P. G. Castagnoli
Ilario Rossi, antologica
Grafis Edizioni, Casalecchio di Reno (Bologna), 1994 |
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Pier Giovanni Castagnoli
"In una città come Bologna la nascita
degli artisti più dotati fu lenta nel dolce incontro con le cose,
e, lontana dagli assilli della più angustiante modernità, quasi
convalidata dall'autorità solenne altrettanto che familiare di
Morandi; quanto peraltro, sempre al rischio di soffocare entro il
respiro breve delle polemiche cittadine: Bologna, decisamente
autarchica, riproduceva in metro minore la condizione italiana,
senza le rivolte che furono a Milano e a Roma. La stessa singolare
misura di Morandi dava un ben difficile appiglio alle scontentezze:
contro la sua pittura la nascita di "Corrente" sarebbe
stata assai meno agevole. In quegli anni prima del '40, del resto,
il maestro bolognese stava giocando le sue carte forse più segrete,
affascinanti: da inebbriare tranquillamente di sé chi avesse forza
per intenderlo. Fu il caso di Rossi, pittore di vere doti native. Ma
le sue pitture morandiane non furono pedisseque; e se il loro senso
non poteva essere altrettanto alto, fu però fresco, fiorito,
diretto". Così Francesco Arcangeli, presentando Ilario Rossi
in occasione di una sua mostra alla "Saletta degli amici"
di Modena, avvertiva ancora, nell'anno 1958, l’utilità di
rammentare l'apprendistato morandiano dell'autore e il debito
contratto in gioventù con la pittura dell'inquilino di via Fondazza.
Rossi, nato nel 1911, s'avviava allora a
festeggiare i cinquant'anni ed era artista in piena sintonia con l’esperienza
della pittura italiana più attuale; la stagione dei suoi esordi,
sebbene protrattasi oltre il tempo del primo tirocinio, poteva ormai
figurare remota, superata negli esiti e nelle intenzioni dal nuovo
corso che la ricerca dell'artista aveva da qualche anno imboccato
con forte ed acclarato vigore. Ciononostante sembrava al critico,
pur davanti al nuovo lessico e alla diversa sintassi che Rossi
andava costruendo, che quella lontana formazione fosse degna ancora
di memoria e fosse dunque esperienza da citare, non tanto per
rispondere ad un puro dovere notarile quanto per affermare l’influenza
decisiva, da essa esercitata, sull'intera vicenda dell'autore e
sulla costituzione del suo personale linguaggio.
Una convinzione con la quale, ancora oggi, non si
può che concordare: oggi che i lunghi anni trascorsi da Rossi nel
lavoro e le tante prove che l’hanno confortato consentono di dire
come nessun altro incontro abbia contato nella storia interna del
pittore quanto quello con Morandi; come nessun'altra esperienza
abbia altrettanto profondamente inciso nell'orientarne la visione e
modellarne la sensibilità. Nessuna, tranne forse una sola, di cui
si dirà più avanti, da cui Rossi fu attratto sul finire degli anni
Cinquanta e che volle subito far propria in un'adesione priva di
condizioni e in un trasporto colmo di entusiasmo.
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Autoritratto
giovanile
olio 1929, cm 50 x
35 |
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Caserma
olio 1934, cm 42 x 56 |
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Alla lezione di Morandi, dunque, segretamente,
intimamente la pittura di Rossi seguitò a serbarsi fedele, anche
quando la sua diretta influenza lasciò il passo ad altri più
urgenti pensieri pittorici. Ma ancora in quel primo tempo in cui
essa si esercitò con trascinante forza d'attrazione, Rossi non
diede, come notava Arcangeli, della pittura di Morandi, alcuna
trascrizione corriva, quanto piuttosto, assecondando con sincerità
l’inclinazione della propria natura, una traduzione prudentemente
riformata, che abbassava il tono di sublime eloquio, presente nei
dipinti morandiani anche quando più umile e spoglia si rende la
pittura, al registro di una parlata affabile e accostante, che fu
ricca di incanto e di fragranza e si mantenne sempre rispettosa del
valore assoluto del modello.
