CORTE COSTITUZIONALE

Camera di Consiglio del 14 gennaio 2003

MEMORIA SULLA LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE

EX ART. 33 L.352 DEL 25.5.70

* * *

Per Paolo CAGNA NINCHI, Giacinto BOTTI, Pier Luigi PANICI, Franco CALAMIDA, Giancarlo Cesare TOPPI, Federica Manuela CATTANEO, Angela RUGGIERI, Carlo GUGLIELMI, Roberto VENEZIANI, Maria Pia ESPOSTI, Rossano ROSSI, Pietro ALO’, Pier Luciano GUARDIGLI, Ugo VERZELLETTI rappresentati e difesi dal prof. Avv. Piergiovanni Alleva, dall’Avv. Alberto Piccinini e dall’Avv. Pier Luigi Panici giusta procura in calce al presente atto ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avv. Pier Luigi Panici in Roma, Via Otranto, 18,

nella loro qualità di promotori e presentatori delle richieste di Referendum indicate ai numeri 1 e 2 nella Ordinanza della Corte di Cassazione del 9.12.2002 – Reg. ref. 134 e 135.

* * * * *

1. Referendum n. 1 – Reg. ref. 134 denominato "Reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati: abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori".

Riteniamo che non occorra un lungo argomentare per dimostrare la sussistenza dei requisiti di ammissibilità del quesito proposto, anche in considerazione del fatto che sull’art. 18 legge n. 300/70 e sull’ammissibilità di referendum abrogativi in materia, codesta Ecc.ma Corte si è già pronunciata in senso favorevole con due precedenti sentenze, la n. 65 del 1990 e la n. 46 del 2000 (ed in senso contrario, in un’ipotesi di quesito "non omogeneo", con la sentenza n. 27 del 1982, peraltro criticata da dottrina autorevole).

I precedenti di Questa Corte: la sentenza n. 46 del 7.2.2000.

Per riassumere la problematica generale e le modifiche normative intervenute in materia nel corso degli anni, ci si richiama a quanto esposto dalla Corte nella sua più recente sentenza, (la n. 46 del 7.2.2000) che per comodità qui di seguito si trascrive.

"La richiesta di referendum abrogativo, sulla cui ammissibilità la corte è chiamata a pronunziarsi, investe l’art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300 (norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nel testo vigente, quale risulta dalle modifiche di cui all’art. 1 l. 11 maggio 1990 n. 108 (disciplina dei licenziamenti individuali).

La disposizione oggetto del quesito prevede la c.d. tutela reale contro il licenziamento, tutela il cui tratto fondamentale è rappresentato dal potere del giudice, nei casi di recesso inefficace, nullo ovvero ingiustificato, di ordinare al datore di lavoro di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e di corrispondergli una indennità dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.

E’ opportuno rammentare, brevemente, in prospettiva diacronica, come l’originaria normativa del codice civile del 1942 contemplasse la piena libertà di recesso (c.d. recesso ad nutum) del datore di lavoro nel rapporto a tempo indeterminato con il limite dell’obbligo di preavviso, ovvero della corresponsione di un’indennità sostitutiva (art. 2118 c.c.), obbligo che, peraltro, veniva meno in presenza di una giusta causa di risoluzione del rapporto lavorativo, tale da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria (art. 2119 c.c.).

Detta disciplina sopravvisse, nella sua generale portata, sino alla l. 15 luglio 1966 n. 604, con la quale fu introdotto il diverso principio di necessaria giustificazione del licenziamento (art. 1), richiedendosi a tale fine che l’atto di recesso del datore di lavoro fosse, comunque, sorretto da una "giusta causa" (art. 2119 c.c.) ovvero da un "giustificato motivo" (art. 3 l. n. 604 del 1966), alla cui insussistenza conseguiva l’obbligo del medesimo di riassumere il dipendente o, alternativamente, di versargli una indennità risarcitoria, secondo quanto stabilito dall’art. 8 stessa l. n. 604. A tale regime, detto di tutela obbligatoria, dal quale erano esclusi, in linea generale (e salvo ulteriori specifiche esclusioni), i datori di lavoro che occupassero sino a trentacinque dipendenti (art. 11), ha fatto poi seguito la l. 20 maggio 1970 n. 300 (c.d. statuto dei lavoratori), che, con l’art. 18, ha introdotto, per i casi di accertata inefficacia, nullità o mancanza di giustificazione del licenziamento, il regime di c.d. tutela reale del posto di lavoro, sia pure limitandone l’applicazione (art. 35 stessa l. n. 300) alle imprese, industriali e commerciali, che occupassero più di quindici dipendenti nell’ambito dell’unità produttiva ovvero nell’ambito dello stesso comune, nonché alle imprese agricole che occupassero, in analoghe situazioni, più di cinque dipendenti, La stessa norma ha, inoltre, previsto (dal 4º al 7º comma) una speciale procedura atta a garantire, nello stesso ambito di materia, la sollecita risoluzione delle controversie nelle quali è parte il lavoratore sindacalista.

