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Franco Basile
Sembrava che l’estate non dovesse aver fine. I
giorni si succedevano come se il tempo non avesse regole stagionali.
Lassù, tra le balze dell'Appennino, la luce metteva a fuoco le cose
solo quando la brezza dissipava la caligine che rendeva l’orizzonte
una linea indefinita. Ilario Rossi aveva trascorso un periodo molto
intenso in città, come non gli succedeva da anni. Gli era stato
assegnato il "Nettuno d'oro", un premio con cui Bologna
aveva inteso ricordarne la lunga attività. C'era stata anche l’antologia
alla Galleria d'arte moderna e tutto un insieme di episodi che lo
avevano fatto tornare indietro nel tempo, quando mostre e
pubblicazioni erano una costante, quando Venezia lo accoglieva nelle
sale della Biennale e quando doveva fare la spola tra Milano e
Bologna, nel periodo dell'insegnamento a Brera. Solo che allora la
fatica non si faceva sentire e l’affanno non gli impediva l’esercizio
quotidiano della pittura.
Rossi non poteva stare senza dipingere, i colori
erano un prolungamento del respiro. È sempre stato così sin da
quando era bambino. Il nonno lo aveva abituato a svolgere un compito
giornaliero che consisteva in un acquerello al mattino e uno al
pomeriggio. Mettersi al cavalletto significava mantener viva la
mente: segni e materia gli permettevano di ripercorrere tanti
momenti, dipingere era una felice consegna, una sollecitazione
rigenerante che dalla perentorietà dei confronti con la realtà Io
portava ai grandi temi della memoria.
Un'estate davvero ricca di palpiti e di umori
stranianti quella vissuta per l’ultima volta lassù, tra bianchi
venati di rosa morbido, come toni staccati da un presagio d'aurora;
giorni passati tra sfumature di verde e case unite in borghi
sassosi, tra elementi naturali il cui valore espressivo si univa,
nei suoi pensieri, a momenti attraversati dal sogno.
Il caldo aveva giocato d'anticipo, vivere in
città era un'affocata condanna sicché i fine settimana a Monzuno
si erano trasformati in periodi sempre più lunghi, fino al rituale
insediamento di ogni anno, nella casa piantata in una balza
verdeggiante. Sull'Appennino aveva trovato una postazione da cui
osservare meglio la rincorsa delle alture, e da cui era possibile
limare quei ricordi che sulla tela si traducevano in scampoli di
poesia, in voci che trasmigravano lontano fino ad annullare ogni
valore conoscitivo e razionale. A poco a poco le scorie degli ultimi
affanni si andavano stemperando, i fatti della città avevano
riporti filtrati dalla distanza e da uno svolgimento quotidiano
improntato a una sorta di abbandono tra le cose e all'esercizio
pittorico.
Dei giorni passati sulle alture Rossi ha lasciato
una parabola intensa e accorata, forse un inconscio riepilogo della
vita, un affrettarsi sulla tela prima della fine. Il repertorio di
questo capitolo si compone di una quarantina di lavori, tra
paesaggi, fiori e nature morte. Soprattutto visioni della natura,
espressioni sottilmente intense alternate ad altre dai vividi
contrasti. Scorrono così le immagini dell'ultima estate: un cielo
che si perde dietro l’apparizione di una linea, una collina che si
sviluppa come un'onda, colori come luci che ruotano attorno
all'astro della memoria. Immagini come un sunto di vita che annoda
esperienze e ricordi, un lucido riepilogo simile alla totale
rappresentazione che scorre dinanzi agli occhi di chi sta per
andarsene: tutta l’esistenza rivissuta in un lampo.
Quaranta immagini, soprattutto paesaggi suggeriti
dal reale ma anche dal ricordo. Rossi aveva ben in mente le
suggestioni di un tratto luminoso che scendendo tra gli alberi si
faceva prendere in un'accecante ragnatela. Lassù, aveva in mente
anche distese marine o addirittura il tempo della neve, visioni del
passato che si sviluppavano nei dipinti ora in liquide distese
d'azzurro, ora in tratti imbiancati con gli alberi illuminati dal
gelo: volute di neve sognata e posata nell'ordito della tela in un
torrido giorno d'agosto. Questi segnali, e questi toni raccolti alla
periferia dell'orizzonte, portano lontano, al ricordo di un racconto
che si è protratto inesausto, come un viaggio nell'indefinito,
tappa dopo tappa, tra la notte e il giorno, tra le virgole della
vita e lo stupore di un tempo che la mente vagheggiava in una nuova
realtà. Quelle cose, e quelle visioni della natura, quelle immagini
che fanno tornare alla mente le parole di Gian Carlo Cavalli, il
critico, come disse Francesco Arcangeli, che forse non più costante
amore ebbe a seguire la sua vicenda e che seppe riassumerne la
migliore essenza con parole difficilmente sostituibili: Cavalli
aveva ricordato la predilezione di Rossi per la natura del
paesaggio, ordinato per dati essenziali e che, nella traslazione
poetica, doveva riassumersi "lungo curve grevi e malinconiche
dei colli emiliani, lungo i profili d'ombra delle case e degli orti,
nelle gamme ormai schiarite del colore". E la voce doveva
levarsi "lenta, quasi mormorata e pigra, in una sorta di
bucolica accorata e severa".
