Franco Basile
ILARIO ROSSI
...canto/controcanto
Edizioni Arte e Arte, Bologna, 2000
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...canto/controcanto
Franco Basile
Questa iniziativa nasce dalla visione di un volumetto con
scritti e illustrazioni di Ilario Rossi. Edito nel 1983 da Piovan, reca il
titolo "Dieci personaggi che
contano", ossia esponenti della poesia
e dell’arte debitamente ritratti dal pittore bolognese con la penna e coi
pennelli. La pubblicazione è la prima della collana "Phoenix"
destinata alla raccolta di saggi, monografie e documenti della creatività con
un ventaglio di argomenti affidati di volta in volta a interpreti di primo piano
del mondo culturale. Parole e colore, dunque, canto/controcanto come un brano
che si sviluppa a più voci, con toni e accenti che si aprono e si chiudono tra
motivo principale e contrappunto, con l’immagine e la parola scritta che si
articolano in modo libero fino a una stesura idealmente rafforzata dall’accostamento
dei linguaggi.
Perché solo dieci personaggi e non tanti altri, pure
importanti? In una nota d’apertura risponde lo stesso autore: "Per la
ragione che questi dieci li ho conosciuti di persona e frequentati". Poeti,
critici, pittori, soprattutto poeti con i quali aveva stabilito un rapporto
particolare, con la sostanza cromatica pronta a farsi carico di determinati
afflati lirici per una coinvolgente sintonia che nel raffronto con altri pittori
si manifestava invece poche volte, se non con maestri della levatura di Giorgio
Morandi la cui "metrica" sentiva assai prossima al proprio animo.
Anche Morandi figura nel volumetto, gli altri personaggi sono Eugenio Montale,
Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Francesco Arcangeli, Carlo Betocchi,
Alfonso Gatto, Giorgio De Chirico, Carlo Corsi, Mario Gorini.
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Il
poeta Montale
acrilico 1969, cm 96 x
75
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Ramificazione
olio 1989, cm 80 x 100 |
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Pagina dopo pagina il racconto si dipana sulla duplice
intelaiatura immagine-parola. Con lo svolgersi della scrittura scorrono le
fotografie del tempo e con esse riemergono fatti, si focalizzano circostanze, si
torna indietro e si rivede ciò che è stato. Si rivede anche l’artista, e noi
che l’abbiamo conosciuto, possiamo immaginarlo con un libro di poesie in
mano, davanti a una tela, intento a soppesare una rima per farne un’assonanza
cromatica.
Echi di parole, ricordi e segni lontani si univano alla sua
fantasia come un sottofondo destinato ad accompagnare l’atto del dipingere.
Ricordiamo una delle sue ultime opere: un’estate particolarmente affocata si
stava stemperando tra i giorni di settembre. L’artista aveva lasciato da poco
Monzuno, quieto rifugio sull’Appennino dove era possibile rifornirsi di luce e
colori. Rossi ne faceva una grande scorta assieme a un rosario di scorci di
alture e di valli, soprattutto di quegli effetti luminosi che rendevano inedito
quanto era stato inquadrato poco prima. L’opera di cui si diceva è un
paesaggio, modulato riflesso di una delle tante visioni d’estate, o forse un
brano interpretato sull’onda di un motivo poetico.
Legata ai luoghi e alla seduzione del ricordo, la pittura di
Rossi è prevalemtemente un fenomeno mentale, come appunto quel paesaggio che
pareva inventato nella penombra di uno studio dove gli oggetti avevano l’emblematicità
di presenze numenose, o si attenevano alla tabella del tempo come segnali dell’avventura
umana nella sua quotidianità. Un colle appena marcato nello stacco fra concreto e astratto, indizi di realtà, parvenze vegetali che sembrava
volessero far confluire il loro verde in un sogno d’oltrecielo montaliano.
Posato sul cavalletto, sotto una lampada riparata da un foglio di carta
stagnola, la visione di quel dipinto torna alla mente come sospinta dal passo di
una poesia.