La c.d. tutela reale, nei termini in cui risulta attualmente disciplinata dopo l’intervento in materia della l. 11 maggio 1990 n. 108 (art. 1), comporta, oltre all’obbligo di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, quello del risarcimento del danno medesimo subito, in ragione, di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegrazione (e in ogni caso, non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto), cui si aggiunge il versamento, per lo stesso periodo, dei contributi assistenziali previdenziali. Spetta, inoltre, al lavoratore la facoltà di richiedere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, il pagamento di una indennità sostituiva pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.

Dai sopra menzionati interventi normativi è derivato un quadro di disciplina che, secondo le indicazioni della medesima l. n. 108 del 1990, comporta:

-   un’area di applicazione dell’art. 18 l. n. 300 del 1970 che riguarda tutti i datori di lavoro, imprenditori o non, nell’ambito dei previsti limiti dimensionali, ma con estensione dell’area stessa all’ulteriore ipotesi di datori di lavoro che occupino più di sessanta dipendenti (art. 1);

-   un’area di applicazione della l. n. 604 del 1966, estesa ai datori di lavoro, imprenditori non agricoli e non imprenditori, che occupino sino a quindici dipendenti (sino a cinque dipendenti nei confronti degli imprenditori agricoli), ovvero che occupino sino a sessanta disdenti qualora non sia applicabile l’art. 18 l. n. 300 del 1970, come modificato dalla stessa l. n. 108 del 1990 (art. 2, 1º comma );

-   l’applicazione della tutela reale, ex art. 18, nel caso di licenziamento discriminatorio, quale che sia il numero dei dipendenti occupati, con estensione di siffatta tutela anche ai dirigenti (art. 3);

-   la restrizione (art. 4), ferma restando la tutela di cui al precedente art. 3 nell’ipotesi di licenziamento discriminatorio, dell’area di libera recedibilità a talune circoscritte ipotesi, specificamente individuate ovvero chiaramente desumibili in via di interpretazione: lavoro domestico (l. n. 339 del 1958); lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici (salvo che abbiano optato per la prosecuzione del rapporto lavorativo); dirigenti (eccezione ricavabile del fatto che l’art. 10 l. n. 604 del 1966 non è stato oggetto di modifica);

-   l’esclusione (art. 4), infine, della tutela reale nei confronti delle c.d. "organizzazioni di tendenza" che non abbiano fini di lucro (le quali, secondo la consolidata giurisprudenza, sono soggette al regime di tutela obbligatoria).

Per una più esauriente illustrazione delle disposizioni vigenti in materia, non va ignorata, infine, la l. n. 9 febbraio 1999 n. 30, recante "ratifica ed esecuzione della carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996".Detta carta, entrata in vigore il 1º settembre 1999, contiene disposizioni volte a circondare di specifiche garanzie la posizione dei prestatori di lavoro contro i licenziamenti, prevedendo, in particolare (art. 24), l’impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo; il diritto dei lavoratori licenziati senza valido motivo "ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione"; il diritto dei lavoratori stessi a ricorrere davanti ad un organo imparziale".

La Corte ha ritenuto ammissibile il referendum anche se nel quesito non sono state ricompresse altre leggi che contengono un esplicito rinvio all’art. 18 l. 300/70: ciò – a parere della Corte – non inficia la chiarezza del quesito in quanto, al positivo esito referendario, si produrranno i normali effetti caducatori o di adattamento.

* * * * * * *

La sentenza n. 65 del 2.2.1990

La richiesta referendaria esaminata allora dalla Corte Costituzionale è di identico contenuto a quella odierna.

La motivazione della sentenza è di esemplare chiarezza:

"…La Corte ritiene che non sussistono cause di inammissibilità del detto quesito in relazione al disposto dell’art. 75 Cost., poiché esso non rientra in nessuna delle ipotesi escluse. Anche l’esame della sussistenza dei requisiti di chiarezza, univocità ed omogeneità del quesito ha esito positivo in quanto la disposizione oggetto del referendum, obiettivamente considerata nella sua struttura e finalità, contiene effettivamente quel principio la cui eliminazione o permanenza dipende dalla risposta che il corpo elettorale fornirà.

