ILARIO ROSSI pittore    back   home page

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Franco Basile

ROSSI L'ultima estate

Re Enzo Editrice, Bologna, 1995

 

 

Franco Basile

Sembrava che l’estate non dovesse aver fine. I giorni si succedevano come se il tempo non avesse regole stagionali. Lassù, tra le balze dell'Appennino, la luce metteva a fuoco le cose solo quando la brezza dissipava la caligine che rendeva l’orizzonte una linea indefinita. Ilario Rossi aveva trascorso un periodo molto intenso in città, come non gli succedeva da anni. Gli era stato assegnato il "Nettuno d'oro", un premio con cui Bologna aveva inteso ricordarne la lunga attività. C'era stata anche l’antologia alla Galleria d'arte moderna e tutto un insieme di episodi che lo avevano fatto tornare indietro nel tempo, quando mostre e pubblicazioni erano una costante, quando Venezia lo accoglieva nelle sale della Biennale e quando doveva fare la spola tra Milano e Bologna, nel periodo dell'insegnamento a Brera. Solo che allora la fatica non si faceva sentire e l’affanno non gli impediva l’esercizio quotidiano della pittura.

Rossi non poteva stare senza dipingere, i colori erano un prolungamento del respiro. È sempre stato così sin da quando era bambino. Il nonno lo aveva abituato a svolgere un compito giornaliero che consisteva in un acquerello al mattino e uno al pomeriggio. Mettersi al cavalletto significava mantener viva la mente: segni e materia gli permettevano di ripercorrere tanti momenti, dipingere era una felice consegna, una sollecitazione rigenerante che dalla perentorietà dei confronti con la realtà Io portava ai grandi temi della memoria.

Un'estate davvero ricca di palpiti e di umori stranianti quella vissuta per l’ultima volta lassù, tra bianchi venati di rosa morbido, come toni staccati da un presagio d'aurora; giorni passati tra sfumature di verde e case unite in borghi sassosi, tra elementi naturali il cui valore espressivo si univa, nei suoi pensieri, a momenti attraversati dal sogno.

Il caldo aveva giocato d'anticipo, vivere in città era un'affocata condanna sicché i fine settimana a Monzuno si erano trasformati in periodi sempre più lunghi, fino al rituale insediamento di ogni anno, nella casa piantata in una balza verdeggiante. Sull'Appennino aveva trovato una postazione da cui osservare meglio la rincorsa delle alture, e da cui era possibile limare quei ricordi che sulla tela si traducevano in scampoli di poesia, in voci che trasmigravano lontano fino ad annullare ogni valore conoscitivo e razionale. A poco a poco le scorie degli ultimi affanni si andavano stemperando, i fatti della città avevano riporti filtrati dalla distanza e da uno svolgimento quotidiano improntato a una sorta di abbandono tra le cose e all'esercizio pittorico.

Dei giorni passati sulle alture Rossi ha lasciato una parabola intensa e accorata, forse un inconscio riepilogo della vita, un affrettarsi sulla tela prima della fine. Il repertorio di questo capitolo si compone di una quarantina di lavori, tra paesaggi, fiori e nature morte. Soprattutto visioni della natura, espressioni sottilmente intense alternate ad altre dai vividi contrasti. Scorrono così le immagini dell'ultima estate: un cielo che si perde dietro l’apparizione di una linea, una collina che si sviluppa come un'onda, colori come luci che ruotano attorno all'astro della memoria. Immagini come un sunto di vita che annoda esperienze e ricordi, un lucido riepilogo simile alla totale rappresentazione che scorre dinanzi agli occhi di chi sta per andarsene: tutta l’esistenza rivissuta in un lampo.

Quaranta immagini, soprattutto paesaggi suggeriti dal reale ma anche dal ricordo. Rossi aveva ben in mente le suggestioni di un tratto luminoso che scendendo tra gli alberi si faceva prendere in un'accecante ragnatela. Lassù, aveva in mente anche distese marine o addirittura il tempo della neve, visioni del passato che si sviluppavano nei dipinti ora in liquide distese d'azzurro, ora in tratti imbiancati con gli alberi illuminati dal gelo: volute di neve sognata e posata nell'ordito della tela in un torrido giorno d'agosto. Questi segnali, e questi toni raccolti alla periferia dell'orizzonte, portano lontano, al ricordo di un racconto che si è protratto inesausto, come un viaggio nell'indefinito, tappa dopo tappa, tra la notte e il giorno, tra le virgole della vita e lo stupore di un tempo che la mente vagheggiava in una nuova realtà. Quelle cose, e quelle visioni della natura, quelle immagini che fanno tornare alla mente le parole di Gian Carlo Cavalli, il critico, come disse Francesco Arcangeli, che forse non più costante amore ebbe a seguire la sua vicenda e che seppe riassumerne la migliore essenza con parole difficilmente sostituibili: Cavalli aveva ricordato la predilezione di Rossi per la natura del paesaggio, ordinato per dati essenziali e che, nella traslazione poetica, doveva riassumersi "lungo curve grevi e malinconiche dei colli emiliani, lungo i profili d'ombra delle case e degli orti, nelle gamme ormai schiarite del colore". E la voce doveva levarsi "lenta, quasi mormorata e pigra, in una sorta di bucolica accorata e severa".

