ILARIO ROSSI  incisore     back            home page

 

 

 

   La faccia nascosta della luna  Franco Basile       

   Incidere la pittura  Adriano Baccilieri

   Ricordando Ilario Rossi  Vittorio Mascalchi

   L'Amico Ilario Pompilio Mandelli

   Dall'opera incisoria di Ilario Rossi.........;  Clemente Fava

 

 

     Re Enzo Editrice, Bologna, 1999

 


 

 

 

 

1 - La faccia nascosta della luna 

Franco Basile 

La pratica incisoria è l'aspetto meno rivelato dell'opera di Ilario Rossi. Pochi conoscono questo risvolto creativo anche per la ritrosia dimostrata dall'artista nel proporre un capitolo che è stato comunque parallelo a quello pittorico, se non un approfondimento segnico di ciò che sarebbe stata l'estensione cromatica di un pensiero. Parte da lontano la traccia calcografica di Rossi, un primo cenno critico viene fornito da uno dei suoi primi maestri, un uomo che ha sempre primeggiato nella sua memoria. "Il Corso d'incisione, nella Regia Accademia di Belle Arti di Bologna, fu istituito il 1° gennaio 1929. Ebbe l'incarico dell'insegnamento il prof. Augusto Majani che lo tenne fino alla mia nomina a titolare della cattedra, avvenuta il 1° febbraio 1930. Dato che la scuola funziona da pochi anni, non posso parlare di artisti di valore che in essi si siano formati ma semplicemente di allievi che danno bene a sperare. Essi sono: Bandieri Giorgio; Bartoli Giuseppe; Chiappelli Aldo; Mascellani Norma; Natali Giuseppe e Rossi Ilario." Sono parole di Giorgio Morandi tratte da una relazione sull'insegnamento delle tecniche d'incisione. È uno scritto essenziale e dosato negli accenti, con i nomi elencati in ordine alfabetico e con una chiusura in linea con l'enfatizzazione nazionalistica di quei tempi, sebbene anche in questo caso Morandi non si lasci prendere troppo dall'onda emotiva che all'epoca pareva trasportare tutto e tutti. "Insisto maggiormente sull'incisione a puro segno perché è stata una delle prime tecniche tradizionali dell'incisione classica italiana". Una prima e remota citazione dunque, e da un uomo non troppo tenero nei giudizi. Si era agli inizi degli anni Trenta, Rossi si è diplomato nel 1933, aveva ventidue anni. Morandi doveva aver notato il suo segno forte e sicuro, una peculiarità che non lo avrebbe mai lasciato pur negli attraversamenti di scuole e di indicazioni linguistiche. Il '33 è un anno cruciale per lo svolgimento calcografico, pochi dipinti all'attivo, per lo più incunaboli di una poetica già allora rivelatrice di una immersione nelle atmosfere capaci di trasformare in enigmi cose e situazioni che l'abitudine rende opache. Una decina di dipinti in sette anni a partire dal 1927, venti acqueforti nell'anno del diploma contro una sola tela. Il '33 è l'anno di maggiore attività incisoria, il resto del tempo segna una produzione altalenante: un'acquaforte nel 1935, una nel '40, quindi 14 anni senza produrre una sola lastra, dal 1941 al 1955, mentre i dipinti si succedono regolarmente con punte particolarmente alte nel '44 e nel '50. Niente, comunque, in rapporto agli anni Sessanta e Settanta, con una cinquantina di tele nel solo '60 e addirittura un centinaio nel 1970. Il ritorno alla lastra è nel 1955, ma si deve attendere il 1975 per assistere, fino al 1994, a un succedersi di lavori senza stacchi temporali, a una produzione mai intensa ma graduale e cronologicamente ordinata. Centododici le incisioni fino ad oggi registrate, rare vernici molli, tre puntesecche su alluminio, il resto è rappresentato da acqueforti su zinco o su rame. Condensare in poche pagine lo svolgersi di un'esistenza artistica è semplicemente impossibile. Racchiudere in qualche foglio ansie e umori, poesia e tormento, è come pretendere di delimitare l'estensione di un'anima. Non sono molti i racconti che Rossi ha scritto sulla lastra, eppure in ognuno di essi c'è