INTERVISTA A PUPI AVATI
Il cinema di genere e il cinema italiano.

Gradito ed atteso ritorno del regista Pupi Avati alle tematiche horror e fantastiche, "L'Arcano Incantatore" è una storia dalle molteplici suggestioni che rappresenta un sicuro evento nell'altrimenti scialbo panorama dell'attuale cinema italiano.
Ambientato in Italia, così come le precedenti opere fantastiche dell'autore, che spinsero la critica a coniare il termine di "gotico padano" per i suoi film di genere, il soggetto trae spunto, almeno nel principio, dalle documentate peripezie di tale Achille Ropa Sanuti, prete del 1750 allontanato dalla Chiesa in seguito ad avvenimenti scabrosi e inenarrabili. Ciò costituisce, già di per sé, un collegamento più che evidente con l'horror di culto del regista, "La casa dalle finestre che ridono", nonché un evidente trait d'union fra le varie opere di diversa estrazione dell'autore. L'inquietante vicenda vede protagonista un credibile Stefano Dionisi nel ruolo di un seminarista, scomunicato e costretto a fuggire dallo Stato Pontificio dopo aver messo incinta e fatto abortire una giovane impagliatrice di sedie. Il ragazzo chiederà l'aiuto di una misteriosa signora che, dopo un singolare patto, lo indirizzerà presso uno strano individuo, un ex-prete allontanato dalla Chiesa per via di certe sue frequentazioni esoteriche e isolato in una fortezza sull'Appennino. Il giovane dovrà rimpiazzare il vecchio scritturale dell'uomo, defunto in circostanze poco chiare. Lo strano uomo, soprannominato l'Arcano incantatore, rivelerà presto i suoi morbosi interessi per la negromanzia allo spaurito giovane, segreti che egli trae da un'immensa biblioteca completamente dedicata allo studio della morte.
Superata l'iniziale diffidenza, il ragazzo inizierà a collaborare agli esperimenti, convinto che le sue ricerche non abbiano nulla a che fare con il demonio ma siano, anzi, volte ad accrescere la conoscenza umana. Il suo coinvolgimento sempre maggiore nelle vicende dell'anziano negromante, lo porterà a scoprire particolari agghiaccianti che cambieranno per sempre il suo destino.
In un momento in cui il cinema italiano si affanna a costruire opere ibride, basate principalmente sulle idee, un autore come Avati rischia grosso consegnando alle sale un film di genere. Non solo: quasi a contraddire la diffusa opinione che vede l'horror come materiale narrativo esclusivamente indirizzato ad un pubblico di adolescenti, per mano di registi senza velleita' artistiche, Avati confeziona un prodotto di grande spessore, capace di affascinare e stuzzicare intellettualmente anche lo spettatore in cerca di opere non superficiali. Tutto cio' a conferma che e' possibile mantenere una precisa identita' d'autore senza dover necessariamente tediare il pubblico con elucubrazioni di difficoltosa interpretazione, ma, anzi, divertendolo. A differenza di "Magnificat" (che deluse parecchio il vostro cronista), dove Dio non si manifestava mai agli uomini che invocavano la sua presenza, qui il regista permette al seducente e infido angelo ribelle che governa gli inferi di dare precisi e tangibili segni della sua presenza. Oltre ad un'esigenza di sceneggiatura, cio' rivela un rinnovato interesse del regista per la ricerca metafisica e il soprannaturale, senza disconoscere, ma anzi affermando con vigore, una spiritualita' fortemente legata alla tradizione religiosa classica e, in secondo luogo, ai dettami della narrativa fantastica che impone sempre un risvolto morale nelle terribili storie narrate. Le notevoli scenografie del film (meravigliosa l'immensa biblioteca del castello), cosi' come l'atmosfera di armonica assonanza che unisce interpreti e regista, dimostrano in maniera inequivocabile la maggiore efficacia per quest'autore di un lavoro di "factory" rispetto alle dispendiose e deludenti collaborazioni internazionali degli anni passati. Carlo Cecchi, nel ruolo dell'Arcano incantatore (che, in un primo momento, doveva avere il volto di Anthony Hopkins), e' semplicemente perfetto, carismatico e profondamente espressivo nella sua recitazione sommessa, quasi sussurrata.
In occasione dell'uscita del film Pupi Avati, Carlo Cecchi e il compositore Pino Donaggio, hanno incontrato la stampa per discorrere dell'opera. Tempi Moderni era come al solito presente per porre le sue domande.

