CAPITOLO 3 (Una precisazione e qualche sviluppo)

3.1) Ma che cos'è (per noi) la realtà?

Arrivati a questo punto dell'esposizione si rende necessario occuparci di una questione fondamentale per gli ulteriori sviluppi dell'argomento, premettendo subito la ovvia considerazione che parlando di realtà noi non possiamo che riferirci strettamente a quella parte di universo che "in qualche modo" si rende a noi accessibile, mentre di una realtà "globale", fuori dei nostri orizzonti attuali di conoscenza, non possiamo affermare nulla, se non di immaginarla nella sua sconfinata e "plurale" possibilità di esistere. Rimanendo però nel campo "minimale" della realtà antropica e una volta posta la sua dualità in due ambiti completamente differenti e separati, si pone tuttavia il problema di definire ciò che li accomuna. Dunque, se la materia e l’aiteria sono forme della realtà concernenti l'uomo debbono possedere un denominatore comune, quello appunto di essere reali. Ma reali rispetto a chi, a che cosa, e in base a quali criteri?

Prima di affrontare l’argomento penso non sia fuori luogo un breve accenno storico sul concetto di realtà attraverso i secoli, semplificandone molto i termini. Sfrondando la selva delle definizioni penso che possiamo limitarci a prendere in considerazione le due risposte estreme a tale domanda. La prima recita che la realtà è costituita da ciò che è reale "in sé", indipendentemente dal fatto di essere o no percepito o pensato dall'uomo, la seconda che deve considerarsi reale tutto ciò che può essere pensato dall’uomo, poiché il "pensare" è un dono divino che non ci può ingannare. Una variante intermedia ed "effettuale" di questi due punti di vista (la nostra) è quella che considera reale ciò che produce effetti sull'uomo, sia sotto il profilo fisico sia sotto quello psichico; in altre parole, tutto ciò che viene percepito come causa esterna di qualche effetto sul corpo o sulla mente. Ma ciò con la consapevolezza che la realtà che ci circonda può essere enormemente più ricca e complessa di quanto sia a noi dato accedere.


Ci troviamo di fronte ad atteggiamenti opposti che hanno caratterizzato fin dall’antichità l’opposizione tra chi considera la realtà a partire dalle "cose" che esistono e chi la considera a partire dall "uomo" che le percepisce e le pensa. Kant affermava che le cose "in sé" sono inconoscibili in quanto sottratte ai nostri sensi e quindi soltanto pensabili (noumeni), e che di esse noi possiamo dire qualcosa solamente per "come ci appaiono", ovvero come fenomeni. A questo tema si innesta quello che mette in luce la differenza tra l’apparire e l’essere, per cui il fenomeno, al di là del suo "darsi", non mi dice nulla di più sull’ente o sugli enti che lo producono. Questo sdoppiamento della realtà, di origine platonica, oltre che un significato gnoseologico (fissare i limiti della conoscenza) nasconde tuttavia anche un significato ontologico, poiché la "cosa in sé" (noumeno) si colloca in una sfera superiore, nella quale ha sede quell’intelletto divino che può conoscere, in quanto ne è creatore, la natura segreta delle cose. Da ciò ne trarranno le conseguenze gli idealisti tedeschi dell'800, che negando la separazione noumeno/fenomeno ne faranno momenti diversi del processo di realizzazione dello spirito nella materia.

Mentre noi rifiutiamo di considerare la mente dell'uomo termine di misura della realtà, avanziamo invece un concetto analogico rispetto alla coppia fenomeno/cosa in sé, ma in un accezione del tutto diversa. Da un punto di vista strettamente antropico (quello per noi possibile) l'esistente, o meglio l'esperibile, è un'entità complessa (e duale nella sostanza), che per un verso offre le sue denotazioni alla conoscenza (in quanto fenomeno fisico) e per un verso le cela al marginedi sé, offrendole soltanto all’intuizione. Nel DR però non esiste una gerarchia di valori tra ciò che si esplicita ai sensi e ciò che si esplicita all’intelletto, come voleva Platone e come (in parte) sottintendeva anche Kant.Quindi sul piano assiologico materia ed aiteria sono assolutamente equivalenti ed è esclusa qualsiasi derivazione o gerarchizzazione.