La parabola di quell'estate indica dunque le
componenti di uno spezzone di vita che l’artista ha elencato con
note sottilmente elegiache, ancorché dettate dall'urgenza di un
sentimento che doveva pesargli come un aspro presagio. L'intensità
del flusso compositivo era pari all'ansia di un compito da svolgere
il più presto possibile. C'era da cogliere un tratto d'esistenza e
fermarlo per sempre, con qualche segno e qualche cuspide da colorare
sulla sommità di un colla. Dipingere voleva dire afferrare angoli
della memoria e trasferirli sulla tela in modo netto, ultimativo. Ma
quello che ai suoi occhi sembrava contare di più, era raccogliere
elementi di natura che prima non conosceva. Quello che più contava
in quei giorni di assolata solitudine, era afferrare segnali remoti
e trasmigrarli nella tavolozza fino ad aggrumarli in una nuova
sintesi. Dalle colline la luce seguiva il copione di sempre. Eppure
tutto si annunciava diverso, soprattutto ai suoi occhi, perché non
voleva che i pensieri che gli attraversavano la mente appartenessero
a un esercizio superficiale, come una semplice constatazione dello
svolgersi del tempo o del meccanico trascolorare delle cose. E
mentre la luce andava e veniva rendendo l’orizzonte una fantasia
sospesa tra i boschi, appariva felice e inebriato di perdersi al di
là delle alture, e di farsi prendere dalla quiete di un tramonto.
Ma erano attimi: un indefinibile senso di abbandono e di ansia lo
prendeva nuovamente, e la felicità era solo un accenno luminoso. E
non bastava lo scintillìo di una stella a rischiarare notti
d'angoscia. Presto si sarebbe accorto che la felicità era racchiusa
in un libro misterioso, in pagine che non avrebbe avuto il tempo di
leggere. La quiete se ne andava anche se il movimento della luce in
cielo palpitava ancora. Si poteva cogliere quello scintillìo e
fermarlo per sempre? Il buio era una coltre insostenibile, era come
se la notte segnasse la scadenza del tempo e annunciasse le ore come
una sinistra parodia dell'esistenza.
In un volumetto edito nel 1983 Rossi riunì dieci
personaggi della poesia e dell'arte. Per ognuno eseguì un doppio
ritratto: uno con le parole, l’altro con i pennelli. È un
capitolo rilevante questo dei ritratti, un segmento di poetica che
unito a quello delle nature morte e dei nudi si riallaccia
agli esiti più significativi del percorso iniziale, quando il
pulsare dell'emozione cominciava ad essere affidato al tono, quando
i riflessi della cosiddetta "scuola romana" si
stemperavano tra le linee di una personale scrittura, a
un'espressione che era comunque traslazione del visto e del sentito
secondo un insegnamento al quale mai sarebbe venuto meno: quello di
Giorgio Morandi. Nelle sue trascrizioni pittoriche gli indugi
luminosi, i toni che evocano i1 pensiero, le cose raccolte in
un'atemporale immobilità sono un costante riverbero del ricordo
morandiano, anche quando gli accenti si spingono sino ai limiti
dell'astrazione, anche negli anni arcangeliani, quando l’adesione
all’"Ultimo naturalismo" è più che altro ideale,
proprio per quel personalissimo modo di intendere la realtà. Il suo
era un mondo fatto di alberi, di tenere modulazioni, di campi e di
cose da traslare tono dopo tono per ricavarne elementi che, nella
composizione, dovevano emergere dall'impianto materico come isole
del silenzio, fina ai tratti di una pittura lirica. Uno svolgersi
semplificato fatto di calibrate variazioni, per certi versi
riconducibile alle tavole di un De Staël.
Fra i dieci personaggi raccolti nel volumetto,
Morandi occupa un posto di primo piano. Appaiono anche Montale,
Arcangeli, De Chirico. E c'è Ungaretti, da cui Rossi si sentiva
particolarmente attratto, al punto da riportarne una poesia, quella
dell'Angelo e de1 povero. Rossi conobbe Ungaretti molti anni
fa a Formia durante un concorso di pittura. Lo incontrò nuovamente
a Bologna e l’episodio è ricordato come un luminoso flash-back.