un'idea, un piccolo mondo dove il sapore del magico si mescola alla memoria, e dove il mistero di un'ombra si fa stenografia del silenzio. Tutto questo sin da talune opere degli esordi, in quelle carte dove già misurava la memoria con quanto gli si parava dinanzi agli occhi, anticipazioni di quel naturale declinare del paesaggio che lo avrebbe portato alle consonanze informali dell'Ultimo naturalismo arcangeliano, alle declinazioni della così detta "scuola romana", a quel fare in sintonia con le calibrate variazioni geometriche e tonali di un De Stael, memore sempre del tratto e dei colori di Morandi, partecipe di un mondo che immaginava disseminato di specchi deformanti, capaci quindi di ricreare la realtà, la stessa che egli amava reinventare spalancando la finestra su paesaggi contigui alla memoria e alla fantasia. Certo, risalire a una vita intera leggendo un centinaio di fogli non è semplice, sebbene in ognuno di essi vi sia il riassunto di un periodo. Si può tuttavia intraprendere un appassionante viaggio attraverso il ricordo, leggendo i segni scavati dall'acido o attraversando il tempo sfiorando il reticolo che forma una casa, un tratto di collina, una figura di donna. Vien da pensare che le incisioni siano la controparte della pittura, ma non è così sebbene Rossi non abbia mai nascosto il grande piacere del colore, quella sostanza che da sola o agglutinata in fasi tonali era sufficiente, ai suoi occhi, a definire qualsiasi cosa. Amava il colore, la sterminata produzione pittorica ne dimostra il primato. Era come se un rosso o un giallo facessero parte insostituibile della poesia. Aveva impiegato il colore anche in un'edizione grafica, forse il nero lo turbava, come un segnale della notte. Amava dipingere, affondava i pennelli nei luoghi dello stordimento finché il lato dove tutto gli sembrava mancare si dissipava tra le maglie del supporto telato. Probabilmente il nero acuiva il sentimento di caducità che il poeta nota ovunque, innanzi tutto in se stesso. Eppure è dal nero che i cento fogli traggono alimento, un nero magari illuminato da isole senza inchiostro, da spazi dove la stasi assolata di un'estate si fa riflesso di nuovi incontri con la luce. Cento e passa incisioni che si ricollegano ai giorni di Morandi e che costituiscono un inusuale rendiconto di tante sollecitazioni emotive. Inusuale per Ilario Rossi, scopertosi incisore quasi per caso nonostante l'avvio fulminante del '33, quando in un solo anno realizzò un quinto della produzione di sessant'anni di creatività. L'idea di mettere ordine a tutto il proprio percorso non l'ha mai presa troppo seriamente. Il lavoro era una costante disorganizzata. "Dicono che le opere sopravvivono agli uomini - ricordava strascicando la erre e dando una tirata all'inseparabile toscano -: sai che cosa mi interessa dei giudizi della gente quando non ci sarò più?". Forse era solo apparente questa forma di disincanto. Una volta unì a un racconto inedito di Francesco Arcangeli un gruppo di sue incisioni. Fu nel 1982, Estati bolognesi è il titolo del lavoro. Il clima descritto è quello di una città dove le ore della notte paiono incollate alle ombre predestinate alla solitudine. "...Un'altra estate è incominciata... Ricordo una nobile stagione, un'estate sospesa in un sudario di nubi pallide, dorate: banchi di cielo che parevano fermare le speranze e le fantasie ai loro confini..." Alle pagine di Arcangeli le incisioni di Rossi fanno da assorto controcanto. Anche in queste carte il linguaggio grafico è sicuro, il tratto icastico sebbene intervallato a vuoti come sospensioni del respiro. Il racconto risale al 1943, c'era la guerra, nelle parole di Arcangeli Rossi deve essersi ritrovato fino a rivivere le proprie, distanti notti bolognesi. Un'estate lontana, calda come quella vissuta cinque anni fa, poco prima di andarsene per