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Paesaggio
olio 1990, cm 30 x
40 |
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Nevicata piccola
olio 1966, cm 12 x 20 |
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Ilario Rossi ricorda di aver conosciuto Montale all’inaugurazione
di una mostra a Milano. "Con il suo cipiglio scettico e scrutatore e con
aria distaccata da intenditore, si soffermava davanti ad ogni quadro ed
esprimeva, a chi glielo chiedeva, giudizi acuti sull’opera e sull’autore,
non senza avere battute pungenti verso gli imbrattatele". E nel ritratto,
eseguito con tocco felice ancorché icastico, il poeta sembra sul punto di un
alato pronunciamento: il sopracciglio sollevato, il busto eretto, la bocca presa
da una piega amara, ha l’aspetto di uno che, scandalizzato da chissà cosa,
intende emettere una sentenza senza appello. "Mi sono più volte accostato
alla poesie di Montale - ricorda Rossi -... Quelle sue colorite e intense
composizioni de ‘Gli ossi di seppia’ che lo dovevano subito rendere celebre,
da ‘Meriggiare pallido e assorto’ a ‘Portami il girasole’. Belle pure
per l’alto potenziale lirico le poesie delle ‘Occasioni’".
Un altro dipinto ci colpì in quel giorno di settembre. Un
algido paesaggio che il pittore aveva eseguito molti inverni prima, e al quale
sembrava tenere moltissimo. "Questo non deve uscire dallo studio",
diceva con tono cospiratorio. Si guardava attorno ed era chiaro che la
raccomandazione era rivolta più a se stesso che ad altri, visto che era lui a
decidere quali opere dovevano uscire dallo studio. Ora, nonostante gli anni
abbiano velato tante cose, il pensiero attorno a quell’opera resta integro,
forse perché lo abbiamo collegato a un passo montaliano, con quei toni chiari e
quelle scansioni che offrono varchi su mondi autentici, parole e colori per un
dialogo che traluce presagi di più effusive discorsività, schede che eludono
il mistero grazie a un cifrario che si identifica con l’evidenza delle cose:
ovvero, con la verità.
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Giuseppe
Ungaretti,
poeta
acrilico 1969, cm 96 x
75 |
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Nevicata verticale
olio 1958, cm 100 x 80 |
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Vedi, in questi
silenzi in cui le cose
s’abbandonano e
sembrano vicine
a tradire il loro
ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno
sbaglio di natura
il punto morto del
mondo, l’anello che non tiene,
il filo da
disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una
verità. (da "Ossi di
seppia").
L’ombra si distese avvolgendo il bosco come un manto
incupito; poi si spinse fino a un crinale, ombra muta e trasparente. Un’aura
di assenza estatica aveva preso tutto. Si stava avvicinando l’ora letargica
del crepuscolo e tutto appariva come in una bolla esistenziale, con il paesaggio
che nel momento del trapasso cedeva le proprie forme ai segnali lanciati dai
lampioni, alle finestre con i vetri azzurrati dalle televisioni, ai fari delle
automobili che perlustravano le strade. Quelle delle auto erano luci che
andavano e venivano, seguivano la sinuosità delle strade assecondando sbalzi e
costoni.
Viste dal paese era come se formassero un corteo spaziale, o
una via lattea di periferia. E’ una scena allestita dalla natura pochi mesi
prima che il pittore se ne andasse per sempre. Anche questa una rappresentazione
tra i declivi del paese appenninico. Difficile trasferire certe sensazioni con l’elemento
verbale. "Anche con i colori non è facile", aggiungeva Rossi, che
prendendo atto dell’indeterminatezza di quegli istanti annotava mentalmente la
stesura della notte per trattarla a modo suo, magari il giorno dopo, in un
cielo non oscurato, con la luna trasformata in una virgola luminescente dietro
la curva rigonfia di un colle.
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Nevicata ai casetti
olio 1966, cm 42 x
56 |
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Nevicata bionda
olio 1975, cm 50 x 90 |
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La notte evoca forme indistinte. Quando scompare l’ultima
parte del tramonto e le palpebre della giornata si fanno di pietra, si comincia
a pensare agli eventi trascorsi rapportandoli alla gioia e al dolore, all’inizio
e alla fine, come in un teorema di luci e di ombre. Quando manca lo stordimento
di un sogno, il silenzio ha la stessa incisività di un acuto e la mente viene
sottoposta a un incessante lavorìo. Si pensa, e si immagina di tutto mentre
fantasmi riemergono dal passato per annunciare con voce commossa di voler fare
nuovamente parte della recita esistenziale. A Rossi succedeva spesso di
esplorare la notte. La luce è più chiara quando si conosce la profondità del
nero. Era attratto dal mutare dei colori, alle ore dava scansioni personali che
i dipinti ricordano nel fluire di segni. Con pochi tratti dava l’idea di un’emozione,
sapeva cogliere l’essenza del circostante liberando lo sguardo da funambolismi
intellettuali. Per questo sentiva vicina la scrittura di certi poeti, come
quelli che con quattro parole sanno descrivere la meraviglia dell’immenso. Uno
di questi non poteva che essere Ungaretti, conosciuto a Formia durante un
concorso di pittura e rivisto anni dopo a Bologna in una serata culturale.
