LA GIUSTA CAUSA: MAI PIÙ AL LAVORO SENZA DIRITTI

Introduzione di Paolo Cagna Ninchi - S. S. Giovanni – 16 marzo 2002

 

Dopo aver considerata conclusa la cosiddetta trattativa con le parti sociali, giovedì il governo ha deciso di non stralciare dalla legge delega l’articolo 10, quello che modifica l’articolo 18 sdl. Una scelta che risulta di difficile comprensione persino a chi, come Umberto Agnelli, giudica sproporzionato il conflitto sociale che si determina, quando, come si sa, l’articolo 18 non impedisce i licenziamenti e non favorisce l’occupazione. Negli ultimi dieci anni sono stati licenziati 2.500.000 lavoratori, mentre ne vengono reintegrati ogni anno in forza dell’articolo 18 circa 1300.

La norma impedisce soltanto che un lavoratore non possa essere licenziato senza giustificato motivo e, nel caso ciò avvenisse, può rivolgersi alla magistratura, cioè di un giudice terzo, per ritornare in possesso di ciò che gli viene tolto. Cioè, citando Massimo D’Antona "diritti fondamentali …che devono riguardare il lavoratore non in quanto parte di un qualsiasi tipo di rapporto contrattuale, ma in quanto persona che… si aspetta dal lavoro l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua vita e della sua personalità"

Favorisce forse lo sviluppo poter licenziare liberamente il lavoratore che porta i capelli lunghi, la lavoratrice che denuncia molestie sessuali, l’impiegato di banca omosessuale, l’immigrato che perde tre dita sotto una pressa, la commessa che va in maternità? Sto solo citando casi dalle sentenze di reintegro che abbiamo analizzato, un esercizio che farebbe bene a molti per capire come, in realtà, il ripristino formale della libertà incontrollata di licenziamento ha ricadute sostanziali esclusivamente su diritti fondamentali quali la libertà di pensiero, di espressione, di adesione a partiti politici, a formazioni sindacali, su ogni altra forma di tutela e su ogni altro diritto di fonte contrattuale e legale.

La questione che è in campo è che senza la tutela reale dal licenziamento arbitrario, il lavoratore vive sotto un ricatto permanente, che non consente il concreto ed effettivo esercizio dei propri diritti e che lo rende totalmente indifeso di fronte all’arbitrio.

Per questo il "libro bianco" e la legge delega sul mercato del lavoro costituiscono il più radicale attacco al sistema di regole e diritti costruiti in un secolo di lotte sociali, politiche e giuridiche; stravolgono l’intero diritto del lavoro - dalla tutela si passa alla istituzionalizzazione della precarietà – e propongono una vera, profonda rivoluzione del patto sociale su cui si regge la nostra Costituzione di cui la sospensione dell’articolo 18 SdL è la bandiera. È bene ricordare che la legge numero 300 del 1970, lo statuto dei lavoratori, reca, non per caso, come intestazione "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro". Si riferisce cioè a quelle prerogative che ogni stato civile deve garantire a ogni suo cittadino.

Qui sta dunque il valore simbolico per entrambe le parti della battaglia sull’art. 18.

C’è un altro elemento da sottolineare.

Il quadro sociale è profondamente mutato in questi anni.

Lo Statuto dei Lavoratori diventò legge nel maggio del 1970, quando in Italia c’era il protagonismo sindacale sia all’interno delle grandi fabbriche dove nascevano i consigli di fabbrica, sia nella società che evolveva nella cultura e nel costume.

In questi trent’anni sono profondamente cambiati la struttura produttiva, l’organizzazione e il mercato del lavoro:

- gli addetti nelle medie e grandi imprese erano maggioranza ora il rapporto si è rovesciato a favore delle imprese sotto i 15 dipendenti

Quindi se da un lato vi è una questione che riguarda dignità, sicurezza sul posto di lavoro (3 milioni di infortuni all’anno di cui più di 1300 mortali) e libertà dei lavoratori, dall’altro c’è il problema di tutele e norme con questo valore che non hanno un carattere generale in una situazione nella quale, tra l’altro, la protezione sociale è estremamente fragile.