sempre. Anche alla presentazione del volumetto ci fu chi si sorprese di fronte alle illustrazioni di un artista ritenuto eminentemente pittore. Pochi ne immaginavano un simile risvolto linguistico. Del resto Rossi non aveva mai fatto molto per far conoscere tutti i tratti del proprio esercizio poetico, quasi considerasse l'incisione una questione personale, come si può facilmente intuire dal modo in cui riuniva i fogli, ovvero cartelle sparse qua e là, o in cassetti che ogni volta che venivano aperti era come mettere le mani in una scatola a sorpresa. Osservare queste carte è come seguire le indicazioni di un pensiero destinato a congiungersi all'ultima periferia del tempo. Sia pur senza un preciso ordine cronologico, si può ripercorrere, sollecitati anche dal lato fantastico, un intero tracciato esistenziale. Sfilano quindi i fogli come anelli di una lunga catena dove le cose e la natura sono gli interlocutori primari di una costante corrente emotiva. Ecco un paesaggio degli anni Trenta accanto a uno di quei nudi forieri di stenografici torsi, ecco uno scorcio del Navile, un lembo degli anni giovanili che si unisce ai modelli di una natura morta. Ed è una natura morta la sua ultima incisione, quasi un'eco inconscia della sublime serialità del Maestro di via Fondazza. Pochi oggetti, una rappresentazione dalle linee essenziali e impaginata in un contesto dove la geometria è sostenuta da linee poliverse, comunque indicative di un esercizio sicuro, capace di costruire nella luce l'essenza di un modello. Nelle traslazioni della natura come nell'architettura derivante dagli oggetti, è chiaro come il segno tenda a tenere insieme i diversi aspetti della realtà. Anche nell'incisione Rossi ha dato voce al senso del tempo, c'è riuscito segnando lo zinco nel modo più attento e sottile, oppure riducendo, attimo dopo attimo, i ritmi scanditi dalle ombre, i riflessi delle albe e dei tramonti, qualcosa che interpretava dalla cima di un colle, o che immaginava sotto la lampada di un garage. La raccolta grafica di Rossi è composta prevalentemente di prove uniche e di tirature minime: "pochi esemplari", s'è spesso dovuto annotare. Abbiamo ricordato come tenesse i fogli sparsi ovunque, in mezzo a volumi o nei cassetti dell'arruffato studio che aveva in subaffitto con una Polo. Di giorno lui, di sera l'automobile. Ora l'ambiente è stato riordinato, alle pareti appaiono molti suoi lavori, sul cavalletto è rimasta un'opera incompiuta, un grande mazzo di fiori. È morto mentre lo stava eseguendo, versione colorata di un tema che poco prima aveva affrontato sulla lastra, e cioè due delle quattro incisioni eseguite durante l'ultima estate vissuta a Monzuno. Rossi non si è mai fatto prendere dalla smania di lasciare qualcosa ai posteri, tipo volumoni pesanti come sculture. Chissà perché, si convertì invece all'idea di un libro che riunisse l'opera grafica. L'altra faccia della luna, sembrava dire scartabellando nei cassetti. E così, a poco a poco, foglio dopo foglio, ecco ricostruita una vicenda tratteggiata sulle lastre. Negli ultimi tempi aveva intensificato l'attività, come a voler tenere in esercizio la mano. Non aveva tentennamenti nel delineare il profilo di una collina o una natura morta i cui oggetti parevano uniti dal filo del ricordo morandiano. Pochi fogli, la faccia nascosta della luna da presentare come memoria di altrettanti stati d'animo, fogli come segnalibro di una vicenda che al colore unisce l'inchiostro. Le lastre sono state forse supporti di un piccolo mistero, una questione personale che l'artista ha lungamente tenuto nelle zone dell'arcano per rivisitarle di tanto in tanto come si fa con i ricordi che si vuole rapportare al presente. Ora sono qui, pagina dopo pagina, brevi resoconti di una storia iniziata tanto tempo fa sotto lo sguardo accigliato di un uomo come Morandi. 

