, di quei «diritti fondamentali che devono riguardare il lavoratore non in quanto parte di un qualsiasi tipo di rapporto contrattuale, ma in quanto persona che si aspetta dal lavoro l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua vita e della sua personalità».
Favorisce forse lo sviluppo, fa emergere dal sommerso, rende l’impresa più competitiva poter licenziare liberamente il lavoratore che porta i capelli lunghi, la lavoratrice che denuncia molestie sessuali, l’impiegato di banca omosessuale, l’immigrato che perde tre dita sotto una pressa, la commessa che va in maternità? Questi sono casi emblematici di sentenze di reintegro che chiunque può trovare sulle riviste giuridiche e che ci dicono che senza la tutela reale dal licenziamento arbitrario, il lavoratore vive sotto un ricatto permanente, che non consente il concreto ed effettivo esercizio dei propri diritti, lo rende totalmente indifeso di fronte all’arbitrio e inoltre impoverisce il suo contributo alla qualità del lavoro a detrimento anche dell’impresa.
Il ripristino formale della
libertà incontrollata di licenziamento, qual è quello perseguito ora dal
governo con la legge delega, ha ricadute sostanziali esclusivamente su diritti
fondamentali quali la libertà di pensiero, di espressione,
di adesione a partiti politici, a formazioni sindacali, su ogni altra forma di
tutela e su ogni altro diritto di fonte contrattuale e legale.
Abbiamo dunque di fronte una questione di diritto, di giustizia e di eguaglianza. Questione, obiettivamente, divenuta centrale non solo rispetto al futuro dei lavoratori ma anche dell’intera società; diventata architrave e argine riguardo al complessivo tema dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini, a partire dalle fasce più deboli ed esposte.
Ma oggi l’articolo 18 della legge 300/ 70 “Statuto dei lavoratori”, intestata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, e che si riferisce a quelle prerogative che ogni stato civile deve garantire a ogni suo cittadino, riguarda una minoranza e una minoranza esigua del mondo del lavoro: non si applica alle imprese sotto i 15 dipendenti – che oggi sono ben l’85% del totale nazionale – e a tutti quei lavoratori, oggi oltre 6 milioni, che hanno contratti atipici.
Noi crediamo che un diritto o è universale o non è. Per questo crediamo alla necessità di una campagna per l’estensione dell’articolo 18 perché, da un lato, vi è una questione che tocca dignità, sicurezza sul posto di lavoro e libertà dei lavoratori, dall’altro c’è l’esigenza che tutele e norme che rendono effettiva la nostra Costituzione e la Carta europea dei diritti fondamentali devono avere carattere generale, devono essere di tutti.
Per questa ragione aderiamo alla campagna
LA GIUSTA CAUSA: MAI PIÙ AL
LAVORO SENZA DIRITTI
che, attraverso referendum abrogativi delle norme che attualmente limitano l’applicazione degli articoli 18 e 35, estenda le tutele dello Statuto dei lavoratori a tutti i cittadini che ne hanno diritto, insieme con proposte di legge di iniziativa popolare per ottenere comuni e vere tutele per tutti i lavori, nonché sulla democrazia, sul diritto di voto e sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro.
2
VERBALE DI PRESENTAZIONE DI RICHIESTA
DI REFERENDUM PREVISTO DALL’ART.
75 DELLA COSTITUZIONE
L’anno 2002, il giorno 28 del mese di febbraio, alle
ore 10,50 nella Cancelleria della Corte di Cassazione in Roma, Palazzo di
Giustizia, avanti a me dott.ssa Patrizia Liccardi funzionario di cancelleria della Corte medesima,
si sono presentati i signori:
1. PAOLO
CAGNA NINCHI Nato a Cagliari l’ 11 febbraio 1942
- residente a Milano in corso di Porta
Ticinese 48 - Iscritto nelle liste elettorali del Comune di Milano come da
autocertificazione allegata, identificato con passaporto N. 629467R - rilasciato
dalla Questura di Milano con scadenza il 12 gennaio 2003
2. GIACINTO
BOTTI Nato a Lodi il 4 giugno 1953 - residente a Milano in via Caroli 4 - Iscritto nelle
liste elettorali del Comune di Milano come da autocertificazione allegata,
identificato con carta d’identità N. AG1409668, rilasciata dal Comune di Milano
il 19 giugno 2000
3. PIER
LUIGI PANICI Nato a Amaseno
(FR) il 4 marzo 1952 - residente a Roma in via Gomenizza
50 - Iscritto nelle liste elettorali del Comune di Roma, come da autocertificazione
allegata, identificato con Patente di guida n. RM5942799G rilasciata dalla MCTC
- RM il 19/10/2001
4. FRANCO
CALAMIDA Nato a Milano 4 maggio 1938 - residente Milano in via Kramer 33 -Iscritto nelle
liste elettorali del Comune di Milano come da autocertificazione allegata
identificato con carta d’identità N. AD76 19645, rilasciata dal Comune di
Milano il 23 dicembre 1998
5. GIANCARLO
CESARE TOPPI Nato a Pademo Dugnano
(MI) il 23 marzo 1949 - residente a Paderno Dugnano (MI) in via Gorizia 26 -
Iscritto nelle liste elettorali del Comune di Paderno
Dugnano (MI) come da autocertificazione allegata,
identificato con carta d’identità N. AH09908 19, rilasciata dal Comune di Paderno Dugnano (MI) l’ 11
ottobre 2001
6 FEDERICA MANUELA CATTANEO Nata a
Parigi il 7 ottobre 1962 - residente a Cinisello Balsamo
(MI) in via Clemente Sala 6 - Iscritta nelle liste
elettorali del Comune di Cinisello Balsamo (MI) come
da autocertificazione allegata, identificata con carta d’identità N. AC9955098,
rilasciata dal Comune di Cinisello Balsamo (MI) il 29
luglio 1998
7. ANGELA
RUGGIERI Nata a Risceglie (BA) il 17 febbraio 1942 - residente a Milano, in
via del Fusaro 2 - Iscritta nelle liste elettorali
del Comune di Milano come da autocertificazione allegata, identificata con
carta d’identità N. AC4066195, rilasciata dal comune di Milano il 18 luglio
1997
8. CARLO
GUGLIELMI Nato a Roma il 02.01.1968 - residente Via G. L.
Lagrange, 1 - 00197 Roma - Iscritto nelle liste elettorali del Comune di
Roma come da autocertificazione allegata, identificato con Patente auto n. RI\4
3345361U rilasciato da Prefettura di Roma in data 26.06.1986
9 ROBERTO
VENEZIANI Nato a Bari il 7 ottobre 1972 - residente a Bari in via Mitolo 5 - Iscritto nelle
liste elettorali del Comune di Bari come da autocertificazione allegata,
identificato con carta d’identità N. AE678 1480, rilasciata dal Comune di Bari
il 30 dicembre 1999
10. MARIA
PIA ESPOSTI Nata a Lodi, il 9 giugno 1952 - Residente a Milano in corso di
Porta Ticinese 48 - Iscritta nelle liste
elettorali del Comune di Milano
come da autocertificazione allegata, identificata con carta d’identità N.
AG1406693, rilasciata dal Comune di Milano il 14 luglio 2000.
11. ROSSANO
ROSSI Nato a Empoli, il 27 luglio 1961 - residente
a Empoli in via Fratelli Cervi 6 - Iscritto nelle liste elettorali del Comune
di Empoli come da autocertificazione allegata, identificato con carta
d’identità N. AE4280874, rilasciata dal comune di Empoli il 3 maggio 2000
12. PIETRO
ALO’ Nato a Villa Castelli (BR) il 14.11.1947 - residente a Roma in Via Pian di Scò, n. 68/a - Iscritto nelle liste elettorali del Comune
di Roma come da autocertificazione allegata, identificato con Patente N.
Br2081097Y, rilasciata dalla Prefettura di Brindisi nel 1992
13. PIER
LUCIANO GUARDIGLI Nato a Milano il 26 aprile 1934, ivi residente in via Donatello 5 b, iscritto nelle liste elettorali del
Comune di Milano
14. UGO
VERZELETTI Nato a Sarnico (Bergamo) il 17.12.59
- residente a Brescia in Via Del Sanmichele, 3 -
Iscritto nelle liste elettorali di Brescia come autocertificazione
allegata, identificato con carta di identità N. AC
1356419, rilasciata dal Comune di Brescia il 26.02.1998.
I predetti signori, previo deposito della
autocertificazione comprovante la loro iscrizione nelle liste elettorali,
chiedono di voler promuovere ai sensi dell’art. 75 della Costituzione e
dell’art. 27 in relazione all’art. 7 della legge 25/5/1970 n. 352, la raccolta
di almeno 500.000 firme di elettori prescritte per la richiesta di referendum
popolare sul seguente quesito:
"Volete voi, al fine di estendere a tutti i lavoratori subordinati i diritti e le tutele previsti dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, l'abrogazione:
- dell'art. 18, comma primo, legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento", limitatamente alle sole parole "che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo", e all'intero periodo successivo che recita "Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro";
- dell'art 18, comma secondo, legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento", che recita "Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui al primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale";
- dell'art. 18, comma terzo, legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento", che recita "Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie";
- dell'art. 2, comma primo, legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata "Disciplina dei licenziamenti individuali", che recita "I datori di lavoro privati, imprenditori non agricoli e non imprenditori, e gli enti pubblici di cui all'art. 1 della legge 15 luglio 1966, n. 604, che occupano alle loro dipendenze fino a quindici lavoratori ed i datori di lavoro imprenditori agricoli che occupano alle loro dipendenze fino a cinque lavoratori computati con il criterio di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1 della presente legge, sono soggetti all'applicazione delle disposizioni di cui alla legge 11 luglio 1966, n. 604, così come modificata dalla presente legge. Sono altresì soggetti agricoli che occupano alle loro dipendenze fino a cinque lavoratori computati con il criterio di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1 della presente legge, sono soggetti all'applicazione delle disposizioni di cui alla legge 11 luglio 1966, n. 604, così come modificata dalla presente legge. Sono altresì soggetti all'applicazione di dette disposizioni i datori di lavoro che occupano fino a sessanta dipendenti, qualora non sia applicabile il disposto dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1 della presente legge.";
- dell'art. 2, comma terzo, legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata "Disciplina dei licenziamenti individuali", che recita "l'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e' sostituito dal seguente: quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro e' tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai 20 anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro";
- dell'art. 4, comma primo, legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata "Disciplina dei licenziamenti individuali", limitatamente al periodo che così recita "La disciplina di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1 della presente legge, non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto."?
Dichiarano di eleggere domicilio presso lo studio dell'avv. Pier Luigi Panici in via Otranto n. 18 - 00192 Roma.
* * *
Per Paolo CAGNA NINCHI, Giacinto BOTTI,
Pier Luigi PANICI, Franco CALAMIDA, Giancarlo Cesare TOPPI, Federica Manuela
CATTANEO, Angela RUGGIERI, Carlo GUGLIELMI, Roberto VENEZIANI,
Maria Pia ESPOSTI, Rossano ROSSI, Pietro ALO’, Pier Luciano GUARDIGLI,
Ugo VERZELLETTI rappresentati e difesi
dal prof. Avv. Piergiovanni Alleva, dall’Avv. Alberto
Piccinini e dall’Avv. Pier Luigi Panici
giusta procura in calce al presente atto ed elettivamente
domiciliati presso lo studio dell’avv. Pier
Luigi Panici in Roma, Via Otranto, 18,
nella loro qualità di promotori e presentatori delle
richieste di Referendum indicate ai numeri 1 e 2 nella Ordinanza della Corte di
Cassazione del 9.12.2002 – Reg. ref. 134 e 135.
* * * * *
1. Referendum n. 1 – Reg. ref. 134 denominato “Reintegrazione dei
lavoratori illegittimamente licenziati: abrogazione delle norme che
stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l’applicazione dell’art. 18 dello
Statuto dei Lavoratori”.
Riteniamo che non occorra un lungo argomentare
per dimostrare la sussistenza dei requisiti di ammissibilità
del quesito proposto, anche in considerazione del fatto che sull’art. 18 legge n. 300/70 e
sull’ammissibilità di referendum abrogativi in materia, codesta Ecc.ma Corte si è già pronunciata in
senso favorevole con due precedenti sentenze, la n. 65 del 1990 e la n. 46 del
2000 (ed in senso contrario, in un’ipotesi di quesito “non omogeneo”, con la
sentenza n. 27 del 1982, peraltro criticata da dottrina autorevole).
I precedenti di Questa Corte: la
sentenza n. 46 del 7.2.2000.
Per
riassumere la problematica generale e le modifiche normative intervenute in materia
nel corso degli anni, ci si richiama a quanto esposto dalla Corte nella sua più recente sentenza, (la n. 46 del
7.2.2000) che per comodità qui di seguito si trascrive.
“La richiesta di referendum abrogativo, sulla cui
ammissibilità la corte è chiamata a pronunziarsi, investe l’art. 18 l. 20
maggio 1970 n. 300 (norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e
dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nel
testo vigente, quale risulta dalle modifiche di cui
all’art. 1 l. 11 maggio 1990 n. 108 (disciplina dei licenziamenti individuali).
La disposizione oggetto del quesito
prevede la c.d. tutela reale contro il licenziamento, tutela il cui tratto fondamentale è
rappresentato dal potere del giudice, nei casi di recesso inefficace, nullo
ovvero ingiustificato, di ordinare al
datore di lavoro di reintegrare il
dipendente nel posto di lavoro e di corrispondergli una indennità dal
giorno del licenziamento a quello
dell’effettiva reintegrazione.
E’ opportuno rammentare, brevemente, in
prospettiva diacronica, come l’originaria normativa del codice civile del 1942
contemplasse la piena libertà di recesso (c.d. recesso ad
nutum) del datore di lavoro nel rapporto a tempo indeterminato con il limite dell’obbligo di preavviso,
ovvero della corresponsione di un’indennità sostitutiva (art. 2118 c.c.), obbligo che, peraltro,
veniva meno in presenza di una giusta causa di risoluzione del rapporto
lavorativo, tale da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria (art.
2119 c.c.).
Detta disciplina sopravvisse, nella sua
generale portata, sino alla l. 15 luglio 1966 n. 604, con la quale fu introdotto
il diverso principio di necessaria giustificazione del licenziamento (art. 1), richiedendosi a tale fine che
l’atto di recesso del datore di lavoro fosse, comunque,
sorretto da una «giusta causa» (art. 2119 c.c.) ovvero da un «giustificato
motivo» (art. 3 l. n. 604 del 1966), alla cui
insussistenza conseguiva l’obbligo del medesimo di riassumere il dipendente
o, alternativamente, di versargli una indennità risarcitoria, secondo quanto stabilito dall’art. 8 stessa l. n. 604. A tale regime, detto di
tutela obbligatoria, dal quale erano
esclusi, in linea generale (e salvo ulteriori specifiche esclusioni), i datori
di lavoro che occupassero sino a trentacinque dipendenti (art. 11), ha fatto
poi seguito la l. 20 maggio 1970 n. 300 (c.d. statuto dei lavoratori), che, con
l’art. 18, ha introdotto, per i casi di accertata
inefficacia, nullità o mancanza di giustificazione
del licenziamento, il regime di c.d. tutela reale del posto di lavoro, sia pure
limitandone l’applicazione (art. 35 stessa l. n. 300) alle imprese, industriali
e commerciali, che occupassero più di quindici dipendenti nell’ambito
dell’unità produttiva ovvero nell’ambito dello stesso comune, nonché alle imprese
agricole che occupassero, in analoghe situazioni, più di cinque dipendenti,
La stessa norma ha, inoltre, previsto
(dal 4º al 7º comma) una speciale procedura atta a garantire, nello stesso ambito
di materia, la sollecita risoluzione delle controversie nelle quali è parte il lavoratore sindacalista.
La c.d. tutela reale, nei termini in cui risulta attualmente disciplinata dopo l’intervento in
materia della l. 11 maggio 1990 n. 108 (art. 1), comporta, oltre all’obbligo di reintegrazione del lavoratore
nel posto di lavoro, quello del risarcimento del danno medesimo subito, in
ragione, di una indennità commisurata
alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello
di effettiva reintegrazione (e in ogni caso, non inferiore a cinque mensilità
della retribuzione globale di fatto), cui si aggiunge il versamento, per lo
stesso periodo, dei contributi assistenziali previdenziali. Spetta, inoltre, al
lavoratore la facoltà di richiedere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, il
pagamento di una indennità sostituiva pari a quindici
mensilità della retribuzione globale di fatto.
Dai sopra menzionati interventi normativi è derivato un quadro di disciplina che, secondo le
indicazioni della medesima l. n. 108 del 1990, comporta:
-
un’area di applicazione dell’art. 18 l. n. 300 del
1970 che riguarda tutti i datori di lavoro, imprenditori o non, nell’ambito dei previsti limiti dimensionali,
ma con estensione dell’area stessa all’ulteriore
ipotesi di datori di lavoro che occupino più di sessanta dipendenti (art. 1);
-
un’area di applicazione della l. n. 604
del 1966, estesa ai datori di lavoro, imprenditori non agricoli e non
imprenditori, che occupino sino a quindici dipendenti (sino a cinque dipendenti
nei confronti degli imprenditori agricoli), ovvero che occupino sino a sessanta
disdenti qualora non sia applicabile l’art. 18 l. n. 300 del 1970, come
modificato dalla stessa l. n. 108 del 1990 (art. 2, 1º comma );
-
l’applicazione della tutela reale, ex art. 18, nel caso di licenziamento
discriminatorio, quale che sia il numero dei dipendenti occupati, con
estensione di siffatta tutela anche ai dirigenti (art. 3);
- la
restrizione (art. 4), ferma restando la tutela di cui al precedente art. 3
nell’ipotesi di licenziamento discriminatorio, dell’area di libera recedibilità a talune circoscritte ipotesi, specificamente
individuate ovvero chiaramente desumibili in via di interpretazione:
lavoro domestico (l. n. 339 del 1958); lavoratori ultrasessantenni in possesso
dei requisiti pensionistici (salvo che abbiano optato
per la prosecuzione del rapporto lavorativo); dirigenti (eccezione ricavabile
del fatto che l’art. 10 l. n. 604 del 1966 non è stato oggetto di modifica);
-
l’esclusione (art. 4), infine, della tutela reale nei confronti delle c.d.
«organizzazioni di tendenza» che non abbiano fini di lucro (le quali, secondo
la consolidata giurisprudenza, sono soggette al regime di tutela obbligatoria).
Per una più esauriente illustrazione delle
disposizioni vigenti in materia, non va ignorata, infine, la l. n. 9 febbraio
1999 n. 30, recante «ratifica ed esecuzione della carta sociale europea,
riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio
1996».Detta carta, entrata in vigore il 1º settembre 1999, contiene disposizioni
volte a circondare di specifiche
garanzie la posizione dei prestatori di lavoro contro i licenziamenti, prevedendo,
in particolare (art. 24), l’impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido
motivo; il diritto dei lavoratori
licenziati senza valido motivo «ad un congruo indennizzo o altra adeguata
riparazione»; il diritto dei lavoratori stessi a ricorrere davanti ad un organo
imparziale”.
La Corte ha ritenuto ammissibile il
referendum anche se nel quesito non sono state ricompresse altre leggi che
contengono un esplicito rinvio all’art. 18 l. 300/70: ciò – a parere della
Corte – non inficia la chiarezza del quesito in quanto,
al positivo esito referendario, si produrranno i normali effetti caducatori o di adattamento.
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La richiesta referendaria esaminata allora
dalla Corte Costituzionale è di identico contenuto
a quella odierna.
La motivazione della sentenza è di esemplare
chiarezza:
“…La Corte ritiene che non sussistono
cause di inammissibilità del detto quesito in relazione
al disposto dell’art. 75 Cost., poiché esso non
rientra in nessuna delle ipotesi
escluse. Anche l’esame della sussistenza dei requisiti di chiarezza, univocità ed omogeneità del
quesito ha esito positivo in quanto la disposizione
oggetto del referendum, obiettivamente considerata nella sua struttura e finalità, contiene effettivamente
quel principio la cui eliminazione o permanenza dipende dalla risposta che il corpo elettorale
fornirà.
Ed invero, l’intendimento dei promotori del referendum è
diretto, con l’abrogazione parziale dell’art. 35, 1º comma, citato, ad
ampliare la tutela dei lavoratori nelle unità produttive indipendentemente dal
numero dei relativi dipendenti…”.
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La richiesta di referendum,
è stata dichiarata (a ragione)
inammissibile in quanto rivolta contro un complesso di
disposizioni (abrogazione parziale degli artt. 28, 35
e 37 l. 300/70) dalle quali non era possibile estrarre un quesito “omogeneo”.
Così argomenta la Corte “…Invero le proposte abrogative si
articolano in realtà su temi distinti
per il loro oggetto e non omogenei riflettenti, da un lato, l’organizzazione
dell’attività sindacale dal punto di vista
dei soggetti legittimati a promuoverla e, dell’altro, il campo di applicazione della tutela
degli interessi dei lavoratori sotto duplice, differenziato profilo. Ditalchè, nella specie, l’elettore ben potrebbe non concordare
su tutte le proposte avanzate, non legate da un nesso di inscindibile coerenza logica e sostanziale, mentre è, invece,
costretto a fornire una risposta unica in sede di espressione del voto. Ben potrebbe cioè l’elettore condividere l’una o l’altra delle soluzioni abrogative ma non tutte,
mentre dovrebbe invece necessariamente rispondere «si» o «no» in relazione al
loro complesso…”.
I promotori dell’attuale referendum hanno
fatto proprio questo orientamento
della Corte (peraltro criticato allora
da autorevole dottrina, di cui si dirà oltre).
Infatti hanno proposto due distinte richieste referendarie,
raccogliendo le firme necessarie per ciascuna di esse; hanno poi espresso il
proprio dissenso rispetto alla proposta
della Corte di Cassazione di concentrazione dei referendum n. 1 e 2 che
pur rivelavano “uniformità di materia”.
Nella memoria 18.11.2002 (depositata in
Cassazione ai sensi dell’art. 32 l. 352/70) i promotori hanno osservato: “…la materia è oggettivamente uniforme e
la finalità dei promotori del referendum
è quella di estendere a tutti i
lavoratori subordinati i diritti e le tutele previsti dalla legge
300/70 senza limitazioni ed esenzioni. Diversi sono però i diritti che le richieste referendarie mirano
ad estendere: un primo quesito riguarda l’applicazione della c.d. “tutela
reale” per tutti i lavoratori subordinati colpiti da un licenziamento illegittimo; un secondo il generale
riconoscimento di diritti riconducibili all’esercizio dell’attività sindacale
in tutti i luoghi di lavoro. I presentatori delle richieste di referendum hanno inteso proporre
agli elettori due distinti quesiti per consentire, in ipotesi, anche una scelta
differenziata sulla diversa tipologia di diritti da estendere.