In realtà è chiaro che non si tratta tanto di un "nascondersi" della cosa, quanto soltanto di un'incapacità dell'uomo di coglierla compiutamente. Il caso dei suoni può chiarire il concetto esposto: gli ultrasuoni e gli infrasuoni sono reali e l'uomo infatti li può misurare (coglierli con l'intelletto) ma non li può sentire, per contro altre bestie, come il pipistrello o il cane, hanno questa possibilità. Ciò vuol dire che la nostra percezione non è del tutto affidabile, e questo significa che ciò che sfugge ai nostri sensi non è detto che sia irreale e neppure che abbia uno status diverso rispetto a ciò che viene percepito. Questa precisazione va fatta preliminarmente, proprio perché, coerentemente con la nostra tesi, dobbiamo aggiungere subito che tra ciò che non viene percepito di un oggetto vi potrebbero essere qualità immateriali offrentesi soltanto alla sensibilità intuitiva. Di ciò di cui non è possibile esperienza sensibile (dei sensi) ci può tuttavia essere intuizione da parte di altre funzioni mentali (intelletto ed idema), senza che vengano meno i requisiti essenziali affinché l'esperienza che ne facciamo possa essere definita assolutamente reale.

Sarebbe peraltro fuori luogo ritenere la mente dell'uomo termine di misura della realtà; come dire dell'esistenza o dell'inesistenza di qualcosa. Se l’esistenza, ovvero la realtà, riguardasse non oggetti o fatti materialmente percepibili ma invece gli oggetti del pensiero (è il caso di Dio, ma può esserlo anche di ogni entità immateriale in generale), il quale diventerebbe pertanto "giudice di realtà", le conclusioni sulla loro esistenza e realtà diventerebbero pure tautologie prive di fondamento. Nel campo delle realtà non percepibili dai sensi e non rilevabili strumentalmente (è il nostro caso) si rende pertanto necessario porre alcuni criteri fissi (potremmo anche chiamarli "regole di realtà") che devono risultare sempre rispettati affinchè un oggetto o un accadimento possano considerarsi "reali" all’interno del nostro discorso. Il rischio è infatti quello che esperienze di singole persone, in circostanze particolari (il soggetto che esperisce soffre di disturbi della psiche o è sotto l'effetto di stupefacenti) vengano considerate reali nella loro singolarità senza dover rispondere a criteri di carattere universale. Bene inteso esse possono restare reali per il singolo (nel senso che reali ne sono gli effetti), ma non possono essere prese in considerazione ai fini di una ricerca che concerna l'uomo in generale e le realtà da esso percepite o intuite. In ordine di importanza il DR pone pertanto quattro requisiti indispensabili quali criteri di esperienza della realtà: a) l'universalità, b) la ripetibilità, c) la costanza e d) la normalità.


Ma vediamoli nel dettaglio. Universalità significa che l'esperienza deve essere possibile e documentabile relativamente a individui di qualsiasi razza o condizione e in qualsiasi parte del globo. La ripetibilità dell'esperienza deve essere possibile in qualsiasi luogo e circostanza in grado di produrre gli elementi costituenti l'esperienza stessa. La costanza riguarda il fatto che esista una sufficiente documentazione al riguardo, per cui si possa asserire con certezza che già anche in passato ci sono state persone che hanno vissuto quell'esperienza e che tutto lascia prevedere che in futuro essa continuerà a verificarsi. La normalità infine, richiede che l'esperienza si verifichi in condizioni ambientali prive di caratteri di eccezionalità e in presenza di più persone che possano testimoniarla.

Evidentemente i principi posti sono del tutto convenzionali, ma le restrizioni che impongono hanno lo scopo di lasciare ai margini delle nostre considerazioni oggetti percepiti o fatti che possano essere ascritti a fantasia, illusione o suggestione.



3.2) A proposito di filosofia, anzi di extrafisica.

