Liberazione 1 maggio 2003

LO STRANO CASO DEL PROF. ICHINO

 

Martedì sera, nel corso di una puntata di Otto e mezzo dedicata al referendum sull’articolo 18, il Prof. Pietro Ichino si è cimentato in una fenomenale trasformazione, quella del dottor Jekyll in Mr. Hyde. Bisogna ammettere che l’esperimento è perfettamente riuscito. Vediamo come.

A un certo punto della trasmissione Giuliano Ferrara si è smarcato dallo scomodo ruolo di conduttore per riesumare il vecchio slogan radicale secondo cui libertà di licenziare significa anche libertà di assumere. Egli infatti ha affermato: “negli Stati Uniti, e in tutti i paesi in cui c’è meno tutela contro i licenziamenti, si registrano tassi di disoccupazione più bassi che altrove”. Insomma, secondo Ferrara negli Stati Uniti i lavoratori sarebbero pressoché indifesi ma pare che un posto riescano sempre a trovarlo. Ferrara ha quindi chiamato in causa Pietro Ichino in qualità di “super-esperto” di diritto del lavoro, chiedendogli se effettivamente la libertà di licenziamento determini una crescita dell’occupazione. E il Prof. Ichino, notoriamente ostile non solo all’estensione ma persino al mantenimento dell’art.18, ha categoricamente confermato.

                La conferma di Ichino (prontamente qualificata da Ferrara come “un dato oggettivo e incontrovertibile”) è davvero sbalorditiva. Con essa, infatti, il Prof. Ichino ha smentito sé stesso, dal momento che appena pochi mesi fa egli scriveva: “i risultati della ricerca economica non consentono di affermare che a un aumento della libertà di licenziamento corrisponderebbe una riduzione del nostro tasso di disoccupazione o un aumento della competitività delle nostre imprese”.

Possiamo parlare dunque di vera e propria trasformazione, che naturalmente induce a domandarsi quale tra i due Ichino sia il dottor Jeckyll e quale sia mister Hyde. All’interrogativo è facile rispondere prendendo spunto dalle numerose ricerche alle quali (lontano dalle incensate a base di assenzio di Ferrara) lo stesso Ichino ha fatto riferimento in molti suoi scritti. Nell’ultimo decennio i principali istituti di analisi economica hanno infatti dedicato pagine e pagine di indagini all’individuazione di possibili legami tra la libertà di licenziamento da un lato, e la crescita della dimensione delle imprese, dell’occupazione e dell’innovazione tecnologica dall’altro. Le conclusioni alle quali le ricerche sono giunte possono riassumersi nella seguente affermazione: la libertà di licenziamento genera effetti risibili sulla crescita dimensionale delle imprese, non produce aumenti dell’occupazione e può persino causare effetti perversi sull’innovazione tecnica! Questi risultati sono tanto più significativi se si considera che, in molte circostanze, gli studi che li hanno prodotti erano stati avviati con la dichiarata speranza di confermare e non certo di smentire le virtù della panacea liberista. E’ il caso questo delle analisi dell’Ocse, un’istituzione da tempo orientata a favore dello smantellamento delle tutele contro i licenziamenti. Ebbene, nonostante le intenzioni iniziali,  nell’Employment Outlook del 1999 (VEDI DOCUMENTO GRAFICOICHINO2.DOC) gli esperti dell’Ocse hanno dovuto ammettere l’impossibilità di stabilire rigide relazioni causali tra le norme sul licenziamento e i livelli di occupazione. La ragione è alquanto ovvia: l’unico effetto certo e immediato dei licenziamenti facili è la crescita dei disoccupati, mentre il possibile stimolo degli stessi alle assunzioni è molto più dubbio e controverso. Ma le sorprese dall’Ocse non finiscono qui. Nell’Economic Outlook del 2002 si dichiara che le norme di tutela contro i licenziamenti non solo non sembrano essere un ostacolo allo sviluppo tecnologico, ma potrebbero addirittura favorirlo. E la spiegazione è che solo in un contesto di relativa sicurezza sul futuro i lavoratori si rendono disponibili ad acquisire le competenze necessarie alla realizzazione di innovazioni tecniche. Riguardo infine alle ricerche nostrane, dagli studi di alcuni ricercatori della Fondazione Debenedetti è emerso che il contributo allo sviluppo dimensionale delle imprese che deriverebbe dalla rimozione delle tutele previste dall’art 18 è praticamente nullo, nell’ordine dell’1,5% di probabilità in più di crescere. Un dato che ha dell’incredibile per la sua irrilevanza, soprattutto se si rammenta che proprio l’obiettivo della crescita dimensionale delle imprese fu la giustificazione con cui il governo Berlusconi tentò l’anno scorso di introdurre una deroga all’articolo 18, e che a causa di quella deroga l’esecutivo vacillò pericolosamente sotto i colpi di milioni di persone scese in piazza a contestarla.

Con buona pace di Giuliano Ferrara, dunque, l’unico dato oggettivo e incontrovertibile di fronte al quale ci troviamo è che, nonostante gli sforzi, i tentativi di dimostrare che le tutele contro i licenziamenti pregiudicherebbero l’occupazione e più in generale la crescita del sistema economico si sono rivelati impossibili. Simili risultati rappresentano in un certo senso un antidoto, perché ci salvaguardano dallo “strano caso del Prof. Ichino” e dai molti altri che sicuramente verranno nel corso della campagna referendaria. Ma soprattutto, i risultati delle ricerche ci suggeriscono di interpretare il referendum per l’estensione dell’art.18 non solo come una sacrosanta battaglia di civiltà, ma anche e soprattutto come il primo passo verso una credibile svolta negli indirizzi generali di politica economica. Una svolta peraltro impegnativa, dal momento che si tratterà di costruire sulle macerie economiche e sociali prodotte dal ventennio liberista. Il referendum, evidentemente, non è lo strumento più adatto a una simile, ambiziosa opera di ricostruzione. Esso tuttavia rappresenta un mezzo efficacissimo per chiarire che esiste una maggioranza di cittadini desiderosa di disfarsi, una volta per tutte, delle vecchie, false litanie degli apologeti del libero mercato, e disposta a sostenere una valida alternativa agli attuali, funesti orientamenti di politica economica.

Quanto al Prof. Ichino, saremmo tutti ansiosi di conoscere la sua opinione sulla faccenda. Un’opinione definitiva, se possibile.

 

                               Emiliano Brancaccio*

 

 

*Comitato promotore nazionale del Referendum per l’estensione dell’art.18