Fedor Michailovic Dostoevskij

Memorie da una casa di morti

 

Lettera a Michail Michajlovic Dostoevskij

Omsk, 30 gennaio - 22 febbraio 1854

Finalmente posso discorrere con te, a quanto sembra, un po' più a lungo e più apertamente. Ma, prima che ti scriva una sola riga, devo farti una domanda: perché mai, in nome di Dio, tu non mi hai scritto neppure una parola fino ad ora? Potevo forse aspettarmi da te una cosa simile? Mi credi se ti dico che io, nella mia condizione di recluso in completo isolamento, sono caduto più volte in preda ad una vera disperazione pensando che tu fossi già morto, e che mi capitava di passare delle notti intere a pensare che cosa sarebbe stato dei tuoi figli, e a maledire la mia sorte che m'impediva di essere loro di aiuto? Certe volte poi, dopo aver saputo con certezza che eri vivo, cadevo addirittura in preda alla collera (ma questo accadeva soltanto nelle ore di morbosa sofferenza, che erano molte) e ti rivolgevo acerbi rimproveri. Ma poi anche questo passava, io ti scusavo, mi sforzavo di trovarti tutte le giustificazioni possibili, mi lasciavo tranquillizzare dalle più verosimili e neppure una volta ho perduto la fiducia in te; e io so che tu mi vuoi bene e hai conservato un buon ricordo di me. Ti ho inviato attraverso il nostro comando una lettera che deve certamente esserti giunta, ho atteso la tua risposta, ma non è arrivata. Possibile che ti abbiano proibito di scrivermi?

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E' già una settimana che sono stato scarcerato. Questa lettera ti viene inviata nel massimo segreto, e tu non farne parola con nessuno. Del resto t'invierò una lettera anche in via ufficiale, attraverso il comando del Corpo Siberiano. Alla lettera ufficiale rispondi immediatamente, e a questa rispondi alla prima occasione opportuna. Comunque, anche nella lettera per via ufficiale devi riassumere nel modo più dettagliato tutto quanto ti è successo in questi quattro anni. Per quanto mi riguarda, io sarei ben felice d'inviarti dei volumi interi; ma siccome ho appena il tempo di scriverti questa lettera, ti scriverò l'essenziale.

Ma cos'è l'essenziale? Che cosa è stato per me importante in questi ultimi tempi? Più ci penso e più capisco che andrà a finire che in questa lettera non ti dirò niente. Come posso trasmetterti la mia testa, le mie idee, tutto ciò che ho vissuto, le condizioni che si sono formate e consolidate in me durante tutto questo tempo? Non ci proverò neppure. Sarebbe un'impresa assolutamente impossibile. Non mi piace far nulla a metà, e dirti soltanto qualcosa non significherebbe praticamente nulla.

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Ti ricordi come ci siamo salutati l'ultima volta, mio caro, carissimo, adorato fratello? Non appena tu mi hai lasciato? Non appena tu mi hai lasciato, ci hanno condotti tutti e tre, Durov, Jastrzembskij e me, a metterci i ferri. Esattamente alla mezzanotte, e cioè proprio il giorno di Natale, mi sono stati imposti per la prima volta i ceppi. Pesavano circa dieci libbere e con essi è straordinariamente scomodo camminare. Poi ci fecero salire su delle slitte scoperte, ciascuno separatamente con un gendarme, e così in quattro slitte, con il corriere davanti, noi uscimmo da Pietroburgo. Mi sentivo il cuore pesante e un'indeterminata confusione in testa a causa delle molte e così varie impressioni subite. Il mio cuore era in preda ad una singolare agitazione, al dolore e a una sorda angoscia.

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Ci conducevano a Jaroslavl, e pertanto al mattino, dopo tre o quattro stazioni di posta, ci fermammo alle prime luci dell'alba in una trattoria di Slisselburg. Ci buttammo sul tè come se non avessimo mangiato da una settimana. Dopo otto mesi di prigione quel viaggio in slitta di sessanta verste nel freddo della notte invernale ci aveva messo addosso una tale fame che è un piacere ricordarsene. Io ero di umore allegro, Durov chiacchierava senza tregua e Jastrzembskij era ossessionato da certe spaventose visioni del nostro futuro. Tutti e tre tenevamo d'occhio e cercavamo di sondare il nostro corriere. Risultò che era un bravissimo vecchietto, buono e umano con noi quanto ci si può immaginare che lo sia un uomo già navigato, che aveva attraversato tutta l'Europa come latore di messaggi. Durante il viaggio ci ha colmato di bontà. Si chiama Kuz'ma Prokof'evic Prokof'ev. tra l'altro ci ha fatto passare su delle slitte coperte, il che ci è stato di grande aiuto, giacchè il gelo era terribile.