Si ritiene pertanto che sia preferibile mantenere tale distinzione…”.
Con la ordinanza
definitiva del 9.12.2002 la Corte di Cassazione ha condiviso tali considerazioni
ed ha disposto che i quesiti restino distinti.
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I promotori – ripetesi
– hanno fatto proprio l’orientamento
espresso dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 27 del 1982;
appare però doveroso segnalare che tale pronuncia ha destato perplessità in molti autorevoli
commentatori. Le ragioni sono riportate nella ampia
nota di R. GRECO (in Foro italiano 82,
I, 614), il quale osserva: “…E’ certo,
comunque, che fra i «criteri
integrativi» dell’art. 75 Cost. quello relativo alla omogeneità dei quesiti –
al quale ha fatto riferimento la corte per dichiarare inammissibile il
referendum sullo statuto – fa sorgere le maggiori perplessità sia per la
sua elasticità sia perché la omogeneità dei quesiti è solo un requisito del modo in cui la
richiesta di abrogazione è sottoposta al corpo elettorale che assurge così a
requisito dell’ammissibilità stessa del referendum (v. le osservazioni in tal
senso di ONIDA, Principi buoni, applicazioni discutibili, ibid., 564). In realtà, l’assunto della corte cui secondo i quesiti debbano essere posti
con la omogeneità necessaria ad
esaltare e non a coartare la libertà della scelta popolare, per cui
quesiti eterogenei non possono essere
ammessi perché, di fatto, non
metterebbero il corpo elettorale in
condizione di scegliere liberamente e con coscienza, non può essere
condiviso senza riserve. In primo luogo
da esso traspare la non felice immagine del «popolo
bambino» da proteggere (v. in tal senso
BALDASSARRE, La commedia degli errori, ibid.,
578, ed ivi il richiamo ad un articolo di NEPPI MODONA su «Repubblica» del 10
febbraio 1978) ed inoltre, proprio perché suscettibile di un uso dilatato ed
incontrollato, questo argomento boomerang finisce per
sottrarre l’unico strumento di democrazia diretta alla sovranità popolare, fra
l’altro in base alla «necessità di proteggere» la sovranità stessa..”.
Nell’articolo di G. NEPPI MODONA (“La Corte protegge il popolo bambino”) è contenuta una
riflessione che condividiamo: “…l’istituto referendario ha tale rilievo
politico da non poter essere abbandonato alle scelte discrezionali, e perciò stesso contingenti,
di un organo sia pure prestigioso e credibile qual è la Corte Costituzionale.
E’ urgente un intervento del
legislatore che predetermini con precisione e chiarezza i limiti di ammissibilità del
referendum. In particolare deve essere
la legge a stabilire i criteri alla stregua dei quali valutare l’omogeneità dei quesiti
proposti al corpo elettorale… Se la
Corte ha ancora una volta esteso la sfera delle sue
attribuzioni ed ha svolto un ruolo più politico che giuridico, la
responsabilità va dunque in gran parte addebitata ai ritardi ed alle inerzie del nostro legislatore: anche
questa sentenza, al di là dello specifico problema dei referendum, acquista
significato di una messa in mora del Parlamento e delle forze politiche che
dovrebbero consentire un corretto e tempestivo funzionamento…”.
Inutile rilevare che la “messa in mora”
non ha dato alcun frutto e l’inerzia del legislatore permane tuttora.
I promotori del referendum hanno però
voluto evitare alla Corte sia “sforzi
interpretativi” per ricavare dalle diverse questioni un quesito comune e
razionalmente unitario (come indicato da Corte Cost. 16/78), sia “scelte
discrezionali perciò stesso
contingenti”, presentando richieste referendarie distinte e con
quesiti chiari, omogenei ed univoci.
Per quanto concerne, dunque, il quesito relativo al Reg. Ref. n. 134 non sussiste, con
tutta evidenza, né alcuno dei
limiti espressamente previsti
dall’art. 75, 2° comma, Cost., né qualsivoglia limite implicito ricavabile dal
sistema costituzionale: le richieste di referendum oggi all’esame della Corte
sono infatti finalizzate ad estendere, e non limitare,
le tutele per diritti di portata costituzionale (con l’attuazione, in
particolare, degli artt. 1 primo comma, 4, 32 secondo
comma, 41 secondo comma, in coordinamento con l’art. 3, nonché
dell’effettivo esercizio del diritto di cui all’art. 40) senza alcuna lesione,
quindi, di principî costituzionali di pari rilievo, come del resto è comprovato
dalla ultratrentennale applicazione dell’art. 18 legge n. 300/70.
E’ opportuno ricordare che sin dai primi
anni successivi alla approvazione della L. 300/70 molti Giudici di merito hanno sollevato la
questione di costituzionalità proprio
sulla diversa ed ingiustificata
limitazione della applicazione dell’art. 18 l. 300/70 ai datori di lavori con
più di 15 dipendenti: in tutte le
ordinanze di rimessione si evidenziava il
sospetto della violazione sia del
principio di uguaglianza e di parità di trattamento dei lavoratori (e dei
datori di lavoro) desumibile dall’art. 3
Cost., sia
del precetto di cui all’art. 4 Cost..
Né, d’altra parte,
possono sussistere dubbi rispetto ai
requisiti della chiarezza, univocità ed omogeneità dei quesiti, che consistono esclusivamente nella
traduzione “tecnica” del titolo di
cui all’ordinanza del 9 dicembre 2002 dell’Ufficio centrale per il referendum
costituito presso la Corte di cassazione che ha dichiarato legittima la richiesta
del referendum in oggetto, che recita: “Reintegrazione dei lavoratori
illegittimamente licenziati: abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni
per l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori”.
Trattasi di concetti assolutamente chiari
e lineari: i promotori intendono pervenire ad una ricomposizione del mondo del
lavoro subordinato abrogando quelle disposizioni che prevedono limiti ed
esenzioni (per le dimensioni
occupazionali ovvero per la natura del datore di lavoro) nell’applicazione della
sanzione da irrogare in caso di licenziamento la
cui illegittimità sia stata accertata dall’Autorità Giudiziaria: con la conseguenza
che il successo dell’iniziativa referendaria
comporterebbe un’estensione a tutti i lavoratori subordinati (ad
eccezione del lavoro domestico, dei
lavoratori ultrasessantacinquenni in possesso dei
requisiti pensionistici e dei dirigenti, vista la peculiarità del loro rapporto
– non soggetti alla normativa vincolistica dei licenziamenti - disciplinato
rispettivamente dalla legge n. 339/58 e dall’art. 10 legge n. 604/66 e successive
modifiche, richiamati dall’art. 4 della legge n. 108/90 nella parte non oggetto
di richiesta di referendum abrogativo) del diritto di riavere il proprio
posto di lavoro ed ottenere il risarcimento dei danni pari alle retribuzioni
perdute dal licenziamento alla reintegrazione (fatti salvi da un lato l’aliunde perceptum – come
ormai pacifico in giurisprudenza – e dall’altro un risarcimento minimo di
cinque mensilità) così come prevede, appunto, l’art. 18 della legge n. 300/70.
In tal modo troverebbe definitiva conferma
un principio peraltro già espresso dalla migliore dottrina, secondo cui alla
citata norma va riconosciuto «…valore
di disposizione centrale di un sistema autonomo di tutela contro il licenziamenti. Non “norma aggiunta” al testo della legge
604/66, dunque; ma testo autonomo al quale si
“aggiungono” sia le norme sostanziali della legge 604/66 sia le norme
sostanziali di ogni altra legge che prevede casi di invalidità del
licenziamento non autonomamente sanzionati. Che poi l’art. 18 abbia uno specifico campo di applicazione, è circostanza che
ne rafforza, ma non ne determina, l’autonomia sistematica. Con la conseguenza
che, se il campo di applicazione specifico fosse
abrogato dal referendum, sarebbe il sistema dell’art. 18 ad espandersi sia
soggettivamente (venendo a cadere il riferimento limitativo alle imprese) sia in senso dimensionale (venendo a cadere
il riferimento al numero) con conseguente estensione “orizzontale” della
formula “tutti/16” (tutti i datori di lavoro senza alcuna soglia dimensionale)
ed abrogazione di ogni diverso limite..” (D’ANTONA: Gli effetti
abrogativi del referendum sul campo di applicazione
dello statuto dei lavoratori: veri e falsi problemi. Nota
a commento di Corte Cost. 2 febbraio 1990, n. 65 in Foro It. 1999, 750 ss.).
Riteniamo che le parole del grande giuslavorista tragicamente scomparso - di commento alla
sentenza di codesta Corte n. 65/90 con la quale, come si è già ricordato, si era ritenuto ammissibile un quesito
finalizzato appunto ad ampliare la tutela dell’art. 18 legge n. 300/70
indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati - mantengano la loro attualità,
indipendentemente dal fatto che le norme di riferimento delle quali si propone
oggi l’abrogazione siano state parzialmente modificate (la legge n. 604/66 e lo
stesso art. 18 della legge n. 300/70 hanno infatti subìto
modifiche – e razionalizzazioni - ad opera della legge n. 108/90).
Il principio dell’estensione del diritto
alla reintegrazione – come
conseguenza dal licenziamento
dichiarato illegittimo, nullo ed inefficace -
a prescindere dalle dimensioni occupazionali - facilmente percepibile
dall’elettorato - è il medesimo, ed ha
senz’altro i requisito della chiarezza e della
coerenza, e quindi dell’univocità e dell’omogeneità.
Osserviamo
infine che il quesito contiene – coerentemente - anche la richiesta di abrogazione delle
norme relative alla c.d. “tutela
obbligatoria”, che non ha più ragione di
esistere all’esito della generalizzazione della “tutela reale”.
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2. REFERENDUM n.
2 (Reg.
Ref. n. 135) denominato
“Attività sindacale nei luoghi di lavoro: abrogazione delle norme che
stabiliscono limiti numerici ed
esenzioni per i diritti e le tutele previsti dal titolo III dello Statuto dei
Lavoratori”.
Per quanto concerne il quesito proposto con il secondo referendum, parimenti
esso non investe leggi tributarie o di bilancio, di amnistia
e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, così come
non è diretto a travolgere leggi c.d. “a contenuto costituzionalmente
vincolato”: anche in questo caso la richiesta di referendum all’esame della
Corte è finalizzata ad estendere, e non limitare,
diritti di portata costituzionale senza alcuna lesione di principî
costituzionali in potenziale contrasto.
Rispetto poi ai requisiti della chiarezza, univocità ed
omogeneità, il quesito appare di
una linearità esemplare, ed assolutamente semplice anche nella sua formulazione
tecnica, attuativa del titolo “Attività
sindacale nei luoghi di lavoro: abrogazione delle norme che stabiliscono limiti
numerici ed esenzioni per i diritti e le
tutele previsti dal titolo III dello Statuto dei Lavoratori”.
Esso è, come il primo, finalizzato alla ricomposizione del mondo del
lavoro subordinato ricostruendo una comune civiltà del lavoro, in particolare
con l’estensione dei diritti di manifestazione del pensiero, di libertà
associativa e di attività sindacale in tutti i luoghi
di lavoro.
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Si conclude
quindi per l’ammissione delle richieste referendarie sopra indicate.
Roma, 10 gennaio 2003
Prof. Avv. Piergiovanni
Alleva Avv. Pier Luigi
Panici Avv. Alberto
Piccinini
SENTENZA N. 41
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Riccardo CHIEPPA Presidente
Gustavo ZAGREBEL SKY Giudice
Valerio ONIDA “
Carlo MEZZANOTTE “
Femanda CONTRI “
Guido NEPPI MODONA “
Piero Alberto CAPOTOSTI “
Annibale MARINI “
Franco BILE “
Giovanni Maria FLICK “
Francesco AMIRANTE “
Ugo DE SIERVO “
Romano VACCARELLA “
Paolo MADDALENA “
Alfio FINOCCHIARO “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell’art. 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione:
- dell’art. 18, comma primo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle sole parole “che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo” e all’intero periodo successivo che recita: “Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro”;
- dell’art. -18, comma secondo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, e norme sul collocamento”, come modificato dall’art. i della legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui al primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale”;
- dell’art. 18, comma terzo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie”;
- dell’art. 2, comma 1, della legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata “Disciplina dei licenziamenti individuali”, che recita: “I datori di lavoro privati, imprenditori non agricoli e non imprenditori, e gli enti pubblici di cui all’articolo i della legge 15 luglio 1966, n. 604, che occupano alle loro dipendenze fino a quindici lavoratori ed i datori di lavoro imprenditori agricoli che occupano alle loro dipendenze fino a cinque lavoratori computati con il criterio di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo i della presente legge, sono soggetti all’applicazione delle disposizioni di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, così come modificata dalla presente legge. Sono altresì soggetti all’applicazione di dette disposizioni i datori di lavoro che occupano fino a sessanta dipendenti, qualora non sia applicabile il disposto dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 1 della presente legge”;
- dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, titolata “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro coni anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro”;
-
dell’art. 4, comma 1, della legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata “Disciplina
dei licenziamenti individuali”, limitatamente al periodo che così recita: “La
disciplina di cui all’articolo 18 della legge 20
maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo i della presente legge, non
trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che
svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale,
ovvero di religione o di culto”; giudizio iscritto al n. 134 del registro referendum.
Vista l’ordinanza del 9 dicembre 2002 con la quale l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme a legge la richiesta;
udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 2003 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky;
uditi gli avvocati Alberto Piccinini e Pier Luigi Panici per i presentatori Paolo Cagna Ninchi, Pier Luigi Panici, Giacinto Botti e Pietro Alò.
Ritenuto in fatto
1. - L’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione, in applicazione della legge 25 maggio 1970, n. 352, e successive modifiche e integrazioni, esaminata la richiesta di referendum popolare presentata in data 28 febbraio 2002 da quattordici cittadini italiani - quale risultante dall’annuncio pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del lo marzo 2002, n. 51 - per l’abrogazione (a) di parte del comma primo e dei commi secondo e terzo dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), (b) del comma i dell’art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali), c) dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e (d) di parte del comma i dell’art. 4 della citata legge n. 108 del 1990, ne ha verificato la regolarità e, rilevata (con ordinanza del 21 ottobre 2002) la necessità di alcune integrazioni e correzioni formali del quesito, con ordinanza del 9 dicembre 2002 ha dichiarato che la richiesta di referendum è conforme alla legge.
Il quesito referendario, quale risultante dalle integrazioni e correzioni disposte, è così formulato:
“Volete voi l’abrogazione:
- dell’art. 18, comma primo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall’art. i della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle sole parole “che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo” e all’intero periodo successivo che recita: “Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro”;
- dell’art. 18, comma secondo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, e norme sul collocamento”, come modificato dall’art. i della legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui al primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale”;
- dell’art. 18, comma terzo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall’art. i della legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie”;
- dell’art. 2, comma 1, della legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata “Disciplina dei licenziamenti individuali”, che recita: “I datori di lavoro privati, imprenditori non agricoli e non imprenditori, e gli enti pubblici di cui all’articolo i della legge 15 luglio 1966, n. 604, che occupano alle loro dipendenze fino a quindici lavoratori ed i datori di lavoro imprenditori agricoli che occupano alle loro dipendenze fino a cinque lavoratori computati con il criterio di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo i della presente legge, sono soggetti all’applicazione delle disposizioni di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, così come modificata dalla presente legge. Sono altresì soggetti all’applicazione di dette disposizioni i datori di lavoro che occupano fino a sessanta dipendenti, qualora non sia applicabile il disposto dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 1 della presente legge”;
- dell’art. 8 della legge 15 luglio i966, n. 604, titolata “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge il maggio 1990, n. 108, che recita: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento »per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro”;
- dell’art. 4, comma 1, della legge il maggio 1990, n. 108, titolata “Disciplina dei licenziamenti individuali”, limitatamente al periodo che così recita: “La disciplina di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 1 della presente legge, non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, ovvero di religione o di culto”»?.
Con la medesima ordinanza del 19 dicembre 2002 l’Ufficio centrale ha stabilito, in applicazione dell’art. 32, ultimo comma, della legge n. 352 del 1970, la seguente denominazione del referendum: «Reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati: abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori».
2. - Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale, il Presidente di questa Corte ha fissato, per la deliberazione in camera di consiglio sull’ammissibilità del referendum, la data del 14 gennaio 2003, dandone comunicazione ai presentatori della richiesta e al Presidente del Consiglio dei ministri, a norma dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.
3. - I presentatori della richiesta hanno depositato in data 9 gennaio 2003, a norma dell’art. 33, terzo comma, della legge n. 352 del 1970, una memoria nella quale, richiamati alcuni precedenti della giurisprudenza di questa Corte, si conclude per l’ammissibilità del referendum, in particolare sotto i profili della omogeneità, della chiarezza e della univocità del quesito proposto.
4. - Nella camera di consiglio del 14 gennaio 2003 i rappresentanti dei presentatori hanno insistito per una pronuncia di ammissibilità della richiesta di referendum popolare.
Considerato in diritto
1. - La richiesta di referendum abrogativo popolare, sull’ammissibilità della quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi, investe quattro disposizioni in materia di disciplina dei licenziamenti individuali di lavoratori operanti nel settore privato, e precisamente:
(a) l’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento) (cd. statuto dei lavoratori), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. i della legge 11 maggio 1990, n. 108, del quale si propone l’abrogazione limitatamente a parte del comma primo e ai commi secondo e terzo;
(b) l’art. 2, comma 1, della citata legge n. 108 del 1990 (Disciplina dei licenziamenti individuali);
(c) l’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990;
(d) l’art. 4, corna 1, secondo periodo, della stessa legge n. 108 del 1990.
2.1. - A differenza di quanto stabilito dall’art. 2118 cod. civ., che prevedeva il cosiddetto recesso ad nutum dal rapporto di lavoro, la materia dei licenziamenti individuali è oggi regolata, in presenza degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al principio della necessaria giustificazione del recesso e del potere di adire il giudice, riconosciuto al lavoratore, in caso di licenziamento arbitrario. Tale principio, affermato con la legge n. 604 del 1966 e confermato con la legge n. 300 del 1970 (nonché con la legge n. 108 del 1990, modificativa delle due precedenti), è stato peraltro svolto per mezzo di due forme di garanzia:
a) la cosiddetta garanzia obbligatoria, prevista dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, che comporta l’obbligo del datore di lavoro di riassumere il lavoratore o, in alternativa, di corrispondergli un’indennità quando il licenziamento risulti privo di una giusta causa (art. 2119 cod. civ.) o di un giustificato motivo (art. 3 della medesima legge del 1966);
b) la cosiddetta garanzia reale, prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, che, per il caso di licenziamento ingiustificato, inefficace e nullo, stabilisce, per il datore di lavoro, l’obbligo di «reintegrare» nel posto di lavoro il lavoratore e di corrispondergli un’indennità a titolo di risarcimento del danno subito, e, per il lavoratore, la possibilità di rinunciare al «reintegro» e di ottenere, in alternativa a esso, un’ulteriore indennità.
Tutela obbligatoria e tutela reale differiscono dunque profondamente circa le conseguenze del licenziamento arbitrario: l’una è incentrata sulla garanzia patrimoniale, sul presupposto dell’idoneità del recesso illegittimo a risolvere il rapporto di lavoro; l’altra, sulla continuità del rapporto di lavoro, garantita dal diritto al reintegro, sul presupposto dell’inidoneità del recesso illegittimo a risolverlo.
2.2. - Apprestando le due forme di garanzia, il legislatore ne ha altresì definito gli ambiti di applicazione. Dopo l’intervento della legge n. 108 del 1990, essi risultano configurati come segue.
La tutela reale trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che occupino più di quindici dipendenti in ciascuna unità produttiva, come individuata dalla legge, e, in ogni caso, quando occupino più di sessanta dipendenti; per i datori di lavoro imprenditori agricoli, il limite numerico è stabilito in più di cinque dipendenti (art. 18, primo comma, della legge n. 300 del 1970)
La tutela obbligatoria opera invece in tutti i casi in cui non vale la tutela reale, cioè (art. 2 della legge n. 108 del 1990) nei confronti dei datori di lavoro che occupino fino a quindici lavoratori (computati secondo medesimi criteri previsti ai fini della tutela reale ovvero fino a cinque dipendenti, se imprenditori agricoli; nonché nei confronti dei datori di lavoro che comunque occupino fino a sessanta dipendenti, sempre che non sia applicabile la garanzia reale.
La tutela reale, inoltre, è prevista in tutti i casi di licenziamento dettato da ragioni discriminatorie (art. 3 della legge n. 108 del 1990) -
Accanto a questa disciplina generale, basata (a parte l’ultima ipotesi menzionata) sul criterio del numero di occupati, esistono norme che (a) escludono dall’ambito di applicazione della garanzia reale i lavoratori che prestano la loro opera alle dipendenze di datori non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività cosiddette di tendenza, cioè «di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto» (art. 4, corna 1, secondo periodo, della legge n. 108 del 1990), (b) escludono altresì dall’ambito di applicazione tanto della garanzia reale quanto di quella obbligatoria — valendo per esse la regola residuale del recesso ad nutum — alcune categorie di lavoratori come: i lavoratori domestici (art. 4, corna 1, primo periodo, della legge n. 108 del 1990); i lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici e che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto (art. 4, corna 2, della stessa legge); i dirigenti (ex artt. 10 e 2, quarto corna, della legge n. 604 del 1966, e 3 della legge n. 108 del 1990); i lavoratori in prova, fino all’assunzione definitiva e comunque per non oltre sei mesi dall’inizio del rapporto (art. 10 della legge n. 604 del 1966).
2.3. - Tramite la soppressione delle disposizioni e delle parti di disposizioni indicate nell’esposizione del fatto, il referendum abrogativo la cui ammissibilità costituzionale deve qui essere vagliata è rivolto in primo luogo all’estensione della garanzia reale contro i licenziamenti ingiustificati ai lavoratori che attualmente, in conseguenza dei limiti numerici sopra ricordati, godono esclusivamente della garanzia obbligatoria. Questo obiettivo è perseguito, da un lato, attraverso l’eliminazione dei limiti numerici che impediscono attualmente alla garanzia reale di operare in favore dei lavoratori impiegati nelle piccole strutture produttive; dall’altro, parallelamente a questa estensione, attraverso l’abrogazione della norma che attualmente assicura a questi lavoratori soltanto la garanzia obbligatoria.
Il referendum mira altresì all’estensione della medesima garanzia reale anche ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività «di tendenza».
Restano invece fuori della portata del referendum altre categorie di lavoratori del settore privato per le quali valgono discipline particolari (come i lavoratori domestici, i lavoratori ultrasessantenni, i dirigenti, i lavoratori in prova) -
3. - La richiesta di referendum è ammissibile.