Secolari e dotte disquisizioni si sono sviluppate su una classificazione delle branche della filosofia dalle quali ci terremo alla larga. Per quanto riguarda il DR io penso che possiamo semplificare le cose utilizzando la definizione di riflessione fisica per ciò che ha come oggetto d’indagine la materia ed extrafisicaper ciò che ha come oggetto "ciò che materia non è". Tuttavia va detto che la nostra extrafisica raccoglie anche alcuni aspetti della metafisica classica (intesa nel senso letterale di "oltre la fisica") della qule riprende certe domande fondamentali del tipo "che cosa siamo?", "da dove veniamo?", "dove andiamo?", e simili. Colgo tuttavia qui l’occasione per ribadire che il DR non esaurisce per nulla l’indagine extrafisica, poichè esso si occupa fin qui soltanto di una forma semplificata ed elementare di pluralismo della realtà, quella dei due aspetti di essa "accessibili all’uomo". In realtà il pluralismo, almeno per il momento, resta una pura ipotesi fantafilosofica, ma nessuno ci vieta di pensare che il nostro gatto esperisca realtà a noi precluse, che in una galassia lontana ci siano ci siano forme di vita del tutto diverse da quelle terrestre, oppure che, qui sulla Terra, tra qualche milione di anni compaia un’animale molto più evoluto dell’homo sapiens e quindi in grado di intuire tipi di realtà "ancora più nascosti" che a noi sono irrimediabilmente preclusi.

Sono consapevole che rivolgendomi all’uomo comune, alle prese con i cento problemi del vivere e del sopravvivere, in un mondo di contingenze talvolta sfavorevoli, diventa difficile ricevere attenzione quando si pongono certe domande che l’extrafisica fa proprie. Perciò sono disposto ad ammettere che essa, in una classifica virtuale delle attività "inutili" al vivere quotidiano (occupandosi di visioni del mondo e della vita, sia pure con la presunzione di aiutare a capire qualcosa di più sul "mestiere di vivere") si collocherebbe sicuramente al vertice, mentre in un'altra relativa a quelle "utili" occuperebbe la posizione di coda. In questa seconda classifica ovviamente al primo posto starebbe il mangiare, al secondo il dormire, al terzo fare l'amore, al quarto divertirsi, al quinto pregare Dio e via calando, fino a quest'ozioso e qualche volta pericoloso perditempo "dilettantesco" di cui stiamo parlando.
Eppure in ogni epoca c'è sempre qualche matto che corre dietro alle domande che pone la nostra extrafisica, mentre basta possedere quanto basta di una fede religiosa per avere già belle e pronte tutte le risposte utili. So poi altrettanto bene che nessun disoccupato delle bidonvilles africane o delle favelas del Sudamerica, ma anche qualsiasi cacciatore eschimese dell’Artico o un isolato pastore del Sahel potrebbero perdere il loro tempo e le loro energie con l’extrafisica. D’altra parte così è stato per centinaia di migliaia di anni per gli uomini dell'Europa Occidentale, finché il problema della sussistenza e della sopravvivenza ha occupato le menti d quei nostri avi lontani, forse più capaci delle nostre ma sovraoccupate dalle contingenze, sotto il giogo delle quali non avevano certo il tempo per dedicarsi alle oziose riflessioni filosofiche che io propongo. In altre parole, la filosofia, di qualsiasi tipo, è fatta per chi ha almeno la pancia piena.

