ILARIO ROSSI pittore    back   home page

 

 

 

 

 

 

 

 

Franco Basile

Ilario Rossi

Grafis Edizioni, Casalecchio di Reno (Bologna), 1992

                                                                

 

Franco Basile

Il segno di Ilario Rossi è un filo che attraversa la memoria, una linea che attinge agli umori di una geografia ideale per un viaggio che negli ultimi tempi pare inoltrarsi sempre più nella soffice palude del silenzio. Ed è un fare colto questo modo di tratteggiare situazioni fra archeologie fantastiche e invenzione: è la risultanza di un ampio lessico innestato nella semplicità di una struttura tipica, personalissima, esito di uno sguardo esercitato alla lettura e alla trascrizione continuata di intime espressioni. Si avvicendano così visioni di misurata eleganza e improvvisi materici, scansioni luminose e indugi descrittivi, quelle esperienze evocate dall'interazione di colori contrapposti, aeree metafore di stati emotivi come ciondoli di ricordi appesi a un cielo ricreato in un garage. Perché è in un box sottocasa che Rossi compone molte opere, in un ambiente dove gli odori delle vernici si mescolano a quello dell'auto e dove passato e presente si fanno cogliere da balzi di luce trascolorata dalla polvere. La realtà è fuori, lontana; gli eventi della vita sono schegge impazzite che tagliano l’aria, a volte l’esistenza ha un significato sfuggente, fatto di palpiti còlti a distanza che subito si confondono con i brani della memoria.

Come un laboratorio stellare, la "cabina dei pensieri" è al centro del locale, fra barattoli, pennelli, tubetti, e spatole. Il cavalletto è la plancia con i comandi incorporati nei depositi degli olî aggrumati nel legno. L'artista si muove in un'aura un po' criptica, forse per lo svolgimento di una penombra che pare incisa sul rovescio delle cose. Fuori, lungo la strada che corre ai piedi della collina, passano solo auto. C'è molto verde attorno, in certi momenti il gioco delle assenze crea spazi deserti dove premonizioni ed echi si uniscono alla pratica fantastico-onirica. Sono momenti in cui i fatti tendono al sogno, ma sono spazi troppo ristretti per unirsi al mito, troppo limitati per intraprendere, sicuri, un viaggio nel passato. La realtà è un angolo impietrito sotto i riflessi di una lampada alogena; meglio la "cabina dei pensieri", meglio la penombra del garage dove è semplice farsi prendere dalla seduzione dei ricordi e dove si possono immaginare anelli galattici che descrivono mondi infiniti, qualcosa che la mente accomuna alle esperienze già vissute e che permette di raccontare, alla luce di nuove esperienze, gli stessi fatti; ovvero, qualcosa che può dare un senso a tutto quanto è destinato ad essere bruciato dal calore bianco del distacco.

Nella sua lunga esperienza estetica Ilario Rossi ha sempre dato rilievo alla ricerca cromatica articolando l’indagine nella specificità di un segno esemplare, come dimostrano le luminose tessiture delle sezioni. Esemplari anche i passaggi da un ciclo compositivo all'altro, e quel suo apparire in linea con i movimenti più avanzati, ancorché in grado di esprimersi in chiave autonoma. Così, fino alle ultime risultanze, a quei motivi che lo vedono ancora, forse più che mai, tenacemente rivolto a un'azione descrittiva in cui il ricordo fa da tramite alla poesia. È un confronto con quelle visioni che lo hanno accompagnato per quasi tutta la vita, è uno specchiarsi nel vero per poi traslare i termini naturali in un contesto che sulla tela assume una ben scandita impaginatura spaziale. Ancora una volta, dunque, il mondo circostante e l’esercizio dell'evocazione emergono in primo piano; un tema, se così possiamo definirlo, affrontato con la fedeltà di chi sa trarre dalle cose e dalla luce inesauribili motivi di traduzione cromatica. Certo, molti anni sono passati dai primi approcci con le sottigliezze descrittive di taluni francesi, come remoto appare l’interesse per la coloristica fauve o per l’espressionismo americano. Erano giorni intensi, di scoperte e di ansiosa partecipazione, senza però rinunciare alla propria indipendenza, al di là di ogni referente. I tempi delle figure, delle geometrizzazioni cézanniane e delle icastiche cromìe dei torsi paiono essersi persi in una nuova e più profonda dilatazione atmosferica, ma non è così: gli antichi segnali restano, larve magmatiche, virgole di sogni lontani che si uniscono ai moduli di immagini che hanno assunto una diversa compattezza, un evoluto deposito di piani plastici, una realizzazione succedanea, forse, al desiderio di concedere maggiore evidenza al passaggio della luce in un clima che oscilla tra la nordica essenza dei grigi e dei bruni e la solarità dei gialli, degli avori e dei rosa. E in queste ultime visioni, nella frontalità di un colle che si eleva simile a uno stupito marchio della solitudine, come nello sviluppo di una trama iscritta in un cielo senza margini, è facile intuire i trapassi di remote scritture, quei torsi e quei tratti di arcaica rilevanza che nell'azione sinergica di un accorto esercizio pittorico si sono tradotti in un unico riporto. Cosicché le trascorse esperienze si son fatte consecutio, vaghe citazioni per una serie di rimandi culturali, quindi nuove sintesi.