3.1. Le norme oggetto del quesito referendario sono estranee alle materie in relazione alle quali l’art. 75, secondo comma, della Costituzione preclude il ricorso all’istituto del referendum abrogativo.
3.2. La domanda posta agli elettori con il quesito referendario è inoltre omogenea. Essa concerne, nel suo nucleo centrale, disposizioni e parti di disposizioni che, nell’ambito della disciplina dei licenziamenti individuali e alla stregua dei criteri dimensionali sopra indicati (paragrafo 2.2.), definiscono l’ambito e i limiti di operatività della tutela reale apprestata dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 in favore del lavoratore illegittimamente licenziato.
Investendo contemporaneamente (a) la norma che prevede la garanzia obbligatoria, avente originariamente portata generale (art. 8 della legge n. 604 del 1966), (b) la connessa previsione che successivamente ha delineato i limiti numerici al di sotto dei quali si applica la medesima garanzia (art. 2 della legge n. 108 del 1990), nonché (c) la speculare determinazione dei limiti dimensionali al di sopra dei quali si applica la tutela reale (art. 18, primo corna, della legge n. 300 del 1970, nelle parti indicate), la domanda di abrogazione in esame chiarisce la propria obbiettiva ratio unitaria consistente, conformemente al titolo assegnato al referendum dall’Ufficio centrale, nell’estensione della garanzia della reintegrazione e del risarcimento del danno contenuta nell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, in modo da comprendere in essa anche l’ambito in cui oggi vale la tutela obbligatoria.
La domanda referendaria coinvolge inoltre disposizioni strettamente conseguenziali, dettate ai fini del computo dei dipendenti e per l’applicazione di agevolazioni finanziarie e creditizie indipendentemente dal limite numerico (commi secondo e terzo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970), le quali perderebbero ogni ragion d’essere una volta espunto dal sistema il criterio dimensionale al quale esse fanno riferimento.
2.3. - Il quesito è omogeneo, pur concernendo altresì la disposizione (art. 4, comma 1, della legge n. 108 del 1990) che esclude l’applicabilità della garanzia di stabilità reale per i dipendenti da datori di lavoro, non imprenditori, che esercitano un’attività «di tendenza». L’esistenza di una matrice razionalmente unitaria è comunque assicurata dall’obiettivo comune di estendere l’ambito di operatività della garanzia reale in settori nei quali essa attualmente non opera.
3.4. - Non incide poi sulla completezza del quesito - e quindi sull’esigenza della sua non-contraddittorietà rispetto all’intento referendario - ma solo sull’estensione della sua portata abrogatrice, rimessa evidentemente alla discrezionalità dei proponenti, la circostanza che esso non concerna la posizione di alcune categorie particolari di lavoratori, come ad esempio quelle previste dall’art. 4 della legge n. 108 del 1990 o da normative speciali.
3.5. - La domanda referendaria si presenta, per quanto detto, chiara e univoca nella sua struttura e nei suoi effetti. Essa propone al corpo elettorale un’alternativa netta tra il mantenimento dell’attuale disciplina caratterizzata dalla coesistenza di due parallele forme di tutela, quella obbligatoria e quella reale, e l’estensione della seconda.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione, nelle parti indicate in epigrafe: dell’art. 18, commi primo, secondo e terzo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali); degli artt. 2, comma 1, e 4, comma 1, secondo periodo, della legge n. 108 del 1990; dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990; richiesta dichiarata legittima, con ordinanza del 9 dicembre 2002, dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.
Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2003.
F. to:
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2003.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
LA GIUSTA CAUSA – STESSO LAVORO STESSI DIRITTI
STATUTO (depositato presso i presidenti di Camera e Senato)
Articolo 1
(Comitato promotore nazionale)
1.1 - È costituito il Comitato promotore nazionale per i referendum
costituzionali abrogativi di parti
rilevanti dell’articolo 18, relativo a “Reintegrazione nel posto di lavoro”, nonché di tutto l’articolo 35, relativo a “Campo di
applicazione”, Legge n. 300/70 Statuto dei Lavoratori.
1.2 - Il Comitato promotore nazionale può promuovere proposte di legge di iniziativa popolare per ottenere comuni tutele per tutti
i lavori e per la democrazia, il diritto
di voto e alla rappresentanza nei luoghi di lavoro.
1.3 - Il Comitato promotore nazionale non ha fini di lucro.
1.4 - Il Comitato promotore nazionale elegge la propria sede legale
presso lo studio dell’avvocato Pier Luigi Panici in Roma, via
Otranto 18.
Articolo 2
(Composizione
del Comitato promotore nazionale)
2.1 – Il Comitato promotore nazionale, di cui al precedente articolo, è
costituito da:
a. i quattordici cittadini italiani depositari dei
quesiti referendari, i quali costituiscono il comitato dei garanti;
b. le personalità della società civile che si
riconoscono nei principi, finalità e obiettivi presenti nell’appello dei
quattordici cittadini italiani depositari dei quesiti referendari.
2.2 – Il Comitato promotore nazionale è composto da:
Stefano Albani, Pietro Alò, Carlo Amirante, Riccardo Bellofiore, Marco
Bersani, Giacinto Botti, Emiliano Brancaccio, Paolo Cagna Ninchi, Franco
Calamida, Bruno Cartosio, Federica Cattaneo, Nicola Cipolla, Pasquale Colella, José Luis Del Roio,
Maria Pia Esposti, Luigi Ferrajoli, Mario Fezzi,
Raffaele Fiengo, Dario Fo, Andrea Fumagalli, Giorgio
Gardiol, Giulio Girardi, Augusto Graziani, Pierluciano Guardigli, Carlo Guglielmi,
Leo Gullotta, Domenico Iervolino,
Citto Maselli, Lidia
Menapace, Maria Grazia Meriggi, Emilio Molinari, Isidoro Mortellaro, Moni Ovadia, Gilberto Pagani,
Andrea Panaccione, Piero Panici, Emilio R. Papa, Mery Paradisi, Fulvio Perini,
Giuseppe Prestipino, Guglielmo Ragozzino, Franca
Rame, Alfio Riboni, Vittorio Rieser, Ugo Riscigno,
Rossano Rossi, Angela Ruggieri, Franco Russo, Amerigo
Sallusti, Luigi Saraceni, Teresa Savi, Guglielmo
Simoneschi, Ugo Spagnoli, Giancarlo Toppi, Roberto Veneziani, Ugo Verzeletti
2.3 – Il Comitato promotore nazionale promuove la costituzione del
Comitato nazionale di sostegno aperto alle forze politiche e sociali, alle
personalità della cultura, politiche, sindacali che si riconoscono nelle finalità
e negli obiettivi del Comitato promotore nazionale.
2.4 – Il Comitato promotore nazionale nomina il proprio presidente che,
all’unanimità, viene indicato in Paolo Cagna Ninchi.
2.5 – Il presidente ha
la rappresentanza legale del Comitato promotore nazionale.
COMITATO NAZIONALE PER IL SI AL
REFERENDUM SULL’ARTICOLO 18 STATUTO
Articolo 1
(Comitato nazionale per il SI)
1.1 - È costituito il Comitato nazionale per il SI al referendum costituzionale abrogativo di parti rilevanti dell’articolo 18, relativo a “Reintegrazione nel posto di lavoro”, Legge n. 300/70 Statuto dei Lavoratori.
1.2 - Il Comitato nazionale per il SI sostiene e promuove davanti all'opinione pubblica e ai mezzi di comunicazione il contenuto della richiesta di abrogazione e può promuovere proposte di legge di iniziativa popolare per ottenere comuni tutele per tutti i lavori e per la democrazia, il diritto di voto e alla rappresentanza nei luoghi di lavoro.
1.3 - Il Comitato nazionale per il SI non ha fini di lucro.
1.4 - Il Comitato nazionale per il SI ha sede in Roma, via Tolero 9 ed elegge la propria sede legale presso lo studio dell’avvocato Pier Luigi Panici in Roma, via Otranto 18.
Articolo 2
(Composizione del
Comitato promotore nazionale)
2.1 – Il Comitato nazionale per il SI, di cui al precedente articolo, è costituito da:
a. i quattordici cittadini italiani depositari dei quesiti referendari;
b. i cittadini aderenti al comitato promotore nazionale;
c. i rappresentanti delle forze politiche e sociali, le personalità della società civile che si riconoscono nei principi, finalità e obiettivi presenti nell’appello del comitato promotore.
2.2 – Il Comitato nazionale per il SI è composto da:
Vittorio Agnoletto, Stefano Albani, Pietro Alò, Carlo Amirante, Gianni Battaglia, Riccardo Bellofiore, Tom Benetollo, Piero Bernocchi, Fausto Bertinotti, Angelo Bonelli, Giacinto Botti, Antonio Bove, Emiliano Brancaccio, Paolo Brutti, Paolo Cagna Ninchi, Franco Calamida, Loris Campetti, Giuseppe Cantillo, Bruno Cartosio, Federica Cattaneo, Nicola Cipolla, Pasquale Colella, Roberto Cortese, Giorgio Cremaschi, Sergio Cusani, Guido D'Agostino, José Luis Del Roio, Angelo Demarco, Maria Pia Esposti, Massimo Fabiani, Daniele Farina, Gianni Ferrara, Paolo Ferrero, Mario Fezzi, Raffaele Fiengo, Massimo Florio, Dario Fo, Andrea Fumagalli, Galapagos, Giorgio Gardiol, Alfonso Gianni, Giulio Girardi, Augusto Graziani, Pierluciano Guardigli, Carlo Guglielmi, Leo Gullotta, Fiorino Iantorno, Domenico Iervolino, Pierpaolo Leonardi, Gaetano Liguori, Tino Magni, Fabio Marcelli, Citto Maselli, Giorgio Mele, Lidia Menapace, Maria Grazia Meriggi, Emilio Molinari, Giulio Moretti, Isidoro Mortellaro, Moni Ovadia, Gilberto Pagani, Andrea Panaccione, Pier Luigi Panici, Mery Paradisi, Luigia Pasi, Alfonso Pecoraro Scanio, Fulvio Perini, Luciano Pettinari, Gabriele Polo, Giuseppe Prestipino, Guglielmo Ragozzino, Franca Rame, Francesca Re David, Ugo Rescigno, Alfio Riboni, Vittorio Rieser, Gianni Rinaldini, Armando Romeo, Rossano Rossi, Angela Ruggieri, Franco Russo, Paolo Sabatini, Amerigo Sallusti, Cesare Salvi, Luigi Saraceni, Elisa Savi, sergio Segio, Gianpaolo Silvestri, Guglielmo Simoneschi, Ugo Spagnoli, Aurelio Speranza, Giancarlo Toppi, Giuseppe Tortora, Aldo Tortorella, Luciano Vasapollo, Bruno Veneziani, Roberto Veneziani, Ugo Verzeletti, Massimo Villone
2.3 – Il Comitato nazionale per il SI si impegna a promuovere l’adesione delle forze politiche e sociali, delle personalità della cultura, politiche, sindacali che si riconoscono nelle finalità e negli obiettivi della proposta referendaria.
2.4 – Il Comitato nazionale per il SI nomina il proprio portavoce che, all’unanimità, viene indicato in Paolo Cagna Ninchi.
Roma, 22 gennaio 2003
“Ferme
restando l'esperibilità delle procedure previste
dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, numero 604, il giudice con la
sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2
della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o
giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa,
ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in
ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha
avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori
di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore
agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali
disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non
imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici
dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale
occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità
produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni
caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue
dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.
Ai fini del computo
del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei
lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti
con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di
orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il
computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla
contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti
del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea
collaterale.
Il
computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o
istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
Il giudice con la sentenza
di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno
subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata
l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla
retribuzione globale di fatto dal giorno del
licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei
contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al
momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento
non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.
Fermo
restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto
comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di
lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità
pari a quindici mensilità di retribuzione globale di
fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito
del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro
trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento
dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è
provvisoriamente esecutiva.
Nell'ipotesi
di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza
congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca
mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre
con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova
forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di
lavoro.
L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con
reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si
applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto,
quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L'ordinanza
può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.”
I datori di lavoro privati, imprenditori non agricoli e non
imprenditori, e gli enti pubblici di cui all'articolo 1 della 15 luglio 1966,
numero 604, che occupano alle loro dipendenze fino a quindici lavoratori ed i
datori di lavoro imprenditori agricoli che occupano alle loro dipendenze fino a
cinque lavoratori computati con il criterio di cui all'articolo 18 della legge
20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'articolo 1 della presente legge,
sono soggetti all'applicazione delle disposizioni di cui alla 15 luglio 1966,
numero 604, così come modificata dalla presente legge. Sono
altresì soggetti all'applicazione di dette disposizioni i datori di lavoro che
occupano fino a sessanta dipendenti, qualora non sia applicabile il disposto dell'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n.
300, come modificato dall'articolo 1 della presente legge.
Fermo
restando quanto previsto dall'articolo 3, le
disposizioni degli articoli 1 e 2 non trovano applicazione nei rapporti
disciplinati dalla legge 2 aprile 1958 n. 339. La disciplina di cui
all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato
dall'articolo 1 della presente legge, non trova applicazione nei confronti dei
datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di
natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero
di religione o di culto.
Le disposizioni di cui
all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato
dall'articolo 1 della presente legge, e del l'articolo 2 non si applicano nei
confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione
del rapporto di lavoro ai sensi dell'articolo 6 del decreto-legge 22 dicembre
1981, n. 791, convertito, con
modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 54. Sono fatte salve le
disposizioni dell'articolo 3 della presente legge e dell'articolo 9 della legge
15 luglio 1966, n. 604.
Quando risulti accertato che non ricorrono gli
estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di
lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre
giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo
compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima
retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati,
alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di
lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della
predetta indennità può essere maggiorata fino a 10
mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e
fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai
venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici
prestatori di lavoro.
3
ARTICOLO 18: UN REFERENDUM DI TUTTI
PAOLO CAGNA NINCHI, presidente Comitato LA GIUSTA CAUSA, promotore del referendum sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
1. La sentenza della Corte costituzionale che ha giudicato legittima la richiesta di referendum sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori apre la via al voto popolare della primavera 2003 per la libertà, i diritti nel lavoro, per una società più giusta.
Ora occorre una campagna estesa, unitaria, che affronti e ponga, nei luoghi di lavoro e nella società, la questione di come deve essere una società civile nel terzo millennio e su questo sappia mobilitare le coscienze. Una campagna articolata e approfondita in tutto il Paese, che coinvolga i luoghi di lavoro, le donne e gli uomini che lì vi operano, con l’insieme della società della quale quelle donne e quegli uomini vogliono far parte a pieno titolo di cittadinanza.
La vittoria del SI permette di realizzare un progetto incardinato nel principio dell’universalità dei diritti che leghi insieme: le questioni della rappresentanza, come diritto del cittadino lavoratore; l’estensione dell’art. 18 come diritto alla dignità della persona; la parità dei diritti e delle tutele sul lavoro a prescindere anche dalla nazionalità del lavoratore.
Questo è il senso della proposta contenuta nel referendum di estendere a tutti e a tutte l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Lo Statuto dei Lavoratori diventò legge nel maggio del 1970, quando in Italia c’era il protagonismo sindacale sia all’interno delle grandi fabbriche dove nascevano i consigli di fabbrica, sia nella società che evolveva nella cultura e nel costume
Nei trent’anni che sono trascorsi sono profondamente cambiati la struttura produttiva, l’organizzazione e il mercato del lavoro:
· gli addetti nelle medie e grandi imprese erano maggioranza ora il rapporto si è rovesciato a favore delle imprese sotto i 15 dipendenti, per una modifica strutturale dell’assetto produttivo attraverso i grandi processi di outsourcing;
· negli ultimi dieci anni si è rovesciato anche il rapporto tra lavoro a tempo determinato e lavoro a tempo indeterminato;
· si è ridisegnata la struttura sociale con due grandi fratture che si intersecano tra loro: una tra lavoro ed esclusione sociale e una tra lavoro regolare e lavoro irregolare.
Quindi se da un lato vi è una questione che riguarda dignità, sicurezza sul posto di lavoro (3 milioni di infortuni all’anno di cui più di 1300 mortali) e libertà dei lavoratori, dall’altro c’è il problema di tutele e norme con questo valore che non hanno un carattere generale in una situazione nella quale, tra l’altro, la protezione sociale è estremamente fragile.
L’altro elemento che ha caratterizzato questo trentennio è costituito dai grandi processi di trasformazione legati allo straordinario progredire dell’innovazione tecnologica. Ma l’innovazione, anziché migliorare le condizioni di lavoro e produrre più ricchezza per tutti è stata finalizzata a un’enorme riconversione dei processi di lavoro, e insieme con il decentramento produttivo nelle aree nelle quali il costo del lavoro è svincolato da diritti e tutele, ha consentito un devastante attacco ai diritti sociali – il welfare - e alle libertà del lavoro nei paesi del primo mondo come condizione dell’ultima fase dello sviluppo capitalistico.
Infine il mercato globale ha reso strutturale il ricorso alla dequalificazione sociale del lavoro come strumento fondamentale della competizione capitalistica e questo processo si fonda essenzialmente sul radicale cambiamento dell’impianto costruito in un secolo di conflitto sociale, di organizzazione delle grandi masse lavoratrici sia sul piano sociale con il sindacato, sia sul piano politico con i partiti della sinistra.
Oggi questa storia si conclude con l’approvazione da parte del governo della legge delega 848 sul mercato del lavoro che fa della precarietà la nuova forma istituzionale del lavoro, cancella il contratto come strumento collettivo e elimina il ruolo di rappresentanza e di contrattazione del sindacato. Così trent’anni dopo quella che sembrava una conquista destinata a durare anche come conquista di un parametro di civiltà, il complesso di norme approvato dalla legge delega costituisce il più radicale attacco al sistema di regole e diritti costruiti in un secolo di lotte sociali, politiche e giuridiche; stravolge l’intero diritto del lavoro, attua una vera, profonda rivoluzione del patto sociale su cui si regge la Costituzione..
Rispondere a questo attacco a tappeto non è possibile limitandosi a un’azione puramente difensiva e di contenimento dell’aggressività di una destra che ha un programma chiarissimo: impresa e competitività al governo dell’economia, del lavoro e dello stato sociale; attacco al modello universale di scuola e sanità; messa in discussione della mediazione sociale realizzata attraverso il ruolo delle rappresentanze sociali e politiche su cui si fonda la nostra Costituzione.
Considerando questo stato di cose il referendum rappresenta non solo l’opportunità, ma la necessità di rovesciare questa tendenza, mettere al centro dello scontro politico il tema del lavoro e del suo ruolo per le persone e per la società.
Né basta difendere la situazione esistente, già precaria di per sé – il 95% delle imprese e il 64% dei lavoratori dipendenti non ha più la tutela dell’articolo 18 - per mantenere l’efficacia della norma che impedisce che un lavoratore non possa essere licenziato senza giustificato motivo.
Voglio sottolineare tema della universalità dei diritti, principio liberale, ostico ai liberal-liberisti di oggi, perché esso è tanto più cruciale nella situazione attuale, nella quale le diverse fasi della produzione vengono distribuite in varie parti del mondo, considerato quale centro produttivo globale, facendo così emergere differenze di trattamento, di condizioni di lavoro e frammentazioni dei diritti dei lavoratori. Da una parte quindi produzione senza confini e, dall’altra, diritti confinati.
Non si difende un diritto se lo si lascia a pochi, così come un diritto o è universale o non è. Per questo io credo che la campagna per l’estensione dell’articolo 18, per la vittoria del SI, riguarda da un lato dignità, sicurezza sul posto di lavoro e libertà dei lavoratori, dall’altro rende effettiva la nostra Costituzione, dà corpo alla Carta europea dei diritti fondamentali, deve incidere sulla Costituzione europea a cui si sta lavorando in questa fase.
2. Ma detto tutto ciò, consideriamo le critiche che vengono mosse al referendum.
C’è troppa rigidità nel lavoro dicono governo e Confindustria.
Tralasciando il dato oramai noto che le nuove forme contrattuali hanno introdotto decine di forme di lavoro flessibile e che già oggi i famosi co.co.co. sono oltre 2 milioni, è bene riflettere su un dato: negli ultimi dieci anni sono stati licenziati 2.500.000 lavoratori, mentre ne vengono reintegrati ogni anno in forza dell’articolo 18 circa 1300. Questo vuol dire che nel nostro Paese si può licenziare liberamente per ragioni che riguardano l’andamento dell’impresa. Inoltre lo stesso Statuto dei lavoratori all’articolo 7 prevede le procedure di licenziamento in caso di comportamento scorretto del lavoratore. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori impedisce soltanto che un lavoratore possa essere licenziato senza giustificato motivo e, nel caso ciò avvenisse, consente che quel lavoratore possa rivolgersi alla magistratura, ovvero a un giudice terzo, per ritornare in possesso di ciò che gli è stato ingiustamente tolto: il posto di lavoro. Vale a dire, citando Massimo D’Antona, di quei «diritti fondamentali che devono riguardare il lavoratore non in quanto parte di un qualsiasi tipo di rapporto contrattuale, ma in quanto persona che si aspetta dal lavoro l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua vita e della sua personalità».
Favorisce forse lo sviluppo, fa emergere dal sommerso, rende l’impresa più competitiva poter licenziare liberamente il lavoratore che porta i capelli lunghi, la lavoratrice che denuncia molestie sessuali, l’impiegato di banca omosessuale, l’immigrato che perde tre dita sotto una pressa, la commessa che va in maternità? Questi sono casi emblematici di sentenze di reintegro che chiunque può trovare sulle riviste giuridiche e che ci dicono che senza la tutela reale dal licenziamento arbitrario, il lavoratore vive sotto un ricatto permanente, che non consente il concreto ed effettivo esercizio dei propri diritti, lo rende totalmente indifeso di fronte all’arbitrio e inoltre impoverisce il suo contributo alla qualità del lavoro a detrimento anche dell’impresa.
Ci sono poi i molti dubbi della sinistra.
L’intenzione è buona, lo strumento, il referendum, è sbagliato, si dice. Intanto il referendum è un diritto costituzionale, unica forma di intervento popolare sul legislatore e di proposta al paese da parte di una minoranza, per questo non ci può essere un referendum buono – quello che modifica l’articolo 18 che voleva Cofferati – e uno cattivo - quello che lo estende. In ogni caso dopo la sentenza della Consulta, questa discussione è accademica: il referendum c’è e non si può evitare se non con una legge che estenda l’articolo 18, vada cioè nel senso voluto dai promotori.