Ed invero, l’intendimento dei promotori del referendum è diretto, con l’abrogazione parziale dell’art. 35, 1º comma, citato, ad ampliare la tutela dei lavoratori nelle unità produttive indipendentemente dal numero dei relativi dipendenti…".

* * * * * * *

La sentenza n. 27 del 10 febbraio 1982

La richiesta di referendum, è stata dichiarata (a ragione) inammissibile in quanto rivolta contro un complesso di disposizioni (abrogazione parziale degli artt. 28, 35 e 37 l. 300/70) dalle quali non era possibile estrarre un quesito "omogeneo".

Così argomenta la Corte "…Invero le proposte abrogative si articolano in realtà su temi distinti per il loro oggetto e non omogenei riflettenti, da un lato, l’organizzazione dell’attività sindacale dal punto di vista dei soggetti legittimati a promuoverla e, dell’altro, il campo di applicazione della tutela degli interessi dei lavoratori sotto duplice, differenziato profilo. Ditalchè, nella specie, l’elettore ben potrebbe non concordare su tutte le proposte avanzate, non legate da un nesso di inscindibile coerenza logica e sostanziale, mentre è, invece, costretto a fornire una risposta unica in sede di espressione del voto. Ben potrebbe cioè l’elettore condividere l’una o l’altra delle soluzioni abrogative ma non tutte, mentre dovrebbe invece necessariamente rispondere "si" o "no" in relazione al loro complesso…".

I promotori dell’attuale referendum hanno fatto proprio questo orientamento della Corte (peraltro criticato allora da autorevole dottrina, di cui si dirà oltre).

Infatti hanno proposto due distinte richieste referendarie, raccogliendo le firme necessarie per ciascuna di esse; hanno poi espresso il proprio dissenso rispetto alla proposta della Corte di Cassazione di concentrazione dei referendum n. 1 e 2 che pur rivelavano "uniformità di materia".

Nella memoria 18.11.2002 (depositata in Cassazione ai sensi dell’art. 32 l. 352/70) i promotori hanno osservato: "…la materia è oggettivamente uniforme e la finalità dei promotori del referendum è quella di estendere a tutti i lavoratori subordinati i diritti e le tutele previsti dalla legge 300/70 senza limitazioni ed esenzioni. Diversi sono però i diritti che le richieste referendarie mirano ad estendere: un primo quesito riguarda l’applicazione della c.d. "tutela reale" per tutti i lavoratori subordinati colpiti da un licenziamento illegittimo; un secondo il generale riconoscimento di diritti riconducibili all’esercizio dell’attività sindacale in tutti i luoghi di lavoro. I presentatori delle richieste di referendum hanno inteso proporre agli elettori due distinti quesiti per consentire, in ipotesi, anche una scelta differenziata sulla diversa tipologia di diritti da estendere. Si ritiene pertanto che sia preferibile mantenere tale distinzione…".

Con la ordinanza definitiva del 9.12.2002 la Corte di Cassazione ha condiviso tali considerazioni ed ha disposto che i quesiti restino distinti.

* * * * * * *

I promotori – ripetesi – hanno fatto proprio l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 27 del 1982; appare però doveroso segnalare che tale pronuncia ha destato perplessità in molti autorevoli commentatori. Le ragioni sono riportate nella ampia nota di R. GRECO (in Foro italiano 82, I, 614), il quale osserva: "…E’ certo, comunque, che fra i "criteri integrativi" dell’art. 75 Cost. quello relativo alla omogeneità dei quesiti – al quale ha fatto riferimento la corte per dichiarare inammissibile il referendum sullo statuto – fa sorgere le maggiori perplessità sia per la sua elasticità sia perché la omogeneità dei quesiti è solo un requisito del modo in cui la richiesta di abrogazione è sottoposta al corpo elettorale che assurge così a requisito dell’ammissibilità stessa del referendum (v. le osservazioni in tal senso di ONIDA, Principi buoni, applicazioni discutibili, ibid., 564). In realtà, l’assunto della corte cui secondo i quesiti debbano essere posti con la omogeneità necessaria ad esaltare e non a coartare la libertà della scelta popolare, per cui quesiti eterogenei non possono essere ammessi perché, di fatto, non metterebbero il corpo elettorale in condizione di scegliere liberamente e con coscienza, non può essere condiviso senza riserve. In primo luogo da esso traspare la non felice immagine del "popolo bambino" da proteggere (v. in tal senso BALDASSARRE, La commedia degli errori, ibid., 578, ed ivi il richiamo ad un articolo di NEPPI MODONA su "Repubblica" del 10 febbraio 1978) ed inoltre, proprio perché suscettibile di un uso dilatato ed incontrollato, questo argomento boomerang finisce per sottrarre l’unico strumento di democrazia diretta alla sovranità popolare, fra l’altro in base alla "necessità di proteggere" la sovranità stessa..".