(Un altro degli argomenti spuntati contro l’articolo 18 è che esso esista solo in Italia: oltre a essere falsa, questa affermazione nasconde una realtà scomoda a chi proprio ora cerca alleanze europee sulla flessibilità: nei Paesi europei esiste una rete di protezione sociale molto efficace che impedisce che la perdita del lavoro si trasformi in tragedia personale e familiare, dall’Inghilterra di Blair, all’Olanda, dove, prima di licenziare un lavoratore, si deve presentare entro sei mesi un piano per il suo reinserimento sociale).

C’è quindi il tema della universalità dei diritti, principio liberale, ostico ai liberali-liberisti di oggi, ma tanto più cruciale soprattutto nella situazione attuale, nella quale le diverse fasi della produzione vengono distribuite in varie parti del mondo, considerato quale centro produttivo indifferenziato e globale, facendo così emergere differenze di trattamento, disparità di condizioni di lavoro e frammentazioni dei diritti dei lavoratori. Da una parte quindi unicità della produzione senza confini e, dall’altra, diritti confinati.

A noi pare che non sia sufficiente rispondere a questo attacco limitandosi a un’azione puramente difensiva e di contenimento. La destra che ha vinto le elezioni e che governa con una maggioranza di ferro ci pone di fronte a una alternativa secca: da una parte un mondo del lavoro senza diritti e quindi una società senza democrazia, dall’altra il tema dei diritti del lavoro come fondamento della cittadinanza e dell’inclusione sociale nella struttura democratica.

La scelta di demolire l’articolo 18 è la chiara affermazione di un nuovo rapporto tra politica e società. Cambia profondamente quello che ciascuno di noi ha pensato finora e cioè che pur con difetti, storture, ritardi e ostacoli, ma comunque si viveva in uno stato nel quale si riconoscevano le ragioni delle diverse parti sociali e che perciò molto dipendeva da come ciascuno giocava la sua partita.

Dopo non sarà più così, non ci sarà più partita: non solo vogliono togliere le regole del gioco, ma vogliono addirittura togliere il terreno di gioco.

Da queste considerazioni è nata la proposta del COMITATO PER LE LIBERTÀ E I DIRITTI SOCIALI, di una campagna che affronti e ponga, nei luoghi di lavoro e nella società, la questione di come deve essere una società civile nel terzo millennio e su questo sappia mobilitare le coscienze, che coinvolga le donne e gli uomini che operano nei luoghi di lavoro, con l’insieme della società della quale quelle donne e quegli uomini vogliono far parte a pieno titolo.

Da mesi oramai assistiamo e partecipiamo a una grande, estesa mobilitazione sindacale imperniata sulla difesa dell’art. 18, una mobilitazione che deve trovare un’eco più ampia nella società e nella politica. La proposta di sciopero generale contro la delega sull’art.18 e sulla previdenza riguarda tutti. Non è una partita che si gioca solo tra governo e sindacati. Il sindacato non può svolgere anche in questa situazione un ruolo di supplenza perché non difende trincee solo sue, ma che riguardano diritti democratici di tutti.

La proposta di estendere le tutele e i diritti previsti dallo Statuto dei Lavoratori, già presa in considerazione dal movimento sindacale, risponde all’esigenza di uguaglianza dei diritti, di ricomposizione del mondo del lavoro e di garanzia democratica. Per queste ragioni, esattamente un mese fa, il 16 febbraio, in un incontro pubblico, abbiamo fatto una proposta: estendere diritti e tutele ricorrendo al voto popolare, cioè con referendum e con proposte di legge di iniziativa popolare.

Crediamo che tutti i cittadini debbano essere chiamati a scegliere nell’alternativa che sta al centro del lungo e aspro confronto tra governo e parti sociali: un mondo del lavoro con pochi o addirittura senza diritti, e quindi una società senza democrazia, o i diritti del lavoro come fondamento della cittadinanza e della convivenza democratica.

Il 28 febbraio quattordici cittadini, per iniziativa del COMITATO PER LE LIBERTÀ E I DIRITTI SOCIALI, hanno depositato quattro quesiti referendari che si fondano sul principio della universalità dei diritti e sul principio di giustizia e che in concreto riguardano:

  1. l’estensione dell’articolo 18, con l’abolizione della parte che ne limita l’applicazione alle aziende sopra i 15 dipendenti;
  2. l’abrogazione dell’art. 35 legge 300 con conseguente estensione dei diritti previsti dallo statuto a tutti i lavoratori;

  1. l’abolizione del decreto legislativo del settembre 2001, che di fatto vanifica l’efficacia dell’articolo 18 perché generalizza l’abuso dei contratti a termine in contrasto con la direttiva europea che pure dovrebbe ratificare.