E per una legge sono in campo più proposte, compresa quella della CGIL. Una buona cosa e una importante battaglia parlamentare, se verrà fatta. E il comitato che ha promosso il referendum, anche per il suo ruolo istituzionale, non è contrario a una legge, solo sa – come tutti - che per farne una che vada nella direzione dell’estensione dei diritti - e quindi eviti il referendum e dia uno sbocco alla straordinaria mobilitazione del 2002 e ai 5 milioni di firme della CGIL - ci vogliono condizioni politico-parlamentari che oggi non ci sono.
Cade anche l’idea che si possa impedire per altra via se non referendaria l’approvazione delle modifiche all’articolo 18 contenute nel Patto per l’Italia, la legge delega 848bis. La difesa dell’articolo 18 così com’è oggi è possibile solo con la vittoria del SI. Nel 2003 il governo approverà la 848bis, se lo fa prima del referendum, essa verrà inglobata nel quesito, in quanto in contraddizione con esso, e quindi sottoposta al voto, se invece, come è certo, la fa dopo a maggior ragione è necessario sostenere il SI, perché non si legifera contro un voto popolare appena espresso, che, tra l’altro, per come è formulato il quesito, produce l’immediata efficacia della nuova norma senza intervento del legislatore.
Ma l’alleanza con le piccole imprese? Questa preoccupazione sembra sinceramente un po’ datata. Nella crisi dell’impianto produttivo del paese non sono alcune centinaia di vertenze per licenziamento ingiustificato a mandare a rotoli l’economia e Fazio, che lo sa, ci dice cosa è accaduto in questi anni al tessuto produttivo di questo paese, che ha oggi il 95% delle imprese sotto i 10 dipendenti.
C’è anche l’attacco “egualitario”: date i diritti ai dipendenti garantiti,
e agli atipici, al lavoratore in nero chi ci pensa? La risposta è semplice.
Estendere la tutela dalla libertà di licenziamento ai 6.000.000 di lavoratori
che oggi non l’hanno, non è già meglio che ridurla alla minoranza che ancora ce l’ha? E i 2.000.000
di atipici e i 3.000.000 di lavoratori in nero non conteranno
sull’effetto che avrà la vittoria del SI, trovando ragioni di speranza e di solidarietà
in un mondo del lavoro ricomposto e sottratto al ricatto permanente del
licenziamento arbitrario? E non è forse per questo che il 23 marzo del 2002 erano a migliaia al circo Massimo?
Infine l’accusa più dura: divide la sinistra, è il referendum di Bertinotti. Intanto, ringraziamo ancora Rifondazione, la FIOM, la CGIL di LavoroSocietà, i Verdi, Socialismo 2000, il sindacalismo extraconfederale, ATTAC, e gli altri soggetti che lo hanno sostenuto durante la raccolta delle firme e reso possibile. Ma noi non l’abbiamo promosso per unire la sinistra, né per definire uno schieramento, fare un nuovo partito o altro. Con il referendum vogliamo porre una questione di merito e non di schieramento. Poi diventa il referendum di Bertinotti (a parte la strumentale campagna di stampa) se si lascia solo lui a difenderne le ragioni: se lo fanno anche i DS diventerà il referendum di Fassino. Noi promotori non siamo gelosi, chiediamo solo di ricordare che questo referendum è di tutti e che la battaglia per il SI è una battaglia per la giustizia, per la civiltà. Su questo chiediamo un giudizio.
E’ certo comunque che dalla vittoria del SI si creano le condizioni per l’unità dei lavoratori, per ricomporre quei rapporti sociali che la politica economica dell’ultimo decennio ha frantumato facendo nascere una nuova stagione sociale e politica con vantaggio e ragioni di unità per una sinistra ancora troppo attenta alle logiche di schieramento, ai propri processi interni, piuttosto che alle domande della società, del mondo del lavoro, dei più deboli.
Perciò proviamo a lavorare insieme a una campagna affrontata con spirito unitario e aperto, confrontandoci con tutti e tra tutti, senza barriere ideologiche, senza steccati di schieramento, senza logiche di primazia: per far crescere e diffondere nel nostro paese una cultura di giustizia sociale.
3. Infine è necessario riflettere su un aspetto che non riguarda solo i confini, spesso angusti, della politica nazionale.
Dopo l’11 settembre sono caduti anche gli ultimi brandelli delle regole che si sono date le nostre democrazie – modifica della NATO, crisi dell’ONU, del tribunale penale internazionale – mentre parallelo è lo smantellamento di un secolo di cultura politica che ha fondato sul lavoro e sul conflitto sociale modelli di convivenza democratica, di progresso sociale e politico.
La riduzione dei diritti, la precarizzazione nei paesi più industrializzati colpisce il lavoro come strumento di emancipazione sociale e politica: il suo indebolimento con l’attacco ai diritti è una faccia della medaglia, l’altra è la sostituzione delle regole dei rapporti tra stati con la logica di potenza e la guerra.
Questo processo non è però lineare.
La scelta della CGIL contro la guerra e per i diritti nel lavoro con la più grande mobilitazione del dopoguerra per partecipazione e durata pone un punto fermo: i diritti nel lavoro non sono merce ma condizione di cittadinanza e sono legati a un’idea della qualità del lavoro e dello stato sociale come fondamento dello sviluppo.
Firenze dimostra che il movimento ha proposte che coinvolgono migliaia di giovani, saldano tra loro generazioni, delude chi punta sugli scontri per ridurne il grande impatto sociale e politico, ha aperto un fronte, quello dell’Europa, decisivo per questioni tra loro strettamente intrecciate: il tema della pace, dei diritti, della libertà e della dignità del lavoro si legano all’idea di un’Europa soggetto politico che fondi la sua costituzione sulla giustizia sociale e sul diritto internazionale.
Queste contraddizioni vedono l’Europa come possibile soggetto di discontinuità di questo percorso proprio nel momento in cui si allarga la sua platea ed è aperto il processo per definirne la costituzione.
A me sembra naturale approfondire e cogliere il nesso tra diritti, flessibilità e guerra e insieme necessario cercare legami e collegamenti con i movimenti che si oppongono alla guerra.
La libertà di licenziamento è un tratto di barbarie sociale, perché fonda i rapporti sociali sull’arbitrio e nega i principi costituzionali di difesa dei soggetti più deboli e ha ricadute sostanziali su diritti fondamentali quali la libertà di pensiero, di espressione, di adesione a partiti politici, a formazioni sindacali, su ogni altra forma di tutela e su ogni altro diritto di fonte contrattuale e legale.
La guerra di Bush è l’affermazione planetaria del diritto del più forte, ferisce la cultura dell’Europea uscita dalla seconda guerra mondiale, straccia la nostra costituzione, ha bisogno per affermarsi di eliminare il diritto internazionale, la volontà dei popoli e le forme con le quali essa si manifesta.
Il referendum sull’articolo 18 è un referendum per i diritti e la giustizia sociale: estendere l’articolo 18 vuol dire fermare la deriva di questo ultimo decennio, porre la questione del lavoro intrecciando diritti e tutele con qualità e sviluppo, rendere effettiva la nostra Costituzione e nello stesso tempo dare corpo alla Carta europea dei diritti fondamentali su una questione che tocca dignità, sicurezza sul posto di lavoro e libertà dei lavoratori.
Per questo è anche un referendum per la pace e contro la guerra.
Per questo non solo occorre una campagna che affronti e ponga, nei luoghi di lavoro e nella società, la questione delle caratteristiche di una società civile nel terzo millennio e su questo sappia mobilitare le coscienze. Una campagna articolata e approfondita in tutto il Paese, che coinvolga i luoghi di lavoro, le donne e gli uomini che lì vi operano, con l’insieme della società della quale quelle donne e quegli uomini vogliono far parte a pieno titolo di cittadinanza.
Ma è necessario pensare a un lavoro che dall’articolo 18 guardi alla costituzione dell’Europa, che unisca movimenti, soggetti sociali e politici che si muovono su terreni contigui: il movimento per i diritti sociali, il movimento per la giustizia e quello contro la guerra.
LE RAGIONI GIURIDICHE
DEL REFERENDUM
di PIER LUIGI PANICI e CARLO GUGLIELMI [1]
Introduzione
Da oltre dieci anni un “gran numero di enti e personaggi autorevoli chiedono ogni giorno che si accresciuta la flessibilità del lavoro”. In particolare si sostiene che la tutela da licenziamento illegittimo approntata dall’art. 18 della L.300/70 - per cui il lavoratore in caso di buon esito del giudizio ha diritto al risarcimento del reale danno oltre che al ripristino del rapporto – ingessi il mercato del lavoro impedendo anche i recessi legittimi e quindi riducendo la complessiva competitività e occupazione.
Ad onta della vastità e importanza delle fonti i dati ad esse sottesi sono pochi e dicono il contrario L’unica certezza è che l’elevata disoccupazione in Europa è per la gran parte addebitabile al fallimento delle politiche occupazionali di governi e imprenditori e rinviamo per un analisi dettagliata al contributo di Emiliano Brancaccio[2] dato alla battaglia referendaria e disponibile sull’apposito sito. In realtà la libertà in Italia di licenziare esiste, ed è praticata largamente. L’ISTAT ci dice, infatti, che negli ultimo 10 anni ci sono stati in Italia 2,5, milioni di licenziamenti. A fronte di una media annua quindi di 250 mila recessi, le sentenze di reintegrazione ex art. 18 sono meno di 1.800 all’anno in tutta Italia! Ricordiamo infatti che l’art. 18 non definisce in modo alcuno cosa debba intendersi per recesso legittimo (definizione rimessa ad altre leggi, per altro assai più “permissive” che non nel resto d’Europa) e non ha pertanto rilevanza alcuna sulla maggiore o minore “flessibilità” del rapporto bensì solo sull’intensità della risposta sanzionatoria/ripristinatoria all’eventuale abuso accertato giudizialmente. Sgombrato il campo da tali falsi argomenti occorre quindi chiarire il vero oggetto dello scontro in atto attorno a tale strumento di tutela, difficilmente spiegabile con il solo ricorso ai numeri (per cui solo lo 0,72% dei licenziamenti irrogati nel decennio scorso paiono esser stati sanzionati tramite il predetto articolo). Ciò è stato chiarito dalla dottrina giuslavorista rimasta più intellettualmente onesta (ben riassunto nel commento dei giuristi della Consulta Giuridica della CGIL “La delega al governo per il mercato del lavoro: un disegno autoritario nel metodo, eversivo nei contenuti”) ribadendo la vera, triplice valenza positiva dell’articolo 18,
a) Tutela della dignità e della sicurezza del lavoratore nel momento in cui perde il lavoro per un motivo ingiusto. Un licenziamento arbitrario costituisce una profonda offesa alla personalità stessa del lavoratore, che non può essere risarcita con una somma di danaro, per di più assai modesta.
b) Tutela preventiva del lavoratore contro la rappresaglia datoriale per esercizio da parte del lavoratore degli altri diritti sanciti dalle leggi e dai contratti collettivi. Solo chi sa che la controparte non potrà facilmente “vendicarsi” prima o poi con un licenziamento ingiustificato, avrà il coraggio di richiedere ad es. le ore straordinarie non pagate o la qualifica superiore spettante per le mansioni effettivamente svolte, o la stessa regolarizzazione di un rapporto di lavoro in nero o condizioni di lavoro meno pericoloso e insalubre. Il diritto a non perdere il posto di lavoro senza la giusta causa e, in una parola, il diritto che rende effettivi e non solo teorici tutti gli altri diritti.
c) Efficacia diffusiva delle migliori condizioni di lavoro, normalmente usufruite nelle imprese in cui si applichi l’art. 18, in materia di orario, di salute, di qualifica, di retribuzione, di agibilità sindacale. Poiché in queste imprese il diritto del lavoro è normalmente rispettato, esse divengono un polo di attrazione per gli altri lavoratori dipendenti dalle imprese minori, i quali, se in possesso di una accettabile professionalità mirano a trasferirvi, così da costringere gli stessi piccoli imprenditori ad avvicinarsi anche loro agli standard di trattamento delle imprese maggiori per non perdere la manodopera qualificata. Sul piano sindacale, il contratto collettivo stipulato grazie all’insediamento sindacale nelle imprese maggiori, ove vige l’art. 18, finisce in concreto con il valere anche per le imprese minori dove il timore del licenziamento di rappresaglia, più o meno mascherato, trattiene i lavoratori dalla sindacalizzazione e dall’intraprendere azioni di lotta.
E’, insomma, un circolo virtuoso e non già un circolo vizioso quello che l’art. 18 innesca e mantiene nel mondo del lavoro ed è questo che si vuole in realtà attaccare.
Una delle relazioni consegnate ai partecipanti al seminario dell’AED (Avvocati Europei Democratici) tenutosi sulla tutela europea dai licenziamenti illegittimi nel marzo del 2000 a Barcellona riportava come epigrafe il seguente passaggio tratto dal bellissimo libro di Massimo D’Antona “La reintegrazione nel posto di lavoro” una pubblicazione successiva all’introduzione dello Statuto dei lavoratori in Italia.
“Ci sono dei
diritti fondamentali nel mercato del lavoro che devono riguardare il lavoratore non in quanto parte di un qualsiasi tipo di rapporto
contrattuale, ma in quanto persona che sceglie il lavoro come proprio programma
di vita, che si aspetta dal lavoro l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i
fattori costitutivi della sua vita e della sua personalità”.
E questo passo, particolarmente bello, introduce un quarto motivo di valorizzazione dell’art. 18 che ne sintetizza i primi tre introducendo il canone giuridico dei “diritti fondamentali dell’uomo” che ci accompagnerà nel resto della trattazione.
Ed infatti va rilevato come tali diritti siano effettivamente stati in qualche misura garantiti tramite l’art. 18 solo ad una porzione del mondo del lavoro in Italia, rimanendone fuori tutti gli addetti alle piccole imprese (cioè il 56% dei lavoratori subordinati) e, sempre più negli anni, i cosiddetti lavoratori atipici. Ora che viene proposta l’abolizione delle tutele anche per coloro che ne avevano ottenuto il riconoscimento, il Governo, la grande impresa e i loro comuni vocalist sprezzantemente usano l’argomento per accusare la sinistra e i sindacati di difendere solo i garantiti. Il quotidiano della Confindustria (Il sole 24 ore del 29.1.2002) pone con chiarezza la questione Il professor Pietro ICHINO, rispondendo al segretario della CGIL Sergio Cofferati che aveva definito in una intervista l’art. 18 come “elemento di civiltà”, afferma: “se davvero fosse una questione di civiltà, il movimento sindacale dovrebbe essere da trent’anni in agitazione permanente per estendere questa protezione a quella metà della forza lavoro che non l’ha mai avuta”,.
Abbiamo quindi accettato la sfida posta dalla Confindustria: mai più lavori senza diritti, senza cadere nel facile tranello della contraddizione tra insider e outsider.
Il punto non è certo quali lotte siano state fatte per i dipendenti di piccole imprese negli ultimi trent’anni (alcune anche importanti, le più significative – guarda caso – in occasione di un’iniziativa referendaria nel 1990) ma il compito dei referendari è provare a spiegare perché OGGI sia straordinariamente attuale e vitale l’estensione invocata. E per illustrare ciò pare opportuno partire dalle obiezioni di quanti – pur in alcuni casi condividendo la pura “conservazione” dell’art. 18 – si oppongono all’iniziativa referendaria.
1. “IL REFERENDUM CI ALLONTANA DALL’EUROPA”
Alcuni infatti provano a sostenere che ogni proposta di intervento
normativo che aumenti le garanzie di stabilità occupazionale in controtendenza
con le “riforme” dell’ultimo quindicennio tutte tese ad aumentare la “flessibilità” del rapporto,
trasformi l’Italia in un’ inaccettabile anomalia
Anche in questo caso è vero l’esatto contrario. Ed infatti i principi giuridici europei impongono OGGI al nostro legislatore di alzare le tutele proprio per quel principio di civiltà caro a D’Antona e deriso dalla nostra Confindustria. Il lavoro, infatti, ed il diritto che lo regola è coinvolto in due grandi trasformazioni in corso:
1) la integrazione economica e monetaria europea;
2) la integrazione giuridica tra diritto comunitario e diritto nazionale.
Il Referendum tiene conto del primo aspetto e riguarda quindi il secondo: è anzi lo sviluppo coerente e lineare, quasi necessitato dalla approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nata proprio per far guidare l’integrazione economica e monetaria dai valori sanciti dal diritto comunitario e non viceversa lasciarla divenire “una provincia dell’impero”, per citare Supiot. La Carta riconosce, infatti, come fondamentali i diritti sociali (capo IVº), primo pilastro su cui fondare il concreto superamento dell’approccio mercatista e monetarista dominate sino allora nei Trattati. Ed infatti è possibile brevemente ricordare come la “Carta sociale europea” firmata a Torino il 18.10.61 non era richiamata nel trattato di Maastricht del 1992 mentre la “Carta Comunitaria dei diritti fondamentali dei lavoratori” del 1989 non era stata firmata dal Regno Unito. Oltre all’affermazione di tali diritti sociali, nella carta c’è anche il dovere degli Stati membri dell’Unione di promuovere l’applicazione e, rendere effettivo l’esercizio (art. 51,1) e il penultimo capoverso del “preambolo” della Carta ammonisce come “il godimento di questi diritti fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”.
Come si vede espressioni
chiare e solenni che stabiliscono
l’obbligo degli Stati di operare in modo che l’esercizio dei diritti sia
effettivo e non resti mera enunciazione.
Le limitazioni poste nello statuto dei lavoratori alla piena tutela contro il licenziamento illegittimo prevista dall’art. 18 dello Statuto ne riducono l’applicazione ai solo addetti delle grandi imprese. Come è noto, infatti, gli atipici non hanno tutela alcuna mentre i dipendenti di piccole imprese hanno il diritto ad una irrisoria indennità risarcitoria compresa tra 2,5 e 6 volte l’ultima retribuzione goduta (e ciò solo dal 1990 dopo una specifica battaglia referendaria) .
Ma l’ingiustizia di tale differenza di trattamento diviene ancora più inaccettabile oggi in quanto l’art. 30 Carta prevede che “OGNI LAVORATORE ha diritto alla tutela contro OGNI LICENZIAMENTO INGIUSTIFICATO ”. Al riguardo non si fa nessuna distinzione
- pubblico/privato,
- tra aziende con più di 15 dipendenti o meno
- tra lavoratori subordinati / para subordinati (atipici)
- e neppure a termine o a tempo indeterminato.
E’ innalzato cioè il livello di protezione per i lavoratori di Stati membri che non hanno tutela adeguata, e fissato un punto di non ritorno per quelli che hanno le tutele: nessuna possibilità di involuzione legislativa.
Detto ciò quale può essere la tutela adeguata di tale diritto?
Pur essendo possibile diverse risposte un punto fermo è stabilito dall’art. 52,1 della Carta stessa: essa non può essere tanto irrisoria da violare il contenuto precettivo del divieto di recesso illegittimo.
Per fare un esempio di immediata comprensibilità ci si richiama all’art. 2 ove si afferma “il diritto alla vita” e l’art. 3 il “diritto all’integrità della persona”. Se l’ordinamento, che è tenuto a difendere tale diritto, punisce gli infortuni mortali sul lavoro cagionati dalla colpa grave dell’imprenditore con la pena della detenzione da un minimo di 2,5 mesi a 6 mesi, può dirsi rispettato l’obbligo degli stati a prevedere tutele non irrisorie? La risposta è scontata ma è comunque utile la sua enunciazione: No!
L’art. 18 è invece certamente una delle possibili tutele adeguate: ma non è per tutti, come esige la Carta Europea e anche la nostra Costituzione (art. 2, 3, 4, 41, 42) ed anzi il Governo sta agendo per farlo divenire sempre più per pochi.
Opporsi al suo progressivo smantellamento e procedere all’abrogazione in via referendaria del limite che ne prevede l’applicazione alle aziende con più di 15 dipendenti è quindi quanto di più “europeo”.
La conseguente legislazione di “risulta”, a seguito dell’auspicato successo dell’iniziativa referendaria, è infatti lineare, chiarissima, coerente:
“ogni lavoratore licenziato ingiustamente ha diritto a riavere il posto ed un risarcimento danni pari alle retribuzioni perdute dal licenziamento alla reintegrazione”. Nel rigido rispetto, cioè, della normativa europea si darebbe così una poderosa spinta alla ricomposizione del mondo del lavoro subordinato in Italia, pubblico (il 18 vale ormai anche per loro) e privato ricostruendo una comune civiltà del lavoro, estendendo la democrazia, portando la Costituzione oltre la soglia di OGNI luogo/non luogo di lavoro.
Per un referendum “abrogativo”
un effetto espansivo di diritti davvero portentoso.
2. E’ UNA BATTAGLIA DI RETROGUARDIA”
Altro
argomento con cui assai spesso si accusa i referendari di non tener conto
dell’avvenuta modifica del paradigma
produttivo che rende obsoleta la battaglia, nostalgicamente legata ad una
centralità del lavoro subordinato fordista tramontata
per sempre.
La verità pare opposta, ed infatti – come si dirà meglio illustrando la riforma governativa in essere – è in campo una potente strategia di “risubordinazione” sociale, pensata e costruita, però, completamente priva di quei contropoteri (primo fra tutti l’art. 18) che l’hanno storicamente temperata facendola divenire strumentale e non più ontologica. Occorre altresì prendere atto che sono proprio i limiti di applicazione della tutela stabiliti dal legislatore degli anni 70, basati sulla quantità numerica di lavoratori regolarmente dipendenti nella stessa “unità produttiva” , ad essere divenuti non attuali e, alla lunga, inaccettabili per tutti. E ciò perché la ristrutturazione produttiva, mediante tecniche di outsorcing e diffusione a rete, unitamente all’acquisita centralità del lavoro immateriale, ha un bisogno sempre minore di un nucleo di lavoratori stabilmente e tradizionalmente occupati nella medesima “unità produttiva” che a volte addirittura scompare nella sua fisicità e si immerge nel sociale. Ed ecco perché se si crede nel più potente strumento contro la servilizzazione del lavoro sino ad oggi inventato - e cioè la “tutela reale” contro i licenziamenti arbitrari - occorre sganciare il diritto da concetti quali “unità produttiva” e “soglia numerica minima” di lavoratori assunti a tempo indeterminati con contratto di lavoro subordinato e occorre far “riuscire” dalla fabbrica al territorio il diritto soggettivo a non essere licenziati ingiustamente che, finalmente sganciato da parametri esterni sempre più antistorici ed evanescenti, sia finalmente predicato ad ogni lavoratore. E così, va ricordato, già la nostra Costituzione ha posto a principio fondamentale il diritto al lavoro ma, essendo “sincera” nel prender atto come molti ostacoli se ne frappongano al dispiegamento, fa obbligo allo Stato di “promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto”; la prima delle quali è ovviamente quella di non consentire che si possa esserne privati arbitrariamente. Mantiene ancora tuta la valenza quindi l’affermazione del ministro del Lavoro Brodolini al momento della approvazione dello Statuto dei Lavoratori (legge 20.5.70 n. 300): “la Costituzione varca i cancelli delle fabbriche”. Ora va aggiunto che la Costituzione non solo deve rimanere dentro le fabbriche ma deve anche riuscirne per raggiungere i lavoratori in qualunque parte della catena del valore siano stati posizionati (indotto, appalto, “leasing”, telelavoro, lavoro in parasubordinazione e “parautonomia” ecc)
3. “ma l’estensione riguarda solo una minoranze marginale dei lavoratori”
Altro argomento, a
corollario del precedente, con cui si
accusa l’iniziativa referendaria di aver spostato lo scontro su un segmento
minoritario della forza lavoro che non ha effetti e
presa sul “grosso” dei lavoratori dipendenti comportando la inevitabile
sconfitta dell’iniziativa.