Nell’articolo di G. NEPPI MODONA ("La Corte protegge il popolo bambino") è contenuta una riflessione che condividiamo: "…l’istituto referendario ha tale rilievo politico da non poter essere abbandonato alle scelte discrezionali, e perciò stesso contingenti, di un organo sia pure prestigioso e credibile qual è la Corte Costituzionale.

E’ urgente un intervento del legislatore che predetermini con precisione e chiarezza i limiti di ammissibilità del referendum. In particolare deve essere la legge a stabilire i criteri alla stregua dei quali valutare l’omogeneità dei quesiti proposti al corpo elettorale… Se la Corte ha ancora una volta esteso la sfera delle sue attribuzioni ed ha svolto un ruolo più politico che giuridico, la responsabilità va dunque in gran parte addebitata ai ritardi ed alle inerzie del nostro legislatore: anche questa sentenza, al di là dello specifico problema dei referendum, acquista significato di una messa in mora del Parlamento e delle forze politiche che dovrebbero consentire un corretto e tempestivo funzionamento…".

Inutile rilevare che la "messa in mora" non ha dato alcun frutto e l’inerzia del legislatore permane tuttora.

I promotori del referendum hanno però voluto evitare alla Corte sia "sforzi interpretativi" per ricavare dalle diverse questioni un quesito comune e razionalmente unitario (come indicato da Corte Cost. 16/78), sia "scelte discrezionali perciò stesso contingenti", presentando richieste referendarie distinte e con quesiti chiari, omogenei ed univoci.

Per quanto concerne, dunque, il quesito relativo al Reg. Ref. n. 134 non sussiste, con tutta evidenza, né alcuno dei limiti espressamente previsti dall’art. 75, 2° comma, Cost., né qualsivoglia limite implicito ricavabile dal sistema costituzionale: le richieste di referendum oggi all’esame della Corte sono infatti finalizzate ad estendere, e non limitare, le tutele per diritti di portata costituzionale (con l’attuazione, in particolare, degli artt. 1 primo comma, 4, 32 secondo comma, 41 secondo comma, in coordinamento con l’art. 3, nonché dell’effettivo esercizio del diritto di cui all’art. 40) senza alcuna lesione, quindi, di principî costituzionali di pari rilievo, come del resto è comprovato dalla ultratrentennale applicazione dell’art. 18 legge n. 300/70.

E’ opportuno ricordare che sin dai primi anni successivi alla approvazione della L. 300/70 molti Giudici di merito hanno sollevato la questione di costituzionalità proprio sulla diversa ed ingiustificata limitazione della applicazione dell’art. 18 l. 300/70 ai datori di lavori con più di 15 dipendenti: in tutte le ordinanze di rimessione si evidenziava il sospetto della violazione sia del principio di uguaglianza e di parità di trattamento dei lavoratori (e dei datori di lavoro) desumibile dall’art. 3 Cost., sia del precetto di cui all’art. 4 Cost..

Né, d’altra parte, possono sussistere dubbi rispetto ai requisiti della chiarezza, univocità ed omogeneità dei quesiti, che consistono esclusivamente nella traduzione "tecnica" del titolo di cui all’ordinanza del 9 dicembre 2002 dell’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione che ha dichiarato legittima la richiesta del referendum in oggetto, che recita: "Reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati: abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori".

Trattasi di concetti assolutamente chiari e lineari: i promotori intendono pervenire ad una ricomposizione del mondo del lavoro subordinato abrogando quelle disposizioni che prevedono limiti ed esenzioni (per le dimensioni occupazionali ovvero per la natura del datore di lavoro) nell’applicazione della sanzione da irrogare in caso di licenziamento la cui illegittimità sia stata accertata dall’Autorità Giudiziaria: con la conseguenza che il successo dell’iniziativa referendaria comporterebbe un’estensione a tutti i lavoratori subordinati (ad eccezione del lavoro domestico, dei lavoratori ultrasessantacinquenni in possesso dei requisiti pensionistici e dei dirigenti, vista la peculiarità del loro rapporto – non soggetti alla normativa vincolistica dei licenziamenti - disciplinato rispettivamente dalla legge n. 339/58 e dall’art. 10 legge n. 604/66 e successive modifiche, richiamati dall’art. 4 della legge n. 108/90 nella parte non oggetto di richiesta di referendum abrogativo) del diritto di riavere il proprio posto di lavoro ed ottenere il risarcimento dei danni pari alle retribuzioni perdute dal licenziamento alla reintegrazione (fatti salvi da un lato l’aliunde perceptum – come ormai pacifico in giurisprudenza – e dall’altro un risarcimento minimo di cinque mensilità) così come prevede, appunto, l’art. 18 della legge n. 300/70.