"...Subito mi riconobbe e insieme ricordammo i giorni di Formia. Era con me
anche Morandi". Un avvenimento data la ritrosia del maestro di via Fondazza
agli incontri. Non usciva mai di sera, "ma quella volta fece un’eccezione.
‘Lo faccio solo per Ungaretti’, mi disse. Insieme ascoltammo poesie
magistralmente strascicate dalla sua voce rauca e ansimante". Ungaretti
lesse brani dal "Sentimento del tempo"e dal "Dolore", tra
cui quella dell’"Angelo e del povero".
Di notte è più facile imbattersi nel mistero. I tratti del
giorno da poco concluso non sono che indizi di entità che si perdono nell’indeterminatezza.
A una certa ora tutto porta al sogno e alla presunzione di 8
poter dare una caratura all’indistinto. Poi,
quando giunge l’alba, il tempo perde lo spessore della fantasia, le cose
acquistano nuovo significato e le parole sono rese più vibranti dalla tensione
con cui vengono trasmesse. Il primo mattino ha il sapore del ferro, le immagini
riprendono i contorni di sempre; e come sempre, nell’atto creativo hanno
rinnovata voce e colore diverso. I passaggi di "O notte" dovevano
attraversare sovente il pensiero di Rossi.
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Il poeta Quasimodo
acrilico 1969, cm 96 x
75 |
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Alberi in fiore
olio 1975, cm 45 x 55 |
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La notte evoca forme indistinte. Quando scompare l’ultima
parte del tramonto e le palpebre della giornata si fanno di pietra, si comincia
a pensare agli eventi trascorsi rapportandoli alla gioia e al dolore, all’inizio
e alla fine, come in un teorema di luci e di ombre. Quando manca lo stordimento
di un sogno, il silenzio ha la stessa incisività di un acuto e la mente viene
sottoposta a un incessante lavorìo. Si pensa, e si immagina di tutto mentre
fantasmi riemergono dal passato per annunciare con voce commossa di voler fare
nuovamente parte della recita esistenziale. A Rossi succedeva spesso di
esplorare la notte. La luce è più chiara quando si conosce la profondità del
nero. Era attratto dal mutare dei colori, alle ore dava scansioni personali che
i dipinti ricordano nel fluire di segni. Con pochi tratti dava l’idea di un’emozione,
sapeva cogliere l’essenza del circostante liberando lo sguardo da funambolismi
intellettuali. Per questo sentiva vicina la scrittura di certi poeti, come
quelli che con quattro parole sanno descrivere la meraviglia dell’immenso. Uno
di questi non poteva che essere Ungaretti, conosciuto a Formia durante un
concorso di pittura e rivisto anni dopo a Bologna in una serata culturale.
"...Subito mi riconobbe e insieme ricordammo i giorni di Formia. Era con me
anche Morandi". Un avvenimento data la ritrosia del maestro di via Fondazza
agli incontri. Non usciva mai di sera, "ma quella volta fece un’eccezione.
‘Lo faccio solo per Ungaretti’, mi disse. Insieme ascoltammo poesie
magistralmente strascicate dalla sua voce rauca e ansimante". Ungaretti
lesse brani dal "Sentimento del tempo"e dal "Dolore", tra
cui quella dell’"Angelo e del povero".
Di notte è più facile imbattersi nel mistero. I tratti del
giorno da poco concluso non sono che indizi di entità che si perdono nell’indeterminatezza.
A una certa ora tutto porta al sogno e alla presunzione di 8
poter dare una caratura all’indistinto. Poi,
quando giunge l’alba, il tempo perde lo spessore della fantasia, le cose
acquistano nuovo significato e le parole sono rese più vibranti dalla tensione
con cui vengono trasmesse. Il primo mattino ha il sapore del ferro, le immagini
riprendono i contorni di sempre; e come sempre, nell’atto creativo hanno
rinnovata voce e colore diverso. I passaggi di "O notte" dovevano
attraversare sovente il pensiero di Rossi.