La parabola di quell'estate indica dunque le componenti di uno spezzone di vita che l’artista ha elencato con note sottilmente elegiache, ancorché dettate dall'urgenza di un sentimento che doveva pesargli come un aspro presagio. L'intensità del flusso compositivo era pari all'ansia di un compito da svolgere il più presto possibile. C'era da cogliere un tratto d'esistenza e fermarlo per sempre, con qualche segno e qualche cuspide da colorare sulla sommità di un colla. Dipingere voleva dire afferrare angoli della memoria e trasferirli sulla tela in modo netto, ultimativo. Ma quello che ai suoi occhi sembrava contare di più, era raccogliere elementi di natura che prima non conosceva. Quello che più contava in quei giorni di assolata solitudine, era afferrare segnali remoti e trasmigrarli nella tavolozza fino ad aggrumarli in una nuova sintesi. Dalle colline la luce seguiva il copione di sempre. Eppure tutto si annunciava diverso, soprattutto ai suoi occhi, perché non voleva che i pensieri che gli attraversavano la mente appartenessero a un esercizio superficiale, come una semplice constatazione dello svolgersi del tempo o del meccanico trascolorare delle cose. E mentre la luce andava e veniva rendendo l’orizzonte una fantasia sospesa tra i boschi, appariva felice e inebriato di perdersi al di là delle alture, e di farsi prendere dalla quiete di un tramonto. Ma erano attimi: un indefinibile senso di abbandono e di ansia lo prendeva nuovamente, e la felicità era solo un accenno luminoso. E non bastava lo scintillìo di una stella a rischiarare notti d'angoscia. Presto si sarebbe accorto che la felicità era racchiusa in un libro misterioso, in pagine che non avrebbe avuto il tempo di leggere. La quiete se ne andava anche se il movimento della luce in cielo palpitava ancora. Si poteva cogliere quello scintillìo e fermarlo per sempre? Il buio era una coltre insostenibile, era come se la notte segnasse la scadenza del tempo e annunciasse le ore come una sinistra parodia dell'esistenza.

In un volumetto edito nel 1983 Rossi riunì dieci personaggi della poesia e dell'arte. Per ognuno eseguì un doppio ritratto: uno con le parole, l’altro con i pennelli. È un capitolo rilevante questo dei ritratti, un segmento di poetica che unito a quello delle nature morte e dei nudi si riallaccia agli esiti più significativi del percorso iniziale, quando il pulsare dell'emozione cominciava ad essere affidato al tono, quando i riflessi della cosiddetta "scuola romana" si stemperavano tra le linee di una personale scrittura, a un'espressione che era comunque traslazione del visto e del sentito secondo un insegnamento al quale mai sarebbe venuto meno: quello di Giorgio Morandi. Nelle sue trascrizioni pittoriche gli indugi luminosi, i toni che evocano i1 pensiero, le cose raccolte in un'atemporale immobilità sono un costante riverbero del ricordo morandiano, anche quando gli accenti si spingono sino ai limiti dell'astrazione, anche negli anni arcangeliani, quando l’adesione all’"Ultimo naturalismo" è più che altro ideale, proprio per quel personalissimo modo di intendere la realtà. Il suo era un mondo fatto di alberi, di tenere modulazioni, di campi e di cose da traslare tono dopo tono per ricavarne elementi che, nella composizione, dovevano emergere dall'impianto materico come isole del silenzio, fina ai tratti di una pittura lirica. Uno svolgersi semplificato fatto di calibrate variazioni, per certi versi riconducibile alle tavole di un De Staël.