 

2 - Incidere la pittura 

Adriano Baccilieri

 Rari e rarefatti sono i segni nella pittura di Ilario Rossi: ora traiettorie che delineano, quasi sdefinite, limiti o lontananze di confini fra campiture dipinte, siano figure forme o astrazioni; ora intrecci fitti e rappresi, spesso graffiti, disseminati come un contrappunto saliente, forte ma isolato, nello spartito ampio e sovrano della pittura. La struttura dell'immagine è come innervata da pochi, indispensabili elementi che ne assestano l'equilibrio; ma, sulla trama dissolta o contratta dei segni, che esalta un'arcana qualità 'totale' dei colori, prevale la seducente armonia del registro cromatico-materico. L'incisione vive invece dell'intensità e della ricchezza dei segni; il segno sta all'incisione come un verso alla poesia. Non è superfluo, credo, dettare queste premesse alla lettura dell'incisione, in Rossi. Ilario Rossi era 'costituzionalmente' pittore, per doti anche coltivate ma congenite, e genetiche persino, se si risale al talento artistico di suo padre Ferdinando, che è una figura da riconsiderare. La libertà di una pittura istintiva e immediata, larga e pastosa, come Rossi l'ha sempre intesa, e felicemente compiuta nella qualità delle sue essenze cromatiche, appare in contrasto con lo spirito di disciplina che l'incisione richiede, con la prassi, il metodo e la tecnica, a tempi lunghi e passaggi anche indiretti, necessari per trasformare l'intuizione di un disegno in un foglio stampato. Sono note anche le doti di Rossi disegnatore: un tratto scorrevole, quasi continuo ed unico; spesso il solo contorno di una figura o poche linee compendiarie in altri soggetti. Se si pensano i disegni di Rossi risolti in incisioni, appare evidente che la caratteristica del suo 'segno' ben si presta ad una traduzione testuale nella tecnica della puntasecca; ne reperiamo qui, infatti, alcune belle prove. L'acquaforte è però altra cosa; impone ritmi diversi rispetto alla conversione, relativamente rapida e diretta, di un disegno (e del segno relativo) in puntasecca. L'aspetto poietico dell'incisione, e dell'acquaforte in particolare, è poi contestuale a quello tecnico, e interdipendente. L'incisione è 'antica' perché 'ritualizzata' nei tempi lunghi del pensiero che la intuisce, la sviluppa, la realizza e, contestualmente, della mano che disegna, poi incide e passa al torchio la lastra, dopo aver polita la matrice, passata la cera e affumicata la lastra; e, in seguito, acidata (a più morsure, se necessario), inchiostrata e impressa sul foglio, anch'esso oggetto di scelta e di cure secondo i mille diversi artifici dei singoli autori. Poetica e tecnica costituiscono, nell'incisione, recto e verso di una stessa medaglia creativa più che in ogni altra disciplina artistica, e condizionano il 'modus operandi' dell'autore. Fissata tale nozione, intere stagioni della storia dell'arte potrebbero essere percorse indagando, nell'opera di vari artisti, le diverse (e perciò eloquenti) gerarchie che si istituiscono fra le singole discipline di lavoro. Quanto al rapporto pittura-incisione, nel nesso qualità-importanza, è difficile romperne l'equilibrio in Durer e Rembrandt; è possibile pensare ad una parzialità in Hogarth e Goya (incisione l'uno, pittura l'altro; forse); è facile esibire la radicalità del sommo Piranesi, che si vota interamente all'incisione, abdicando al ruolo di architetto. Non sono che pochi esempi, estensibili. Punto di riferimento e partenza, prossimo a Rossi in ogni senso, ed altamente emblematico, è il caso di Morandi; difficile dire quale sia, nella sua opera, la 'musa maggiore' fra pittura ed incisione: così simili, così diverse, così necessarie l'una all'altra, entrambe capitali. Ilario Rossi, votato alla pittura, ha 'trascritto in corsivo' lo statuto capitale dell'incisione in Morandi (e la relativa concezione, figlia della storia e dell' 'antico') prima che le sue immagini. L'universo di Morandi, vicino e remoto, quotidiano e fuori dal tempo, comunque assoluto e perenne, riacquista - nella riflessione 'corsiva' di Rossi - un assetto effimero, come se l'iconografia morandiana fosse collassata in reticoli e trame allentate, nella fibrillazione dei segni, nel soffio lacunoso dei bianchi che spazzano la penombra dei chiaroscuri. Ma il 'morandismo' (testuale nella 