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Primavera
olio 1959, cm 55 x
45 |
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Il pittore Carlo Corsi
acrilico 1969, cm 98 x 75 |
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Dall’ampia ansia
dell’alba
Svelata alberatura
Dolorosi risvegli
Foglie, sorelle
foglie
Vi ascolto nel
lamento.
Autunni,
Moribonde dolcezze.
O gioventù,
Passata è appena l’ora
del distacco.
Cieli alti della
gioventù,
Libero slancio.
E già sono deserto.
Perso in questa curva malinconia. (da
Sentimento del tempo)
Nei ritratti dei dieci personaggi si
nota certa marcatura dei tratti fisionomici, senza però arrivare alla
caricatura vera e propria. Tutto sommato, la mano del pittore è stata lieve,
sicché la bonarietà ha stemperato quei caratteri che avrebbero invece fatto
felice qualsiasi disegnatore satirico. Ma è chiaro che non c’era nessuna
intenzione di calcare la mano in Rossi, uomo assai compìto e riguardoso nei
confronti di personaggi che stimava e ammirava. Di Quasimodo viene addirittura
accentuava la distinzione. "Lo vidi per la prima volta ad un concerto. Era
attorniato da eleganti signore...Gli chiedevano l’autografo al libro ‘Ed è
subito sera’. Mi colpì il suo viso gonfio e ben rasato... I suoi occhi neri e
taglienti e l’impeccabile taglio del vestito davano alla sua figura una virile
nota di fascino. La poesia di Quasimodo mi ha sempre entusiasmato, per la
dominata liricità e per l’accorata partecipazione umana. Una delle sue poesie
più alte, per me, è ‘Davanti al simulacro di Ilaria del Carretto’ che ho 9
letto e riletto anche per il seducente richiamo
al capolavoro di Jacopo della Quercia".
Le opere ci raccontano lo sguardo del pittore sul mondo, o
meglio sulla terra dove è nato e dove è vissuto, quei luoghi natali mitizzati
da Quasimodo come un eden perduto. Con un linguaggio evocativo e insieme
lontanante, Rossi ha costruito le proprie visioni con equilibrate modulazioni
nello spazio di un frammento, in particolare quando sentiva di dover appuntare
con immediatezza qualcosa che il tempo avrebbe potuto cancellare. Da una parte c’è
la realtà, dall’altra la bellezza, diceva Virginia Wolf. Il pittore ha sempre
avvertito quanto si cela oltre il vero, doveva solo soppesare i tempi per
captarlo e stabilire la misura narrativa con cui dare voce all’intuizione.
Proprio come si deve fare con un tratto di elegìa, dove semplicità e purezza
si accordano fino a stabilire una duttile musicalità.
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Ritratto di Giorgio Morandi
acrilico 1969, cm 96 x
75 |
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Autoritratto
olio 1989, cm 40x 30 |
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Sono lontani i giorni in cui Rossi ha incontrato i dieci
personaggi del libro. Deve aver preso nota di tutto come si fa in un diario dove
vengono segnati gli avvenimenti più importanti. Nel volumetto i ritratti e le
parole viaggiano insieme, testimonianza di un rapporto con la poesia che in
Rossi si è manifestao anche nell’illustrare una raccolta di liriche di
Catullo. Il tempo delle cose si è fermato nei quadri, consolidato da pennellate
di grigio e da accensioni lievemente azzurrate. Il pittore rimaneva a lungo
nello studio, smetteva solo quando la luce non dialogava più con i modelli
delle nature morte, oggetti-amuleti, avrebbe detto Montale, metafore d’arte
rafforzate dall’immaginazione Anche il tempo di Rossi si è fermato nei
quadri, dopo aver a lungo studiato il cielo di quell’estate sull’Appennino,
con il sole che chiamava continuamente a raccolta le coordinate della luce fino
a tingersi di vermiglio in maestosi tramonti, con le notti portatrici di un
mistero che si sarebbe concluso, forse, nel sonno.
Dormono
le cime dei monti
E le vallate intorno,
i declivi e i
burroni... (Quasimodo - Lirici
greci)
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