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Al S. Paolo bambini sani da padri sieropositivi

Intervista con il dott. Enrico Semprini dell'Ospedale San Paolo di Milano

Come siete arrivati a mettere a punto questa metodica?
Nel 1985 abbiamo iniziato le ricerche per valutare la possibilità di rimuovere a fine riproduttivo la componente infettante dall'eiaculato nei maschi sieropositivi a seguito della richiesta di una coppia di Padova che ci chiese se fosse realizzabile il concepimento senza il rischio associato di "transfer" sessuale del virus. Dal momento che la trasmissione sessuale era già un fatto dimostrato, le domande che ci ponevamo erano "dov'è il virus?" nell'eiaculato e "in che quantità?".
Nel frattempo avevo inviato una delle mie biologhe in un laboratorio di fisiologia spermatica di Harvard per duplicare gli stessi esperimenti e quindi valutare l'effettiva possibilità di rimuovere il virus senza danneggiare la capacità fertile. L'esito di tali ricerche, i cui risultati abbiamo progressivamente comunicato in ambito scientifico, e le pressioni stesse di numerose coppie HIV discordanti che avrebbero comunque proceduto all'abbandono del preservativo pur di raggiungere un concepimento, ci hanno indotto nel 1989 a effettuare un tentativo di concepimento tramite inseminazione, dopo avere naturalmente informato le coppie interessate dei limiti delle nostre conoscenze.

Quali furono le reazioni?
Si trattava di un'iniziativa esplosiva ed estremamente difficile da affrontare, anche sul piano etico, tenuto anche conto dell'atteggiamento dell'opinione pubblica nei confronti delle persone sieropositive. L'accusa principale, anche in ambito scientifico, era che stessimo creando una "fabbrica di orfani". In realtà, come è ormai noto da anni, le persone sieropositive hanno oggi una prognosi migliore rispetto a una persona che a pari età sviluppasse una forma tumorale: eppure, se questi non presentasse episodi di recidiva e manifestasse il desiderio di avere un figlio la cosa verrebbe accolta con sollievo, perché vorrebbe dire che questa persona è in grado di costruirsi un futuro, e non guarda solo al passato e alla malattia. Invece, anche a parità di sopravvivenza, a una persona sieropositiva si comunica un messaggio diametralmente opposto.

A questo proposito, qual è la vostra posizione?
Non abbiamo mai operato alcun tipo di discriminazione poiché riteniamo l'HIV una malattia infettiva, alla stregua degli altri patogeni che complicano l'esistenza degli esseri umani. Con le malattie infettive i medici si sono sempre comportati in un solo modo: hanno cercato di isolarle, identificarle, combatterle. Noi siamo degli specialisti in riproduzione, quindi abbiamo fatto con l'HIV quello che ci compete. L'HIV ha una stretta connessione con il mondo riproduttivo ; la trasmissione sessuale da un lato, e la trasmissione dalla mamma infetta al bambino dall'altro. A tre anni dalla prima inseminazione, e dopo aver trattato circa 59 coppie, "Lancet", una delle più prestigiose riviste mediche internazionali, ha accettato di pubblicare il nostro articolo, preannunciandolo con un comunicato stampa che titolava "BAMBINI SANI DA PADRI SIEROPOSITIVI". Una cosa di grande impatto emotivo, soprattutto se si considera che nel mondo la principale via di trasmissione è quella eterosessuale, e che, pur non essendo predominante negli Stati Uniti né in Italia, almeno in passato, è proprio questa che oggi va imponendosi.
Esiste un grande serbatoio di uomini sieropositivi eterosessuali che, infettatisi in seguito all'uso di droga per via endovenosa, e avendo poi chiuso con la droga, incontrano una donna sieronegativa. La maggior parte delle coppie sierodiscordanti sono infatti costituite da un maschio sieropositivo e una donna sieronegativa. A nostro parere ignorare questa realtà costituisce un grosso errore dal punto di vista della politica sanitaria. I dati epidemiologici, del resto, dimostrano un aumento delle infezioni eterosessuali, e su quattro casi, tre sono donne. Riteniamo pertanto che l'uso del preservativo possa essere fortemente incentivato facendo passare il messaggio che la donna, se rimane sieronegativa, può divenire madre di un figlio sano, non infetto, e rimanergli accanto se la malattia del partner prendesse un decorso molto grave. Nelle coppie da noi seguite (in genere conviventi da molto tempo) abbiamo riscontrato che l'uso del preservativo è divenuto costante dopo l'inseminazione e nessuna delle donne si è successivamente sieroconvertita.