'Natura morta' del '33, ma già reso 'corsivo' nella nutrita produzione coeva), o un certo 'neomorandismo' (inizio e fine anni Ottanta; vedute di Monzuno in particolare), pur costituendo un riferimento inevitabile per l'autore e chi ne scriva, non basta a risolvere in giudizio l'opera di Rossi incisore, proprio perché nell'intrigante 'ripetizione differente' offerta in versione corsiva consiste un segno di originalità (forte nella 'vibrata' esecuzione di 'Strada, alberi e case', '33), che consente infine a Rossi di sottrarre l'immaginario di Morandi al suo 'profondo', o alla sua intangibilità ('Albero', 'Piccolo paesaggio con pagliaio', '33). Contemporaneamente, con intelligente curiosità, l'artista rincorre altre sollecitazioni, fra Seicento bolognese e Carracci, fra il gandolfismo francesizzante (Romagnoli docet?) del 'Nudo di schiena' e il piccolo 'Autoritratto' da espressionista francese. Rossi trova poi, nella seconda metà degli anni Trenta, registri ed accordi affatto propri, amalgamando esperienze culturali acquisite (anche Cézanne attraverso Morandi, influssi della Scuola romana, la lezione 'francese' di Corsi) con intuizioni ed invenzioni proprie. Anche l'incisione registra questo progresso, prima di avviarsi ad un lungo silenzio nel quale la pittura domina, assoluta protagonista. E' dunque naturale che, in seguito, le acqueforti di Rossi abbiano a prevalente riferimento i temi (e la concezione!) della sua 'musa maggiore', piuttosto che quelli di un disegno specifico per la grafica. Ricorre così l'impressione espressa in apertura di scritto circa una compatibilità, fra pittura ed incisione, che appare 'critica' nell'opera di Rossi, vista la sua valenza espressamente pittorica. Ma un'eccezione esiste, non a caso sorretta dall'intervento del colore, di ben sei colori: sono le straordinarie acquaforti-acquatinte del '58, in perfetta linea e sintonia con i dipinti corrispondenti, i quali segnano forse la stagione più importante nel percorso di Rossi, quella di un 'ultimo naturalismo' tachiste, destaeliano, quasi 'autre'. Eccezioni a parte, nella più generale condizione dialettica di lavoro, fra pittura e grafica, occorrerà reperire il senso e i significati che ispirano Rossi incisore; là dove interviene una volontaria, e quasi metodica chiave di riflessione grafica sui temi della pittura. La 'musa maggiore' dell'artista si offre alla rilettura di una 'musa minore' sensibile ed accorta, vibrante ed analitica. Sostanze, colori, forme, toni, tocchi e campiture della pittura ne escono come radiografati, in negativo; e, per effetto più che per compiuta traduzione, l'aura della pittura resta affidata alla sola persistenza della sua nervatura segnica - ora svelata, e infittita nell'affioramento - che prima appena trapelava, a tratti, nella trama dei dipinti. La sinopia grafica, pensata certo, ma mai tracciata o solo accennata, mentre quadro per quadro Rossi svolgeva il racconto della pittura, infine si rivela. L'incisione ridefinisce, per segni, intrecci e qualche chiaroscuro, l'impianto grafico dell'immagine che la pittura ha sdefinito - di fatto o solo virtualmente - nei suoi impasti e negli spessori, mentre il pennello prendeva a trascorrere la tela. La pittura, per Rossi, è emozione diretta, azione; l'incisione si impegna a riconoscere il 'rimosso' della pittura, facendo emergere dal suo stato emozionale il segno, l'insieme dei segni della coscienza. Si è detto emozione; ma subito - nella pittura - questa si fa taglio, e invenzione (nel senso etimologico) del soggetto, o, meglio, 'sigla'. Così i paesaggi di Rossi, prima di essere anche un angolo specifico del mondo, del 'suo' mondo, sono l'idea e la memoria indelebile, filtrata da occhio e cuore, che l'artista bolognese ha della sua terra. E, analogamente, le figure: spesso un 'paesaggio del corpo', nudi sensualmente adagiati con la dolcezza di una collina. O l'insieme nutrito di composizioni, figurali o astraenti, risolte da Rossi grazie a quella stessa 'architettura', essenziale e rarefatta, che regge gli altri temi. Una 'sigla' che ricorre nel grande affresco, virtualmente unitario, del suo lavoro, rendendolo affatto singolare; una sigla della quale il catalogo completo delle incisioni offre ora una sorta di segreto, e perciò attraente, codice di identificazione.

