Oltre le discriminazioni da "numero chiuso"
ALBERTO PICCININI *
Nel 1990 il referendum sull'art. 18 fu scongiurato dalla promulgazione, "in zona Cesarini", di una legge, la n. 108, che andava nella direzione del quesito referendario. Il maggior merito di questa legge fu quello di estendere a tutti i lavoratori (subordinati e a tempo indeterminato) una serie di diritti: il diritto di far dichiarare illegittimo da un giudice il proprio licenziamento, se intimato in mancanza di una giusta causa o di un giustificato motivo; il diritto ad essere licenziati solo con forma scritta, essendo il licenziamento orale invalido ed inefficace; il diritto di chiedere ed ottenere la motivazione del licenziamento, ove inizialmente non indicata. Il suo peggior difetto fu quello di aver lasciato invariato (anzi, di aver persino accentuato) il diverso trattamento dal punto di vista della sanzione in caso di licenziamento illegittimo: oggi, infatti, il dipendente di un datore di lavoro che occupa più di 15 dipendenti può riavere il suo posto di lavoro e vedersi pagate le mensilità perdute in attesa della sentenza (con un "minimo garantito" di cinque) ovvero, a sua scelta, convertire la reintegrazione nel posto con un'indennità pari a quindici mensilità (5+15= 20 come minimo: meno dell'importo ipotizzato dal Cavaliere come alternativa secca alla reintegra); il dipendente di un datore di lavoro che occupa invece meno di 16 dipendenti ha diritto solo ad un'indennità da 2,5 a 6 mensilità, rimanendo nella scelta del datore la decisione se riassumerlo o meno, con la sola facoltà, per il lavoratore, di scegliere la soluzione economica (ma non l'inverso, nel senso che non può essere lui a decidere di continuare a lavorare). E' questo il punto centrale dello scontro sull'art. 18: Berlusconi può affermare che questa norma non risponde all'interesse dei lavoratori che avrebbero, invece, maggiore interesse ad una soluzione economica solo confidando nell'ignoranza di chi non sa che, sopra i 15 dipendenti, tale soluzione è già un'opportunità per chi non è più interessato a tornare nel vecchio posto di lavoro. Ma il discrimine passa attraverso l'individuazione di chi può fare la scelta. Perché laddove c'è, per il datore di lavoro, il pericolo della reintegrazione (non dipendendo da una sua decisione) è possibile esercitare diritti e rivendicazioni in costanza di rapporto di lavoro, mentre altrove regna l'arbitrio e chiunque può essere "eliminato" con una manciata di denari. L'art. 18 è stato giustamente definito il diritto dei diritti, l'architrave di ogni altra tutela nei posti di lavoro: è per questo che è stato proclamato uno sciopero generale; è questo che hanno capito i milioni di lavoratori scesi in piazza nella manifestazione più imponente mai vista in un paese occidentale.
I promotori del referendum che si terrà la prossima primavera si propongono di estendere il diritto alla reintegrazione a tutti i lavoratori, eliminando quella assolutamente sproporzionata diversità di trattamento di cui sopra si è parlato.
E' quella diversità giustificata? La risposta non può che essere negativa: tutti i sindacalisti che operano sul fronte della tutela individuale (e che formulano ai lavoratori licenziati che ad essi si rivolgono, come prima domanda: "più o meno di 15?") potranno testimoniare delle difficoltà che si trovano a spiegare e giustificare l'esistenza di lavoratori di serie A e di lavoratori di serie B.
Resta il problema di individuare una risposta articolata, modulata sull'enorme varietà di situazioni che convivono nel mondo datoriale "sotto i sedici": si pensi alla fabbrica con 15 addetti (e magari altrettanti apprendisti) comparata alla bottega del barbiere.
E' il referendum lo strumento più appropriato per regolamentare una così complessa materia? Anche in questo caso, a mio avviso, la risposta deve essere negativa. Però.
Però ha un senso rispondere negativamente, se nello stesso tempo ci si fa seri promotori di un progetto di legge per modificare lo stato attuale delle cose, che, come detto, è fortemente ingiusto. Una legge che rifletta sulla attualità della soglia alla luce degli studi statistici, che ripensi ad altri criteri, magari concorrenti, per valutare le dimensioni aziendali e che, soprattutto, unifichi la sanzione prevedendo che, in caso di accertato esercizio arbitrario del potere di licenziamento, si rispristini sempre la situazione giuridica precedente, rimettendo in piedi il rapporto di lavoro e risarcendo i danni per le retribuzioni perdute a causa dell'illegittimo licenziamento. Ove poi il lavoratore non fosse più interessato ad una simile soluzione si potranno modulare soluzioni economiche differenziate alternative, prevedendone di meno onerose per quei datori di lavoro di dimensioni minime.
Il paventato pericolo della reintegra dell'unico dipendente del fioraio non si concretizzerà per il semplice fatto che - come accade già ora nella stragrande maggioranza dei casi - le due parti cercheranno, nel reciproco interesse, un accordo economico: solo che la trattativa non si svolgerà con i rapporti di forza sbilanciati a favore di chi sta dalla parte del torto (accertato da un giudice, che ha considerato illegittimo il licenziamento).
Con un progetto che vada in questa direzione, che goderebbe già del favore di oltre cinque milioni di persone che hanno firmato per una proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalla Cgil "che estenda i diritti", ci si può confrontare con amici e nemici: entrambi dovranno spiegare nel merito perché ritengono che una mirata e ponderata estensione della legalità nella sfera dei diritti individuali possa nuocere effettivamente all'economia del paese.
Ma se e quando una argomentata campagna di informazione diretta a favorire un'equa soluzione legislativa dovesse essere contrastata e neutralizzata dal fronte governativo (con il neppure malcelato intento di rimettere in discussione tutta la normativa in materia) sarà inevitabile schierarsi nella - anche se non voluta - battaglia referendaria. Secondo scienza e coscienza.