 

Castelmassa

olio 1935, cm 44 x 64

Tende sulla spiaggia 

olio 1952, cm 58 x 80

 

I giorni dell'arte sono tacche incise sulla lastra della creatività, o sono momenti di tenera illusione come ambigui riflessi nello specchio di un lago. E ogni traccia di colore, con la sua storia di vita conclusa, è l’azzardo di una favola che aiuta a evadere dal peso dell'angoscia. Il mondo di Rossi è una continua invenzione, proprio per quel suo estraniarsi dalla realtà manovrando la navicella dell'immaginario standosene fra le annerite pareti di un garage fatto studio. Un altro rifugio è sui colli, in una luminosa mansarda o tra i sentieri dei boschi che il pittore traveste coi colori delle stagioni che preferisce. Ma questo è un altro discorso, a parentesi sotto il vapore delle nubi che si stacca dall'arcana penombra che ricopre il quadrante della vita in città. Memore di particolari referenti e portatore di una accentuata cultura visiva che spazia dai Primitivi alle ultime avanguardie, Rossi resta un artista dai meditati accordi, per l’ordine razionale dei rapporti compositivi, per quella musicalità descrittiva fatta di abbandoni e di sospensioni, per quel modo di reinterpretare il passato attraverso i veli di un inappellabile sentimento metafisico. Il tempo, una miscela custodita nella scatola delle passioni, è un registro da sfogliare con mano lieve. Dagli anni dei torsi, dei riverberi morandiani e degli Ultimi naturalisti, sono trascorse cento esperienze. Già negli anni Sessanta veniva fatto rilevare come egli avesse un passato di grande spessore, con un elenco di date altamente significative fra cui quelle delle Biennali veneziane e delle Quadriennali romane. Allora, i temi di un'accorata quotidianità, partecipe di accademiche sollecitazioni, appartenevano ormai all'archeologia dell'apprendistato, come del resto talune suggestioni di maestri novecentisti. Ben altra attenzione a Cézanne e al tardo picassismo, all'astrattismo e alle tendenze più avanzate, secondo una regola comune agli artisti più vigili, ma pur sempre capaci di affrancarsi dai luoghi comuni e dalle mode mediante la riduzione personale di certi dettami. Non a caso si diceva degli Ultimi naturalisti del cosiddetto periodo arcangeliano, di quell'essere nell'universo, di esprimere la propria esistenza e la propria inquietudine attraverso i colori e gli umori dello svolgersi naturale, di seguire quel tracciato che il critico faceva partire da tanto lontano, di essere in un angolo della vita, "dans le petit coin de la nature". Una poetica fascinosa cui Rossi si è accostato, ma sempre con interpretazioni personali e dando ancora una volta prova di una scrittura dalle specifiche connotazioni.

La poetica della natura, un modo di farsi prendere dalla linea fosforescente di un fiume o dal dispiegarsi del sole tra le valli; un modo per rendersi partecipe di una vicenda cosmica, senza artifizi, errabondo tra gli elementi atmosferici, così, fino ai languidi crepuscoli che avvolgono di grigio l’ultima lingua del tramonto. Per anni Rossi ha lavorato in un casolare alla periferia di Bologna alternando le pose d'atelier ai fotogrammi en plein air. Poi, come successe a Morandi, nuovi edifici si pararono davanti ai suoi occhi, mattoni e cemento al posto dei campi, un catalettico sipario dinanzi a vecchie attenzioni e affetti, a quegli angoli che la calura avvolgeva a volte in una nebbiolina formicolante, a quei momenti in cui la pioggia rigava i vetri mentre l’orecchio era teso all'inquieto monologo del vento.