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Attraversavamo dei luoghi quasi deserti, lungo la strada di Pietroburgo, di Novgorod, di Jaroslav e così via. Di rado passavamo per delle cittadine, e anche queste molto piccole.

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Nel governatorato di Perm una notte dovemmo sopportare un gelo di quaranta gradi sotto zero. È un'esperienza che non ti raccomando. Piuttosto spiacevole. Fu particolarmente triste il momento dell'attraversamento dell'Ural. I cavalli e le slitte s'ingolfarono nella neve. La tempesta infuriava. Dovemmo uscire dalle slitte, era notte, e dovemmo aspettare in piedi finchè non riuscirono a liberarle dalla neve. Intorno a noi soltanto la tempesta e la neve. Quella era la frontiera dell'Europa, davanti a noi c'era la Siberia e il futuro misterioso che ci attendeva laggiù, e ci lasciavamo alle spalle tutto il nostro passato; era uno spettacolo così triste che mi strappò delle lacrime.

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L'undici di gennaio arrivammo a Tobolsk, e dopo essere stati presentati al comandante e aver subito una perquisizione nel corso della quale ci fu sottratto tutto il nostro denaro, noi tre, Durov, Jastrzembskij e io, fummo condotti in una stanzetta appartata. Gli altri, invece, fra cui Spesnev, che erano arrivati prima di noi, erano stati sistemati in un altro reparto, tanto che per tutto quel tempo non ci siamo quasi mai visti. Avrei una gran voglia di parlarti un po' più dettagliatamente della nostra sosta di sei giorni a Tobolsk e delle impressioni che ne ho ricavato. Ma questa non è l'occasione adatta. Ti dirò soltanto che la partecipazione e la più viva simpatia dimostrataci ci hanno procurato una felicità quasi completa. Gli esiliati di tanto tempo fa (cioè non loro stessi, bensì le loro mogli) si sono presi cura di noi come se fossimo loro parenti. Che anime meravigliose, che hanno sopportato venticinque anni di dolori e sacrifici! Abbiamo potuto vederle solo di sfuggita, giacchè eravamo strettamente controllati. Ma esse ci hanno fatto avere del cibo e dei vestiti, ci hanno confortato e incoraggiato.

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Alla fine siamo partiti e tre giorni dopo siamo arrivati a Omsk. Fin da Tobolsk ero stato informato sul conto dei comandanti alle cui dirette dipendenze ci saremmo trovati. Il comandante in capo era una persona molto perbene, ma il maggiore della piazza, Krivcov, era una canaglia come ce ne sono poche, un barbaro meschino, un attaccabrighe, un ubriacone, insomma tutto ciò che ci si può immaginare di più disgustoso. Fin dal nostro primo incontro egli insultò me e Durov chiamandoci imbecilli per la nostra faccenda e promise di infliggerci una posizione corporale alla nostra prima mancanza. Già da due anni deteneva la carica di maggiore della piazza e si era macchiato delle più terribili ingiustizie. Due anni dopo andò sotto processo. È stato Iddio a liberarmene.

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Con i forzati ero già entrato in contatto a Tobolsk, e qui a Omsk mi sono dovuto acconciare a vivere insieme a loro per quattro anni. È gente rozza, esasperata e inasprita. In loro l'odio per i nobili oltrepassa qualsiasi limite, e quindi noialtri nobili ci hanno accolti con ostilità e con gioia malvagia per la nostra disgrazia. Ci avrebbero mangiati vivi, se li avessero lasciati fare.

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La nostra vita era molto dura. Il carcere militare è più duro di quello civile. Tutti questi quattro anni li ho trascorsi rinchiuso tra le mura del carcere, e ne uscivo solo per andare al lavoro. Ci toccavano dei lavori pesanti, naturalmente non sempre, e mi capitava spesso di spossarmi completamente, esposto com'ero alle intemperie, all'umidità, ad un gelo intollerabile d'inverno, o trascinandomi nel fango. Una volta ho dovuto trascorrere quattro ore impegnato in un lavoro urgente, quando perfino il mercurio del termometro era congelato e c'erano forse quaranta gradi sotto zero. Mi si congelò un piede. Vivevamo tutti in un mucchio, ficcati tutti quanti insieme in una sola caserma. Immaginati una vecchia cadente costruzione di legno, che ormai non poteva più servire da abitazione e che da un pezzo era stato deciso di abbattere. D'estate l'aria era soffocante tanto da essere irrespirabile, e d'inverno il freddo era intollerabile. Tutto il pavimento era marcio, coperto da uno strato di due dita di sudiciume su cui era facile scivolare. Le piccole finestre si coprivano di uno strato di ghiaccio spesso due dita, tanto che neppure di giorno si poteve leggere.

