Referendum,
un'occasione a sinistra
Anche se i grandi mezzi di
comunicazione lo stanno oscurando, il voto per l'estensione dell'articolo 18
alle piccole imprese è un appuntamento cruciale. Una delle rare occasioni che
abbiamo per estendere i diritti. Dopo l'anno dei movimenti in difesa delle
conquiste, il referendum può rilanciare quelle energie in sintonia con le
trasformazioni sociali. Sarebbe incomprensibile a tutti se la sinistra e la
Cgil non sostenessero la campagna per il «sì»
di GIOVANNI PALOMBARINI - il
manifesto 12 marzo 2003
La notizia riportata dai
quotidiani negli ultimi giorni è netta: l'80% dei cittadini italiani ignora
l'esistenza del referendum per l'estensione delle previsioni dell'art. 18 dello
statuto dei diritti dei lavoratori alle aziende con meno di 16 dipendenti. E'
un dato inquietante, che certamente ripropone la questione dello stato
dell'informazione nel nostro paese, ma che intanto sollecita l'immediata
attenzione di tutti i democratici su un quesito preciso: un'iniziativa che ha a
che fare con l'estensione dei diritti di chi lavora può fallire perché i media
hanno fin qui mantenuto un sostanziale silenzio sui suoi contenuti e sulle sue
ragioni? La scadenza del voto si avvicina e il rischio del non raggiungimento
del quorum può essere scongiurato solo se tutti coloro, comunque
organizzati, che in questi ultimi mesi si sono mobilitati per la difesa e
l'estensione dei diritti, comprese le diverse espressioni della cultura
giuridica, sapranno cogliere gli aspetti positivi del referendum. Certo, sono
state e sono tante le critiche, le perplessità, e comunque le prese di distanza
in vari settori. E però, dopo la decisione della corte costituzionale ammissiva
del referendum, è necessario ragionare non solo e non tanto per verificare la
fondatezza di queste censure, ma soprattutto per capire cosa conviene fare
oggi. Un'analisi spassionata dovrebbe consentire di superare ogni dubbio. 1.
Intanto, una prima considerazione già da sola decisiva, che fa riferimento al
quadro complessivo del diritto del lavoro, alla tendenza in atto ormai da anni,
e alla situazione politica e sociale di oggi. Ebbene, non si ricordano molte
iniziative proposte nel corso degli ultimi anni di segno positivo -
esterne cioè a una logica puramente difensiva o addirittura di adeguamento a
una tendenza neoliberista - per l'affermazione o l'estensione dei diritti,
nonostante che nel periodo si siano succeduti governi di tipo diverso. Certo,
il 2002 verrà ricordato anche per grandi battaglie, fra le quali la
straordinaria mobilitazione in difesa dell'articolo 18: ma si è trattato
appunto di una battaglia difensiva. E in positivo? Oggi, quanto a iniziative di
segno costruttivo, cioè di avanzamento, è in campo questa iniziativa
referendaria. E comunque: a prescindere da questa, quali iniziative fuori da
una logica subalterna per la tutela del lavoro sono oggi concretamente
possibili? E' vero che all'ordine del giorno c'è il problema della
ristrutturazione in corso del mercato del lavoro, che è aperta la questione dei
tanti lavori cosiddetti autonomi senza tutele, come sottolineano molti di
coloro che criticano l'iniziativa referendaria; e però c'è anche la questione
posta dai processi di automazione e dalla diffusione del decentramento
produttivo, con il numero sempre crescente di imprese con meno di 16
dipendenti, ma di rilevante dimensione economica e di mercato. Di recente sono
state diffuse alcune cifre, secondo le quali attualmente l'art. 18 si riferisce
solo al 37% della forza lavoro. E allora, perché una sua estensione dovrebbe
essere considerata marginale per effetto dell'innegabile importanza del dilagare
dei lavori cosiddetti autonomi? Eppure, è irrisoria la tutela degli ormai
numerosissimi lavoratori delle imprese sotto la soglia dei 16 dipendenti, se è
vero che in caso di licenziamento ingiustificato è possibile anche un
risarcimento di due mensilità e mezzo della retribuzione, con tutto ciò che può
conseguire a una simile situazione anche in termini di precarietà e di
accentuazione della sottomissione per il timore del licenziamento. Qui siamo in
presenza di posizioni soggettive deboli, in relazione alle quali è facile dire
che la situazione può essere corretta con un significativo aumento del
risarcimento per il licenziamento senza giusta causa (12 mensilità?). Rimane
però il fatto che alle parole e anche ai progetti non si è dato alcun seguito
in un recente passato, e che oggi è difficile vedere all'orizzonte concrete
soluzioni di tipo legislativo. L'iniziativa referendaria ha una debolezza
oggettiva, non c'è dubbio: è un'iniziativa isolata, che è impossibile
inquadrare in una complessiva strategia alternativa delle forze di sinistra. Ma
ciò dipende dal semplice motivo che oggi una strategia del genere purtroppo non
esiste. Proprio a partire dall'articolo 18 una riflessione complessiva potrebbe
finalmente aprirsi. Comunque rimane il fatto che si tratta di un tentativo di
uscire dall'angolo, e già per questo merita di essere sostenuta.