Per questa via avvenne a Rossi di incontrare sul
proprio cammino la pittura di Mafai, anch'essa passata, nel biennio
1931 – ‘32, attraverso una meditazione del
la lezione morandiana e di lì approdata a quella
visione fatta di gesti sospesi e di atmosfere attonite in cui si
placò l’eccitazione vitalistica che aveva moltiplicato, nei due
anni precedenti, le immagini di un mondo tumultuoso e allucinata,
per lasciare campo agli struggimenti di un colore modulato in
accordi segreti e in lenti, progredienti trapassi. S'avvide
tempestivamente di tale incontro Giancarlo Cavalli, che nella
presentazione ad una mostra fiorentina, nel 1950, evocava per la
prima volta, a proposito di Rossi, il nome del pittore delle
"Fantasie", pur tenendolo, immeritatamente, un poco in
sordina, rispetto a quello di Scipione: "Nella fondamentale
esperienza del tono - scriveva in quell'occasione il critico
bolognese -, il colore e la luce sono spinti a possibilità estreme
e si caricano di patetiche risonanze, ove talora parrà vibrare
qualche traccia dell'affocato mondo di Scipione attraverso il più
accordato modulare mafaiano...". E la referenza ritornava, ma
questa volta amplificata in un più vasto rapporto con la scuola
romana, nove anni più tardi, in una pagina di Calvesi, che,
introducendo la pittura di Rossi nel catalogo di una sua mostra alla
"Medusa", annotava: "...mi sembra che le ragioni
intrinseche alla pittura di Rossi si diramino di più, semmai, verso
il centro Italia: lungo l’arco del più qualificato
"tonalismo" nostrano, che ha collegato la Bologna di
Morandi alla Roma di Mafai, di Scipione di Melli (dopo quello di
Morandi sono nomi infatti anche questi, non del tutto irrelativi al
percorso iniziale di Rossi)...".
È nell'orizzonte di questi modelli che si
distende il cammino di Rossi, dal momento del suo esordio, sino alla
fine degli anni Quaranta. Sono questi pochi esempi i soli che
abbiano lasciato traccia durevole e certa nella sua pittura di quel
tempo; altro di quanto era accaduto nella stagione più recente,
sulla scena del rinnovamento artistico italiano, non risulta, a
giudicare dai dipinti, abbia interessato in profondità la
riflessione dell'artista, o quantomeno ne abbia influenzato i
risultati. Non le novità che "Corrente" aveva propugnato
da Milano e neppure i fermenti antinovecentisti che i
"Sei" avevano diffuso da Torino.
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Scuola di
paese
olio 1935, cm 45 x
60 |
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Primavera
olio 1942, cm 41 x 31 |
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Né d'altra parte, il colore sfogato e l’espressionismo
dei vari Sassu o Migneco, come neppure la professione di fede nel
colore puro e il ricorso alla tavolozza fauvista da parte dei
"Sei" avrebbero potuto davvero fare presa su un pittore
come Rossi, educato a riconoscere il primato del tono e ad
apprezzarlo come il tramite squisito a cui consegnare il segreto
della visione e il battito più intimo dell'emozione. Quanto ai
chiaristi, poco o nulla di quel loro mondo fatto di luci di
sottobosco e di rugiada e di fresche atmosfere mattutine, poco o
nulla di quella trama leggera e gentile di cui è fatta la loro
pittura si direbbe possa aver richiamato l’attenzione dell'artista
bolognese, che si volle, fin dall'abbrivio della sua carriera,
pittore di materia solida e assorbente. Semmai, nel crogiuolo
fervido di idee e di passioni della Milano dei primi anni Quaranta,
tra quanti a "Corrente" s'erano accostati, prendendo parte
per un tratto alla sua avventura, un artista con cui Rossi avrebbe
potuto stringere qualche intesa, fu Morlotti: anch'egli, come il
bolognese, dedicatosi per un'intera stagione creativa, negli anni
tra il 1941 e il '44, a rinnovare la propria visione sulle orme di
Morandi. Benché profondamente diversi per temperamento: esposto e
inquieto quello del lombardo, lirico e raccolto quello del
bolognese, qualche sintonia, in quegli anni, tra i due autori,
sembra esservi stata, senza che le loro strade, tuttavia, abbiano
finito davvero per incontrarsi. Nemmeno a Bologna, fatta eccezione,
come si è detto, per Morandi, Rossi poté rinvenire stimoli di
qualche rilievo né tantomeno maestri su cui contare; poiché, tra
quelli che aveva avvicinato e umanamente stimato negli anni del
Liceo e dell'Accademia, nessuno poteva soddisfare la richiesta di
nuovo di un giovane pieno di talento come Rossi e sicuro nella
propria capacità di selezione: non Giovanni Romagnoli con la sua
materia ottimista e opulenta grondante di umori spadiniani; non
Protti con il suo virtuosismo spadaccino e suoi bitumi alla Zuloaga;
meno ancora Giacomelli con la difesa oltranzista del mestiere e la
rincorsa del sogno inattuale della "grande maniera";
neppure Pizzirani, pittore dal tocco sapiente e di paste raffinate,
ma troppo cariche di echi ottocenteschi. Nessuno di costoro aveva in
serbo attrattive che potessero interessare Rossi; nemmeno Guidi, che
nel '35 si trasferiva nelle aule dell’Accademia di Bologna,
recandovi testimonianza vissuta di un "Novecento"
problematico e inquieto e che aveva subito ammaliato, con la sua
eloquenza eccitata e la febbrile vitalità intellettuale, tanti
giovani coetanei di Rossi, riuscì a distrarre il pittore dal
cammino che aveva intrapreso.
