Possiamo farcela, dobbiamo farcela

Oggi ci sono due ragioni in più, oltre a quelle che spinsero il Comitato per le libertà e i diritti sociali di Milano a promuovere il referendum alla fine del 2001 come risposta al "libro bianco" di Maroni. Allora partimmo dal principio di uguaglianza e giustizia: non è tollerabile che un uomo, una donna siano limitati nella loro sicurezza, nella loro libertà, nella loro dignità perché lavorano in un'impresa che non supera i 15 dipendenti. I diritti o sono di tutti o non sono. E il diritto al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento giudicato illegittimo da un tribunale, a oltre 30 anni dall'approvazione dello Statuto dei lavoratori, è ridotto a patrimonio di una minoranza, come conseguenza dei grandi processi di trasformazione della struttura produttiva e del mercato del lavoro di questi ultimi decenni. Inoltre, anche per la sua caratteristica di architrave degli altri diritti fondamentali (libertà di pensiero, di espressione, di adesione a partiti politici, a formazioni sindacali, ogni altra forma di tutela e ogni altro diritto di fonte contrattuale e legale) subiva l'attacco del governo di centro-destra che portava alla straordinaria mobilitazione dello scorso anno. Mobilitazione che si trasformava da difesa dell'esistente a domanda forte e generale di estensione dei diritti a tutto il mondo della precarietà.

I sondaggi dicono che il quorum è possibile e che la maggioranza degli italiani dicono Sì con un voto che attraversa gli schieramenti, senza riguardo alle posizioni dei partiti, segno di una maturità e di una consapevolezza di un popolo che vive il referendum per quello che è, questione che riguarda i diritti dei cittadini e la giustizia sociale, non le appartenenze politiche.

Per questo il Sì è destinato ad aprire una nuova stagione sociale e politica, recuperando il rapporto con quella parte di società, giovani, precari, donne, lavoratori, che negli ultimi anni si sono sentiti esclusi dalla politica della sinistra. Astenersi è un delitto nei loro confronti. Questa è la prima ragione in più.

La seconda. Il comitato per il No nel quale militano le forze della maggioranza ha deciso di sostenere l'astensione perché: se vincono i SI cambia la legge, se vincono i No la legge rimane così, invece la vittoria dell'astensione è un mandato al Parlamento. Per cosa?

Perché dare una delega in bianco a chi ha approvato la legge 30/2003 sul mercato del lavoro che fa della precarietà la norma, demolisce il diritto del lavoro, annulla la contrattazione collettiva, l'organizzazione dei lavoratori nel sindacato? A chi sta discutendo la 848bis, che modifica l'articolo 18? A chi vuole una vera e radicale controriforma del diritto del lavoro, delle relazioni sociali, destinata a cancellare più di un secolo di storia, di conflitti e di conquiste del lavoro e della sua giurisprudenza?

Per questo l'appello alla diserzione da sinistra è sconcertante: è un delitto contro tutta la nostra storia e il nostro futuro. Approfondisce la disaffezione dei cittadini al voto - la democrazia pretende un esercizio costante, è come i diritti: o c'è sempre o non c'è mai - , vanifica l'unica opportunità per raccogliere consensi, rispondere alle speranze di milioni di donne e uomini, per cambiare il segno della politica sociale ed economica del paese.

Il Sì è l'unico strumento ora in campo per impedire la manomissione dello Statuto dei lavoratori, del contratto collettivo e per favorire l'estensione di tutele, garanzie di libertà e dignità ai lavoratori dipendenti e al grande mondo del lavoro precario e nero.

Non rinunciamo a una grande, grandissima occasione, per milioni di donne e uomini, per una politica attenta al lavoro, alle sue condizioni, per un rapporto nuovo con quella parte di paese che crede in una società nella quale i principi di uguaglianza e di giustizia non vengano calpestati tutti giorni.

Paolo Cagna Ninchi, presidente Comitato promotore del referendum sull'articolo 18