Come mai ha deciso di girare un nuovo film dell'orrore a venti anni di distanza da "La Casa Dalle Finestre che Ridono" e tredici da "Zeder"?
Pupi Avati: Contrariamente a quanto hanno affermato alcuni critici, gli stessi che coniarono la definizione di "gotico padano" per i miei film neri, io non ho mai rinnegato i film di genere. Ritengo infatti che un autore possa esprimersi e lasciare una precisa impronta del suo stile anche al di fuori di opere impegnate e, in qualche modo, pretenziose. Il "genere" per me non ha mai rappresentato un pericolo da cui fuggire, sono molto affezionato ai miei film di genere e li ritengo rappresentativi della mia opera al pari di tutti gli altri. Inoltre, come spettatore, sentivo la mancanza di un bel film di fantasmi o, come dicono a Roma, "de paura", che mi soddisfacesse pienamente. Da ragazzi le pellicole di fantasmi ci attraevano e ci divertivano; ma per trovare un bel film del genere bisogna risalire addirittura a "Giro di Vite" tratto dal romanzo di Henry James. Per questo ho deciso di girarmene uno tutto da me. Inoltre il torto dell'attuale cinema italiano e' ancora quello di raccontare il proprio cortile, l'ennesima periferia degradata. Dobbiamo avere il coraggio di scrollarci di dosso tanti cattivi maestri; di tornare a fare semplicemente, come fanno molto bene gli americani, il cinema a 360 gradi.

Come e' nata l'idea per il soggetto?
Pupi Avati: Essenzialmente l'idea e' nata dall'interesse che nutro da sempre per le leggende contadine riguardanti il soprannaturale.
In tutto cio' gioca una parte considerevole anche la mia esperienza personale, infatti da ragazzi eravamo tutti molto affascinati dai segreti che uno "spretato", per dirla con il termine popolare, poteva conoscere. Perche' era stato allontanato dalla Chiesa? Cosa aveva mai commesso di cosi' orribile da non poter essere conosciuto dagli altri? Intorno a questi interrogativi nascevano miti e favole (o fole, come si dice in dialetto padano) che sono poi alla base di tutti i miei film neri. Anche ne "La casa dalle finestre che ridono" c'e' di mezzo un prete molto singolare, ma questo e' solo un esempio, anche in "Storia di ragazzi e ragazze", alla fine, ci sono richiami alla divinita' e al clero.

Il Male, comunque, sembra essere il protagonista assoluto di quest'ultimo film.....
Pupi Avati: Si', assolutamente. Il Male inoltre e' qui visto per la prima volta in tutta la mia carriera con un occhio diverso. Oggi che ho 57 anni mi accorgo infatti che il Male esiste, ed ha i suoi emissari fra gli uomini. Infatti sono spesso sedotto da comportamenti negativi ma molto attraenti e devo fare i conti con questo interlocutore sempre piu' insitente: il Male. Non mi stupisce che qualcuno possa riderne: perche' l'opera principale del maligno e' proprio questa, Convincerci che non esiste.

Il rapporto dell'uomo con la morte emerge come chiave di lettura principale dell'opera. Lei cosa ha da dirci al riguardo?
Pupi Avati: Non e' un caso che io abbia ambientato questa storia alla meta' del diciottesimo secolo. E' questa un'epoca che, al pari della nostra, ha affidato tutte le possibili risposte alla scienza e che si illude, coi suoi giochetti, di risolvere il problema stesso della vita e della morte. L'arcano incantatore protagonista del film insegue, a sua volta, risposte inafferrabili. La sua ricerca e' comunque, al pari della nostra, destinata a sicuro fallimento. Infatti, ai nostri giorni, la fame di certezze, meglio se positive o incoraggianti, ha portato alla nascita di soluzioni alternative: mi riferisco ai maghi, i veggenti, le sette varie. Sono tutti cialtroni che pescano nel crescente bisogno della gente di certezze diverse.

