La prima mìmàmsà si basa su interpretazioni dei Veda, catalogando i suoi enunciati in varie categorie, ad esempio:
vidhi (le prescrizioni)
sedha (le denominazioni)
mantra (le formule rituali)
testi esplicativi delle ingiunzioni e delle interidizioni.
Questo minuzioso lavoro di catalogazione non è ancora di per sé filosofia, ma lo diventa in seguito con le discussioni e le polemiche che è portata a fare contro le altre scuole; quello che più spinge alle polemiche con le altre filosofie è proprio l'affermazione che i Veda sono un'entità eterna che non ha bisogno di essere rivelata con una divinità (tesi del carattere naturale ed eterno dei suoni del Veda); il loro essere è la sacralità. La mìmàmsà riflette quindi sui meccanismi ontologici che impediscono la rivelazione della totalità dei Veda tranne quelli indispensabili a chi li pronuncia, ascolta e comprende determinate parole vediche; anche questo principio ha portato questa filosofia a dei conflitti, sia fra brahmanici (con la Nyàsa) che in ambienti esterni. E' andata a costituire così una dottrina detta della giusta conoscenza, facendo posto alle forme empiriche o mondane della conoscenza (la percezione, l'inferenza in base alla percezione, la supposizione necessaria ecc.). Ha anche gettato le basi per una epistemologia, spingendo l'esegesi non solo in India, ma anche in altre parti del mondo, come studio fondamentale di una scrittura, fissandone parecchi punti (il ruolo che ha la posizione di una parola nella frase, la teoria del contesto eccetera) e definendo una dialettica utile sia a queta cerchia che a quelle degli avversari.
La concezione del sacrificio, come già detto al punto dei Veda, è quasi del tutto rovesciata rispetto a come era in principio, prima di subire l'influenza delle Upanishad. Il sacrificio infatti diventa un atto impuro, anche se effettuato per fini nobili e/o importanti. Tutto questo è scaturito anche dalla non forte influenza della "òegge del karman", il Samsara, per cercare di spiegarsi meglio senza tradurre il termine: se il sacrificio è un atto così forte da permetere il realizzarsi della richiesta in un periodo futuro, vuol dire che tale potenza, nel caso il desiderio non venga avverato in vita, o come succederà più tardi, riguardi una migliore vita dopo il decesso, può rimanere a lungo, anche dopo la morte, perché l'energia necessaria al compimento si conserva fino a quando non si presenta un'occasione adatta al suo sprigionamento (tutto questo ragionamento, e tale nesso prende il nome di àpurva). a questo punto si arriva alla conclusione che l'individuo, per fruire di questa energia, debba continuare a vivere dopo la morte... si intende bene quindi che il sacrificio non fa che mettere in moto, e farlo continuare, il Samsara, il ciclo delle reincarnazioni. Anche nella Bhagavad Gìtà si dice qualcosa di simile: qui si incita la gente a spogliarsi della propria individualità e interesse personale con l'azione fine a stessa (per la concezione Mìmàmsà il sacrificio diventa appunto un'azione fine a se stessa).
Secondo questa corrente filosofica del Brahmanesimo, il mondo non è mai stato creato né distrutto, è così, come sempre è stato: tale affermazione richiama l'essere assoluto dei veda, che mai erano stati scritti, sono testi eterni. Le azioni sono l'oggetto principale del Mìmàmsà sutra, intese come dharma; queste sono catalogate secondo uno schema semplice:
obbligatorie, se la loro esecuzione è ritenuta indispensabile poiché altrimenti ne deriverebbbe un demerito;
opzionali, se la loro esecuzione è ritenuta facoltativa, poiché non ne deriva demerito;
proibite, se la loro esecuzione crea un demerito.