Fra i dieci personaggi raccolti nel volumetto, Morandi occupa un posto di primo piano. Appaiono anche Montale, Arcangeli, De Chirico. E c'è Ungaretti, da cui Rossi si sentiva particolarmente attratto, al punto da riportarne una poesia, quella dell'Angelo e de1 povero. Rossi conobbe Ungaretti molti anni fa a Formia durante un concorso di pittura. Lo incontrò nuovamente a Bologna e l’episodio è ricordato come un luminoso flash-back. "Era con me anche Morandi, il quale non usciva mai la sera. Ma in quella circostanza fece un'eccezione e disse: "Lo faccio solo per Ungaretti". E insieme ascoltammo le sue stupende poesie, magistralmente strascicate dalla sua voce rauca ed ansimante". In quella serata il poeta lesse composizioni tratte dal "Sentimento del tempo" e dal "Dolore", tra cui quella dell’"Angelo e del povero", che - annotò Rossi - sembra sgorghi dalla sofferenza e dalla solitudine. "Ora che invade le oscurate menti / Più aspra pietà del sangue e della terra, / Ora che ci misura ad ogni palpito / Il silenzio di tante ingiuste morti, / Ora si sveli l’angelo del povero, / gentilezza suprema dell'anima... / Col gesto inestinguibile dei secoli / Discenda a capo del suo vecchio popolo, / In mezzo alle ombre...".

A Monzuno Rossi si faceva accompagnare dai ricordi. Le giornate trascorrevano senza trasalimenti e i gesti seguivano il più possibile il copione della quiete. Qualche incontro con gli amici, brevi passeggiate per ossigenare la mente e aggiungere nuova luce ai fatti emozionali, qualche fuga con la mente per la realizzazione di quello che definiva "il vero inventato": quindi l’abituale e sempre appassionante esercizio con i colori. Le notizie giungevano senza echi particolari, il distacco da Bologna faceva apparire tutto irrilevante, come se la città e il mondo intero appartenessero a una sfera aliena. Ma un fatto lo colpì crudamente e un'ombra greve gli si addensò nella mente. Fu quando seppe della scomparsa di Maria Teresa Morandi, l’ultimo filo diretto con la memoria del Maestro. Agosto era appena cominciato e in un giorno soffocante la notizia si diffuse come un refolo di disperazione. Maria Teresa era la più giovane della famiglia e sembrava la più fragile. E proprio a lei, a quella che sembrava la più esposta alle difficoltà della vita, toccò il compito più delicato, quello di perpetuare in modo tangibile la poetica del fratello. Quella mattina la trovarono priva di vita nella casa di Grizzana, dove trascorreva l’estate sola, tra i segni della memoria.

Se ne era andato l’ultimo concreto riferimento di una storia che Rossi conosceva bene, e che ora poteva rivivere soltanto attraverso le immagini e le pagine dei libri. Un altro spicchio di una grande vicenda umana e artistica si era staccato dal rotolo dell'esistenza. Maria Teresa aveva lasciato un mondo che aveva attraversato con sentimento lieve, con innata discrezione. E con discrezione se ne era andata, come un sussurro dietro un vetro, in quella casa davanti al borgo del Campiaro dove il fratello si era creato uno studio sul verde. Rossi pensava a tutto ciò, ripassando antichi ricordi sotto la luce calcinata di un'estate che ogni giorno metteva in scena affocate rappresentazioni. Il sole era implacabile, nelle ore più calde lo sguardo sembrava perdersi tra i vapori che salivano dalle valli come vele sfilacciate. La caligine si spingeva da una cima all'altra simile a una garza fluttuante. Sembrava un incantamento pronto a dissolversi all'imbrunire, quando ormai l’occhio ne aveva fatto una matassa da posare nella casella dei giorni scaduti.

Poi, lentamente, i pensieri ripresero il loro corso, anche se l’artista sapeva che quella casella mancante avrebbe inciso in modo bruciante sul lessico della sua memoria. Le voci e le notizie tornarono ad essere filtrate dal distacco e Monzuno riprese ad essere il vecchio rifugio dove era bello farsi prendere dalle distanze che separavano la realtà dalla fantasia.

Sull'Appennino la frequentazione artistica è fenomeno diffuso, come attestano gli esempi di Grizzana e di Monzuno. Nel centro che si erge tra il Setta e il Savena si è formata una specie di colonia di pittori. Tutto cominciò molto tempo fa, quando Nino Bertocchi si insediò all'Ospitale, un antico agglomerato un po' fuori del paese e che si raggiunge arrampicandosi lungo due erte sassose. Nei lavori di Bertocchi questi luoghi sono spesso rappresentati, così come sono ricordati nei suoi scritti. Luoghi di meditazione, ore e ore trascorse davanti alle infinite sfumature dei boschi e dei campi, ore e ore intento a mettere a posto gli elementi vivi di questo paesaggio, la gioia e lo stupore nell'ascoltare un linguaggio tra i più patetici e dimessi. Qui si sono soffermati anche Lea Colliva e Ferruccio Giacomelli e qui, proprio per la presenza di diversi artisti, si sono tenute iniziative che hanno finito per far conoscere un po' ovunque il paese.