3 - Ricordando Ilario Rossi

Vittorio Mascalchi

La prima volta che incontrai Ilario Rossi fu in via Della Grada a Bologna nella Scuola-atelier magistralmente tenuta da suo padre Ferdinando, eravamo agli inizi degli anni '50 e mi stavo preparando per l'esame di ammissione all'Accademia di Belle Arti. Lo ricordo come un signore alto, ben vestito, con una parlata dall'inflessione tipicamente francese; quella prima immagine che ebbi di lui mi è rimasta impressa nella memoria. Successivamente, ero ancora studente iscritto all'Accademia, quando, assieme a Frasnedi, Barilli e Leonardi, miei inseparabili compagni di corso, frequentavo assiduamente il Circolo di Cultura di via Rizzoli dove spesso mi capitava di incontrarlo e di fermarmi a parlare con lui. Molto tempo dopo, quando insegnavo già all'Accademia, ebbi modo di frequentare con assiduità Ilario Rossi, appena chiamato a tenere la cattedra di decorazione durante il periodo più acceso della contestazione studentesca. Erano anni fortemente politicizzati, che hanno finito per coinvolgere l'Accademia di Bologna. Ricordo che i Collegi dei professori, durante le lunghe e periodiche occupazioni dell'Istituto da parte del Comitato di lotta degli studenti dell'A.A.B.B., spesso si svolgevano, in forzata trasferta, presso l'ospitale Convento di Santa Maria delle Grazie in via Siepelunga. Durante un breve periodo, eufemisticamente definibile di difficile gestione, in cui Ilario Rossi era direttore, ebbi dal Collegio l'incarico di vicedirezione. In quella condizione di totale sbandamento, di fronte ad un modo profondamente diverso di vedere e di concepire l'arte, messa addirittura sotto accusa, andavano cadendo, sotto i duri colpi della contestazione giovanile, tutta una serie di convinzioni sull'arte e sulla cultura, producendo una forma di generale smarrimento assai simile, ritengo, a ciò che l'Informale ebbe a produrre sulla precedente generazione dei maestri. L'Accademia forniva uno spaccato di forte riscontro generazionale, che si esprimeva negli interventi e nei comportamenti dei singoli professori. Ilario Rossi apparteneva alla cosiddetta generazione di mezzo, quella che aveva vissuto militarmente la guerra e che artisticamente aveva contribuito a formare, in quegli anni a Bologna fortemente caratterizzati dall'ultimo naturalismo arcangeliano, il clima a suo modo eroico da ultima avanguardia che caratterizzò tutto l'Informale; di quella esperienza Ilario Rossi ne ha certamente portato il segno. Devo altresì aggiungere che l'assidua frequentazione con gli ultimi maestri, mi riferisco qui a Bologna, soprattutto a Guidi e Morandi, ha finito per influire in modo altrettanto profondo su chi, come Ilario Rossi, ne era stato allievo e aveva poi avuto modo di godere della loro amicizia e della loro assidua presenza. Il gusto della battuta detta, della storiella spesso sarcastica, raccontata con compiaciuta ironia a caffè o lungo i corridoi dell'Accademia, non era solo una maniera di passare piacevolmente il tempo ma era anche un modo per esprimere giudizi e fare cultura. Quelle consuetudini, tipicamente bolognesi, inclini più al sodalizio discreto ed appartato che alla mondanità più esposta, hanno caratterizzato anche la lunga stagione informale bolognese. L'impegno formale e di poetica di un nutrito fronte di pittori quasi tutti operanti a Bologna, a parte Ennio Morlotti e pochi altri d'area soprattutto torinese e lombarda, che s'identificava con le teorizzazioni di Francesco Arcangeli, mi riferisco all'ultimo naturalismo al quale Ilario Rossi partecipò attivamente come protagonista, costituisce un'esperienza che oggi, se considerata con il sufficiente distacco che solo il passato consegnato alla storia consente, può assumere un senso di rinnovata attualità. Il recente e da più parti auspicato recupero dei valori rappresentati dalla tradizione, unitamente al ritrovato interesse per la pittura, che in tempi di sperimentalismo integrale e di radicale internazionalismo, potevano apparire come dei limiti, stanno ora rivelandosi temi di grande attualità e argomento di discussione per il dibattito sull'arte. Ho da sempre sostenuto che il neo naturalismo o ultimo naturalismo vada letto e inteso come una sorta di controcanto a quel grande movimento internazionale che fu l'Informale, contrassegnato da una vena struggente, appassionata, in ogni caso lirica, profondamente connessa ai tempi naturali, a localizzazioni geografiche precisate e che ha contribuito, in modo assolutamente autonomo, a fornire un approccio con il dato naturale sempre riconducibile al luogo stesso della ricerca, a volte identificabile con esso, comunque profondamente radicato al suo passato. La stessa grande cavalcata storica da Wiligelmo a Morandi, presentata da Francesco Arcangeli in una sua memorabile mostra bolognese come ponte ideale tra passato e presente, ora, in clima di critica alla modernità, viene ad assumere il valore di un testamento che, nel tempo, sta rivelando tutta la lucidità che solo le indicazioni profetiche contengono. È noto che solo gli antecedenti storici del neo naturalismo, Francesco Arcangeli li faceva risalire agli impressionisti e soprattutto a Monet, piuttosto che ai graffiti degli indiani d'America, così come era nota l'alta considerazione in cui teneva l'opera di Giorgio Morandi da lui considerato come l'ultimo erede della nostra gloriosa tradizione. L'importanza di quel particolare momento e dei pittori che, come Ilario Rossi ne sono stati protagonisti, sta soprattutto nel fatto di avere ricercato e sperimentato nuovi modi di interpretare il dato naturale nella piena consapevolezza della propria memoria storica. L'opera pittorica di Ilario Rossi testimonia di come tradizione e innovazione siano ancora le due facce di una stessa medaglia e queste sue acqueforti e puntesecche così bene eseguite a puro segno, come a suo tempo gli aveva insegnato Morandi, ne sono un'ulteriore e autorevole prova.