"Era con me anche Morandi, il quale non usciva mai la sera. Ma
in quella circostanza fece un'eccezione e disse: "Lo faccio
solo per Ungaretti". E insieme ascoltammo le sue
stupende poesie, magistralmente strascicate dalla sua voce rauca ed
ansimante". In quella serata il poeta lesse composizioni tratte
dal "Sentimento del tempo" e dal "Dolore", tra
cui quella dell’"Angelo e del povero", che - annotò
Rossi - sembra sgorghi dalla sofferenza e dalla solitudine.
"Ora che invade le oscurate menti / Più aspra pietà del
sangue e della terra, / Ora che ci misura ad ogni palpito / Il
silenzio di tante ingiuste morti, / Ora si sveli l’angelo del
povero, / gentilezza suprema dell'anima... / Col gesto
inestinguibile dei secoli / Discenda a capo del suo vecchio popolo,
/ In mezzo alle ombre...".
A Monzuno Rossi si faceva accompagnare dai
ricordi. Le giornate trascorrevano senza trasalimenti e i gesti
seguivano il più possibile il copione della quiete. Qualche
incontro con gli amici, brevi passeggiate per ossigenare la mente e
aggiungere nuova luce ai fatti emozionali, qualche fuga con la mente
per la realizzazione di quello che definiva "il vero
inventato": quindi l’abituale e sempre appassionante
esercizio con i colori. Le notizie giungevano senza echi
particolari, il distacco da Bologna faceva apparire tutto
irrilevante, come se la città e il mondo intero appartenessero a
una sfera aliena. Ma un fatto lo colpì crudamente e un'ombra greve
gli si addensò nella mente. Fu quando seppe della scomparsa di
Maria Teresa Morandi, l’ultimo filo diretto con la memoria del
Maestro. Agosto era appena cominciato e in un giorno soffocante la
notizia si diffuse come un refolo di disperazione. Maria Teresa era
la più giovane della famiglia e sembrava la più fragile. E proprio
a lei, a quella che sembrava la più esposta alle difficoltà della
vita, toccò il compito più delicato, quello di perpetuare in modo
tangibile la poetica del fratello. Quella mattina la trovarono priva
di vita nella casa di Grizzana, dove trascorreva l’estate sola,
tra i segni della memoria.
Se ne era andato l’ultimo concreto riferimento
di una storia che Rossi conosceva bene, e che ora poteva rivivere
soltanto attraverso le immagini e le pagine dei libri. Un altro
spicchio di una grande vicenda umana e artistica si era staccato dal
rotolo dell'esistenza. Maria Teresa aveva lasciato un mondo che
aveva attraversato con sentimento lieve, con innata discrezione. E
con discrezione se ne era andata, come un sussurro dietro un vetro,
in quella casa davanti al borgo del Campiaro dove il fratello si era
creato uno studio sul verde. Rossi pensava a tutto ciò, ripassando
antichi ricordi sotto la luce calcinata di un'estate che ogni giorno
metteva in scena affocate rappresentazioni. Il sole era implacabile,
nelle ore più calde lo sguardo sembrava perdersi tra i vapori che
salivano dalle valli come vele sfilacciate. La caligine si spingeva
da una cima all'altra simile a una garza fluttuante. Sembrava un
incantamento pronto a dissolversi all'imbrunire, quando ormai l’occhio
ne aveva fatto una matassa da posare nella casella dei giorni
scaduti.
Poi, lentamente, i pensieri ripresero il loro
corso, anche se l’artista sapeva che quella casella mancante
avrebbe inciso in modo bruciante sul lessico della sua memoria. Le
voci e le notizie tornarono ad essere filtrate dal distacco e
Monzuno riprese ad essere il vecchio rifugio dove era bello farsi
prendere dalle distanze che separavano la realtà dalla fantasia.
Sull'Appennino la frequentazione artistica è
fenomeno diffuso, come attestano gli esempi di Grizzana e di Monzuno.