Come si e' preparato Carlo Cecchi ad interpretare il ruolo del sibillino Arcano incantatore?
Carlo Cecchi: Personalmente non mi sono posto problemi metafisici. Per me questa era solo una bella storia con un ruolo molto intrigante perche' richiedeva un tipo di recitazione assolutamente inedita e particolare (non dico altro per non guastare le numerose sorprese che la trama del film offre). Io non vado molto al cinema perche' sono spesso impegnato a recitare in teatro, ma avevo visto diversi film di Pupi Avati, e li avevo ammirati senza riserve. La possibilita' di lavorare insieme a lui, che fra l'altro e' estremamente simpatico, mi ha convinto all'istante.

Quali indicazioni le ha dato Avati per l'interpretazione del personaggio?
Carlo Cecchi: Poche, ma radicali. Innanzitutto quella di affidarmi al mio istinto, di recitare il minimo possibile. Poi quella di parlare sempre con un volume di voce molto basso, ma impostato.

Avati, cosa la ha spinta a scegliere Cecchi per la parte?
Pupi Avati: L'ho scelto perche' nessun altro attore italiano sa, come lui, essere tanto magnetico. Questo carisma, quest'aura fascinosa ed ambigua era esattamente cio' che cercavo per rappresentare il personaggio dell' Arcano incantatore. Inizialmente la parte doveva essere affidata ad Anthony Hopkins, con una produzione piu' dispendiosa ed internazionale. Poi Hopkins ha avuto dei problemi a livello personale ed ha deciso di trasferirsi a vivere definitivamente in America, annullando tutti i suoi progetti.
Cio' ha anche fatto decadere la produzione internazionale ma, da un lato, penso sia stato meglio. Mi trovo infatti molto piu' a mio agio a lavorare con budget piu' piccoli ma con una squadra ben affiatata. Spero che il risultato si veda. Comunque questa storia si basa su due personaggi (l'altro, il seminarista, e' interpretato da Stefano Dionisi): la scelta di un interprete mi ha condizionato in quella dell'altro, e ho avuto la fortuna di formare una coppia di attori di estrazione molto diversa, ma aderenti ai ruoli in modo addirittura inquietante. Ora che il film e' terminato non riesco ad immaginare la storia senza i volti di Carlo Cecchi e Stefano Dionisi, che si sono sovrapposti ai loro personaggi incarnandoli nel modo piu' completo e puntuale.

Donaggio: le musiche del film sono molto suggestive: quali indicazioni ha avuto dal regista?
Pino Donaggio: Credo che Pupi conoscesse essenzialmente i lavori da me svolti per Brian De Palma. Insieme abbiamo deciso di evitare completamente gli stili e le sonorita' settecentesche per dedicarci ad un'esplorazione musicale che sottolineasse ed integrasse la trama in alcuni punti. Essenzialmente ho lavorato solo su alcuni spezzoni del film e sulle indicazioni della sceneggiatura, registrando la partitura in un luogo ben distante da dove si svolgevano le riprese. A lavoro finito Pupi ha ascoltato il tutto ed e' rimasto soddisfatto.
(Interviene Pupi Avati): E' incredibile come la musica si sposasse perfettamente alle immagini, integrandole, completandole, arrivando persino a sostituirle raccontando la sua propria personale storia in alcuni punti. Sono molto soddisfatto, Pino e' stato veramente bravo.

Avati: dopo la regia dell'opera lirica "LA Sonnambula" al teatro dell'Opera di Roma, quali sono i suoi progetti?
Pupi Avati: Girero' un film intitolato "Festival" e interpretato da Massimo Boldi nella parte di un ex-attore di successo che, invitato alla rassegna del cinema di Venezia con un piccolo film sperimentale di cui e' regista (un articolo 28, o 8 come si dice oggi), si illude disperatamente di poter risalire la china e di riconquistare l'abbraccio del pubblico. Io sono stato spesso a Venezia, anche come Presidente della giuria, e li' ho anche girato delle scene, durante la vera mostra, che inseriro' nel film. Comunque, e ve lo dico per esperienza, quello e' un posto dove noi tutti diventiamo, inspiegabilmente, piu' spietati e antipatici. Non chiedetemi il perche'.

A cura di Luigi De Angelis


FILMOGRAFIA ESSENZIALE DI PUPI AVATI