Noi proponiamo di intrecciare i referendum a proposte di legge di iniziativa popolare sui diritti e le tutele dei lavori, sulla rappresentanza e il diritto di voto per quanto riguarda contratti e accordi sindacali: diritti elementari del cittadino lavoratore e completamento della definizione di cittadinanza.

Perché questa scelta l’abbiamo fatta noi?

Premetto che, come molti qui sanno, non siamo arrivati né per caso, né improvvisamente a questo punto. Questa scelta è il frutto del lavoro degli ultimi tre anni, nato con la mobilitazione contro i referendum antisociali dei radicali che già nel 2000 proposero l'abolizione dell'articolo 18.

Insieme all’abolizione del diritto alla reintegrazione nel caso di licenziamento ritenuto illegittimo dal Giudice, alla liberalizzazione assoluta di contratti a termine, part-time, lavoro a domicilio e collocamento, venivano proposte anche l’abolizione delle pensioni di anzianità, del servizio sanitario nazionale, dell’assicurazione INAIL contro gli infortuni sul lavoro, della ritenuta d’acconto, del finanziamento dei patronati e degli istituti di assistenza sociale, delle trattenute sindacali dei pensionati.

Il COMITATO PER LE LIBERTÀ E I DIRITTI SOCIALI, che costituimmo allora, raccolse adesioni non solo nel mondo del lavoro, ma in ampi strati della società e questo ci consentì di svolgere un compito utile con un risultato rilevante: la presentazione di una memoria alla Corte Costituzionale, accolta per la prima volta nel dibattimento sulla legittimità costituzionale dei quesiti referendari e che contribuì a cassare ben nove degli undici quesiti "sociali".

Oggi, a noi sembra di trovarci nella situazione di allora, ma in peggio. In peggio ovviamente perché ora è il governo che ha assunto questo progetto, un governo che ha dimostrato negli atti legislativi realizzati finora di perseguire con determinazione i suoi obiettivi: dalle rogatorie, al falso in bilancio, al conflitto di interessi.

Un governo, espressione di una destra che ha vinto con un programma chiarissimo: impresa e competitività al governo dell'economia, del lavoro e dello stato sociale; attacco al modello universale di scuola e sanità; rifiuto della mediazione sociale, e che è intenzionato a portare a termine, forte della sua maggioranza e delle difficoltà della sinistra ad affrontare la questione sociale dopo l'enorme rimescolamento di carte di questi anni che ha mandato in pezzi il vecchio sistema per cui lo sviluppo dell'industrialismo, attraverso la concentrazione e la massificazione del lavoro, favoriva lo sviluppo della sinistra e la sua organizzazione: il sindacato sul fronte sociale, il partito su quello politico-istituzionale.

Ora non basta difendersi, contenere l’aggressività di una scelta di inciviltà, magari scegliendo un terreno intermedio, qualche trincea di difesa che sarebbe comunque una trincea più arretrata. Penso per esempio allo statuto dei lavori che viene proposto da uno schieramento trasversale e che si basa sull’equazione meno diritti più protezione, sapendo che di questa equazione è certo il primo termine e assolutamente insicuro il secondo. Occorre opporre un disegno chiaro, una proposta convincente che riteniamo si debba basare sul principio che i diritti devono avere un valore universale.

Oggi siamo in presenza di una grande mobilitazione che ha al centro l’iniziativa del sindacato, ma che coinvolge oramai movimenti, cittadini, pezzi di società che forse finora hanno avuto poco a che fare con il sindacato e che avrà due momenti culminanti: la manifestazione del 23 e lo sciopero che a questo punto sarà un grande sciopero unitario.

Noi crediamo che sia questo il momento migliore per allargare la mobilitazione a una battaglia non di sola difesa ma di allargamento dei diritti: una battaglia di giustizia e di civiltà e che, come tutte le battaglie di giustizia e di civiltà, deve essere oggetto di un confronto generale, con tutti e tra tutti, senza barriere ideologiche, senza steccati di schieramento, senza logiche di primazia.