Nel centro che si erge tra il Setta e il Savena si è formata una
specie di colonia di pittori. Tutto cominciò molto tempo fa, quando
Nino Bertocchi si insediò all'Ospitale, un antico agglomerato un
po' fuori del paese e che si raggiunge arrampicandosi lungo due erte
sassose. Nei lavori di Bertocchi questi luoghi sono spesso
rappresentati, così come sono ricordati nei suoi scritti. Luoghi di
meditazione, ore e ore trascorse davanti alle infinite sfumature dei
boschi e dei campi, ore e ore intento a mettere a posto gli elementi
vivi di questo paesaggio, la gioia e lo stupore nell'ascoltare un
linguaggio tra i più patetici e dimessi. Qui si sono soffermati
anche Lea Colliva e Ferruccio Giacomelli e qui, proprio per la
presenza di diversi artisti, si sono tenute iniziative che hanno
finito per far conoscere un po' ovunque il paese.
Ora, il decano della piccola colonia è Giuseppe
Gagliardi, che tra scorre molto tempo dell'anno in uno sbalzo vicino
a Trasasso chiamato Montagnola. Quand'era giovane Gagliardi faceva
il macchinista delle Ferrovie: il suo sogno era diventare musicista,
ma anche la pittura gli piaceva maledettamente. Forse, per una
reazione ai mille giorni passati a respirare il fumo della caldaia,
si è scelto un punto particolarmente chiaro e arioso. Conosce a
menadito le valli e ogni macchia di verde. In particolare, sa
calcolare i momenti delle albe. È uno spettatore puntuale di ogni
aurora, che dalla Montagnola accarezza coi pennelli per farne un
diario tra il rosa e il giallo.
A Casette, sempre alle porte di Monzuno, lavora
un altro artista. È Mario Giovanetti che alterna i pensieri tra
scultura e pittura. Dal Ferrarese s'è trascinato un barcone che per
un po' è rimasto "arenato" tra gli alberi. Poi l'ha
segato in due per farne un richiamo plastico da inserire in una
poetica fatta di legni, reperti ferrosi e sassi. Ma gli ultimi tempi
li ha trascorsi a riversare su vecchie tavole i ricordi accumulati
durante un soggiorno africano. Monzuno è luogo di meditazione e di
lavoro anche per Paola Collina, pittrice attenta alle sfumature e ai
compiacimenti dell'uomo. Ha la casa in un punto appartato, di fianco
a un capannone dove ha passato mesi interi per realizzare un
gigantesco pannello in cui ironia e amarezza si uniscono per
rappresentare ciò che l’artista è riuscita ad estrapolare dalla
vacuità di taluni sentimenti. L'opera raggruppa una miriade di
personaggi, una grande distesa di teste e di sguardi che si
confondono nel conformismo di una inaugurazione e che si riallaccia
a gruppi di ensoriana memoria. Sempre a Monzuno, la Collina ha
materializzato un'idea che le venne ripassando l’opera di Lee
Masters. Camminando nei pressi del cimitero le tornarono alla mente
le voci di Spoon River, storie concluse riassunte in un
epitaffio, vicende da rievocare, da sovrapporre al presente e quindi
da trascrivere sulla tela.
Si conoscono tutti a Monzuno, ma gli artisti si
incontrano per lo più alle mostre. Ultimamente Rossi si era un po'
ritirato; non è mai stato un presenzialista ma durante l’estate
la sua ritrosia all'ufficialità si era accentuata. Forse doveva
ancora smaltire le scorie accumulate in città, forse preferiva
dedicare tutto il tempo a quello che sarebbe stato il suo ultimo
racconto. Ha lasciato Monzuno molto tardi, quando la coda
dell'estate cominciava a sfaldarsi tra le ombre d'ottobre. Per un
po' ha fatto la spola tra la collina e la città, fino al definitivo
rientro nella casa bolognese, dove riprese possesso dello studio
ricavato in un garage. Col tempo il locale aveva assunto l’aspetto
di un bazar della poesia, con telai, tele e foglietti sparsi qua e
là, con le suppellettili imbrattate di colori, con pennelli e
spatole di fianco a caraffe e a scatole di toscanelli, secondo un
organizzato disordine che solo un artista poteva prevedere e
intendere.
Rossi si alzava molto presto al mattino e come
d'abitudine scendeva subito nello studio. È morto davanti al
cavalletto, aveva appena delineato un mazzo di fiori. I primi tocchi
di colore dovevano far rivivere l’essenza del modello: larghe
colate di rosso e di verde per rigenerare il riflesso di una visione
racchiusa in un vaso. La tela è rimasta là, sul cavalletto,
circondata da una miriade di tubetti e di pennelli, fra i segni di
una vita intera. Se Rossi avesse dovuto scegliere il modo di morire,
certamente avrebbe scelto questo. È stato come un lampo che l’ha
preso fra le sue cose. Il tempo di guardarsi attorno, di sentirsi
smarrito in una distanza infinita. Rossi è morto un giorno
d'ottobre. Faceva ancora caldo. Sembrava che l’estate non dovesse
aver fine. |
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