REFERENDUM SULL'ART. 18:
UNA SCELTA DI CIVILTÀ
Di Michele Di Schiena*
Perché mai in una piccola impresa un
titolare arrogante, prevaricatore e dispotico non dovrebbe essere obbligato, a seguito
di un regolare processo, a riammettere in servizio un lavoratore
arbitrariamente licenziato? Mistero… salvo che non si voglia applicare ai
licenziamenti nelle aziende minori la logica del Marchese del Grillo
interpretato nell'omonimo film da Alberto Sordi, logica espressa dal grande
attore in termini coloriti che si possono così tradurre: chi conta può fare
degli altri ciò che vuole e gli altri non contano nulla. Ed allora va detto che
l'estensione dell'art. 18 ai lavoratori di imprese con meno di 16 dipendenti è
l'abbattimento di un limite discriminatorio, una scelta di civiltà, un dovere
democratico. E questo spiega le difficoltà, le contraddizioni ed i funambolismi
di coloro che avversano il referendum sull'art. 18 o lo vogliono boicottare
così come spiega, in positivo, la scelta di quanti, pur non avendone condiviso
la promozione, si sono strada facendo convinti di quanto può essere utile una
vittoria del "sì" quale spinta determinante verso riforme in
direzione dell'estensione a tutti i lavoratori dei diritti e delle tutele
sociali.
Il referendum del 15 giugno avanza dunque una domanda di elementare
giustizia: che i lavoratori delle imprese minori non vengano privati del lavoro
e di tutto ciò che il lavoro socialmente ed umanamente rappresenta nel caso di
una "cacciata" del tutto ingiustificata. Nel caso cioè di un
licenziamento senza una ragione molto grave, la cosiddetta "giusta
causa", consistente in rilevanti mancanze del lavoratore tali da far venir
meno il rapporto fiduciario fra le parti e senza neppure un "giustificato
motivo" nelle due previste ipotesi: una mancanza meno grave da parte del
lavoratore (giustificato motivo soggettivo) e ragioni "inerenti
all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa" (giustificato motivo oggettivo). Ipotesi queste
ultime nelle quali la magistratura ha fatto e continuerà certamente a far
rientrare tutte quelle situazioni che, tenuto anche conto delle limitate
dimensioni di certe imprese, risultano tali da giustificare la risoluzione del
rapporto di lavoro. Ne discende allora che in caso di successo referendario non
si aggraverebbe in alcun modo la situazione delle piccole imprese perché ciò
che verrebbe più efficacemente colpito sarebbe solo la prepotenza e l'arbitrio.
La verità è che questo referendum vuole segnare un'importante
inversione di tendenza rispetto alla politica di questa maggioranza che punta
all'abbattimento dell'art. 18, già pesantemente intaccato dalla modifica
apportata dal "patto per l'Italia", nel quadro disegnato dal famoso
"libro bianco": un progetto che va oltre la liberalizzazione dei
licenziamenti perché si propone, con una gradualità di interventi,
l'eliminazione dell'intero sistema delle garanzie a tutela dei lavoratori col
ritorno ad una concezione servile del lavoro.
Occorre poi tenere presente che l'attuale disciplina dei licenziamenti
di lavoratori occupati in imprese con meno di 16 dipendenti prevede solo, in
caso di condanna del datore di la-voro, un irrisorio risarcimento che non è
assolutamente adeguato ai danni provocati dall'ingiusta espulsione e non
costituisce alcun deterrente contro prepotenze e soprusi. Per contro con
l'estensione dell'art. 18 il lavoratore otterrebbe la totale vanificazione del
licenziamento illegittimo con la reintegrazione nel posto dal quale era stato
ingiustamente rimosso e col risarcimento dell'intero danno provocato
dall'arbitrario provvedimento consistente nel pagamento delle retribuzioni non
ricevute dal giorno del licenziamento e fino al reintegro. È quindi falso e
deviante affermare che c'è già per i lavoratori delle piccole imprese
un'adeguata tutela.
Ma non basta…perché occorre ribadire con forza che a fronte di un
licenziamento ingiustificato il risarcimento economico, anche se fosse
consistente (ed oggi non lo è) non sarebbe pur sempre riparatore. E sì, perché
una somma di danaro, in ogni caso peraltro necessariamente contenuta, non può
mai compensare i danni economici, le frustrazioni psicologiche ed i drammi
familiari di chi perde ingiustamente il lavoro. A ben guardare, infatti, dietro
il reintegro nel posto di lavoro che col referendum si vuole estendere a tutti
i dipendenti c'è quella "filosofia" costituzionale che vede nel
lavoro l'attività umana nella quale deve realizzarsi, in armonica sintesi, la
personalità del prestatore d'opera e la crescita civile della comunità. Una
"logica" che impone di non trattare la prestazione lavorativa, in
quanto parte integrante e momento espressivo dell'uomo-lavoratore, come una
qualsiasi merce e di collocare perciò il rapporto di lavoro su un piano diverso
da quello degli altri rapporti contrattuali per i quali è prevista, in caso di
giusto recesso, soltanto la sanzione del risarcimento pecuniario.
Il "sì" all'estensione dell'art. 18 è perciò un
"no" alle rovinose scelte del governo Berlusconi. L'astensione dal
voto è un "no" ipocrita ed una convergenza di fatto sulle posizioni
di chi vuole umiliare (governo e Confindustria) l'alto valore politico e
simbolico della scelta referendaria. Il resto (le polemiche su chi a sinistra
se ne avvantaggia e se si tratta o meno di una "bomba" intelligente)
è segno di una politica che non ha niente da dire, che non riscalda i cuori e
che è destinata a perdersi fra tattiche, manovre, rivalità e poveri giochetti.
* presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione (Brindisi)