A prescindere che i dati dicono come la platea
oggi potenzialmente coinvolta sia tutt’altro che
marginale ovverosia di circa 5 milioni di lavoratori (senza contare i
soci-lavoratori di cooperativa parzialmente coperti dall’art. 18 dopo la
riforma del 2000) pare assai agevole dimostrare che in
realtà la vittoria del si avrebbe
effetti per tutti i lavoratori dipendenti.
Ed infatti l’approvazione della legge n. 30 del 2003 di
delega al governo in materia di occupazione e mercato del lavoro conferma la
situazione di grave pericolo che incombe sull’assetto delle principali tutele e
garanzie del lavoro; pericolo ovviamente ancora più accentuato dalla avvenuta ricalendarizzazione della seconda legge delega (il c.d. disegno
di legge 848 bis) nel quale l’attacco all’art. 18 dello Statuto è apertamente
rinnovato dal Governo che ufficialmente ne ha promessa la pronta approvazione .
È certo ormai che il Governo voglia attuare tutto il suo piano di “riforma” del mercato e dei rapporti di lavoro a suo tempo enunziato con il Libro bianco. Ma già la sola entrata a regime della legge delega n. 30/2003 sarebbe sufficiente a vanificare in larga parte, la vittoriosa battaglia difensiva condotta nella primavera del 2002 a salvaguardia dell’art. 18 e dunque indirettamente di tutte le altre norme di tutela e garanzia.
Infatti con la traduzione in decreti delegati dei disposti della legge 30 si avrebbe uno svuotamento e un aggiramento di quella tutela per una grossa parte dei lavoratori che oggi ne godono e di quelli che ne potrebbero diventare destinatari.
Con essa infatti viene, ad esempio, introdotta la cessione di ramo d’azienda non predefinito (il datore può scegliere e assemblare un certo numero di lavoratori e di attività, definirli ramo d’azienda, e cederli senza il loro consenso), il leasing di mano d’opera (la legge lo chiama proprio così: l’utilizzatore compra a tempo indeterminato un “risorsa” che però rimane di “proprietà” dello staff lieser, che può essere anche un imprenditore con un unico dipendente, e ciò sino a che serve ammortandone a bilancio il costo), il lavoro a chiamata (il dipendente rimane nella permanente disponibilità del datore ma viene utilizzato e quindi correttamente pagato solo quando riceve la chiamata) la flessibilità dei tempi anche del part time su unilaterale decisone del datore (per cui la retribuzione continua ad essere parametrata sull’inferiore orario effettivo ma l’acquisto del tempo vita è integrale in quanto diverrebbe ogni giorno modificabile la fascia oraria di utilizzazione impedendo ogni programmazione della vita familiare e privata) E ciò riguarda certo tutto il lavoro dipendente. Ma pare opportuno concentrarsi sui primi punti toccati ovverosia sul disposto dell’art. 1 della legge n. 30/2003 con riguardo al “superamento/abrogazione” della legge 1369/60 sul doivieto di intermediazione di mano d’opera, all’introduzione dello Staff leasing e alla riforma dell’art. 2112 c.c. in tema apparentemente di trasferimento di azienda, ma in realtà di liberalizzazione delle c.d. esternalizzazioni. Fatto ciò si rileva come uno degli obiettivi più evidenti sia della possibilità di “societarizzare” minuscoli comparti produttivi dell’azienda e la liceità della sostituzione della propria forza lavoro permanente (e non più temporanea come avviene per gli interinali) con lavoratoti in leasing senza alcuna specifica legale sulle dimensione occupazionali ed economiche dello staff leaser (al contrario che per le agenzie interinali che dovevano avere necessariamente una grande struttura con presenza in 4 regioni e miliardi di capitale versato) dimostra già oggi come il comodo obiettivo della LEGGE CHE GIA’ ESISTE è quello di spostare fette sempre più consistenti di lavoratori in strutture societarie piccole e piccolissime.
Se si riflette infatti un con un po’ di attenzione sui nessi esistenti tra questi nuclei normativi, si comprende facilmente che essi convergono sull’unico obiettivo di consentire all’imprenditore di utilizzare forza lavoro evitando le responsabilità connesse a tale utilizzo e di collocarsi in una posizione di concreto strapotere contrattuale nei confronti dei lavoratori.
Invero, l’imprenditore, anche di media/grande dimensione potrebbe, da un lato, utilizzare a tempo indeterminato lavoratori da lui non dipendenti perché dipendenti dalla società di intermediazione ed anche, parallelamente, lavoratori dipendenti da piccole società “operative” da lui stesso create, controllate e partecipate, alle quali abbia preventivamente decentrato funzioni e strutture aziendali contemporaneamente instaurando con le medesime rapporti di appalto e di fornitura. In tal modo, il vero datore di lavoro sarebbe per così dire sempre “fuori tiro” per il lavoratore e per il sindacato, giacché l’interlocutore o l’antagonista diretto, titolare del rapporto di lavoro sarebbe comunque un soggetto fittizio o interposto: è ovvio che il lavoratore si troverebbe di fronte, nella maggior parte dei casi un datore di lavoro formale che occuperebbe meno di 16 dipendenti e che dunque potrebbe con la minaccia di licenziamento ingiustificato, ricattarlo in mille modi e maniere. Chi ha un po’ di pratica dei comportamenti concreti dei datori di lavoro non può non notare come già oggi, quasi per un effetto di annunzio, stia dilagando la prassi di suddividere le imprese in almeno due nuclei: quello strettamente produttivo composto da operai e tecnici di produzione e la c.d. “società di servizio” nella quale vengono concentrati gli impiegati amministrativi e commerciali al fine, e con il risultato, di far scendere ambedue le imprese al di sotto dei 16 dipendenti.
Ovviamente, se la scissione in due non fosse sufficiente si può procedere ad ulteriori frazionamenti sempre diretti al medesimo risultato. Ancor oggi, tuttavia, si tratta per i datori di lavoro di operazioni “a rischio” sia perché contrastabili sulla base della legge 1369/1960, in quanto per lo più le imprese così filiate e successivamente appaltatrici della funzione aziendale esternalizzata non hanno sufficiente consistenza di beni e strumentazioni aziendali e non sopportano un effettivo rischio di mercato, sia perché - sotto il profilo dell’attuale art. 2112 c.c.- l’autonomia della “parte” di azienda che viene ceduta alla società di nuova costituzione non è preesistente all’operazione di scorporo e quindi il lavoratore che adisce l’autorità giudiziaria può pretendere di “tornare” nella azienda madre.
Ma con le due riforme della legge 1369/60 e dell’art. 2112 c.c., contenute nella legge 30/2003 e tra loro combinate questi pericoli non esisteranno più, e la via all’esternalizzazione in frode all’art. 18 e conseguentemente degli altri diritti sarà aperta e liberamente e sicuramente percorribile da tutti.
Il vero è dunque che l’attacco all’art. 18 è più che mai in atto, e proprio perché viene perseguito con una tattica di aggiramento, è forse anche più dannoso in quanto passa per l’abbattimento di diverse e ulteriori normative di tutela. Va ricordato altresì, come sopra detto, che la delega 848 bis è stata ricalendarizzata al Senato e che entro l’estate porterà quindi alla sottrazione dell’art. 18 ai nuovi assunti (in caso di superamento della “soglia” dei quindici) nonché l’istituzione dell’arbitrato “secondo equità” e cioè la possibilità di far firmare ai lavoratori una “clausola compromissoria” che impedirà loro di adire la magistratura ma solo un collegio arbitrale il quale deciderà non secondo diritto ma secondo “equità”; ciò comporta che il lodo sarà impugnabile solo per vizi di procedura ma non – poniamo – se l’equità del collegio ritenga che un licenziamento pur preso contro le previsioni di legge sia comunque giustificato da altri e superiori valutazioni, ad esempio il bene dell’impresa. Va per altro rilevato come sia attualmente in discussione altresì la delega sulla “decontribuzione previdenziale dei nuovi assunti”. Tale riforma avrà certamente interessanti effetti sul nostro sistema pensionistico per cui – essendo ancora lo stesso per lo più a riparto per cui chi oggi lavora paga chi oggi è in pensione – quando i neo assunti diverranno maggioritari la “decontribuzione” sostanzialmente impedirà di pagare chi andrà allora in quiescenza (da cui la sottrazione coatta del t.f.r. da trasferire nei fondi pensione). Ma ciò che ancor più rileva è che un neo assunto, per via della decontribuzione, a parità di livello contrattuale costerà – per sempre –meno di un suo omologo assunto solo il giorno prima dell’entrata in vigore della riforma. E il neo assunto non solo costerà meno ma potrebbe non avere neppure la tutela dell’art. 18 e accetterà certo senza discutere (essendo condizione per l’assunzione) di firmare la clausola compromissoria di cui sopra. La domanda è quindi che fare dei “vecchi” assunti; la risposta – invero facile – è tutta nella decostruzione dell’impresa e nella facilità di licenziamento. Come si vede, l’estensione dell’art. 18 non riguarda soli 5 milioni di famiglie ma circa 20. A ciò pare opportuno aggiungere che se tali “riforme” andassero a regime (e su questo concordano tutti i giuslavoristi ed i sociologi del lavoro sia di sinistra che di destra) le modificazione strutturali provocate sulla composizione della forza lavoro sarebbero in gran parte irreversibili. E’ chiaro che le conseguenti imprese a “rete” costruite su decine di piccoli soggetti pseudoimprenditoriali con lavoratori che accedono al lavoro precariamente (a chiamata, con flessibilità di orario, con reiterata apposizione del termine) non tramite l’assunzione dell’utilizzatore ma tramite selezione politico – sindacale costituita a monte negli enti bilaterali che sono i principali soggetti a cui è stato demandato il leasing di forza lavoro, non sarà certo modificabile con una nuova legislazione implicando modifiche strutturali economiche e sociali permanenti.
La proposta referendaria, è in concreto l’unico mezzo a disposizione per respingere in modo tempestivo ed efficace l’attacco governativo. Ed infatti il referendum sull’art. 18 renderebbe la legge 30 poco più che carta straccia, nel senso che sarebbe frustrato alla base lo scopo pratico che con essa si propongono il Governo e le controparti datoriali.
Infatti una volta che il referendum avesse avuto successo, a che scopo, procedere a costose e burocraticamente pesanti esternalizzazioni se poi esse non indeboliscono per nulla il potere contrattuale dei lavoratori che le subiscono?
A che scopo valersi di personale formalmente dipendente da un intermediario, ma che ha tutte le possibilità di reagire contro ogni forma di sfruttamento sia da parte dell’intermediante che dell’intermediario?
A che scopo ancora utilizzare nuove forme di contratti precari, quali quello a chiamata, che precario più non sarebbero ed avrebbero invece in sé una forte carica di potenziale vertenzialità?
Va da sé che un eventuale successo del referendum sull’art. 18 renderebbe in seguito impraticabile anche il progetto di manomissione contenuto nel disegno di legge 848 bis, il quale è tutto imperniato sull’esistenza di un limite occupazionale di applicabilità della tutela reale del posto di lavoro, limite a quel punto già rimosso per volontà dell’elettorato.
Invero, quel disegno di legge governativo, nel prevedere che non siano soggette alla tutela reale dell’art. 18 le imprese di nuova costituzione, o che oltrepassino con nuove assunzioni la soglia di 15 dipendenti, reintrodurrebbe, a fil di logica e in primo luogo, proprio tale soglia, così contraddicendo la volontà del corpo elettorale manifestatasi con il successo del referendum. Secondo la migliore dottrina (ad es. Barile) ciò non sarebbe consentito al Parlamento, a pena di scioglimento da parte del Presidente della Repubblica per evidente divergenza dalla volontà popolare.
E’ agevole allora concludere che al Parlamento resterebbe inibita la possibilità di legiferare in senso “restauratorio” delle norme abrogate tramite referendum, e l’art. 18 sarebbe così “in salvo” per tutti e per sempre.
4. MA ALLORA PERCHÉ PROMUOVERE IL REFERENDUM “SBAGLIATO”, E CIOÈ QUELLO ESTENSIVO DELL’ART. 18, E NON GIÀ, QUELLO “GIUSTO” OVVEROSIA MERAMENTE ABROGATIVO DELLE LEGGI DELEGA?
Tematica
spesso usata da quanti ritengono sempre che la battaglia “è un’altra” (che poi
però non fanno mai)
I motivi “politici” che hanno condotto alla scelta di QUESTO referendum sono molti: è un referendum estensivo di diritti e non meramente “restauratore” dello statu quo ante, non consente al Governo di fare disinformazione utilizzando le piccolissime norme di tutela degli outsiders previste nel “libro bianco”, vanifica quindi il tema del falsissimo contrasto con gli insider che è stato il motivo portante della controcampagna mediatica dello scorso anno ecc.
Ma lo scopo della presente breve trattazione è di illustrare le ragioni giuridiche di questo referendum e quindi va rilevato come un contrasto alla legge 30 imperniato su referendum abrogativi della medesima legge, preannunciati da varie forze, difficilmente potrebbe essere efficace sia per ragioni di tempo sia per ragioni squisitamente tecniche.
Ricordiamo infatti che un referendum contro una legge delega non è mai stato esperito e dunque sulla sua ammissibilità restano molte incertezze, ancorché, a nostro parere, l’ammissibilità sussista dal momento che la legge delega, anche se non incide direttamente sugli istituti (trasferimento d’azienda, somministrazione di mano d’opera, ecc.) una innovazione nel mondo giuridico pur sempre la porta, ed essa è costituita proprio dal conferimento al Governo di un potere normativo nella materie oggetto della delega.
Ma anche se il referendum sulla legge delega fosse giuridicamente ammissibile, resterebbe il fatto che esso non si potrebbe tecnicamente svolgere prima del maggio/giugno 2004 quando già sarebbero stati emanati i decreti legislativi e ciò aprirebbe un nuovo complicatissimo problema giuridico circa il se e il come del trasferimento del quesito sui singoli decreti. Si tratta dunque di un percorso molto impervio e ciò qualora (come oggi sembra) non si vada ad elezioni anticipate che farebbe slittare di un ulteriore anno la consultazione.
Ma quale argomento “giuridico” principe non si può non rilevare come dal punto di vista politico e (in larga parte) giuridico gli esiti ed i risultati che si vorrebbero raggiungere con un referendum contro la legge 30/2003 sono già tutti impliciti nell’eventuale successo del referendum che è già in campo, quello sull’estensione dell’art. 18, il quale, anche per molti che non avevano condiviso un anno fa la proposta referendaria, appare quindi oggi una “felix culpa”
5. DA QUESTO REFERENDUM COMUNQUE NON USCIRA’ NESSUNA TUTELA PER IL POPOLO DEI LAVORATORI ATICIPI PER CUI E’ INDISPENSABILE L’APPROVAZIONE DI UNA SERIA E ARTICOLATA LEGGE GLOBALE DI RIMODULAZIONE DELLE TUTELE
E questo è l’ultimo argomento
dietro cui si attestano definitivamente i detrattori
dell’iniziativa referendaria che si sono infatti affannati negli scorsi mesi a
depositare il più ingente numero di progetti di legge di estensione delle tutele
che il Parlamento abbia visto.
Quest’ultimo argomento, unitamente ad un ampia dose di falsità e strumentalizzazione, contiene una parte di verità che deve essere affrontata con attenzione essendo invece assai facile sgombrare il resto. Quanto alla parte “falsa”: non è vero che il referendum sic et simpliciter non appresti tutele per gli atipici. Lo stesso Inps nei propri studi ha rilevato come il 90 percento di essi sia assolutamente monocommittente inferendo come una percentuale di quasi uguale dimensione altro non sia che ordinario lavoro subordinato simulato. Ovviamente a tutti i falsi “atipici” (e cioè la stragrande maggioranza di essi) l’estensione in via referendaria dell’art. 18 appronta le medesime tutele degli altri dipendenti. Quanto alla parte “strumentale” dell’eccezione basti rilevare che i più alti lai per la povera sorte degli atipici “ignorati” dal referendum vengono da quelle forze politiche e da quelle personalità che hanno per un settennio avuto la maggioranza parlamentare e la conseguente responsabilità di governo, non approvando neppure la più blanda delle tutele per chi non le aveva e provvedendo anzi a minare spesso quelle che c’erano. Ciò detto pare invece opportuno riflettere sui vari progetti di legge avanzati da parte di alcuni degli esponenti più intellettualmente onesti dell’opposizione sull’estensione delle tutele del lavoro ed in particolare quelle ad iniziativa popolare promossi dalla Cgil, che invece costituiscono effettivamente una risposta non solo difensiva ma propositiva, alternativa ed organica ai piani del governo di centro destra.
Quei progetti inglobano l’estensione anche ai dipendenti delle piccole imprese dell’art. 18, ma all’interno di un quadro normativo il quale, oltre a costituire l’altro modello di regolazione del mercato del lavoro, fondata sulla titolarità dei diritti anziché sulla loro abolizione, dà anche una risposta positiva ai non pochi problemi sui quali il quesito referendario non può intervenire.
Ci riferiamo, ad es., al fatto che l’eventuale successo della proposta referendaria non eliminerebbe certamente il ricorso ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa, (ma anzi fatalmente potrebbe in qualche misura incentivarlo) né imporrebbe tutele specifiche a tali forme contrattuali.
La proposta della Cgil previene questo pericolo perché uno dei disegni di legge avanzati in parallelo con quello riguardante l’estensione del art. 18 contempla appunto “l’estensione in orizzontale” delle tutele, ricomprendendo le collaborazioni in una fattispecie allargata di contratto di lavoro munito delle tutele del codice civile e della restante legislazione del lavoro; rivede in senso fortemente garantistico e antielusivo la disciplina del contratto a termine e vieta l’uso improprio e deformato del contratto di associazione in partecipazione.
Per altro verso, nei disegni della Cgil la materia dell’estensione ai dipendenti delle piccole imprese dell’art. 18 è trattata facendosi carico di tutte le difficoltà applicative e degli attriti sociali che da quella pur giusta estensione possono derivare. Ci si riferisce ad es. alla esigenza di rendere compatibile la generalizzazione della stabilità del posto di lavoro con l’innegabile maggiore esposizione della piccola impresa alle oscillazioni del mercato: esigenza che il progetto Cgil soddisfa prevedendo che prioritario sia l’obbligo del datore di lavoro di far ricorso preventivo, rispetto al licenziamento, al sistema degli ammortizzatori sociali che un altro ancora dei disegni di legge della Cgil estende alle piccolo imprese e all’intero mondo produttivo.
In terzo luogo, la proposta della Cgil specificamente dedicata all’estensione dell’art. 18 si fa carico dell’efficacia concreta della tutela di stabilità reale che viene generalizzata. Efficacia concreta che si misura e realizza alla luce dell’esperienza, prevedendo quali siano e possano essere le reazioni di ambedue le parti in conflitto, datori di lavoro e lavoratori, di fronte all’applicazione dell’art. 18 alle piccole imprese.
Discende dalla analisi sviluppata nei punti precedenti che il referendum di estensione nell’art. 18 è l’unica arma di risposta politica efficace nell’immediato disponibile di fronte al rinnovato attacco governativo. Proprio questo attacco in effetti ha alterato il rapporto costi/benefici che in precedenza induceva molti a dare un giudizio negativo sull’iniziativa referendaria.
D’altra parte, nessuna remora deve esistere rispetto ai progetti di legge perché il sì al referendum non segnerebbe affatto una rinunzia o un ripiego. Questi progetti infatti includono l’estensione dell’art. 18 a tutti i lavoratori disegnando intorno ad essa un sistema armonico di promozione di diritti civili e sociali che, all’indomani di un esito positivo della prova referendaria, dovrebbero comunque e con maggior forza essere portati avanti, eventualmente avvalendosi della possibilità prevista dall’art. 37 della legge regolatrice dei referendum (legge 25 maggio 1970 n. 352) che prevede la possibilità che la pubblicazione dei risultati del referendum sia postergata per 60 giorni con decreto del Presidente della Repubblica onde dar tempo al Parlamento di adeguare l’ordinamento con nuove leggi sulla materia oggetto del referendum aprendo così finalmente una stagione di vero riformismo sulla spinta del pronunciamento popolare
Tra la valenza
difensiva e quella costruttiva dell’estensione dell’art. 18 non esiste dunque
nessuna contraddizione.
Perché mai, infine, si possa
affermare che all’approvazione di tali leggi (con i noti rapporti di forza
parlamentare in essere) giovi assai un amplissimo astensionismo e invece
definitivamente osti una vittoria referendaria dei si, è ad oggi un mistero doloroso
le cui possibili spiegazioni vanno certo oltre le capacità e il compito degli
estensori della presente trattazione.
Ci si limita al riguardo a riportare le efficaci parole con cui si conclude l’intervento del Prof. Gallino sulle colonne di Repubblica dello scorso 18 maggio
2003 “una volta che si fosse espressa tale volontà (ovverosia la
vittoria referendaria dei si, n.d.r.) per
restaurare e rendere più funzionale l’edificio a esigenze attuali non
mancheranno gli architetti; in caso contrario basteranno le ruspe per portare
via le macerie”.
LE RAGIONI ECONOMICHE
DEL REFERENDUM
di EMILIANO BRANCACCIO[3]
Introduzione
“Chi vuole più lavoro dica no.
Togliamo il freno al lavoro. Non rimanere indietro. No alla disoccupazione”. Riportati su grandi manifesti a sfondo rosso e
diffusi in tutta Italia, questi slogan sono stati coniati dalle organizzazioni
imprenditoriali al fine di contrastare il referendum del 15 giugno per l’estensione dell’articolo 18. Gli slogan evocano una
visione del sistema economico che negli ultimi anni ha goduto
di un notevole successo, e che attualmente appare piuttosto radicata
nell’opinione dei cittadini. Si tratta della visione secondo cui l’elevata flessibilità
del mercato del lavoro costituirebbe un imprescindibile fattore di stimolo per la crescita, l’occupazione e la
competitività di un paese. Nel corso degli ultimi anni questa
idea ha rappresentato il sostegno logico fondamentale a tutte le
proposte di rimozione dei vincoli che attualmente regolano il mercato del
lavoro, dai minimi salariali fissati per legge o per contratto alle norme che
limitano la libertà di licenziamento.