Egli seguitò a parteggiare per Morandi e a
lavorare nel solco della sua pittura. Nascono così le immagini
degli orti al limitare della città, delle case, dei muri rustici
sui rilievi della prima collina ondulata in dolci profili, che
suggerirono ad Arcangeli l’accostamento con la "vena
sensuale, abbandonata entro gli argini di vasti e liberi schemi
metrici, che fu nei "Poemi lirici" del giovane Bacchelli"
e indussero Cavalli a riconoscervi una "voce lenta, quasi
mormorata e pigra, in una sorta di bucolica accorata e severa".
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Sandra
olio 1943, cm 51 x
41 |
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Paesaggio
olio 1958, cm 82 x 122 |
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Anche nel ritratto, che fu genere quasi disertato
da Morandi, l’eco della sua lezione non si attenua. Ne è prova,
tra le opere in mostra, il dipinto di "Sandra" (1943) a
mezza figura, dove ogni cosa: l’accordo mirabile dei toni (la
terra d'ombra della blusa che si tinge di malva nelle pieghe), il
trapasso lento della luce che si fa interna alla materia, la stessa
conduzione, ogni tratto, insomma, della pittura rende omaggio alla
lingua di Morandi e ne rinnova il magistero. Ma di Rossi, solo suo
è il sottile pensiero di quel rosso che accende, discreto, le gote
della donna e le riscalda, riverberando un istante la sua luce sulla
mano che sostiene il bel volto pensoso. Ecco, infine, un esempio
della riforma a cui Rossi sottopone il modello morandiano. È una
diversa confidenza con le immagini ciò che Rossi introduce entro il
codice severo, intellettualmente governato di Morandi; è un più
forte abbandono sentimentale che si sfoga nella sua visione e rende
prossimi, familiari gli angoli di mondo ritratti dal pittore.
Familiari come la "Scuola di paese" (1935), che incombe
con la sua mole squadrata e priva di attrattive, sul piano più
accostato allo sguardo; tanto diversa, tanto meno solenne, in quella
sua feriale, "normale" vicinanza dalla fantasmatica
"lontananza" delle case di Morandi, arroccate sui crinali
della collina di Grizzana ; prossimi, come la trama dei tralci
spogliati delle viti in "Periferia" (1943), che
costituisce una presenza veritiera e tangibile: un ritratto
d'ambiente e d`"atmosfera", prima che un'occasione formale
a cui ancorare la visione.
Sono pensieri e immagini come quelli citati a
tenere occupata la ricerca di Rossi per oltre un decennio; fino a
quando, negli anni che seguono la fine della guerra: il tempo in cui
l’artista prende parte attiva alla vicenda di
"Cronache", Rossi non adotta, lentamente, meditatamente,
com'è nella sua natura, una gestualità più immediata e diretta
che accentua progressivamente il risalto delle impalcature
strutturali. I profili dei colli, gli andamenti dei rami, i
tracciati delle solcature dei campi, le scansioni ritmate dei filari
divengono allora altrettanti motivi di scrittura che spartiscono lo
spazio della pagina pittorica, facendo argine alla stesura del
colore. Un cézannismo discreto e amorevolmente avvicinato, fa ora
ingresso nell'opera di Rossi e presiede, senza coartarla in
programma, alla costruzione della sua spazialità, che conquista, in
virtù di tale innesto, un più amplificato e potente respiro.