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Pulci, pidocchie e scarafaggi in una quantità indescrivibile. D'inverno indossavamo delle corte pellicce, spesso di pessima qualità, che non scaldavano quasi per niente, e ai piedi portavamo degli stivali bassi con cui dovevamo camminare sul ghiaccio. Ci davano da mangiare del pane e minestra di cavoli in cui avrebbe dovuto esserci un quarto di libbra di carne di manzo a testa; ma la carne ce l'aggiungevano tritatat, e io non l'ho mai vista. Neui giorni di festa ci davavnmo della polenta di grano saraceno, ma senza quasi nessun condimento. Di quaresima ci davano del cavolo con acqua e quasi nient'altro.

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Ognuno fa qualche lavoro, vende quel che produce e così guadagna qualche copeca. Io ho potuto avere del tè e mangiare qualche volta qualche pezzo di carne di manzo, e questo mi ha salvato.

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Aggiungi a tutti questi inconvenienti la quasi completa impossibilità di avere dei libri, e quei pochi che si riusciva ad avere bisognava leggerli di nascosto; aggiungi le continue liti, le discussioni, gl'insulti, le grida, la baraonda, il baccano, il trovarsi sotto continua sorveglianza, il non essere mai solo, e tutto questo per quattro anni, senza un attimo di sosta, e allora vedrai che mi si può comprendere se ti dico che è stata davvero dura. Per giunta, la minaccia continua di essere sottoposto a delle punizioni, i ceppi costantemente ai piedi e una totale oppressione dello spirito, ed eccoti il quadro della mia vita.

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Non so cosa mi attende a Semipalatinsk. Sono diventato piuttosto indifferente al mio attuale destino. Ma ecco a che cosa non sono indifferente: datti da fare per me, rivolgiti a qualcuno. Chiedi se non è possibile che tra un anno o tra due io venga mandato al Caucaso; quella è già Russia! Questo è un mio ardente desiderio, chiedilo per me, per amor di Cristo. Fratello, non dimenticarmi!

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Noi ci rivedremo molto presto, fratello. Ci credo come credo che due più due fanno quattro. Io vedo chiaro nella mia anima. Mi stanno davanti agli occhi tutto il mio futuro e tutto ciò che farò in avvenire. Sono soddisfatto della mia vita. Soltanto di una cosa si può aver paura: degli uomini e del loro arbitrio. Puoi capitare sotto un comandante che ti prende in odio (ci sono tipi del genere), che si mette a perseguitarti, che cerca di rovinarti o di schiacciarti sotto il peso del servizio, e io sono così debole che naturalmente non saròin grado di sopportare tutte le gravezze della vita militare. "Là è tutta gente semplice", mi si dice per confortarmi. Ma io ho più paura di un uomo semplice che non di uno complicato. Del resto, gli uomini sono uomini ovunque. Perfino in questi quattro anni di deportazione, in mezzo ai briganti, alla fine sono riuscito a trovare degli uomini veri. Tu forse non ci crederai, ma c'erano dei caratteri profondi, forti, stupendi, e che gioia mi dava scoprire l'oro sotto la rude scorza. E non soltanto uno o due, ma parecchi. Alcuni non si potevano non rispettare, altri erano indubbiamente ammirevoli. Insegnavo la lingua russa a un giovane circasso (mandato alla deportazione per rapina). Che gratitudine mi mostrava! Un altro forzato si è messo a piangere al momento di separarsi da me. Gli davo ogni tanto del denaro, ma quanto vuoi che fosse? In compenso la sua riconoscenza era addirittura infinita.

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Che popolo meraviglioso! In generale non posso dire che questi siano stati per me tempo perso. Se non ho conosciuto la Russia, perlomeno ho conosciuto bene il popolo russo, anzi così bene come pochi forse lo conoscono. Questo è un mio piccolo peccato d'orgoglio, ma spero che sia perdonabile.

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Cercherò di mandarti un altro indirizzo da Semipalatinsk, dove andrò tra una settimana. Mandami il Corano, la Critique de raison pure di Kant e, se sei in grado di trovare un modo d'inviarmelo non per via ufficiale, mandami assolutamente Hegel, e in particolare la Storia della filosofia di Hegel.

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Avrei voglia di scriverti tante cose, ma è passato tanto tempo che mi riesce difficile scriverti anche questa lettera. Comunque non è possibile che i nostri reciproci rapporti siano di molto mutati. Bacia per me i bambini. Si ricordano ancora dello zio Fedja? Saluta da parte mia tutti i nostri conoscenti. Ma ricordati che questa lettera deve restare assolutamente segreta. Addio, addio, mio caro! Avrai mie notizie,e forse mi rivedrai. Anzi, ci rivedremo indubbiamente! Addio. Rileggiti bene tutto quel che ti scrivo. Scrivimi anche tu più spesso (magari per via ufficiale). Abbraccio te e tutti i tuoi innumerevoli volte.

Per sempre tuo.