4 - L'amico Ilario

Pompilio Mandelli

Il primo incontro con Ilario Rossi fu piuttosto turbolento. Eravamo nel 1932 e una mattina di gennaio o forse di febbraio, Ilario entrò, assieme a Pino Natali, nell'aula di Figura disegnata del Liceo Artistico di Bologna, mentre noi dell'ultimo anno eravamo intenti a seguire la lezione del prof. Giovanni Romagnoli (Ilario era già iscritto all'Accademia e frequentava il corso di Decorazione, diretto dal prof. Achille Casanova, il noto affreschista della Basilica di S.Antonio da Padova). I due dell'Accademia, con in mano i loro berretti azzurri da goliardo, ci chiesero l'obolo per la realizzazione del carro rappresentante le Belle Arti nella sfilata alla festa delle matricole. Il carro progettato per quell'anno era dedicato alla figura di Marinetti-cuoco, l'ideatore del Futurismo, che in una serata a Bologna, molto movimentata, si era scagliato contro la cucina tradizionale bolognese, proponendo le nuove ricette dell'arte culinaria futurista, fra le quali era in evidenza quella del risotto all'arancia. Noi della IV liceo decidemmo di non aderire alla colletta, perché convinti che il carro dell'Accademia dell'anno prima, intitolato "Natura morta '900", con una enorme bottiglia, un candeliere, un vaso e una specie di manichino, dove tutto traballava, fosse stata una canzonatura all'arte del prof. Giorgio Morandi. Sul carro "Morandi" (progettato da Ilario) divampò, tra alcuni di noi liceali e i due dell'Accademia, una discussione abbastanza animata, tanto che il prof. Romagnoli c'invitò ad uscire nel corridoio, dove la diatriba si fece più accesa, ma poi tutto finì presto, con qualche spintone e alcune parole assai poco gentili. Ricordo che il carnevalesco carro marinettiano (ideato da Ilario) ottenne un caloroso successo. Fu un indovinato fantoccio allegro di cartapesta (caricatura di Marinetti, vestito da cuoco, e plasmato dagli allievi dello scultore Ercole Drei) che mangiava da un enorme piatto lunghe tagliatelle al ragù, mentre gli studenti attorno gozzovigliavano e si buttavano torte in faccia. Per diversi anni, con Ilario, ci perdemmo di vista. Io frequentai l'Accademia e prestai servizio militare, mentre Ilario insegnava alla scuola d'Arte di Castelmassa sul Po. All'Intersindacale di Bologna nel 1938, mi assegnarono il 1° premio. Alla mostra trovai Ilario (aveva vinto lo stesso premio due anni prima) e da allora, credo ebbe inizio la nostra amicizia. La primavera del '40 ci colse mentre eravamo a Venezia, io e l'amico, con altri 14 pittori impegnati a dipingere ad affresco, ognuno un proprio pannello, sulle pareti delle prime sale del padiglione centrale della Biennale (eravamo stati scelti dopo un concorso nazionale: Ilario fra i rappresentanti dei sindacati degli artisti, io fra gli iscritti ai GUF studenteschi). Nell'autunno del 1941, nella saletta del sindacato di via Castiglione 25, venne allestita una collettiva presentata da Francesco Arcangeli in cui io e l'amico esponemmo fra Virgilio Guidi, Carlo Corsi, Corrado Corazza, Cleto Tomba, Cafiero Tuti e Giovanni Ciangottini. Ancora Arcangeli presentò l'anno dopo (1942) Tre pittori e uno scultore (Ciangottini, Mandelli, Minguzzi, I. Rossi) alla Galleria "Ciangottini" di Bologna e Tre pittori (Ciangottini, Mandelli, I. Rossi) alla Galleria "Il Ponte" di Firenze. Quante volte avremo esposto insieme, Ilario ed io, nella nostra lunga carriera, nelle Mostre Studentesche, Sindacali, Intersindacali, Esposizioni Nazionali, Mostre a premio (così in voga negli anni '50) e nelle tante e tante gallerie private? Forse più di un centinaio di volte, e sempre con armonia, sincera amicizia e stima reciproca. Nel dicembre 1945, a guerra finita, venne il momento straordinario di "Cronache", la galleria di Piazza della Mercanzia, voluta e gestita da Aldo Borgonzoni, Carlo Corsi, Luciano Minguzzi, Ilario Rossi e da me, che svolse, per alcuni anni, un programma rivolto alla contemporaneità, allestendo mostre collettive