Quale procedura deve seguire la coppia?
Basta telefonare allo 02-89.12.99.79 dell'Ospedale San Paolo di Milano, dove due pomeriggi alla settimana alcuni medici si alternano al telefono. Inviamo quindi quattro fogli informativi. Nel primo sono illustrate le caratteristiche del programma. Nel secondo viene presentata una lista degli esami necessari al fine di escludere che uno o entrambi i partner abbiano problemi di fertilità (l'uso del preservativo, che fino ad allora ha permesso alla coppia di rimanere sierodiscordante, non consente infatti di rendersene conto). È altresì utile accertare che la donna abbia le tube aperte, che il livello di spermatozoi del maschio sia buono (l'infezione da HIV o alcune terapie possono infatti compromettere la qualità seminale) e che non vi siano infezioni genitali (riscontrate nel 30% dei maschi: esse possono facilitare la trasmissione del virus) o altre infezioni associate, quali l'epatite B o C.

Lo sperma può essere "lavato" anche dal virus dell'epatite?
Per l'epatite B c'è la vaccinazione, per la C nessuna donna negativa, con maschio positivo, ha mai sieroconvertito. In questo momento abbiamo una valentissima biologa, da noi dislocata presso l'Istituto Pasteur di Parigi, che sta completando i dati che dimostrano che il virus dell'epatite C è presente solo nella componente di plasma seminale che noi laviamo via ed è inibito da una sostanza che degrada il suo RNA. Nessuna delle donne da noi seguite si è mai infettata, indipendentemente dal livello di transaminasi del maschio, o dal fatto che questi avesse un'epatite attiva o con alta replicazione virale.

Bassi livelli di CD4 e/o un'alta carica virale rappresentano un ostacolo?
No, siamo sempre stati contrari a una selezione che escludesse persone con bassi livelli di CD4 e un avanzato stadio della malattia, fossero esse costantemente viremiche, o avessero già avuto un episodio di PCP (polmonite da Pneumocystis Carinii) o altro. Questo significherebbe decidere per loro, sostituendoci a qualcuno di più importante, e stabilire quanta aspettativa di vita o quale condizione di salute generale debba avere una persona per essere un buon genitore. Teniamo oltretutto presente che queste persone potrebbero sempre abbandonare il preservativo e cercare un concepimento per via spontanea, che è esattamente ciò che intendiamo evitare. Diciamo loro: "se questo è il vostro desiderio, siamo qui per aiutarvi, a mettere sotto controllo il problema".

Quali sono i vostri dati disponibili?
Sono presentati nel terzo foglio che inviamo alla coppia. Finora abbiamo realizzato quasi 800 inseminazioni in oltre 250 donne, nessuna delle quali ha sieroconvertito. Il tasso di successo per l'inseminazione è in media del 19%. Circa la metà delle coppie erano già abbastanza fertili, o abbiamo restituito loro una buona fertilità, e hanno dunque concepito al primo tentativo. Ufficialmente sono nati circa 90 bambini ma ci avviciniamo probabilmente alla nascita del centesimo neonato, nel senso che a volte le coppie sono talmente felici che si dimenticano di comunicarcelo, per cui i dati disponibili vengono arrotondati per difetto.
Il quarto foglio è il cosiddetto consenso informato, in cui alla coppia si precisa che:
- è stato fatto di tutto dal punto di vista laboristico per garantire il maggior grado di sicurezza possibile;
- tutti gli esperimenti, con qualunque metodica siano stati condotti, hanno sempre dimostrato che il preparato finale è privo di componente virale infettante;
- nessuna metodica al mondo è tuttavia in grado di identificare anche singole coppie virali e il meccanismo preciso di trasmissione sessuale del virus non è del tutto noto.

Conviene pertanto considerare un minimo rischio di contagio (che fortunatamente, nella nostra casistica, ormai assai ampia, non si è mai verificato), e valutarlo rispetto all'importanza per la coppia di avere un figlio. Infatti se è vero che da un lato non esistono metodiche mediche prive di rischi (anche un'iniezione di vaccino ha il suo coefficiente di rischio), dall'altro dobbiamo considerare che qui trattiamo con un virus che ha una prognosi severa, ed è giusto che la coppia sia informata e possa valutare autonomamente.

A chi è aperto questo servizio?
La metodica finora è stata applicata a un notevole numero di coppie. Si tratta di un servizio aperto all'Italia e al mondo. Il 10% delle coppie non sono italiane, mentre il 70% non sono lombarde. Abbiamo il secondo bambino in gestazione di una coppia di Pasadena e di una coppia di New York; hanno già avuto un primo figlio con noi e hanno poi deciso di averne un secondo.