Matura così, per gradi, conseguentemente, il trapasso ai dipinti
del biennio 1954-'56, che segnano un affondo ulteriore nel
rinnovamento della visione dell'autore ed inaugurano la felice
stagione di quel naturalismo "di partecipazione" che
prolunga i suoi effetti sino alla fine del decennio. |
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Case e verde
secco
olio 1961, cm 55 x
65 |
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Torso
olio 1964, cm 100 x 80 |
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È questo il tempo in cui Arcangeli raccoglie
attorno alla definizione di "ultimo naturalismo" un gruppo
di pittori, apparentati, nella lettura del critico, da una comunione
di intenti e tutti, sia pure con diverse inclinazioni e
sensibilità, impegnati ad esplorare le possibilità di un inedito,
rinnovato rapporto con la visione naturale. "Il loro quadro, si
sente prima di capirlo, vi macchia l’occhio, tocca le regioni del
vostro cuore, prima di avere raggiunto il cervello che medita e
seleziona: sono soprattutto dei paesaggi, il cui effetto è
improvviso, anche quando è stato a lungo meditato. Paesaggio, nel
senso vero e profondo della parola, è già il senso del
"due": un limite amato, oscuro e presente". Così,
Arcangeli, nel saggio scritto nell'estate del '54 e pubblicato,
nell'autunno di quell'anno, in "Paragone", evidenziava i
tratti distintivi della nuova poetica. Il naturalismo di cui il
critico parlava e di cui per qualche verso anticipava le soluzioni,
si configurava come un ultimo approdo del secolare rapporto
intrattenuto dalla pittura con la visione naturale, un'estrema
possibilità, affidata al tramite dell'emozione invece che al
controllo della mente: "Si ritenta la natura ma la sua
proporzione sfugge, ora, la misura intellettuale" , precisava,
Arcangeli, in quello stesso saggio.
Era un'intuizione affascinante e tempestiva di
quanto andasse germogliando, sul terreno della giovane ricerca
artistica italiana, in sintonia con le esperienze dell’informale
europeo e internazionale; ed era, al tempo stesso, un modo per
trovare una risoluzione non ideologica dell'antagonismo tra
formalismo e realismo, che aveva irrigidito il dibattito critico
italiano, negli anni dell'immediato dopoguerra e già conosciuto un
primo, insufficiente, tentativo di conciliazione nella teorizzazione,
da parte di Lionello Venturi, dell’"astratto-concreto".
Nel saggio ricordato, anche la pittura di Rossi,
che quell'anno esponeva alla Biennale assieme a Morlotti, a Mandelli
e a Romiti, trovava spazio di citazione; ma in una posizione più
marginale rispetto a quella assegnata ad artisti come Morlotti,
Mandelli o Bendini, che il critico sentiva a sé più affini e più
vocati a interpretare in modo solidale, nel lavoro, il significato
della propria proposta critica.
Quel riconoscimento, sia pur con la riserva con
cui veniva espresso, dovette comunque suonare gradito a Rossi e
fargli sentire d'essere anch'egli parte attiva in quel rinnovamento
espressivo, che Arcangeli andava interpretando e sostenendo con
autorità e con passione. Dovette, in ogni caso, infondergli
ottimismo e linfa fresca d'entusiasmo e stimoli di che nutrire la
propria immaginazione.
Ma Rossi, alla fine (Arcangeli, dunque, vide
giusto), non arrivò mai a vivere una vera e totale identificazione
con quel clima.