Gli
economisti di orientamento liberista hanno sempre
offerto rigorose argomentazioni in difesa della flessibilità del mercato del
lavoro. Arthur Cecil Pigou, ad esempio, riteneva che la disoccupazione di massa
degli anni ’30 dipendesse soprattutto da salari troppo elevati rispetto alla
produttività del lavoro, e che solo accettando una riduzione degli stessi si
sarebbe raggiunta la piena occupazione.[4] Pigou giunse addirittura a nobilitare la figura del
crumiro, sostenendo che il suo comportamento, fiaccando i sindacati e rendendo
i salari flessibili verso il basso, avrebbe prima o poi
favorito il raggiungimento dell’equilibrio di pieno impiego. Più di recente il
premio Nobel James Heckman,
tra gli altri, ha sostenuto che la cosiddetta eurosclerosi,
ovvero la difficoltà per l’Europa di raggiungere gli elevati tassi di crescita
e i bassi tassi di disoccupazione americani, dipende in modo significativo
dalle forti rigidità presenti nei mercati del lavoro del vecchio continente
rispetto al mercato statunitense.[5]
Questi
argomenti risultano ben noti al grande pubblico, dal
momento che la maggioranza dei politici e dei commentatori usa riproporli a mo’
di litania in tutte le occasioni di confronto e di discussione. Ciò di cui il grande pubblico non è a conoscenza, invece, è che la visione
che considera la flessibilità del mercato del lavoro uno stimolo irrinunciabile
ai fini della crescita, della competitività e dell’occupazione, risulta in
ambito scientifico sostanzialmente minoritaria. Tra i numerosi oppositori di
questa visione basterà citare i premi Nobel Robert Solow e Joseph Stiglitz, i quali hanno più volte dichiarato che i problemi
del basso saggio di sviluppo, dell’elevata disoccupazione e della scarsa
capacità di innovazione tecnica di un paese andrebbero
risolti sul terreno delle politiche macroeconomiche, della lotta ai monopoli e
alle rendite, della spesa pubblica per la ricerca e della creazione di
infrastrutture, molto più che attraverso la flessibilità dei salari o lo
smantellamento dei regimi di protezione dei lavoratori.[6] Una
posizione, questa, che è stata condivisa e ulteriormente rafforzata, tra gli
altri, dalle centinaia di economisti sottoscrittori del manifesto per una
politica economica alternativa in Europa.[7]
La
scarsa conoscenza dei contributi di questi studiosi, e soprattutto la diffusa
riluttanza a tradurre politicamente le loro idee, hanno
finora dato luogo a un triste paradosso: la visione liberista, fautrice
della flessibilità del mercato del lavoro, benché scientificamente minoritaria
riesce tuttora in ambito politico a riscuotere i consensi più ampi. Questo
paradosso ha fortemente condizionato l’intero dibattito di politica economica
europea. E in Italia, in particolare, esso ha finora pregiudicato l’avvio di
una seria, credibile discussione attorno alle iniziative sindacali e politiche
dell’ultimo anno e mezzo volte al mantenimento e
all’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A botta di
slogan, infatti, gli avversari dell’articolo 18 stanno cercando di
convincere i cittadini dell’esistenza di un legame
stringente tra la maggiore flessibilità sul mercato del lavoro e il maggior
benessere economico. I sostenitori del referendum, dal canto loro, sono
finora apparsi in difficoltà di fronte a quegli slogan, e hanno pertanto deciso di identificare la loro
azione politica nella sola questione di principio, nella “battaglia di civiltà”
contro i licenziamenti ingiustificati.
Ebbene,
proprio al fine di vincere la battaglia di civiltà per la tutela contro i
licenziamenti ingiustificati, è giunto il momento di confrontarsi con i fautori
della flessibilità proprio sul terreno della politica economica. E’ possibile infatti dimostrare che il referendum per l’estensione
dell’articolo 18 non costituisce semplicemente una iniziativa ineccepibile sul
piano etico, ma rappresenta soprattutto un’occasione per mettere a conoscenza i
cittadini dell’esistenza di un razionale, credibile progetto di politica
economica immediatamente applicabile all’Europa e all’Italia, un progetto
alternativo agli indirizzi di matrice liberista tuttora dominanti.
Nel
presente studio esamineremo le principali critiche ai regimi di protezione dei
lavoratori (e in particolare all’art.18) avanzate dai
fautori della flessibilità, al fine di evidenziare la sostanziale inconsistenza
delle loro argomentazioni. In uno studio successivo proveremo invece a delineare lo scenario di politica economica alternativa
all’interno del quale l’iniziativa referendaria troverebbe piena
legittimazione, non solo sul piano etico ma anche su quello più strettamente
economico.
Una critica agli
argomenti degli avversari dell’articolo 18
1) L’articolo 18 pregiudica la crescita
dimensionale delle imprese[8]
L’argomentazione
è falsa, ed è davvero sorprendente che il governo Berlusconi
l’abbia adoperata a sostegno di una possibile deroga
all’articolo 18. Se questo articolo pregiudicasse
la crescita delle imprese, infatti, si dovrebbe registrare un addensamento
delle stesse al di sotto della soglia dei 15 dipendenti, a partire dalla quale
l’articolo viene attualmente applicato. Ma le indagini
empiriche smentiscono categoricamente l’esistenza di un simile addensamento.
Le piccole imprese infatti si concentrano
soprattutto attorno a una media di 3,6 dipendenti, ben lontana dal limite dei
15 previsto per l’applicazione dell’articolo 18.[9] A ciò
si aggiunga che in Italia il 95% delle imprese ha meno di 10 addetti ed assorbe
ben il 47% dell’occupazione totale, contro il 21% della Germania, il 22 della
Francia e il 27% del Regno Unito.[10]
Inoltre, tra il 1991 e il 1996, mentre tra le imprese
incluse nella classe 10-15 dipendenti si è registrato un calo dell’occupazione
del 2,7%, tra le imprese appartenenti alle classi 16-19 e 20-49 è stata
rilevata una crescita occupazionale rispettivamente dell’1% e dell’1,7%. Il tutto nonostante che l’articolo 18 si applichi
solo a queste ultime due classi di addetti, mentre la
prima ne risulta esentata.[11]
E’
stato poi rilevato che l’eventuale rimozione dell’articolo 18
avrebbe effetti assolutamente insignificanti sulla propensione a crescere delle
imprese. L’eliminazione dell’art.18 infatti aumenterebbe la probabilità che un’impresa superi
la soglia dei 15 dipendenti di appena l’1,5%.[12] Oppure,
detto in altri termini, essa produrrebbe un aumento medio della dimensione
delle imprese inferiore all’1%, un risultato davvero modesto se si
considera che le imprese italiane soffrono di un deficit dimensionale rispetto
alle imprese del resto d’Europa che si aggira intorno al 50%.
Questi
dati hanno indotto l’Istat a dichiarare espressamente
che “non sembra apprezzabile l’effetto soglia per la crescita dimensionale intorno
ai 15 dipendenti”.[13] Una
conclusione categorica, questa, che è stata tra l’altro
confermata persino da un gruppo di studiosi del Centro studi Confindustria, i quali nel 1999 affermavano: “Quanto alle soglie, l’analisi empirica non
sembra rivelare salti di rilievo nella numerosità delle imprese in
corrispondenza dei valori più critici (15 e 35 dipendenti), al contrario di
quanto dovrebbe accadere nell’ipotesi in cui la soglia fosse avvertita come un
limite da non valicare”.[14]
Considerata l’ostinazione con la quale il presidente D’Amato continua a
considerare l’articolo 18 un drammatico vincolo alla crescita delle imprese, si
deve ritenere che i vertici di Confindustria non
coltivino molto l’abitudine di leggere gli studi da essi stessi commissionati.
2) I regimi di protezione dei lavoratori, e in
particolare l’articolo 18, disincentivano le assunzioni e creano disoccupazione
Siamo ancora una volta di fronte ad un’argomentazione insostenibile. La verità è che, nonostante gli sforzi compiuti da numerosi economisti di orientamento liberista, nessuno è finora riuscito a dimostrare che la libertà di licenziamento implichi un abbattimento della disoccupazione. Un tentativo, in questo senso, era stato compiuto dall’OCSE, in uno studio del 1999 dedicato alle rigidità del mercato del lavoro.[15] Ma contrariamente alle attese di molti apologeti della flessibilità, quello studio rivelò la sostanziale assenza di legami tra i vincoli ai licenziamenti e il tasso di disoccupazione.
Si osservi a tal proposito la figura 1, estratta proprio dalla suddetta indagine dell’OCSE e riferita agli anni ‘90. Sull’asse orizzontale è riportato l’indice di protezione dei lavoratori (EPL) nei vari paesi esaminati, vale a dire una misura complessiva dell’entità dei vincoli ai licenziamenti, alle assunzioni a tempo determinato e ad altre possibili iniziative degli imprenditori. Più alto è l’indice maggiori sono i vincoli per le imprese e le tutele per i lavoratori. Sull’asse verticale è invece riportato il tasso di disoccupazione. Ebbene, il grafico chiarisce che non vi è la benché minima possibilità di affermare che vincoli più stringenti comportino una più elevata disoccupazione. Basti notare in proposito come l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda e l’Irlanda, paesi caratterizzati da bassissimi livelli di protezione dei lavoratori, abbiano fatto registrare negli anni ’90 dei tassi di disoccupazione elevatissimi, superiori all’8% e con punte del 13-14%. Al contrario, paesi come la Germania, la Svezia, la Norvegia o il Portogallo, caratterizzati da regimi di protezione dell’impiego molto più favorevoli ai lavoratori, hanno generato dei risultati decisamente migliori sul piano della disoccupazione, con tassi ben al di sotto dell’8% !
Fig. 1 – Assenza di
correlazioni tra l’indice di protezione
Dei lavoratori e
il tasso di disoccupazione
Un simile risultato non dovrebbe del resto sorprendere. E’ chiaro infatti che l’unico effetto certo e immediato dei licenziamenti facili è la crescita dei disoccupati, mentre il possibile stimolo degli stessi alle assunzioni è molto più dubbio e controverso, dipendendo soprattutto dalle condizioni del mercato e in particolare dal livello della domanda di merci.[16]
Per quanto riguarda l’Italia, bisogna dire che il grafico evidenzia l’elevata disoccupazione che ha caratterizzato il nostro paese nell’ultimo decennio, ma esclude al tempo stesso in modo categorico che essa sia potuta dipendere dalle tutele contro i licenziamenti. Un risultato, questo, che agli occhi di molti meticolosi analisti del mercato del lavoro potrà apparire sconcertante, ma che da un punto di vista macroeconomico dovrebbe risultare pressoché ovvio. La macroeconomia infatti ci insegna che i tassi di disoccupazione dipendono da un’infinità di fattori, tra i quali le norme che regolano il mercato del lavoro non rivestono affatto un ruolo predominante. L’analisi macroeconomica ci ricorderebbe, piuttosto, che negli anni ’90 sulla nostra penisola il “ciclone Maastricht” si è scatenato con una violenza molto maggiore che altrove, generando fortissimi effetti depressivi sulla domanda, sulla produzione e quindi sull’occupazione.
Alcuni sostenitori della flessibilità del mercato del lavoro hanno tentato di rimediare all’assenza di correlazioni tra l’indice di protezione dei lavoratori e il tasso di disoccupazione proponendo un diverso tipo di misurazione. Essi, in particolare, hanno suggerito di sostituire il tasso di disoccupazione (cioè il rapporto tra i disoccupati e la forza lavoro, data dalla somma degli occupati e dei disoccupati) con il tasso di occupazione (ossia il rapporto tra occupati e popolazione in età di lavoro).[17] E’ difficile esimersi dal considerare tendenziosi simili salti da un indice all’altro alla strenua ricerca di quello in grado di confermare le correlazioni desiderate. Ad ogni modo, è in effetti vero che in presenza di un alto indice di protezione dei lavoratori si registra solitamente un basso tasso di occupazione. Tuttavia, è stato più volte chiarito che questa correlazione potrebbe non implicare alcuna relazione causale tra bassa protezione ed elevata occupazione. Si è detto ad esempio che la correlazione potrebbe banalmente derivare dal fatto che i più forti livelli di protezione dei lavoratori si registrano nei paesi mediterranei, nei quali il rapporto tra occupati e popolazione risulta basso soprattutto a causa della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro.[18] Inoltre, è interessante notare come il tasso di occupazione non sia assolutamente in grado di incorporare il dramma fondamentale della disoccupazione. In linea di principio, infatti, per come sono costruiti gli indici si potrebbero registrare elevatissimi tassi di occupazione in corrispondenza di tassi di disoccupazione altrettanto elevati. Ma soprattutto, al fine di sgombrare il campo da qualsiasi dubbio, è opportuno ricordare che nell’ormai ben noto studio dell’OCSE del 1999 si afferma effettivamente che la libertà di licenziamento produce aumenti del tasso di occupazione delle donne e dei giovani, ma si aggiunge pure che li produce a scapito degli uomini adulti ! La libertà di licenziamento, insomma, tende a produrre un banale effetto di sostituzione dei maschi adulti con donne e giovani, con un evidente risparmio per le imprese sul costo del lavoro.
3) L’Italia è un paese ad elevata rigidità del mercato del lavoro
Gli avversari del referendum per l’estensione dell’art.18 potrebbero tuttavia prendere spunto dal grafico
dell’OCSE per farci notare che l’Italia presenta comunque
un indice di protezione dei lavoratori molto alto rispetto agli altri paesi.
Essi potrebbero quindi affermare che non si può pretendere di accrescere
ulteriormente quell’indice attraverso l’estensione
dell’articolo 18, ma occorrerebbe piuttosto ridurlo al fine di uniformarlo alla media europea. Di
fronte a un simile suggerimento si potrebbe
semplicemente obiettare che, nella totale assenza di motivazioni, non si vede
perché non si possa auspicare una tendenza della media europea verso indici di
protezione più elevati anziché imporre all’Italia una convergenza al ribasso.
Ma l’intera discussione risulterebbe immediatamente
superata se si desse anche solo un’occhiata all’ultima relazione annuale della
Banca d’Italia.[19] Gli economisti di via
Nazionale hanno infatti notato una vistosa incongruenza nell’indicatore di
protezione dei lavoratori che l’OCSE ha assegnato all’Italia. In
quell’indicatore, infatti, è incluso il TFR come costo del licenziamento,
laddove anche i non addetti sanno che in realtà le somme dovute ai lavoratori
per il trattamento di fine rapporto rappresentano un salario differito che
va pagato sempre, sia che il lavoratore venga
licenziato sia che si dimetta o che vada in pensione. Inoltre, tutto si può
dire eccetto che il TFR rappresenti una penale per le imprese, dal momento che
queste lo considerano un vantaggiosissimo finanziamento agevolato. Seguendo
dunque la critica rivolta all’OCSE dagli economisti di Bankitalia
si giungerebbe a modificare radicalmente la posizione dell’Italia sul grafico. Infatti, rimuovendo il TFR dall’indicatore, il nostro paese
scenderebbe nella classifica della rigidità dal 5° al 18° posto assoluto!
4) L’articolo 18 genera costi che soprattutto le piccole imprese non sarebbero in grado di sostenere
Questa idea appare smentita dal fatto, più volte rilevato dalle indagini statistiche, che i paesi caratterizzati da maggiori protezioni per i lavoratori sono anche quelli in cui si pagano i salari più bassi.[20] Insomma, l’analisi economica suggerisce l’idea che siano gli stessi lavoratori ad assumersi i costi delle protezioni, accettando remunerazioni più basse rispetto a quelle prevalenti nei paesi caratterizzati da una maggiore flessibilità sul mercato del lavoro! Questa evidenza può essere rilevata in molti modi. Uno di questi consiste nel rapportare l’indice di protezione dei lavoratori (EPL) alla quota dei salari sul Pil. Ebbene, anche depurando la correlazione dalle eventuali distorsioni generate dalla diversa presenza di lavoratori autonomi nei paesi considerati, si rileva che indici di protezione più alti corrispondono a una quota salari più bassa:
Fig. 2 – A un’alta
protezione dei lavoratori corrisponde una bassa quota salari
A questa evidenza vale poi la pena di aggiungere che il modo in cui solitamente si affronta il problema degli elevati costi di una sentenza sfavorevole all’imprenditore è del tutto fuorviante. Consideriamo ad esempio la seguente ipotesi. Assumiamo che a distanza di circa 24 mesi dalla data del licenziamento[21] una sentenza dichiari quest’ultimo ingiustificato. Assumiamo inoltre che la retribuzione mensile lorda del lavoratore, maggiorata dei ratei delle mensilità aggiuntive, ammontasse alla data del licenziamento a 1500 euro. Assumiamo inoltre che in seguito alla sentenza, come accade nella maggioranza dei casi, il lavoratore opti per l’indennità di 15 mensilità piuttosto che per la reintegrazione sul posto di lavoro. Aggiungiamo infine spese legali per un totale di 5000 euro. Alla fine l’imprenditore si ritroverà a pagare una somma complessiva di 63500 euro.
Somme del genere risultano indubbiamente elevate, e sono state spesso richiamate per dimostrare che una piccola impresa non sarebbe in grado di sostenerle.[22] Ma questo modo di ragionare è altamente discutibile. Per poter affrontare correttamente la questione è necessario infatti ragionare ex-ante, ossia occorre mettersi nei panni dell’imprenditore che sta per decidere se assumere un lavoratore oppure no. L’imprenditore, in altri termini, non può considerare il costo di una eventuale sentenza a lui sfavorevole come se fosse un dato a sé stante, ma deve rapportare quel costo alla probabilità che il lavoratore che egli sta per assumere venga licenziato, lo citi in giudizio e arrivi a vincere la causa. Un semplice calcolo ci permetterà di chiarire che, anche nell’ipotesi peggiore, il costo atteso della sentenza è bassissimo, per non dire trascurabile. Noi sappiamo in proposito che nel 1998 le sentenze per licenziamento ingiustificato sono state 2216, e che nel 56% dei casi esse sono risultate sfavorevoli all’imprenditore.[23] Se ora moltiplichiamo il numero delle sentenze sfavorevoli (2216 x 0,56 = 1241) per il numero medio di anni di permanenza del lavoratore in azienda (circa 3 anni),[24] e dividiamo il tutto per il totale dei posti di lavoro creati in un anno (1.100.000),[25] otteniamo una stima tanto grossolana quanto significativa della probabilità che l’imprenditore incorra effettivamente in una sentenza che dichiari ingiustificato il licenziamento del lavoratore che egli sta per assumere: appena lo 0,3%, che diventa lo 0,02% se si divide per il totale degli occupati alle dipendenze anziché per il flusso di posti creati. Pertanto, moltiplicando il costo medio di una sentenza sfavorevole (63.500 euro) alla più alta probabilità che questa si verifichi (0,3%), si ottiene che il costo medio atteso di un eventuale licenziamento ingiustificato ammonta a 190,5 euro per tre anni, ossia ad appena 63,5 euro all’anno per ogni lavoratore assunto !
Siamo insomma di fronte a una cifra che, in presenza di un mercato finanziario e assicurativo privo di imperfezioni, potrebbe essere agevolmente sostenuta da qualsiasi impresa, piccola o grande che sia. Quest’ultima potrebbe infatti assicurarsi contro il rischio di una sentenza sfavorevole, semplicemente pagando un piccolo premio per ogni lavoratore impiegato.[26]
Si potrebbe a questo punto obiettare che il mercato finanziario e assicurativo non è affatto perfetto, e che attualmente non sussistono le condizioni per garantire alle piccole imprese la stipula di contratti assicurativi di questo tipo. Ma di fronte a una simile obiezione si può ribattere solo in un modo: non saranno certo i lavoratori a pagare il costo dell’inefficienza e dei regimi non concorrenziali in cui versano i mercati finanziari e assicurativi italiani !
5)
L’articolo 18 incentiva
il sommerso e il lavoro nero
L’affermazione può essere smentita in molti modi. Innanzitutto, le ricerche chiariscono che proprio negli anni in cui si sono registrate le riforme più significative in direzione della flessibilità del lavoro, si è rilevata la crescita più significativa del sommerso in percentuale del Pil. Si osservi a questo proposito la seguente tabella. Nella prima colonna è riportata la variazione, tra la fine degli anni ’80 e la fine degli anni ’90, dell’indice di protezione dei lavoratori: una variazione negativa indica che le protezioni si sono ridotte e che la flessibilità del lavoro è aumentata. Nella seconda colonna è invece riportata la variazione della quota di sommerso in rapporto al Pil.[27]
Paese |
Variazione EPL |
Variazione sommerso |
Italia |
-0,8 |
+5,1% |
Spagna |
-0,6 |
+3,2% |
Svezia |
-1,3 |
+2,1% |
Norvegia |
-0,4 |
+2,7% |
Danimarca |
-0,9 |
+7,9% |
Germania |
-0,7 |
+4,2% |
Francia |
+0,3 |
+6,5% |
Regno Unito |
0 |
+3,7% |
Austria |
0 |
+1,7% |
Stati Uniti |
0 |
+2,4% |
Naturalmente, sarebbe errato trarre da questi dati una qualsiasi relazione causale. E’ evidente cioè che la correlazione tra i due fenomeni è spuria, ossia con ogni probabilità a sua volta dipendente da un terzo fattore non considerato. Meriterebbe di essere indagata, a tal proposito, l’esistenza di eventuali correlazioni tra queste variabili e un indice del potere contrattuale dei lavoratori. Non si può escludere, infatti, che la riduzione di quest’ultimo possa spiegare buona parte sia della riduzione delle protezioni che dell’aumento del sommerso nel corso degli anni ’90.
Ad ogni modo, ciò che risulta piuttosto evidente è la totale assenza di elementi in grado di sostenere l’idea che le protezioni generino sommerso e che quest’ultimo verrebbe riassorbito solo se si eliminassero le prime. A ulteriore sostegno di questa evidenza è possibile riportare anche il seguente dato nazionale. La percentuale di lavoro irregolare sul totale degli occupati nell’industria ammonta nel Mezzogiorno d’Italia al 41,8%, mentre il Centro-Nord si attesta su un modesto 12,1%.[28] Considerato che le norme di protezione dei lavoratori si applicano uniformemente sull’intero territorio nazionale, si deve ritenere che queste siano in grado di spiegare ben poco del divario esistente tra le due aree del paese.