Naturalmente al dharma è legato il karman, e così nuovamente al concetto di liberazione di esso; inizialmente questa scuola non si era occupata di ciò, ma in seguito, come per il sacrificio l'azione passò a dover essere fine a se stessa:questo è ciò che afferma Prabhàkara (VII secolo d.C.), aggiungendo che la liberazione verrà dalla cessazione del merito e del demerito. Il suo contemporaneo Kumàrila afferma invece che è la meditazione il mezzo per liberarsi, negando gli aforismi di Prabhàkara. Questo stesso personaggio aveva anche combattuto mordacemten per la scomparsa del buddhismo in India, e riuscì nel suo intento.
La prima mìmàmsà sembrerebbe bastare a se stessa, ma in realtà non è così. Partendo dall'enunciato che il brahmano Udalaka Aruni disse a suo figlio Svetaketu, «tat tvam asi» (tu sei questo), si denoteranno subito i fini differenti di questi due darçana. «Tat tvam asi» significa infatti «tu nella tua attuale situazione psicologica sei identico al principio ultimo (=bràhman)»; la mìmàmsà conosce questo termine, ma solo sotto la forma concernente l'efficacia del sacrificio, il vedanta invece provvede a fornire la conoscenza del bràhman senza la via del sacrificio. Il nome stesso definisce questo concetto: vedanta viene da veda anta, cioé parte ultima del Veda o cambiamento del Veda. Il Vedanta ha un triplice punto di partenza, detto "prastana traya"; tale punto di partenza è costituito dalle Upanishad, dalla Bhagavad Gìtà e da una raccolta di sùtra detta Brahmasutra (aforismi mnemonici sul bràhman).
Ciò che è venuto a prodursi è un ennesimo commento di questi tre testi, ma oggi come oggi quei commentatori per noi sono solo dei nomi, perché successivamente, più precisamente nell'VIII secolo avanti Cristo, un commentatore di straordinaria bravura definirà con la sua arte la definitiva forma del vedanta. Tale commentatore è Çamkara. L'opera di questo illustre fu quella di spiegare lì dove non era arrivata la mìmàmsà il tat tvam asi con nuove parole. Da un lato (mìmàmsà) dobbiamo porre l'identità assoluta sull'atman col bràhman, dall'altro (vedanta) si parte dalla propria esistenza umana per arrivare a eliminare quello scarto che non ci concede di arrivare a tale identità. In primo luogo avremo così una teoria che ci spiega la nostra percezione del bràhman, che ce lo fa trovare in ogni essere, ma in realtà è tutto l'opposto, ovvero nel brahman si uniscono tutti i corpi. Çamkara continua spiegando che quando si prova a fare deduzioni dall'esperienza si incontra una miriade di contraddizioni perché non si può spiegare la natura della pluralità; tali contraddizioni vengono considerati dei segni per andare a cercare altrove, e l'illustre stesso traccia un itinerario di pratiche per cercare di arrivare al loro significato iniziale. La meditazione riparte nuovamente dal tat tvam asi, e da una parte (tat) si mostra che il bràhman non è un'entità trascendente, ma ce n'è una sua presenza perfino nei nostri ragionamenti. Sette o otto secoli prima di Descartes egli elabora un procedimento riflessivo sulla presenza del bràhman che anticipa largamente il «cogito ergo sum»: la presenza del bràhman è definita dall'affermazione della persona prima dello spiegamento dei mezzi per la retta conoscenza. Tutto questa però non è solo una trattazione filosofica di un argomento, Çamkara infatti fornisce la via per arrivare da soli al tat tvam asi, lineamenti essenziali definiti dal nome "nididiasana"; poiché questa serie di processi portano a un risultato decisamente alto, fa allontanare l'individuo dalle mondanità perché non ne è più attratto, non gli sono utili, e si ha così la liberazione del karman, cioé quella ripercussione degli atti compiuti nella vita che mandano avanti la ruota delle trasmigrazioni; continuando su questa strada l'individuo può liquidare il suo karman "precedente" e avere una specie di fusione col bràhman, che sarà la sua liberazione. Çamkara si ferma qui, a questo limite, dato che oltre non si riesce a spiegare se non tramite giustificazioni, ma non con deduzioni.
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