Da sinistra c’è chi ha additato i promotori del referendum sull’art. 18 come sciagurati e chi, più benevolmente, li ha invitato a riflettere. Limitiamoci alla riflessione, ma prima sgombriamo il campo da equivoci e stiamo al merito del referendum: fermare la deriva che cancella il diritto del lavoro, non riducendo ma estendendo i diritti, a cominciare da quello fondamentale alla restituzione del posto di lavoro a chi è stato licenziato arbitrariamente. Un diritto che ha ricadute sostanziali, oltre che sulla vita delle persone, su ogni forma di tutela e su ogni altro diritto di fonte contrattuale e legale e perciò su diritti fondamentali come la libertà di pensiero, di espressione, di adesione a partiti politici, a formazioni sindacali.

Ci si dice: l’intenzione è buona, lo strumento, il referendum, è sbagliato. Perché? Il referendum è un diritto costituzionale, unica forma di intervento popolare sul legislatore e di proposta al paese da parte di una minoranza. In ogni caso dopo la sentenza della Consulta, questa discussione è accademica: il referendum c’è e non si può evitare se non con una legge che estenda l’articolo 18, vada cioè nel senso voluto dai promotori.

E per una legge sono in campo più proposte, manca quella della CGIL che, con un obiettivo ben più articolato di un quesito referendario, ha raccolto 5 milioni di firme per tre obiettivi: estensione dell’art. 18, allargamento dei diritti agli atipici, democrazia nei luoghi di lavoro. Una buona cosa e una importante battaglia parlamentare. E il comitato che ha promosso il referendum, anche per il suo ruolo istituzionale, non è contrario a una legge, solo sa – come tutti - che per farne una che vada nella direzione dell’estensione dei diritti - e quindi eviti il referendum e dia uno sbocco alla straordinaria mobilitazione del 2002 e ai 5 milioni di firme della CGIL - ci vogliono condizioni politico-parlamentari che oggi non ci sono.

Cade anche l’idea che si possa impedire per altra via se non referendaria l’approvazione delle modifiche all’articolo 18 contenute nel Patto per l’Italia, la legge delega 848bis. La difesa dell’articolo 18 così com’è oggi è possibile solo con la vittoria del SI. Nel 2003 il governo approverà la 848bis, se lo fa prima del referendum, essa verrà inglobata nel quesito, in quanto in contraddizione con esso, e quindi sottoposta al voto, se invece, come è certo, la fa dopo a maggior ragione è necessario sostenere il SI, perché non si legifera contro un voto popolare appena espresso, che, tra l’altro, per come è formulato il quesito, produce l’immediata efficacia della nuova norma senza intervento del legislatore.

La posizione di chi guarda all’alleanza con le piccole imprese mi sembra sinceramente un po’ datata. Nella crisi dell’impianto produttivo del paese non sono alcune centinaia di vertenze per licenziamento ingiustificato a mandare a rotoli l’economia e Fazio, che lo sa, ci dice, ma lo sappiamo anche noi, cosa è accaduto in questi anni al tessuto produttivo di questo paese, che ha oggi il 95% delle imprese sotto i 10 dipendenti.

C’è poi chi ci dice: date i diritti ai dipendenti garantiti, ma agli atipici, al lavoratore in nero chi ci pensa? La risposta è un’altra domanda. Estendere la tutela dalla libertà di licenziamento ai 6.000.000 di lavoratori che oggi non l’hanno, non è già meglio che ridurla alla minoranza che ancora ce l’ha? E i 2.000.000 di atipici e i 3.000.000 di lavoratori in nero non conteranno sull’effetto che avrà la vittoria del SI, trovando ragioni di speranza e di solidarietà in un mondo del lavoro ricomposto e sottratto al ricatto permanente del licenziamento arbitrario? E non è forse per questo che il 23 marzo del 2002 erano a migliaia al circo Massimo?

Infine: divide la sinistra, è il referendum di Bertinotti. Intanto, ringraziamo ancora Rifondazione, la FIOM, la CGIL di LavoroSocietà, i Verdi, Socialismo 2000, il sindacalismo extraconfederale, ATTAC, e gli altri soggetti che lo hanno sostenuto durante la raccolta delle firme e reso possibile. Ma noi non l’abbiamo promosso per unire la sinistra, né per definire uno schieramento, fare un nuovo partito o altro (tant’è che abbiamo tenuto distinto il nostro referendum da quelli promossi da Rifondazione, Verdi, e altri, con lo spirito del pacchetto di referendum sociali della sinistra alternativa). Con il referendum vogliamo porre una questione di merito e non di schieramento. Poi diventa il referendum di Bertinotti (a parte la strumentale campagna di stampa) se si lascia solo lui a difenderne le ragioni: se lo fanno anche i DS diventerà il referendum di Fassino. Noi promotori non siamo gelosi, chiediamo solo di ricordare che questo referendum è di tutti e che la battaglia per il SI è una battaglia per la giustizia, per la civiltà. Su questo chiediamo un giudizio.

E’ certo comunque che dalla vittoria del SI, può nascere una nuova stagione sociale e politica con vantaggio e ragioni di unità per una sinistra ancora troppo attenta alle logiche di schieramento, ai propri processi interni, piuttosto che alle domande della società, del mondo del lavoro, dei più deboli.

Perciò proviamo a lavorare insieme a una campagna affrontata con spirito unitario e aperto, confrontandoci con tutti e tra tutti, senza barriere ideologiche, senza steccati di schieramento, senza logiche di primazia: per far crescere e diffondere nel nostro paese una cultura di giustizia sociale.

Paolo Cagna Ninchi

presidente del Comitato LA GIUSTA CAUSA promotore del referendum sull’articolo 18

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