6)
L’articolo 18 genera inefficienza e impedisce
l’innovazione tecnologica
Anche questa obiezione appare smentita dai fatti. La realtà è che un elevato grado di protezione dei lavoratori non risulta affatto associato a una bassa crescita della produttività e dell’innovazione. Se si pongono a confronto l’indice di protezione dei lavoratori da un lato e la crescita media della produttività del lavoro dall’altro, si rileva la sostanziale assenza di correlazioni tra le due variabili o al limite una correlazione moderatamente positiva, non certo negativa:
Questa evidenza risulta sostanzialmente confermata per il caso della spesa in ricerca e sviluppo. In un recente studio dell’OCSE, infatti, si ammette che gli effetti del livello di protezione dei lavoratori sulla ricerca e lo sviluppo risultano “complessi e ambigui”.[29] Da un lato, infatti, le innovazioni impongono licenziamenti e nuove assunzioni, che risultano ovviamente agevolate nel caso di bassi indici di protezione. Dall’altro, però, gli elevati livelli di protezione possono indurre le imprese ad assicurare ai propri dipendenti un continuo training innovativo, il che tende a favorire l’attività di ricerca interna all’azienda.
Sussistono del resto ottime ragioni per ritenere che un elevato grado di protezione dei lavoratori induca le imprese ad essere più efficienti ed innovative. In primo luogo, lavoratori più sicuri sono più propensi a investire in capitale umano specifico, ossia risultano più disposti ad uniformare il proprio percorso di formazione alle esigenze dell’azienda presso cui lavorano. In secondo luogo, in presenza di alti livelli di protezione per i lavoratori, le imprese cercheranno di massimizzare la produttività degli stessi, attraverso la crescita del capitale e la continua innovazione di processo.
Basti notare, a questo proposito, come la Svezia, la Germania, il Giappone, la Francia, la Corea e molti altri paesi caratterizzati regimi di protezione del lavoro piuttosto elevati, sono anche quelli in cui la spesa privata per la ricerca risulta tra le più alte del mondo.
In un certo senso, è come se in questi paesi, invece di accrescere la libertà delle imprese attraverso la rimozione delle tutele dei lavoratori, si sia deciso di vincolare l’azione delle prime attraverso l’estensione delle difese di questi ultimi. Un vincolo decisamente fruttuoso, dal momento che ha indotto le imprese a generare una maggiore spinta verso l’innovazione e la ricerca.
Conclusioni
In questi giorni il governo socialdemocratico tedesco si appresta ad introdurre una riforma del mercato del lavoro finalizzata ad accrescerne significativamente la flessibilità, e in particolare a rendere più agevoli i licenziamenti. La giustificazione avanzata a sostegno di questa iniziativa è che occorre ridimensionare i regimi di protezione dei lavoratori per far sì che l’economia tedesca riprenda a crescere e a creare occupazione.
In tutta Europa, insomma, si continua a cercare di risollevare il malato con la ricetta sbagliata. Al fine di assecondare un mondo imprenditoriale infiacchito e una comunità finanziaria sempre più potente e privilegiata, ci si ostina a proporre riforme nella sola direzione della compressione della spesa pubblica e della flessibilità del mercato del lavoro. Si evita invece accuratamente di affrontare il nodo cruciale della crisi di questi anni, quello relativo al palinsesto macroeconomico e al regime di restrizione monetaria e fiscale imposto dal Trattato dell’Unione e dal Patto di stabilità.[30] Per uscire da questo vincolo cieco e per spostare finalmente il fuoco del dibattito sui temi cruciali della riforma del palinsesto macroeconomico europeo, delle politiche di lotta ai monopoli e alle rendite, della programmazione industriale e delle dotazioni infrastrutturali, è necessario lanciare un segnale politico, quello secondo cui il tempo dello smantellamento delle tutele dei lavoratori è finito. Il referendum rappresenta un’occasione importante, in questo senso. La migliore occasione, dopo anni di incontrastato dominio dell’ideologia e della pratica liberista.
REFERENDUM, UN'OCCASIONE A SINISTRA
di GIOVANNI
PALOMBARINI - il manifesto 12 marzo 2003
Anche se i grandi mezzi
di comunicazione lo stanno oscurando, il voto per l'estensione dell'articolo 18
alle piccole imprese è un appuntamento cruciale. Una delle
rare occasioni che abbiamo per estendere i diritti. Dopo l'anno dei
movimenti in difesa delle conquiste, il referendum può rilanciare quelle
energie in sintonia con le trasformazioni sociali. Sarebbe incomprensibile a
tutti se la sinistra e la Cgil non sostenessero
la campagna per il «sì»
La notizia riportata dai quotidiani negli ultimi giorni è
netta: l'80% dei cittadini italiani ignora l'esistenza
del referendum per l'estensione delle previsioni dell'art. 18 dello statuto dei
diritti dei lavoratori alle aziende con meno di 16 dipendenti. E' un dato
inquietante, che certamente ripropone la questione
dello stato dell'informazione nel nostro paese, ma che intanto sollecita
l'immediata attenzione di tutti i democratici su un quesito preciso:
un'iniziativa che ha a che fare con l'estensione dei diritti di chi lavora può
fallire perché i media hanno fin qui mantenuto un sostanziale silenzio
sui suoi contenuti e sulle sue ragioni? La scadenza
del voto si avvicina e il rischio del non raggiungimento del quorum può
essere scongiurato solo se tutti coloro, comunque organizzati, che in questi
ultimi mesi si sono mobilitati per la difesa e l'estensione dei diritti,
comprese le diverse espressioni della cultura giuridica, sapranno cogliere gli
aspetti positivi del referendum. Certo, sono state e sono tante le critiche, le
perplessità, e comunque le prese di distanza in vari
settori. E però, dopo la decisione della corte
costituzionale ammissiva del referendum, è necessario
ragionare non solo e non tanto per verificare la fondatezza di queste censure,
ma soprattutto per capire cosa conviene fare oggi. Un'analisi spassionata dovrebbe
consentire di superare ogni dubbio. 1. Intanto, una prima considerazione già da
sola decisiva, che fa riferimento al quadro complessivo del diritto del lavoro,
alla tendenza in atto ormai da anni, e alla situazione politica e sociale di oggi. Ebbene, non si ricordano molte iniziative proposte
nel corso degli ultimi anni di segno positivo -
esterne cioè a una logica puramente difensiva o addirittura di adeguamento a
una tendenza neoliberista - per l'affermazione o l'estensione dei diritti,
nonostante che nel periodo si siano succeduti governi di tipo diverso. Certo,
il 2002 verrà ricordato anche per grandi battaglie,
fra le quali la straordinaria mobilitazione in difesa dell'articolo 18: ma si è
trattato appunto di una battaglia difensiva. E in positivo?
Oggi, quanto a iniziative di segno costruttivo, cioè
di avanzamento, è in campo questa iniziativa referendaria. E comunque:
a prescindere da questa, quali iniziative fuori da una logica subalterna per la
tutela del lavoro sono oggi concretamente possibili? E' vero che all'ordine
del giorno c'è il problema della ristrutturazione in corso del mercato del
lavoro, che è aperta la questione dei tanti lavori
cosiddetti autonomi senza tutele, come sottolineano molti di coloro che
criticano l'iniziativa referendaria; e però c'è anche la questione posta dai
processi di automazione e dalla diffusione del decentramento produttivo, con il
numero sempre crescente di imprese con meno di 16 dipendenti, ma di rilevante
dimensione economica e di mercato. Di recente sono state diffuse alcune cifre,
secondo le quali attualmente l'art. 18 si riferisce
solo al 37% della forza lavoro. E allora, perché una
sua estensione dovrebbe essere considerata marginale per effetto
dell'innegabile importanza del dilagare dei lavori cosiddetti autonomi? Eppure,
è irrisoria la tutela degli ormai numerosissimi lavoratori delle imprese sotto
la soglia dei 16 dipendenti, se è vero che in caso di licenziamento ingiustificato
è possibile anche un risarcimento di due mensilità e mezzo della retribuzione, con tutto ciò che può conseguire a una simile situazione
anche in termini di precarietà e di accentuazione della sottomissione per il
timore del licenziamento. Qui siamo in presenza di
posizioni soggettive deboli, in relazione alle quali è facile dire che la
situazione può essere corretta con un significativo aumento del risarcimento
per il licenziamento senza giusta causa (12 mensilità?). Rimane però il fatto
che alle parole e anche ai progetti non si è dato alcun seguito in un recente
passato, e che oggi è difficile vedere all'orizzonte concrete soluzioni di tipo
legislativo. L'iniziativa referendaria ha una debolezza oggettiva, non c'è
dubbio: è un'iniziativa isolata, che è impossibile inquadrare in una
complessiva strategia alternativa delle forze di sinistra. Ma
ciò dipende dal semplice motivo che oggi una strategia del genere purtroppo non
esiste. Proprio a partire dall'articolo 18 una
riflessione complessiva potrebbe finalmente aprirsi. Comunque
rimane il fatto che si tratta di un tentativo di uscire dall'angolo, e già per
questo merita di essere sostenuta.
2. A questo proposito vanno fatte alcune realistiche osservazioni anche a
proposito delle possibilità di resistere alle tendenze in atto. Intanto si
ricomincia a parlare della modifica dell'articolo 18
dello statuto, nell'ultima versione contenuta nel «patto per l'Italia»,
evidentemente accantonata solo momentaneamente. Poi, non va dimenticato che
sono in corso le procedure di attuazione delle
indicazioni del cosiddetto libro bianco. Si va dal lavoro a chiamata al lavoro
accessorio o occasionale, dalla possibilità di
ripartire un lavoro fra due o più lavoratori per l'esecuzione di un'unica
prestazione all'ampliamento del lavoro part
time, con l'allargamento delle ipotesi di lavoro intermittente o a chiamata
(con inevitabili gravi riflessi per il lavoro femminile, per il quale la
determinazione dei tempi di lavoro è ovviamente funzionale all'impegno
familiare). Tutto ciò si aggiungerà alle modifiche che sono intervenute
nell'ultimo decennio. «Dalla volontà della legge alla legge della volontà»,
questo è lo slogan che ha già ispirato molti interventi legislativi. Così la legge n.196 del 1997, di
disciplina del lavoro interinale, ha introdotto una sostanziosa deroga al
divieto d'appalto di manodopera; con il decreto legislativo n. 61 del 2000 è
stata rimessa alla contrattazione collettiva la possibilità di consentire
prestazioni lavorative part time con
maggiore flessibilità rispetto ai limiti previsti dalla legge; con il decreto
legislativo n. 368 del 2000 si sono ampliati gli spazi del lavoro a termine.
Insomma, da anni è in atto un processo di precarizzazione
dei rapporti di lavoro del quale non si intravede la
fine.
Allora, come non vedere che questa iniziativa
referendaria, se avesse successo, sarebbe un «contropiede» di grande efficacia
rispetto alla tendenza, contro chi sia pure in modi diversi si è mosso e si
muove in favore della adattabilità del lavoratore a qualsiasi situazione
determinata per propria convenienza da chi opera esclusivamente, e del tutto
liberamente, per il profitto? D'altra lato, va
sottolineato che l'iniziativa referendaria propone una questione di principio.
Si tratta di un diritto fondamentale oppure no? Se si,
come in tanti anche fra i perplessi dicono, allora perché limitarlo alle
aziende con più di 15 dipendenti nelle quali opera poco più di un terzo del
lavoro subordinato?
3. Quanto poi ai dubbi circa il possibile esito della
consultazione, potrebbero davvero ridursi se solo si riflettesse un attimo sul
fatto che dopo il successo elettorale della destra, quando avvilimento e
rassegnazione erano diffusissimi, ben difficilmente erano
prevedibili la misura straordinaria, e le convergenze, delle diverse
mobilitazioni di questi ultimi mesi, da Genova in poi, diverse e dettate dal
molteplici ragioni, ma che avevano in definitiva la tutela dei diritti
fondamentali. Queste mobilitazioni ci sono state, e hanno avuto il loro peso.
Dunque il «sì» può avere successo. Il problema è
essenzialmente quello del conseguimento del quorum, per
cui è necessario attivarsi subito per una diffusa sensibilizzazione al
fine di togliere efficacia al silenzio delle televisioni.
4. Vi è poi un'altra obiezione che circola, quella della
divisione che il referendum determinerebbe o avrebbe già causato fra le forze
di sinistra e quelle democratiche. Sul punto si possono proporre un quesito,
con riferimento alle prime, e una considerazione, in
relazione all'atteggiamento delle seconde.
Intanto: quali sono le ragioni di una simile divisione? Una
riflessione razionale dovrebbe indurre facilmente al loro superamento, se le
cose stanno come si è detto. Insomma, chi si divide, e da chi, e per che cosa?
Forse pesa ancora il fatto che fra i promotori c'è Rc,
che a suo tempo mise in crisi il governo Prodi? Le
obiezioni, se potevano avere un valore prima, oggi, con l'iniziativa in campo,
appaiono superate. Le scadenze di contrasto efficace
ai disegni di radicale ridefinizione delle relazioni
industriali dell'attuale governo non sono tante: questo solo dovrebbe
interessare a chi si considera di sinistra.
E
poi. Certo, è esperienza di questi mesi, ogni battaglia per la difesa e
l'estensione dei diritti avrà sempre bisogno dell'impegno
forte del centro democratico. Ma anche questo
problema, per la cui soluzione i promotori del referendum dovranno lavorare, va
inquadrato nel comune interesse di un'opposizione radicale, su tutti i fronti,
alla politica governativa. Questa, sulla vicenda della guerra come sulla
questione dell'informazione, sulla giustizia come sull'articolo 18, non è stata
messa in difficoltà dalle perplesse obiezioni di alcuni
leader dell'Ulivo, ma da grandi mobilitazioni unitarie di massa. Come non
trarre un insegnamento, anche da parte delle forze di centro, da queste
vicende?
Dunque, la scadenza elettorale si avvicina. Se il quorum non verrà raggiunto, le possibilità di difesa dei diritti di chi lavora (anche per coloro ai quali il referendum non si rivolge direttamente) si attenueranno. Per il successo è pertanto necessario l'impegno di tutte le forze democratiche.
REFERENDUM SULL'ARTICOLO
18
OLTRE LE DISCRIMINAZIONI DA «NUMERO CHIUSO»
di ALBERTO PICCININI *
Nel 1990 il referendum sull'art. 18 fu scongiurato dalla promulgazione, «in zona Cesarini», di una legge, la n. 108, che andava nella
direzione del quesito referendario. Il maggior merito di
questa legge fu quello di estendere a tutti i lavoratori (subordinati e
a tempo indeterminato) una serie di diritti: il diritto di far dichiarare
illegittimo da un giudice il proprio licenziamento, se intimato in mancanza di
una giusta causa o di un giustificato motivo; il diritto ad essere licenziati
solo con forma scritta, essendo il licenziamento orale invalido ed inefficace;
il diritto di chiedere ed ottenere la motivazione del licenziamento, ove
inizialmente non indicata. Il suo peggior difetto fu quello di aver
lasciato invariato (anzi, di aver persino accentuato) il diverso trattamento
dal punto di vista della sanzione in caso di licenziamento illegittimo:
oggi, infatti, il dipendente di un datore di lavoro che occupa più di 15
dipendenti può riavere il suo posto di lavoro e vedersi pagate le mensilità
perdute in attesa della sentenza (con un «minimo
garantito» di cinque) ovvero, a sua scelta, convertire la reintegrazione
nel posto con un'indennità pari a quindici mensilità (5+15= 20 come minimo:
meno dell'importo ipotizzato dal Cavaliere come alternativa secca alla reintegra);
il dipendente di un datore di lavoro che occupa invece meno di 16 dipendenti ha
diritto solo ad un'indennità da 2,5 a 6 mensilità, rimanendo nella scelta
del datore la decisione se riassumerlo o meno, con la sola facoltà, per il
lavoratore, di scegliere la soluzione economica (ma non l'inverso, nel senso
che non può essere lui a decidere di continuare a lavorare). E' questo il punto
centrale dello scontro sull'art. 18: Berlusconi può
affermare che questa norma non risponde all'interesse dei lavoratori che
avrebbero, invece, maggiore interesse ad una soluzione economica solo
confidando nell'ignoranza di chi non sa che, sopra i 15 dipendenti, tale
soluzione è già un'opportunità per chi non è più interessato a tornare
nel vecchio posto di lavoro. Ma il discrimine
passa attraverso l'individuazione di chi può fare la scelta.
Perché laddove c'è, per il datore di lavoro, il pericolo della reintegrazione
(non dipendendo da una sua decisione) è possibile esercitare diritti e
rivendicazioni in costanza di rapporto di lavoro, mentre altrove regna
l'arbitrio e chiunque può essere «eliminato» con una manciata
di denari. L'art. 18 è stato giustamente definito il diritto dei diritti,
l'architrave di ogni altra tutela nei posti di lavoro:
è per questo che è stato proclamato uno sciopero generale; è questo che hanno
capito i milioni di lavoratori scesi in piazza nella manifestazione più imponente
mai vista in un paese occidentale.
I promotori del referendum che si terrà la
prossima primavera si propongono di estendere il
diritto alla reintegrazione a tutti i lavoratori, eliminando quella
assolutamente sproporzionata diversità di trattamento di cui sopra si è
parlato.
E' quella diversità giustificata? La risposta
non può che essere negativa: tutti i sindacalisti che operano sul fronte della
tutela individuale (e che formulano ai lavoratori licenziati che ad essi si rivolgono, come prima domanda: «più o meno di 15?»)
potranno testimoniare delle difficoltà che si trovano a spiegare e giustificare
l'esistenza di lavoratori di serie A e di lavoratori di serie B.
Resta il problema di individuare una risposta
articolata, modulata sull'enorme varietà di situazioni che convivono nel mondo datoriale «sotto i sedici»: si
pensi alla fabbrica con 15 addetti (e magari altrettanti apprendisti) comparata
alla bottega del barbiere.
E' il referendum lo strumento più appropriato
per regolamentare una così complessa materia? Anche in questo caso, a mio avviso, la risposta deve essere
negativa. Però.
Però ha un senso rispondere negativamente, se
nello stesso tempo ci si fa seri promotori di un progetto di legge per modificare
lo stato attuale delle cose, che, come detto, è fortemente
ingiusto. Una legge che rifletta sulla attualità della
soglia alla luce degli studi statistici, che ripensi ad altri criteri, magari
concorrenti, per valutare le dimensioni aziendali e che, soprattutto, unifichi
la sanzione prevedendo che, in caso di accertato esercizio arbitrario del
potere di licenziamento, si rispristini sempre la
situazione giuridica precedente, rimettendo in piedi il rapporto di lavoro e
risarcendo i danni per le retribuzioni perdute a causa dell'illegittimo licenziamento.
Ove poi il lavoratore non fosse più interessato
ad una simile soluzione si potranno modulare soluzioni economiche differenziate
alternative, prevedendone di meno onerose per quei datori di lavoro di
dimensioni minime.
Il paventato pericolo della reintegra dell'unico
dipendente del fioraio non si concretizzerà per il
semplice fatto che - come accade già ora nella stragrande maggioranza dei casi
- le due parti cercheranno, nel reciproco interesse, un accordo economico: solo
che la trattativa non si svolgerà con i rapporti di forza sbilanciati a favore
di chi sta dalla parte del torto (accertato da un giudice, che ha considerato illegittimo
il licenziamento).
Con un progetto che vada
in questa direzione, che godrebbe già del favore di oltre cinque milioni di
persone che hanno firmato per una proposta di legge di iniziativa popolare
promossa dalla Cgil «che estenda i diritti», ci si
può confrontare con amici e nemici: entrambi dovranno spiegare nel merito
perché ritengono che una mirata e ponderata estensione della legalità nella
sfera dei diritti individuali possa nuocere effettivamente all'economia del
paese.
Ma se e quando una argomentata
campagna di informazione diretta a favorire un'equa soluzione legislativa
dovesse essere contrastata e neutralizzata dal fronte governativo (con il neppure
malcelato intento di rimettere in discussione tutta la normativa in materia)
sarà inevitabile schierarsi nella - anche se non voluta - battaglia
referendaria. Secondo scienza e coscienza.
* avvocato della Cgil di Bologna
Referendum, felix culpa
Intervista al giuslavorista PIERGIOVANNI
ALLEVA. Che spiega perché il referendum per l'estensione dell'articolo 18 serve
ad allargare i diritti a tutti quelli che non ce l'hanno
e non è in contraddizione - anzi - con le proposte di legge della Cgil. Ed è un freno per il progressivo smantellamento dello
Statuto dei lavoratori perseguito dal governo e dalla Confindustria
MANUELA CARTOSIO – il manifesto 1 maggio 2003
«Il sì al referendum sull'articolo 18
non esclude, anzi rafforza, l'estensione dei diritti per via legislativa». Lo
sostiene il giuslavorista Piergiovanni
Alleva che ha collaborato alla stesura delle proposte di legge della Cgil.
Perché sbaglia chi oppone il referendum alle leggi?
Chi predica l'astensione o la libertà di voto trascura il
fatto fondamentale: l'articolo 18 in questo momento è di nuovo sotto il pesante
attacco di governo e Confindustria anche per chi ce l'ha, per chi lavora in aziende con più di 15 dipendenti.
Nella legge 30 sul mercato del lavoro, già approvata,
l'attacco è indiretto. Con la modifica delle norme sul trasferimento dei rami
d'impresa e l'introduzione dello staff leasing sarà facile per le aziende non
superare formalmente la fatidica soglia e, quindi, eludere l'articolo 18.
L'attacco è diretto nella delega 848 bis, ancora in itinere.
Nell'interpretazione più blanda, questa sospende la giusta causa nelle aziende
che crescono oltre i 15 dipendenti. La vittoria del sì il 15 giugno sventa
entrambi gli attacchi. L'abolizione della soglia, infatti, rende
inutile gran parte della legge 30, ne frustra lo scopo. Se l'articolo 18 vale per tutti, frazionare artificiosamente
un'azienda è un buco nell'acqua. Nello stesso tempo, la vittoria del sì rende
illegittima l'ipotetica traduzione in legge dell'848
bis. Il parlamento, infatti, non potrebbe approvare una legge che ripristina la
soglia appena cancellata dal referendum.
L'impossibilità è certa?
E' di questo avviso la miglior
dottrina costituzionalista. L'articolo 37 della legge che regola l'istituto del
referendum prevede che il presidente della Repubblica possa ritardare la
pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del risultato positivo
della consultazione per permettere al parlamento di «aggiustare» la normativa
vigente. E' pacifico che l'aggiustamento deve rispettare l'esito del
referendum. Di qui la certezza: se il 15 giugno la soglia dei 15 dipendenti
sarà abrogata, il parlamento non potrà ripristinarla.
Dunque, chi annuncia futuri referendum per abrogare la
legge 30 e quella che recepirà l'848 bis non si
accorge, o finge di non accorgersi, che il referendum c'è già.