In tal modo troverebbe definitiva conferma un principio peraltro già espresso dalla migliore dottrina, secondo cui alla citata norma va riconosciuto "…valore di disposizione centrale di un sistema autonomo di tutela contro il licenziamenti. Non "norma aggiunta" al testo della legge 604/66, dunque; ma testo autonomo al quale si "aggiungono" sia le norme sostanziali della legge 604/66 sia le norme sostanziali di ogni altra legge che prevede casi di invalidità del licenziamento non autonomamente sanzionati. Che poi l’art. 18 abbia uno specifico campo di applicazione, è circostanza che ne rafforza, ma non ne determina, l’autonomia sistematica. Con la conseguenza che, se il campo di applicazione specifico fosse abrogato dal referendum, sarebbe il sistema dell’art. 18 ad espandersi sia soggettivamente (venendo a cadere il riferimento limitativo alle imprese) sia in senso dimensionale (venendo a cadere il riferimento al numero) con conseguente estensione "orizzontale" della formula "tutti/16" (tutti i datori di lavoro senza alcuna soglia dimensionale) ed abrogazione di ogni diverso limite.." (D’ANTONA: Gli effetti abrogativi del referendum sul campo di applicazione dello statuto dei lavoratori: veri e falsi problemi. Nota a commento di Corte Cost. 2 febbraio 1990, n. 65 in Foro It. 1999, 750 ss.).

Riteniamo che le parole del grande giuslavorista tragicamente scomparso - di commento alla sentenza di codesta Corte n. 65/90 con la quale, come si è già ricordato, si era ritenuto ammissibile un quesito finalizzato appunto ad ampliare la tutela dell’art. 18 legge n. 300/70 indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati - mantengano la loro attualità, indipendentemente dal fatto che le norme di riferimento delle quali si propone oggi l’abrogazione siano state parzialmente modificate (la legge n. 604/66 e lo stesso art. 18 della legge n. 300/70 hanno infatti subìto modifiche – e razionalizzazioni - ad opera della legge n. 108/90).

Il principio dell’estensione del diritto alla reintegrazione – come conseguenza dal licenziamento dichiarato illegittimo, nullo ed inefficace - a prescindere dalle dimensioni occupazionali - facilmente percepibile dall’elettorato - è il medesimo, ed ha senz’altro i requisito della chiarezza e della coerenza, e quindi dell’univocità e dell’omogeneità.

Osserviamo infine che il quesito contiene – coerentemente - anche la richiesta di abrogazione delle norme relative alla c.d. "tutela obbligatoria", che non ha più ragione di esistere all’esito della generalizzazione della "tutela reale".

* * * * * * * *

2. REFERENDUM n. 2 (Reg. Ref. n. 135) denominato "Attività sindacale nei luoghi di lavoro: abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per i diritti e le tutele previsti dal titolo III dello Statuto dei Lavoratori".

Per quanto concerne il quesito proposto con il secondo referendum, parimenti esso non investe leggi tributarie o di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, così come non è diretto a travolgere leggi c.d. "a contenuto costituzionalmente vincolato": anche in questo caso la richiesta di referendum all’esame della Corte è finalizzata ad estendere, e non limitare, diritti di portata costituzionale senza alcuna lesione di principî costituzionali in potenziale contrasto.

Rispetto poi ai requisiti della chiarezza, univocità ed omogeneità, il quesito appare di una linearità esemplare, ed assolutamente semplice anche nella sua formulazione tecnica, attuativa del titolo "Attività sindacale nei luoghi di lavoro: abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per i diritti e le tutele previsti dal titolo III dello Statuto dei Lavoratori".

Esso è, come il primo, finalizzato alla ricomposizione del mondo del lavoro subordinato ricostruendo una comune civiltà del lavoro, in particolare con l’estensione dei diritti di manifestazione del pensiero, di libertà associativa e di attività sindacale in tutti i luoghi di lavoro.

* * * * * *

Si conclude quindi per l’ammissione delle richieste referendarie sopra indicate.

Roma, 10 gennaio 2003

Prof. Avv. Piergiovanni Alleva Avv. Pier Luigi Panici Avv. Alberto Piccinini