 

Argine alto

1958, cm 100 x 80

Giocoliere

olio 1963, cm 200 x 150

 

Delle sequenze girate fra le stesure della piana periferica sono rimaste trame sinuose, via via riprese e sviluppate nei raccordi della memoria. Il calendario si è fatto prendere sempre più dalla pesantezza degli anni: Ilario Rossi divide ora i suoi giorni fra Bologna e Monzuno, piccolo centro dell'Appennino che si è sostituito a quella che Arcangeli definiva la civiltà rustica della periferia bolognese, un paese sulla collina dove si perpetuano magìa e piccoli palpiti in un reticolo in cui si annodano fili colorati: quelle essenze di gamme cromatiche che si fanno scrittura, quei toni segreti evocati come materia pittorica, quei segni lievi come un sospiro, ricordava Luigi Carluccio, una pellicola impalpabile, opaca e trasparente insieme. Ed è proprio il piacere della scrittura una delle componenti dell'operare di Rossi, quel traslare graffiti della memoria, quei segni che si accorpano nella stesura di un testo complesso e al tempo stesso disarmante nella sua naturale tessitura. Complessità e flusso spontaneo, dunque, uniti alla rivisitazione delle cose in una ricerca tesa a dare alla storia un supplemento di verità; e ritrovare il passato dove la luce scivola a indicare tristezze, a scoprire tenui estensioni orografiche, a toccare, infine, i polsi del silenzio. Scorrono le pagine del registro, ecco le annotazioni di tanti anni trascorsi a tracciare il sentiero della creatività, e tra i cicli emergono il Periodo lirico, i singolari indugi come l’intervallo del respiro, il colore che sfuma nell'inespresso, le campiture pallide, sfrangiate, gli sfondi simili a un cielo ventilato e terso, la traslazione dei ricordi in forme colorate. E novelle, controllate concessioni all'afflato sentimentale fino alle più prossime architetture dagli accenti quasi vitrei, essenziali nella loro concezione spaziale; nature morte, soprattutto, dove i pensieri paiono pietrificarsi nelle pieghe di un sacchetto di carta, momenti che si alternano al significato sfuggente di fatti che si sbriciolano in frammenti esistenziali, accenni del tempo che si riflettono nei telai, tracce di ricordi, intermittenti segnali nel mare dell'oblìo. È così che la materia si fa impasto mnemonico, come quella linea che dall'arco di un monte segue per un tratto il vertice, per poi incurvarsi leggermente quasi a simboleggiare una cuspide, logo di un antico voto, un accento così intimo e visionario per un elusivo abbandono, che è sostanza di poesia.

I1 velo del passato suggerisce contorni fantastici, o indica il presente sotto una luce circospetta. Così la realtà si può affrontare con silenziosa pazienza mentre l’occhio della consuetudine distingue appena la valenza delle cose. Chissà, forse per questo Rossi tende a rendere il tempo un allusivo e retrattile poema colorato, quasi una nuova entità riconosciuta solo dagli accenti della memoria, dai ricordi che vanno e vengono, da quei pensieri che si fanno prendere dai toni radenti di un lungo, interminabile sussurro che pare uscire dalla conchiglia di un futuro senza storia. Le visioni partono da orizzonti lontani per proiettarsi sugli schermi gelatinosi di un'attesa tra il verde e l’azzurro; e l’invenzione, arricchita da mille sguardi, improvvisa adagi dolenti e tessuti armoniosi, enunciazioni di un universo feriale, cantabili trionfanti come fiori incisi nel carminio, quindi immagini che da mescolanze timbriche cariche di intima malinconia passano al brio colorito dei frizzi materici. In questo modo un monte si può tradurre in un arco lamellato di apostrofi, così, come l’ondulata sequenza dei crinali può essere annodata da un accenno di sentiero, un tratto di tensione che vuole traguardare palpiti captati a distanza. La pittura è un'immensa raccolta di norme marginate dai sussulti dell'immaginario, una scatola magica che Rossi schiude naturalmente per rapportarsi ai tocchi della vita. È una vicenda che si perde nel tempo delle prime scritture sulla granulosa carta dei disegni; o sono brani conchiusi nella vaghezza di momenti trascorsi in quel casolare della periferia bolognese, tra i muri spessi, a correre con l’occhio sulle grigie fatture dell'umidità, solo, nella penombra di una camera ad ascoltare, nella lontananza, i cupi richiami di un tuono. Iniziarono in questo modo le suggestioni del tempo, e quell'alternarsi di controlli e di abbandoni che volevano dire attimi alternativi a qualsiasi avvenimento, invenzioni tra sguardo e pensiero, il mondo trasfigurato nella misura di una privata meditazione.