E' proprio così. La legge 30 e l'848
bis valgono come giustificazione a posteriori del quesito referendario. Ammesso
e non concesso sia stato un errore proporlo, si è rivelata
una felix culpa. Posso capire le
iniziali riluttanze verso lo strumento referendario. Lo scenario però è cambiato
perché il governo ha servito la palla ai promotori del referendum.
Nato in maniera discutibile, il referendum che estende e
nello stesso tempo difende la giusta causa in caso di licenziamento
è diventato lo strumento per respingere immediatamente l'attacco di governo e Confindustria. Non cogliere l'occasione è a dir poco miope.
Il partito antireferendum sostiene che si è data troppa
importanza a un articolo «usato» raramente. In
effetti, i licenziamenti illegittimi che arrivano a sentenza sono poche centinaia
all'anno.
L'articolo 18, oltre a un grande
valore restitutivo, ha un enorme valore preventivo e
deterrente. E' definito il diritto dei diritti perché è l'architrave che
permette al lavoratore di non subire ricatti. Per questo Confindustria
vuole restringerlo. Senza lo scudo protettivo dell'articolo
18, quante sarebbero le cause per mobbing, per
essere riconosciuti come dipendenti, per avere gli straordinari in busta paga?
Pochissime e lo so perché da 32 anni faccio l'avvocato del lavoro. Persino il
tasso di sindacalizzazione - la differenza tra
aziende sotto e sopra i 15 addetti è di 1 a 5 - dipende dall'articolo
18. In questo senso, un sindacato che non si schiera per il sì al referendum si dà una zappata sui piedi.
L'altra obiezione mossa al referendum è che l'estensione
dell'articolo 18 dello Statuto lascerebbe comunque scoperti
i lavoratori atipici.
L'obiezione è per metà stupida. Una buona metà dei Co.co.co sono falsi atipici. La
vittoria dei sì permetterà anche a quelli che lavorano nelle piccole aziende di
fare causa per essere riconosciuti come dipendenti a
tutti gli effetti. Per i Co.co.co veri, ci vuole una
legge. Questo è un limite del referendum, non una ragione per farlo fallire. La
vittoria del sì agevolerà, per quanto è possibile con questa maggioranza di
destra, leggi come quelle proposte dalla Cgil. La vittoria
del no, invece, le terrà chiuse nel cassetto. Per questo, insisto, non c'è
contraddizione tra referendum e leggi.
Come giudica i progetti di legge, come quello
Treu-Ichino, che sostituiscono il reintegro del
lavoratore licenziato senza giusta causa con un indennizzo?
Sono contrario alla monetizzazione
come alternativa secca al reintegro. Se ne può
discutere, ma solo in determinati casi e a certe condizioni. Ad esempio, in una
piccola impresa dove i rapporti tra titolare e dipendente sono gomito a gomito
il reintegro può risultare difficile e, al limite, non
desiderato neppure dal lavoratore. In questa situazione, è plausibile pensare a un indennizzo, a condizione che il datore di lavoro
rinunci ad appellarsi contro la sentenza a lui avversa. L'indennizzo, inoltre,
per funzionare come deterrente deve essere pesante. E deve
essere modulato, non forfettario. Perdere il lavoro
per un operaio di 30 anni di Reggio Emilia costituisce un danno diverso che per
una commessa quarantenne di Foggia.
Occorre poi distinguere tra licenziamenti per ragioni economiche e per ragioni
disciplinari. Per il giudice in genere è difficile valutare la fondatezza delle
prime. La proposta di legge della Cgil che estende
gli ammortizzatori sociali alle piccole imprese può
essere d'aiuto. Rende obbligatorio il ricorso preventivo alla cassa integrazione
e ai contratti di solidarietà. Solo dopo un licenziamento per ragioni
economiche può essere giustificato
ARTICOLO 18, PERCHÉ VOTARE SI
di LUCIANO GALLINO – la Repubblica 18 maggio 2003
QUANDO perfino ex-sindacalisti e docenti di diritto del lavoro che hanno speso la vita per espandere i diritti dei lavoratori invitano a non partecipare al referendum sull’articolo 18, chi pensava inizialmente di assumere una posizione diversa - andare a votare sì - non può fare a meno di sentirsi a disagio. Aveva già dovuto prendere atto che il proposito di astenersi al referendum ha ottenuto il consenso della maggioranza dei Ds, della totalità della Margherita, di due importanti sindacati come la Cisl e la Uil, di molti esperti del mercato del lavoro. Si aggiungano le dichiarazioni a favore del no di esponenti della destra diessina e di altre parti del centrosinistra. Dinanzi a uno schieramento così ampio, le convinzioni di chi guardava al sì sull’articolo 18 come un atto magari ingrato ma doveroso non posson6 che restarne scosse.
La rivisitazione di convinzioni che uno poteva credere prossime al comune sentire di tutti coloro che scorgono nel lavoro un valore centrale del processo democratico, mentre pare si stiano rivelando minoritarie, deve partire da una verifica delle ragioni indicate dai fautori dell’astensione. Di certo esse appaiono fondate. Non c’è dubbio che proporre il referendum sia stato uno sbaglio. Non ci sono nemmeno molti dubbi che tra i suoi proponenti alcuni mirassero, non meno che a estendere lo Statuto dei lavoratori alle microimprese, a crear problemi al sindacato e ai Ds. E anche fuor di discussione che il referendum - continua l’elenco delle ragioni contro - sia idoneo a risolvere alcun problema circa le condizioni di lavoro dei dipendenti delle imprese al disotto dei 16 addetti. A tale fine sarebbe necessaria una legge apposita, di cui sono state già tracciate linee fondamentali sia nel manifesto programmatico dei Ds dell’aprile scorso, sia nelle proposte della Cgil per estendere diritti e tutele sorrette da cinque milioni di firme. Né si vede come si possa pensare di mettere sullo stesso piano, per cercare poi di proteggerli con il medesimo tetto dell’articolo 18 debitamente esteso, l’aziendina di un idraulico che ha due aiutanti e un cantiere navale; lo studio dentistico con tre dipendenti e un’acciaieria; la fiorista che si fa aiutare da un parente e un’azienda di elettrodomestici. In una microimpresa, è stato giustamente sottolineato, le relazioni sociali particolaristiche che si stabiliscono tra il titolare e i dipendenti non sono assoggettabili alle stesse forme di regolazione dei licenziamenti che lo Statuto dei lavoratori prevede per le imprese medie e grandi.
Purtuttavia, una volta ripercorse le ragioni dell’astensione dal voto sull’articolo 18 e averle trovate ben fondate, quelle tali convinzioni di segno contrario sono ancora riluttanti ad abbandonare il campo. Il fatto è che sia il significato sia le conseguenze delle azioni che uno compie non dipendono solamente da ragionamenti ben costruiti e dai dati su cui si fondano. Ancor più dipendono dal quadro di riferimento in cui quelli si collocano.
Nel caso del referendum sull’articolo 18, rispetto al momento in cui esso fu promosso, circa un anno fa, il quadro di riferimento è cambiato in modi sufficienti ad attribuire un significato assai diverso a questa consultazione. Un anno fa il quesito referendario si poteva ancora esprimere così (semplificando l’illeggibile testo in giuridichese che troveremo stampato sulla scheda): «Volete voi estendere l’applicazione dell’arI. 18 dello Statuto dei lavoratori alle aziende con meno di 16 dipendenti, dal quale deriva l’obbligo per l’azienda di reintegrare - cioè riassumere - il lavoratore licenziato senza giusta causa, e il divieto di sostituire il reintegro con un risarcimento?». Oggi ciò che si troverà scritto sulla scheda avrà invece questo esplicito significato: «Volete difendere il diritto del lavoro come strumento di giustizia sociale e di garanzia per il futuro vostro e dei vostri figli?»
A modificare in profondità il significato del quesito referendario sono stati, a un tempo, gli atti legislativi degli ultimi mesi e la proliferazione dei lavori precari. La delega al governo in materia di occupazione e mercato del lavoro è diventata legge (n. 30 del 14/2/2003). Essa agevola il trasferimento da un soggetto giuridico a un altro “di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti”, subordinandole unicamente al requisito «dell’autonomia funzionale».
Inoltre moltiplica i soggetti pubblici e privati autorizzati a svolgere il ruolo di intermediari per la “somministrazione di manodopera”, il che comporta la licenza di affittare lavoratori ad aziende terze non solo come singoli lavoratori, ma anche in gruppo. Nel frattempo procede per la sua strada il disegno di legge n. 848-bis, che delega il governo a sospendere per quattro anni l’articolo 18 nelle aziende dove esso è vigente, prevedendo in alternativa alla riassunzione il risarcimento del lavoratore licenziato senza giusta causa. L’insieme ditali dispositivi permetterà di sopprimere gli effetti deterrenti dell’articolo 18 contro i licenziamenti facili in molte aziende, e di aggirano in parecchie altre. Basterà infatti prendere un reparto con 60 addetti e suddividerlo in quattro aziende con 15 dipendenti ciascuna, dimostrando beninteso che ciascuna di essa è “funzionalmente autonoma”. Dopodiché ciascuna approfitterà delle nuove possibilità di affittare lavoro per allargarsi molto al di sopra della soglia dei 15 dipendenti, senza più l’impiccio dell’articolo 18.
Al progressivo sgretolamento per via normativa dell’articolo 18 si è accompagnata, nell’ultimo anno, una accelerata diffusione dei lavori precari in ogni settore d’attività, inclusa la Pubblica Amministrazione. A quattro giovani su cinque ormai non si offrono altro che contratti di breve durata, o la compartecipazione a cooperative dove è magari stabile il contratto, ma povera la paga. Con la proliferazione oggettiva ditali lavori si è approfondito il senso soggettivo di precarietà, di insicurezza della vita di lavoro che le persone avvertono per sé, i familiari, gli amici, la comunità in cui vivono. Tutto ciò ha modificato il quadro di riferimento in cui si colloca il referendum, facendo ora apparire sfocate o non pertinenti buona parte delle ragioni del non voto.Il l5 giugno non si tratta più di votare solamente per estendere alle imprese non individuali l’obbligo di riassumere un dipendente licenziato senza giusta causa. Votando sì sull’articolo 18, elettori ed elettrici esprimeranno in realtà la volontà di tenere in piedi l’edificio complessivo del diritto del lavoro, rendendo quanto meno più difficili le operazioni di smantellamento avviate da governo e Confindustria Una volta che fosse espressa tale volontà, per restaurare e rendere più funzionale l’edificio alle esigenze attuali non mancheranno gli architetti. In caso contrario basteranno le ruspe per portar via le macerie.
Referendum del 15-16 Giugno e delega sul mercato del lavoro
di MARIO FEZZI
Tante sono le buone ragioni per votare sì al
referendum del 15 giugno, ma ce n'è una fondamentale che e'
rimasta sinora troppo in ombra. Per capirla e' necessaria una premessa.
Il diritto del lavoro, vale a dire non una disciplina astratta, ma LA TUTELA
DEI DIRITTI DEI LAVORATORI, è ad una svolta e ad una svolta non secondaria, ma
fondamentale. Con la legge n. 30/2003 che è stata recentemente approvata dal nostro
Parlamento (e con il disegno di legge delega 848-bis che è in via di approvazione) l'intero diritto del lavoro viene
stravolto: dalla tutela del lavoro si passa alla istituzionalizzazione del
precariato. Il rapporto che era stato privilegiato
dall'ordinamento, quello a tempo indeterminato, diviene l'eccezione, mentre la regola e' rappresentata dal lavoro precario e privo di
garanzie. Il lavoro dell'uomo viene trattato alla
stregua di una merce che si cede, si affitta, si chiama volta per volta solo
quando serve, si somministra.
Sono state cancellate norme fondamentali (L. 1369/60, sul divieto di intermediazione
di mano d'opera) che imponevano principi elementari di civiltà, introducendo
come normale, e non più solo come temporaneo, il ricorso all'affitto di
persone. Non bisogna dimenticare che i contenuti della legge delega
n.30/03 si accompagnano al D.Lgs.368/01,
con il quale e' stata abrogata le legge 230/62 sul contratto a termine, la cui disciplina e' stata
integralmente modificata attraverso una liberalizzazione generalizzata di
questo tipo di contratto. Mentre fino all'entrata in vigore di questa legge, il
rapporto di lavoro a termine era comunque ancora
soggetto a una serie di rigorose condizioni, con l'art.1
del D.Lgs.368 si stabilisce che "è consentita
l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato, a
fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo".
E quindi, in una parola, senza limiti.
La legge 30/2003 contiene tante succose novità:
1. innanzitutto
viene completata l'opera di smantellamento del sistema
del collocamento pubblico e viene affidata ogni attività di intermediazione tra
domanda e offerta di lavoro a soggetti privati, seguendo la logica che se un
istituto pubblico non funziona, non si cera di porvi rimedio facendolo
funzionAre, ma lo si affida ai privati.
2. viene abrogata la legge 1369/60 e viene sostituita con una disciplina
che riconosce e autorizza la somministrazione di mano d'opera. In sostanza il
lavoratore diviene una merce liberamente commerciabile (la somministrazione e'
pensata nel codice civile per lo scambio di merci, non di persone) e si
riconosce la liceità del trarre profitto dal lavoro altrui, attraverso una vera
e propria attività di interposizione che potrebbe
anche essere permanente. Nasce così per via legislativa una nuova
professione: quella del
commerciante in lavoro altrui.
3. viene poi modificato il regime del trasferimento d'azienda
(art. 2112 c.c.), stabilendo che il requisito dell'autonomia funzionale non
deve più essere preesistente al trasferimento, ma deve sussistere al momento
del trasferimento. Ciò significa che qualunque pezzo di un'azienda, sia o non
sia autonomo, può essere ceduto all'esterno -insieme con i relativi dipendenti-
senza possibilità di opporsi alla cessione: e' sufficiente creare 5 minuti
prima del trasferimento un gruppo di persone e dare loro una definizione
organizzativa aziendale. Prima era necessario che il ramo d'azienda ci fosse e
ci fosse realmente e fosse anche autonomo funzionalmente,
molto prima della cessione: ora sarà facilissimo creare "rami
d'azienda" da cedere, creandoli
appositamente, un attimo prima della cessione.
4. Viene modificato il part-time: la legge attuale prevede una
serie ben precisa di limiti alla richiesta di lavoro straordinario o
supplementare. La legge n. 30/2003 prevede invece l'agevolazione del ricorso al
lavoro supplementare nel part-time orizzontale e a forme flessibili ed
elastiche di lavoro a tempo parziale nel part-time verticale e misto. Viene
anche prevista l'estensione delle forme flessibili ed elastiche ai contratti a
part-time a tempo determinato.
5. Vengono poi introdotte
nuove tipologie di lavoro; ad esempio il lavoro a chiamata. Viene introdotta con questa nuova figura, che richiama il caporalato,
una nuova specie di lavoratore: quello discontinuo o intermittente, a scelta
non sua, ma del datore di lavoro. Il lavoratore deve restare a disposizione per
l'eventualità che il datore di lavoro abbia bisogno di
lui. Gli verrà pagato solo il lavoro effettivamente
prestato, mentre potrà percepire una modesta indennità di disponibilità per il
tempo in cui rimane a disposizione in attesa di essere chiamato.
6. Viene poi previsto che per coprire le quote obbligatorie di
lavoratori disabili si possa ricorrere al lavoro interinale e a tempo determinato.
7. Vengono introdotti i "buoni lavoro", ammettendo
prestazioni di lavoro occasionale e accessorio, attraverso la tecnica di buoni
corrispondenti a un certo ammontare di attività lavorativa.
8. I
contratti di collaborazione coordinata e continuativa
potranno essere legati a uno o più progetti o fasi di essi, eliminando così il
problema delle scadenze predefinite, come almeno avviene oggi.
9. Viene ancora introdotta la "Certificazione" del
rapporto di lavoro. Per evitare che un co.co.co chieda al giudice di accertare che il suo rapporto di lavoro
non era affatto autonomo, come dovrebbe essere un cococo,
ma era invece subordinato sotto ogni profilo (con il rischio di dover
regolarizzare la posizione, anche dal punto di vista contributivo), si
introducono speciali commissioni davanti alle quali il datore di lavoro può
portare il lavoratore, prima di assumerlo, per fargli giurare, in una sede
pubblica, che il rapporto che si va ad instaurare e' proprio di lavoro autonomo
e non subordinato. E questo con effetti determinanti
sulla possibilità, alla fine del rapporto, di fare causa. Il lavoratore
naturalmente potrebbe rifiutarsi di andare a giurare ("certificare"),
ma semplicemente non verrebbe assunto e il datore ne
troverebbe un altro che va a fare il giuramento.
Questo, per sommarissimi
capi, e' quello che e' successo con la legge n.30/2003.
Ma dietro l'angolo c'e' anche il disegno di legge delega 848 - bis che contiene
la sospensione dell'efficacia dell'art. 18 per una serie di categorie, e
l'arbitrato in materia di lavoro (cioè non più i Giudici
dello Stato, ma giudici privati, che devono decidere le cause di lavoro e
quindi valutare, tra le altre cose, i
licenziamenti, applicando non più la legge, ma l'equità).
Per finire bisogna aggiungere che in questi anni la
maggior parte delle imprese ha attuato le così' dette
esternalizzazioni, mantenendo all'interno solo quello
che viene chiamato core business e spostando all'esterno
tutto il resto. Tutto ciò è avvenuto in larga misura creando piccole imprese,
solo apparentemente autonome, che fanno , ciascuna,
solo una piccola parte del processo produttivo e organizzativo, che prima si
faceva all'interno. Queste nuove piccole aziende hanno quasi
sempre meno di 15 dipendenti, per consentire il massimo di flessibilità
in un panorama che già più flessibile di così e' difficile immaginare. Ecco allora la necessità di intervenire per ridurre almeno gli
effetti di questi scorpori fittizi. L'introduzione dell'art. 18 nelle
piccole imprese paralizzerebbe o quantomeno ridurrebbe questo fenomeno odioso.
Questa e' dunque la situazione del diritto del lavoro oggi, così come lo ha stravolto e flessibilizzato il governo di centro destra. Ed ecco allora l'importanza fortemente simbolica dell'art. 18. Lo scorso anno la battaglia sull'art. 18 era anche allora solo una battaglia di carattere simbolico, scarsamente rilevante sul destino dei lavoratori dipendenti: se il lavoro dipendente diviene precario per effetto delle nuove disposizioni contenute nella legge delega, l'applicazione dell'art. 18 diventa solo residuale. Non c'e' più bisogno di licenziare. Basta lasciar scadere il contratto e non rinnovarlo. E' sufficiente porre termine al contratto di lavoro interinale. Basta fare uno scorporo di ramo aziendale. Basta non rinnovare il contratto di cococo. etc.etc. Insomma, nel panorama attuale i sistemi per liberarsi dei lavoratori che non piacciono o non vanno bene o non si sono sufficientemente integrati o non sono disposti a subire di tutto, sono moltissimi e semplicissimi: non c'e' alcun bisogno di ricorrere a un licenziamento che può portare alla sua impugnazione giudiziale.
Questa cosa era ben chiara l'anno scorso a Cofferati, che aveva compreso perfettamente che la vera minaccia era la legge delega, non tanto la sospensione dell'art. 18. Tuttavia serviva un simbolo semplice, efficace e diretto, immediatamente comprensibile dalla gente, e la battaglia e' stata così condotta sull'art. 18. Oggi la situazione non e' cambiata. Sarebbero sicuramente necessari interventi per dare garanzie ai lavoratori cosiddetti "atipici"; sarebbe urgente trovare forme di tutela per tutto l'esercito dei lavoratori con partita IVA, e per tutti i tipi di precariato. Non condivido affatto l'idea che sia meglio ridurre un pochino le garanzie di chi e' già protetto per darne un po' a chi non ne ha affatto, perché penso che si finisca solo per allargare l'esercito dei non protetti, ma capisco il senso dell'affermazione. Ma il problema e' che non e' questo in discussione oggi: non siamo chiamati il 15 giugno a dire se vogliamo maggiori garanzie per i co.co.co. e meno per i garantiti dall'art. 18. Non e' di questo che si parla. Siamo invece chiamati a dare un segnale forte e chiaro a questo governo su quella che e' la sua politica di diritto del lavoro: un'affermazione del No o il mancato raggiungimento del quorum rappresenterebbe una sostanziale accettazione di quanto e' stato fatto in questa materia. Solo, invece, una vittoria del SI rappresenterebbe un'aperta sconfessione dell'operato del governo e un tentativo di arrestarlo nella sua corsa sfrenata alla flessibilità selvaggia.
Il valore simbolico dell'art. 18
c'e' ancora per intero e immutato.
Non si può farselo scappare.
[1] Avvocati lavoristi, membri del Comitato promotore nazionale del Referendum e da esso incaricati di seguirne i profili legali, accreditati quali avvocati di riferimento in diverse delle organizzazioni sindacali che sostengono la campagna per il si. Indirizzo per la corrispondenza: carlogugliemi@hotmial.com
[2] Università Federico II di Napoli e Università del Sannio. Comitato promotore nazionale del Referendum per l’estensione dell’art.18. Ringrazio il dott. Francesco Pingue per l’aiuto nella ricerca e nella elaborazione dei dati riportati in questo studio. Indirizzo per la corrispondenza: emilbra@tin.it.
[3] Università Federico II di Napoli e Università del Sannio. Comitato promotore nazionale del Referendum per l’estensione dell’art.18. Ringrazio il dott. Francesco Pingue per l’aiuto nella ricerca e nella elaborazione dei dati riportati in questo studio. Indirizzo per la corrispondenza: emilbra@tin.it.
[4] Pigou (1931).
[5] Heckman J. (2002).
[6] Solow (1998), Stiglitz (2002).
[7] Manifesto for an Alternative Economic Policy in Europe (2001)
[8] Maroni (2002), Galli (2002).
[9] Istat (2002).
[10] Governatore della Banca d’Italia (2002).
[11] Elaborazioni IRES su dati Istat.
[12] Borgarello et al. (2002).
[13] Istat (2002).
[14] Traù (1999).
[15] OECD (1999).
[16] Cfr. Bertola et al. (2002).
[17] Cfr. Ichino (2002) e la risposta di Brancaccio (2002).
[18] Layard e Nickell (1998).
[19] Banca d’Italia (2002).
[20] Cfr. tra gli altri Boeri (2002).
[21] La durata media di una sentenza è di 744 giorni. Cfr. Istat (1998).
[22] Ichino (1995).
[23] Istat (1998).
[24] Contini (2002).
[25] Ibidem.
[26] Bertola e Garibaldi (2002).
[27] Bianco (2002). Dati Università di Linz e ILO.
[28] Dati Svimez.
[29] OECD (2002).
[30] Brancaccio (2002a, 2002b).