Siete dunque gli unici a praticare questa tecnica?
Sì, siamo gli unici al mondo. Abbiamo messo a punto la metodica e siamo gli unici dotati di un programma che è semplice e complesso al tempo stesso, sia dal punto di vista tecnologico e assistenziale, che etico e politico. Dagli Stati Uniti riceviamo persone prevalentemente emofiliche, contagiate con trasfusioni di sangue infetto, e non ex-tossicodipendenti, quasi ci fosse una selezione tra buoni e cattivi. In Italia, al contrario, abbiamo due emofilici ogni cento ex-tossicodipendenti.

Come vi ponete rispetto alla tossicodipendenza?
Chiediamo che l'uomo abbia completato la sua storia di droga: è l'unica selezione di carattere non strettamente medico. Siamo però contrari a operare dei controlli; il colloquio rappresenta anche una dichiarazione da parte della coppia che l'uso di droga è terminato, fa ormai parte del passato; il che serve anche a riflettere sul fatto che figlio e droga non vanno d'accordo.

Da quante persone è composta l'équipe?
Siamo quasi venti specialisti, e lavoriamo a rotazione trattandosi di una struttura complessa dal punto di vista organizzativo. Abbiamo un biologo molecolare, due specialisti nel trattamento dello sperma in laboratorio e alcuni esperti in tecniche di fertilizzazione assistita. Per quel che mi riguarda, ho una formazione in ostetricia e ginecologia, in immunologia riproduttiva e sto specializzandomi in infettivologia. Un gruppo quindi composito, che ha cercato di fornire competenze diverse per un programma unico.
Dall'ospedale in cui lavoro e dalla clinica universitaria l'appoggio è stato incondizionato. Più difficile ottenere fondi da Roma, ma è comprensibile se si considerano le controversie legate a questo programma. D'altra parte, siamo sicuramente degli "apripista" rispetto a un problema che assumerà enormi proporzioni in futuro. Quando la prognosi sarà infatti portata a venti anni dal momento del contagio e la persona infetta avrà, che so, 32 anni, in base a cosa le si potrà dire "non puoi avere un figlio" se il rischio di infettare è di uno su cinquemila? Avere un figlio, poi, ha un impatto enorme, anche sulla malattia. NESSUNO DEI NOSTRI PADRI ASSISTITI È MORTO. Certamente è molto difficile da provare che l'unica spiegazione sia la parternità, anche perché i farmaci stessi sono cambiati. Sono convinto tuttavia che queste coppie subiscano un'evoluzione, così come cambia ogni coppia quando arriva un bambino. Davanti a sé si apre un mondo diverso, si pongono nuove responsabilità, e l'esigenza di rimanere sani diventa non solo un investimento personale ma anche proiettivo. Del resto, in tutte le popolazioni di "long term survivors" [sopravviventi a lungo termine] si evidenzia una particolare capacità dal punto di vista psicologico: sono persone positive, che hanno anche scelto uno stile di vita molto "fisiologico": curano attentamente l'alimentazione, eliminano tutte le possibili sostanze tossiche, aumentano le ore di riposo, fanno magari meditazione. Esiste insomma un modo di reagire che è psicologico e non va trascurato in quanto molto importante. Il nostro programma si pone pertanto non in maniera antagonistica ma parallela a una scelta particolare di qualità della vita.

Per ulteriori informazioni sulla fecondazione assistita, il dottor Semprini e i membri del suo gruppo rispondono al numero 02-89.12.99.79 ogni martedì e ogni giovedì dalle ore 14 alle ore 17.
© 1996 - EssePiù

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La metodica
Lo sperma può essere diviso in tre principali componenti:
- gli spermatozoi, fondamentali per la fertilità
- un certo numero di cellule mononucleate immunocompetenti, e quindi possibili "target" dell'infezione e a loro volta possibili veicoli di trasmissione dell'infezione;
- il plasma seminale, liquido estremamente complesso con funzioni di tipo nutritizio, di trasporto, di protezione eccetera.

Dagli studi risulta che il virus HIV non è presente negli spermatozoi bensì nel liquido seminale in cui sono contenuti e nella maggior parte dei leucociti seminali. La tecnica del "lavaggio" non è dunque altro che la separazione degli spermatozoi dal liquido. La prima fase consiste in una operazione di centrifuga al fine di separare gran parte del liquido dagli spermatozoi. La seconda fase prevede il lavaggio gli spermatozoi in una soluzione per eliminare il liquido rimanente e quelle particelle di HIV che non si fossero staccate. Queste due fasi vengono ripetute almeno due volte. Lo sperma "lavato" viene poi esaminato con la tecnica PCR (Polimerase Chain Reaction, tecnica di amplificazione genica) per accertarsi che non vi siano particelle residue del virus e infine combinato con una soluzione di sperma artificiale (terza fase). Con il prodotto ottenuto la donna viene inseminata direttamente in utero.

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