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Danzatrice
olio 1966, cm 65 x
50 |
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Estate
olio 1967, cm 62 x 72 |
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Opponeva resistenza a che ciò avvenisse, da un
lato, l’educazione formale ricevuta da Morandi, dall'altro, quel
recente passaggio cézanniano, che impediva all’artista di
rinunciare alla struttura. Così la sua pittura si addensò di
materia più robusta, si nutrì di gesti più sfogati, si consegnò
palpitante all'emozione; ma mantenne ben salda la propria
impalcatura strutturale e le sue attribuzioni ordinatrici: dei
ritmi, delle pause, dei pesi, dei valori. Per cui, nel'58, quando
una folta selezione di quei quadri approdò alla Biennale veneziana,
Cavalli (il critico che, con Rossi, mantenne inalterato il vincolo
di una lunga fedeltà) ebbe opportunità di scrivere in catalogo:
"Il nuovo traliccio spaziale in cui si annullano tutte le
dimensioni dell’antica visibilità, resta ancora struttura viva,
scheletro delle cose...La stessa consumata eleganza che un tempo
scandiva il canto dell'elegia oggi governa i contrappunti del colore
in questo più aggressivo possesso della natura, matrice
incancellabile dell'ispirazione". Fu quello il modo in cui
Rossi si accostò alle ricerche dell'informale italiano: senza
interpretare ruoli estremi, senza praticare scelte radicali,
serbandosi coerente fino in fondo alla matrice della propria
visione; ma consegnando alla storia di quel tempo le immagine tenaci
e resistenti, nella loro qualità, di alti argini e spalti
vertiginosi, innalzati mattone su mattone, nell'accordo mirabile dei
piani di colore. Un colore, variato senza tregua sul pedale
dell'emozione: bianchi e grigi che s'intingono d'azzurro, bruni che
trapassano in viola, verdi che affondano nell'ombra per arrestarsi
sulla soglia del nero; e neri e grigi e bianchi: quanti di quei
colori si saprebbero descrivere con le parole? Quanti di quei toni
infiniti che fanno indimenticabile la pittura di Rossi di quegli
anni ormai lontani? La qual pittura strinse allora anche qualche
parentela con quanto si andava producendo, sul terreno del
naturalismo informale, tra Bologna, l’Umbria e Milano; ma i suoi
nutrimenti più sostanziosi, i suoi stimoli più decisivi li
riceveva da fuori d'Italia: dall'esperienza di un pittore russo
morto suicida a Parigi, dopo avere lungamente contemplato, sopra la
linea d'orizzonte, nel cielo immenso di Honfleur, il volo dei
gabbiani e la deriva del suo sogno di fare immobile e assoluto il
moto interiore della vita. De Stael, che Rossi aveva una prima volta
incontrato alla Biennale di Venezia del '54 e che, più a fondo,
ebbe occasione di conoscere e studiare, nella tarda primavera del
'60, alla retrospettiva organizzata dalla Galleria d'Arte Moderna di
Torino: il grande, inarrivabile De Stael fu l’artista più amato
da Rossi in questo tempo.
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Paesaggio oro
grigio
olio 1972, cm 50 x
60 |
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Marina e alberi
olio 1992, cm 50 x 70 |
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Quanto la sua pittura abbia contato - e non
allora soltanto -, nella ricerca dell'artista bolognese, lo danno
chiaramente a vedere i grandi dipinti di interno e di figura
realizzati da Rossi nel corso del 1963; di cui uno: "Grigio e
azzurro" (anche il titolo suona omaggio al pittore incantato
dalla luce di Agrigento) si dichiara come un pensiero decisamente
derivato, seppure interiormente filtrato, dal "Nudo in
piedi" del '53, presente alla mostra di Torino. Ma le tele del
'63, che Rossi espose l’anno seguente alla Biennale, segnano anche
la conclusione di un ciclo e l’esaurirsi di una stagione.
Il pittore introdusse allora, come un punto di
distanza tra le emozioni e il proprio ritratto di natura e i dipinti
che vennero, copiosi, nei lunghi anni che conducono a noi si
assestarono su una visione meno arrischiata, seppure, non per
questo, meno intensa e felice.
Furono prevalentemente, ma non solo, paesaggi:
campi, alberi e case sovrastati dal profilo protettivo e materno
della collina, internati nella memoria e nel cuore. Furono luci e
colori d'autunno, inverni ammantati di neve, fioriture di primavere:
ancora e sempre le stagioni, che scandiscono il tempo
dell'esistenza, a dare voce nuovamente al tono dell'elegia. Quei
paesaggi, costruiti a larghi gesti, in una nuova sintesi di forma e
di colore, sono le opere che hanno decretato il successo
del1'artista e maggiormente concorso a diffonderne la notorietà e
Rossi vi avrà anche, qualche volta, troppo a lungo indugiato,
correndo il rischio di farne una sigla capace di scoraggiare
1'impegno dell'interpretazione. Ma in quei paesaggi, che, non
dubito, la scelta di questa mostra saprà valorizzare, egli ha
versato stupefacenti qualità di pittura e una sincerità di
sentimento e di emozioni che chiede solo d'essere riconosciuta per
ciò che è stata é ha voluto essere: il tramite per dare figura e
moderna sostanza di poesia a un "paesaggio dell'anima". |
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