Ora, il decano della piccola colonia è Giuseppe Gagliardi, che tra scorre molto tempo dell'anno in uno sbalzo vicino a Trasasso chiamato Montagnola. Quand'era giovane Gagliardi faceva il macchinista delle Ferrovie: il suo sogno era diventare musicista, ma anche la pittura gli piaceva maledettamente. Forse, per una reazione ai mille giorni passati a respirare il fumo della caldaia, si è scelto un punto particolarmente chiaro e arioso. Conosce a menadito le valli e ogni macchia di verde. In particolare, sa calcolare i momenti delle albe. È uno spettatore puntuale di ogni aurora, che dalla Montagnola accarezza coi pennelli per farne un diario tra il rosa e il giallo.

A Casette, sempre alle porte di Monzuno, lavora un altro artista. È Mario Giovanetti che alterna i pensieri tra scultura e pittura. Dal Ferrarese s'è trascinato un barcone che per un po' è rimasto "arenato" tra gli alberi. Poi l'ha segato in due per farne un richiamo plastico da inserire in una poetica fatta di legni, reperti ferrosi e sassi. Ma gli ultimi tempi li ha trascorsi a riversare su vecchie tavole i ricordi accumulati durante un soggiorno africano. Monzuno è luogo di meditazione e di lavoro anche per Paola Collina, pittrice attenta alle sfumature e ai compiacimenti dell'uomo. Ha la casa in un punto appartato, di fianco a un capannone dove ha passato mesi interi per realizzare un gigantesco pannello in cui ironia e amarezza si uniscono per rappresentare ciò che l’artista è riuscita ad estrapolare dalla vacuità di taluni sentimenti. L'opera raggruppa una miriade di personaggi, una grande distesa di teste e di sguardi che si confondono nel conformismo di una inaugurazione e che si riallaccia a gruppi di ensoriana memoria. Sempre a Monzuno, la Collina ha materializzato un'idea che le venne ripassando l’opera di Lee Masters. Camminando nei pressi del cimitero le tornarono alla mente le voci di Spoon River, storie concluse riassunte in un epitaffio, vicende da rievocare, da sovrapporre al presente e quindi da trascrivere sulla tela.

Si conoscono tutti a Monzuno, ma gli artisti si incontrano per lo più alle mostre. Ultimamente Rossi si era un po' ritirato; non è mai stato un presenzialista ma durante l’estate la sua ritrosia all'ufficialità si era accentuata. Forse doveva ancora smaltire le scorie accumulate in città, forse preferiva dedicare tutto il tempo a quello che sarebbe stato il suo ultimo racconto. Ha lasciato Monzuno molto tardi, quando la coda dell'estate cominciava a sfaldarsi tra le ombre d'ottobre. Per un po' ha fatto la spola tra la collina e la città, fino al definitivo rientro nella casa bolognese, dove riprese possesso dello studio ricavato in un garage. Col tempo il locale aveva assunto l’aspetto di un bazar della poesia, con telai, tele e foglietti sparsi qua e là, con le suppellettili imbrattate di colori, con pennelli e spatole di fianco a caraffe e a scatole di toscanelli, secondo un organizzato disordine che solo un artista poteva prevedere e intendere.

Rossi si alzava molto presto al mattino e come d'abitudine scendeva subito nello studio. È morto davanti al cavalletto, aveva appena delineato un mazzo di fiori. I primi tocchi di colore dovevano far rivivere l’essenza del modello: larghe colate di rosso e di verde per rigenerare il riflesso di una visione racchiusa in un vaso. La tela è rimasta là, sul cavalletto, circondata da una miriade di tubetti e di pennelli, fra i segni di una vita intera. Se Rossi avesse dovuto scegliere il modo di morire, certamente avrebbe scelto questo. È stato come un lampo che l’ha preso fra le sue cose. Il tempo di guardarsi attorno, di sentirsi smarrito in una distanza infinita. Rossi è morto un giorno d'ottobre. Faceva ancora caldo. Sembrava che l’estate non dovesse aver fine.

 


 

 

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