2. A questo proposito vanno fatte alcune realistiche
osservazioni anche a proposito delle possibilità di resistere alle tendenze in
atto. Intanto si ricomincia a parlare della modifica dell'articolo 18 dello
statuto, nell'ultima versione contenuta nel «patto per l'Italia», evidentemente
accantonata solo momentaneamente. Poi, non va dimenticato che sono in corso le
procedure di attuazione delle indicazioni del cosiddetto libro bianco. Si va
dal lavoro a chiamata al lavoro accessorio o occasionale, dalla possibilità di
ripartire un lavoro fra due o più lavoratori per l'esecuzione di un'unica
prestazione all'ampliamento del lavoro part time, con l'allargamento
delle ipotesi di lavoro intermittente o a chiamata (con inevitabili gravi
riflessi per il lavoro femminile, per il quale la determinazione dei tempi di
lavoro è ovviamente funzionale all'impegno familiare). Tutto ciò si aggiungerà
alle modifiche che sono intervenute nell'ultimo decennio. «Dalla volontà della
legge alla legge della volontà», questo è lo slogan che ha già ispirato molti
interventi legislativi. Così la legge n.196 del 1997, di disciplina del lavoro
interinale, ha introdotto una sostanziosa deroga al divieto d'appalto di
manodopera; con il decreto legislativo n.61 del 2000 è stata rimessa alla
contrattazione collettiva la possibilità di consentire prestazioni lavorative part
time con maggiore flessibilità rispetto ai limiti previsti dalla legge; con
il decreto legislativo n.368 del 2000 si sono ampliati gli spazi del lavoro a
termine. Insomma, da anni è in atto un processo di precarizzazione dei rapporti
di lavoro del quale non si intravede la fine.
Allora, come non vedere che questa iniziativa referendaria,
se avesse successo, sarebbe un «contropiede» di grande efficacia rispetto alla
tendenza, contro chi sia pure in modi diversi si è mosso e si muove in favore
della adattabilità del lavoratore a qualsiasi situazione determinata per
propria convenienza da chi opera esclusivamente, e del tutto liberamente, per
il profitto? D'altra lato, va sottolineato che l'iniziativa referendaria
propone una questione di principio. Si tratta di un diritto fondamentale oppure
no? Se si, come in tanti anche fra i perplessi dicono, allora perché limitarlo
alle aziende con più di 15 dipendenti nelle quali opera poco più di un terzo
del lavoro subordinato?
3. Quanto poi ai dubbi circa il possibile esito della
consultazione, potrebbero davvero ridursi se solo si riflettesse un attimo sul
fatto che dopo il successo elettorale della destra, quando avvilimento e
rassegnazione erano diffusissimi, ben difficilmente erano prevedibili la misura
straordinaria, e le convergenze, delle diverse mobilitazioni di questi ultimi
mesi, da Genova in poi, diverse e dettate dal molteplici ragioni, ma che
avevano in definitiva la tutela dei diritti fondamentali. Queste mobilitazioni
ci sono state, e hanno avuto il loro peso. Dunque il «sì» può avere successo.
Il problema è essenzialmente quello del conseguimento del quorum, per
cui è necessario attivarsi subito per una diffusa sensibilizzazione al fine di
togliere efficacia al silenzio delle televisioni.
4. Vi è poi un'altra obiezione che circola, quella della
divisione che il referendum determinerebbe o avrebbe già causato fra le forze
di sinistra e quelle democratiche. Sul punto si possono proporre un quesito,
con riferimento alle prime, e una considerazione, in relazione
all'atteggiamento delle seconde.
Intanto: quali sono le ragioni di una simile divisione? Una
riflessione razionale dovrebbe indurre facilmente al loro superamento, se le
cose stanno come si è detto. Insomma, chi si divide, e da chi, e per che cosa?
Forse pesa ancora il fatto che fra i promotori c'è Rc, che a suo tempo mise in
crisi il governo Prodi? Le obiezioni, se potevano avere un valore prima, oggi,
con l'iniziativa in campo, appaiono superate. Le scadenze di contrasto efficace
ai disegni di radicale ridefinizione delle relazioni industriali dell'attuale
governo non sono tante: questo solo dovrebbe interessare a chi si considera di
sinistra.
E poi. Certo, è esperienza di questi mesi, ogni battaglia
per la difesa e l'estensione dei diritti avrà sempre bisogno dell'impegno forte
del centro democratico. Ma anche questo problema, per la cui soluzione i
promotori del referendum dovranno lavorare, va inquadrato nel comune interesse
di un'opposizione radicale, su tutti i fronti, alla politica governativa.
Questa, sulla vicenda della guerra come sulla questione dell'informazione,
sulla giustizia come sull'articolo 18, non è stata messa in difficoltà dalle
perplesse obiezioni di alcuni leader dell'Ulivo, ma da grandi mobilitazioni
unitarie di massa. Come non trarre un insegnamento, anche da parte delle forze
di centro, da queste vicende?
Dunque, la scadenza elettorale si avvicina. Se il quorum
non verrà raggiunto, le possibilità di difesa dei diritti di chi lavora (anche
per coloro ai quali il referendum non si rivolge direttamente) si attenueranno.
Per il successo è pertanto necessario l'impegno di tutte le forze democratiche.