Da questo punto di vista il nostro comitato, per la trasversalità della sua composizione sociale e politica, ma anche per la sua debolezza, può e vuole offrire un terreno di garanzia perché il percorso per arrivare alla scelta conclusiva corrisponda all’obiettivo di respingere la barbarie di una società concepita come una giungla in cui prevale il diritto del più forte.

Per questo ci siamo assunti il compito di lanciare la proposta e di sostenere che occorre essere molto chiari nel percorso, un percorso avviato - anche con un incontro tra alcune forze di sinistra a Roma – ma non concluso, che deve verificare tutte le condizioni per raccogliere intorno a queste ragioni e a questi obiettivi uno schieramento ampio e unitario, perché oggi è veramente importante che tutto il paese venga coinvolto. E’ decisivo quindi che tutte le risorse, le intelligenze, tutte le energie di chiunque - e comunque organizzato - sa di avere di fronte una battaglia di civiltà e di giustizia trovino spazio, ruolo e impegno.

Nel voto del 20 maggio del 2000 il NO prevalse nel referendum per l’abrogazione dell’art.18 S.d.L, e prevalse abbondantemente – circa il 70% sui voti espressi (ricordo per inciso che il comitato sostenne la necessità di votare NO con una sinistra divisa anche su questo). Segno che l’opinione diffusa, non era ancora pronta a superare l’ultimo ostacolo al totale dispiegamento dell’arbitrio nei luoghi di lavoro. Segno anche di una trasversalità sui grandi temi che noi dobbiamo ricercare anche in questa occasione.

Nel dire questo ritengo anche necessario sottolineare un punto delicato che riguarda un’idea che percorre il dibattito della sinistra in questi giorni. Noi crediamo davvero a una battaglia di civiltà, per questo così come non riteniamo sufficiente limitarsi a difendere l’articolo 18, nello stesso modo non condividiamo l’idea che si possano mettere insieme tanti referendum quanti sono gli oggetti dello scontro tra governo e opposizione che si trasformerebbero in un unico grande referendum – dall’esito predestinato – pro o contro Berlusconi.

Riteniamo infine decisivo decidere insieme a tutti coloro che sono interessati i tempi e i modi e i vari passaggi per compiere una scelta della quale noi abbiamo soltanto fatto il primo passo. Importante sarà anche come e da chi sarà costituito il comitato promotore: da questo punto di vista noi offriamo un modello, quello del nostro comitato, che ha raccolto adesioni in tutti i campi sociali: delegate e delegati, sindacalisti, esponenti di forze politiche e parlamentari di uno schieramento che superava i confini maggioranza-opposizione, giuristi, docenti, studenti, precari.

A questo progetto noi vogliamo lavorare insieme con tutti coloro che ne condividono l’ispirazione e rifiutano la ideologia liberista e la pratica dell’arbitrio sociale. Siamo convinti che intorno a esso, senza logiche di primazia o di schieramento, si possa costruire un fronte sociale e politico molto ampio e un’azione unitaria, in una prospettiva di ricomposizione e di crescita intorno a un’idea di società giusta e solidale; offrendo l’occasione di una partecipazione e di una mobilitazione a chi crede che i diritti non debbano avere confini, che il lavoratore non sia una merce, che la dignità non abbia un prezzo, che la legge sia uguale per tutti.

Chiudo questa introduzione con un riferimento personale, perché anche questo conta nelle ragioni per le quali siamo qui oggi. Io ho fatto il delegato per molti anni, ho cominciato nel 1971 dopo che lo sdl è diventato legge, nel cdf del Corriere. Avevo due strumenti fondamentali: la rappresentanza e l’articolo 18, io ero, mi sentivo, cioè, quelli che rappresentavo e il mio diritto a esserlo era garantito dall’articolo 18. Per questo ho fatto il delegato, e poi il leader della mia fabbrica, sempre a testa alta, senza paura né del capo del personale, né del direttore generale, né dell’amministratore delegato. Credo giusto che quelli come me, che hanno vissuto questa condizione facciano di tutto perché coloro che ora devono fare i delegati abbiano le stesse condizioni, in qualunque posto di lavoro, sotto qualunque padrone si trovino.