Referendum contro l’arbitrio dei più forti
Paolo Cagna Ninchi, presidente del comitato promotore del referendum
sull’articolo 18 – l’Unità 30 aprile 2003
Non
tocca a me rispondere alla lettura “storica” della vicenda sindacale dal 1980 a
oggi e alle dispute sulle vicende interne della sinistra.
Il
tema che mi tocca nell’intervento di Carlo Ghezzi (l’Unità del 27 aprile) è
ripristinare qualche elemento di verità e di merito della scelta fatta da chi
ha promosso il referendum.
Alla
fine del 2001 il Comitato per le libertà e i diritti sociali di Milano ha
ragionato sull’ipotesi di ricorrere al referendum per allargare le tutele
dell’articolo 18 non per suggerimento di Bertinotti e Sabattini (ma perché poi
proprio Sabattini?), ma del ministro Maroni che aveva appena presentato il suo
“libro bianco” sul mercato del lavoro, ora diventato legge 30/2003 e che
costituisce il più radicale attacco al sistema di regole e diritti costruiti in
un secolo di lotte sociali, giuridiche e politiche; stravolge l’intero diritto
del lavoro - dalla tutela si passa alla istituzionalizzazione della precarietà
con nuove forme di rapporto di lavoro tutte in inglese: job sharing (un
posto di lavoro diviso tra due o tre lavoratori, staff leasing (lavoro
in affitto per tutta la vita) job on call (lavoro a chiamata, stai a
casa e aspetta che ti chiami) –, smantella i contratti collettivi come forma di
solidarietà e difesa delle condizioni di lavoro, cancella il ruolo di
rappresentanza e di contrattazione del sindacato, stravolge il patto sociale su
cui si regge la Costituzione.
Ora,
per completare il quadro, al Senato si discute la delega che modifica
l’articolo 18, la 848 bis.
Questa
la materia, questo il tema al quale dare risposta e non le vicende interne
all’Ulivo e ai DS, importanti ma non il primo pensiero degli italiani, per i
quali l’insicurezza del lavoro è salita dal terzo al primo posto nella
classifica amara delle preoccupazioni.
Questa
materia e questo tema erano la base della grande mobilitazione del 2002 e degli
oltre 5 milioni di firme raccolte dalla CGIL per estendere i diritti nel
lavoro.
A
questi milioni di donne e uomini, alle loro speranze bisogna dare una risposta.
Lo si può fare con una legge? Magari, si potesse e sono in campo più proposte
per una legge che affronti il tema dei diritti del lavoro nel quadro
profondamente modificato di questi anni che vede circa 10 milioni di lavoratori
(quelli senza articolo 18, i co.co.co. e i lavoratori in nero) senza tutele.
Compresa quella articolata della CGIL per estensione dell’art. 18, diritti agli
atipici, democrazia nei luoghi di lavoro. Una buona cosa e una importante
battaglia parlamentare. E il comitato che ha promosso il referendum, anche per
il suo ruolo istituzionale, non è contrario a una legge, solo sa – come tutti
sanno benissimo - che oggi non esistono le condizioni politico-parlamentari
per un intervento legislativo che vada in questa direzione.
In
questo quadro il referendum è l’unico strumento disponibile per
rispondere a quelle speranze, per impedire la manomissione dell’articolo 18 (se
il parlamento approva la delega sul 18 prima del referendum essa viene
inglobata nel quesito e dopo se vince il SI’ non se ne fa più nulla), per
rovesciare la logica della precarietà e dell’arbitrio come norma delle relazioni
sociali, per dare una prospettiva a chi è oggi fuori da qualunque tutela,
insomma per dare corpo alla battaglia per i diritti, per la libertà e la
dignità del lavoro e quindi per la civiltà: le parole d’ordine con le quali la
CGIL ha riempito le piazze d’Italia.
Se
questo referendum è contro la CGIL Ghezzi lo deve anche spiegare alla FIOM,
alla CGIL di LavoroSocietà, alle tante categorie e Camere del lavoro che si
sono pronunciate e si pronunciano per il SI, e anche a me che sono uno dei
tanti iscritti alla CGIL.
Ma non me lo deve spiegare guardando all’Ulivo e ai DS. Me lo deve
spiegare guardando alla questione che ho posto con il referendum: rendere
effettiva la tutela del diritto al lavoro. Perché ripristinare nel nostro paese
la libertà di licenziamento si riflette sui diritti di libertà primari (libertà
di pensiero, di espressione, di adesione a partiti politici o a formazioni
sindacali, etc.) e su ogni altra forma di tutela (a cominciare da dignità e
sicurezza). Chi infatti può essere licenziato senza ragione legittima e senza
la possibilità di ottenere un rimedio giudiziale effettivo, ben difficilmente
si opporrà a qualsiasi forma di pressione, di molestia, di sopruso nello
svolgimento del rapporto di lavoro.
Insomma il referendum pone
una scelta tra due modelli di relazioni: uno regolato dall’arbitrio del più
forte, l’altro informato a regole e tutele fondate sull’eguaglianza dei diritti
e la difesa dei più deboli,
una questione di giustizia, di civiltà, con un SI o con un NO, a tutti i cittadini,
indipendentemente da come votano alle elezioni politiche.
Una battaglia di giustizia e di
civiltà raccoglie le risorse, le intelligenze, le energie di chiunque - e
comunque organizzato – ne condivide le ragioni, apre un confronto generale,
senza barriere ideologiche, senza steccati di schieramento, senza logiche di
primazia.
Ghezzi infine rifletta
anche sul fatto che la vittoria del SI’
può aprire una nuova stagione sociale e politica con ragioni di unità per una
sinistra che vorrà essere meno attenta alle logiche di schieramento, ai propri
processi interni, e più alle domande della società, del mondo del lavoro, dei
più deboli.