        

Nudo piegato

olio 1972, cm 70 x 50

 

 

 

Fioritura

olio 1989, cm 80 x 100

                               

Dagli anni Trenta a oggi, dalla mutevole fantasmagoria delle passioni giovanili alle invenzioni degli ultimi tempi, alle attuali "fantasie" che paiono adagiate sull'aura criptica di una chimera. Ricordiamo Alberi della memoria, opera emblematica dell'ultima produzione, sintesi esemplare di un linguaggio affinato proprio dal persistere dell'evocazione. È un melodiare di verdi, con l’onda delle colline che si rifrange contro un orizzonte a portata di ricordo: i piani si succedono in una scala di rara compostezza, le piante sono simboli di luce, il senso atmosferico è dato dall'intercalare dei toni che mai assumono l’iperbole del gridato. Molti lavori degli anni più recenti sono stati concepiti nell'augustia del garage, molti sono idee rielaborate nel silenzio, altri si rifanno alle piccole cose dello studio. Pensiamo che pochi pittori abbiano saputo dire tanto su così poco. Diverso il discorso monzunese, dove l’artista vive a più diretto contatto con il reale arrivando anche a raccogliere appunti sul paesaggio en plein air. Ma si tratta di visioni che l’artista preferisce far decantare in un recesso della mente, per poi trascriverle fra i sommessi umori dell'atelier.

Anche il capitolo dell'Appennino è denso di pagine, perché è da tanto che Rossi frequenta queste contrade. Trascorre diversi mesi nella villa che ha voluto in un punto defilato, tranquillo e circondato dal verde. Molti alberi sono cresciuti attorno alla casa, e ora svettano oltre i tetti in un fitto dialogo con le antenne della televisione. Lo studio è sotto i tetti, perfettamente ordinato, quasi un laboratorio per intrecci compositivi: l’opposto di quello bolognese. Libri allineati negli scaffali, fiori secchi bene in posa nei vasetti, pennelli inquadrati nello scacchiere delle operazioni creative. Rossi si muove con fare circospetto in questa precisione; dipendesse da lui, ridurrebbe tutto alla copia esatta del garage cittadino. Ma gli indugi e la soggezione che sorgono al cospetto di tanto ordine si dissolvono presto: anche perché l’azione di riporto non ha bisogno di specifiche condizioni ambientali, se non un tavolo, un cavalletto, e il silenzio indispensabile per socchiudere gli occhi e soffiare sul calendario di un universo fatto di intime relazioni con la luce e coi colori. E dunque, pure qui Rossi dipinge nell'alternanza di immagini e parole, sicché l’attenzione oscilla sempre tra memoria e possibilità di sublimare in bellezza i pensieri raccolti nel teatro dell’essere. Un fiore, giallo e corposo, è forse una stella avvolta nella seta; un giorno d'estate, mascherato di grigio, è una nuvola capovolta che ammanta un tratto di cielo diventato lago. Pagine senza date, momenti qualsiasi che potrebbero appartenere a qualsiasi libro di viaggi nella natura, se non fosse per qualche trapasso liricamente sospeso fra gli spazi lasciati liberi dagli abeti attorno alla casa. Rossi considera quest'angolo un rifugio dove registrare suggestioni e poetici suggerimenti. Insiste sul valore interpretativo e sui rapporti tonali, su quel modo di osservare le cose che conduce a una sorta di felicità contemplativa, ma anche a un senso di provvisorietà e di attesa che solo la traslazione artistica riesce ad allineare alla consequenzialità degli eventi, fino ai sottili tratteggi di un colle, a quei simboli che dalle arcaiche matrici di un relitto di sogno si trasformano in emblemi di vita, in un desiderio di ripercorrere il passato osservando la realtà dagli alberi della memoria.

 


 

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