di carattere nazionale e le nostre cinque personali. La mostra dei pittori Barnabè, Borgonzoni, Ciangottini, Mandelli e Ilario Rossi, che esposero con 10 opere ognuno, dal 29 novembre 1946 nella Sala degli Svizzeri di Palazzo d'Accursio, organizzata, tramite Cesare Gnudi, dal Gruppo Intellettuali Labriola, scatenò, dopo l'articolo di Nino Bertocchi dal titolo Pittori e no, uscito nel quotidiano bolognese "Rinascita" del 10-11 dicembre, un vero pandemonio, con polemiche a non finire. Vennero pubblicate "lettere aperte" degli artisti (su "Rinascita"), risposte e controrisposte nei vari giornali: "Il Progresso d'Italia", "Cronache", "L'Avvenire", con articoli di Gian Carlo Cavalli, Corrado Corazza, Lamberto Priori. La "Mostra nazionale d'arte contemporanea", aperta nel salone del Palazzo del Podestà di Bologna, dal 17 ottobre al 5 novembre 1948, è entrata nella storia. Alla rassegna, organizzata dall'Alleanza della cultura bolognese, parteciparono 41 artisti, fra pittori e scultori, rappresentanti le forze giovanili italiane (i pittori bolognesi erano: Baldinelli, Barnabè, Borgonzoni, Cassanello, Ciangottini, Mandelli, Minguzzi, Pancaldi, Romiti e Ilario Rossi). Dopo la stroncatura di Palmiro Togliatti, su Rinascita, furono promosse e svolte nella sede della mostra tre giornate di convegni, conferenze, dibattiti con la partecipazione del pubblico, degli artisti espositori e di molti critici arrivati da tutt'Italia. In quei giorni di novembre fu dichiarata la fine del "Fronte nuovo delle arti" e si aprirono le strade al "Realismo sociale" e al venturiano "Gruppo Astratto-Concreto" del Gruppo degli otto; ma fu anche il lancio delle idee per una terza forza collegata al naturalismo esistenziale arcangeliano (F. Arcangeli: Astrattismo e Realismo, "La Fiera Letteraria", 12.12.1948). Ma ecco giungere il 1954, l'anno della nascita dell'Ultimo naturalismo, al quale Francesco Arcangeli darà l'avvio in settembre, scrivendo il famoso saggio: Gli ultimi naturalisti ("Paragone", 59). Lo scritto, dove l'aggettivo 'ultimo' andava inteso come senso dell'estremo limite, della perdutezza estrema, lascerà tracce profonde e sbocchi inconfondibili, valorizzando certe caratteristiche d'una pittura dell'area lombarda-emiliana-piemontese. Dello stesso critico uscirà nel gennaio 1957, sempre su "Paragone" Una situazione non improbabile, dove viene chiarito il concetto di Arte e Vita tra Storia e Critica, mettendo in rapporto l'Ultimo naturalismo con l'Informale americano e francese. Ilario Rossi era partecipe alla situazione arcangeliana tramite una ricerca personale e attiva, contribuendo con la così detta "generazione di mezzo" al rinnovamento della pittura italiana. E a proposito riporto alcune frasi di Arcangeli scritte per Ilario nel 1958: "(...) Le strutture moderne, di traslata eredità cézanniana, le alternative e sperimentazioni tecniche della pittura di materia, o di quella che gli americani chiamano 'pittura d'azione', fanno ormai corpo con le doti provate di Rossi: basterebbe vedere con quale padronanza, con quale golosa ma trattenuta dolcezza egli stenda con la spatola gli strati del suo colore, nutrendone gli accordi lungo una gamma talvolta piacevole, talvolta semplice e austera: spesso rara. In questo impasto non facile è presente la vita (...)".

5 - Dall'opera incisoria di Ilario Rossi.........;

Clemente Fava

Dall'opera incisoria di Ilario Rossi.........;

incisione per segni, acquaforte e puntasecca,

nella forma più autentica, che rivela la

qualità materica e microstrutturale del

segno a stampa; gesto-segno istantaneo e

mutevole, ridefinito nel tempo, scelto

dall'artista nel Suo misurarsi con la

matrice metallica e le morsure...........;

 

vigorosi segni-trame aperti alla luce,

profili di figure, paesaggi e oggetti,

trame-strutture geometriche si stagliano

nette nello spazio trasfigurandosi

ammorbidite dalla luce........................

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