Tra noi occidentali ben pasciuti ormai dell’extrafisica in cui credo (quale metafisica riformata) mi sembra che se ne occupino in pochi; questo dovrebbe darmi il vantaggio di dovermi confrontare con pochi concorrenti. L'esercito dei professori poi è in tutt’altre faccende affacendato, occupandosi più "specialisticamente" di ermeneutica, di epistemologia, di logica formale e semmai di "storia" della filosofia, come se ormai delle classiche domande metafisiche che ci hanno tormentato per secoli se ne potesse solo più fare l'archeologia. Quindi per le già citate domande del tipo "chi siamo?", "da dove veniamo?", "dove andiamo?", insieme ad altre oziose e connesse amenità, sembra che nessuno abbia più tempo per occuparsene. Forse perchè il supermercato delle religioni ha già venduto da millenni ottime risposte con le quali non conviene mettersi in competizione. Eppure anch’esse, sembrerebbe, da qualche tempo hanno visto restringersi il loro mercato, sofferente di un avanzante ondata di indifferenza, almeno nel mondo industrializzato. Va riconosciuto peraltro che alcune di esse, come il Cristianesimo, sono riuscite a far fronte a tutte le crisi generate dal progresso scientifico, con un trasformismo ideologico che ha fatto dei teologi i migliori sofisti (in senso corrente) di tutti i tempi. Per tacere dell'Islamismo, che ha risolto il problema semplicemente ignorando la scienza ed eleggendo il Corano a legge totalizzante, che tutto divora con la "sua" verità, alla quale è dovuta cieca obbedienza. Ma per chi avesse gusti diversi le offerte in ogni caso non mancano e alcuni modernissimi sincretismi promettono una miracolistica pace interiore insieme ad uno stato fisico eccellente. Alla fin fine, in questo mondo supertecnologico che molto ci dà, ma qualcosa anche ci toglie, il consumismo ideologico sembra avere due indirizzi prevalenti dove vengono offerti due tipi di merce: o il "da sempre garantito" teismo abramitico onnirisolvente o lo scientismo rampante che promette, tra qualche anno, di spiegarci che cos'è l'anima e come funziona. Così, tra chi vuole andare sul sicuro e chi punta tutto sull'inarrestabile progresso scientifico, che dovrebbe aprirci tutte le segrete porte dell'esistenza, quale terza via affidabile sembra non rimanere altro che il salto verso est e (stracciando il velo di Maya) abbandonare la vile materia e perseguire il nirvana sull'ottuplice sentiero e simili.

Questo peregrino libretto vorrebbe invece rivolgersi anche a quei pochi o molti, passati sotto tutti i ponti dell'incredulità, ancorà lì a porsi le solite antiche domande che la vecchia metafisica poneva, addentrandosi per meandri contorti e oscuri dove un esercizio riflessivo apparentemente inutile costa molto senza garantire nulla. Esercizio che non si avvale di nessuna rivelazione, nessuna profezia, nessuna tavola della legge, nessun'arca dell'alleanza e nessuna ultima cena, che suggellino il dono divino delle regole del buon vivere e del miglior morire, per coronare infine l’iter esistenziale con la partecipazione alla divina beatitudine. Niente di tutto questo nell’extrafisica, ma semmai, metaforicamente, il deserto senza fine, tra nuvole di sabbia, sole a picco e notti gelide, in attesa che qualche oasi si profili all'orizzonte.


L’extrafisica è incompatibile col materialismo e in contraddizione con l’ateismo? Molti potrebbero dirvi di sì, ma lo affermerebbero in base a schemi precostituiti che io spero verranno presto abbandonati. Quello che io non posso fare a meno di ribadire, quasi tautologicamente, è che il DR è "materialista" e "aiterialista" nello stesso tempo e proprio per questo "ateo"; poiché solo scoprendo quell’oggetto nascosto della nostra intuizione è possibile finalmente seppellire i feticci che l’hanno sostituito per millenni. E ciò diventa possibile nel momento in cui ci si decida ad abbandonare quel tradizionale monismo dogmatico che imperversa da sempre e vuole che le dimensioni della realtà abbiano un unica origine e un'unica causa, per cui una genera l'altra o viceversa.

Per i teisti e per gli idealisti la materia deriva dallo spirito, mentre per i materialisti è ancora sempre la materia che genera lo spirito (o quello che i primi definiscono tale). Nel DR l'idema è quella "funzione" della mente materiale (accanto a psiche, intelletto e ragione), la quale, come un'antenna immersa in quella dimensione "altra", capta ed elabora una sostanza che è da sempre separata dalla materia. Questa sostanza, che noi sperimentiamo nei sentimenti, nelle emozioni estetiche, negli entusiasmi conoscitivi e in altre forme di esperienze "irriducibili" alla materia è una realtà che l’uomo intuisce "da sempre", ma che ha attribuito ad ipostasi sovrannaturali o divine che l'hanno fagocitata, mistificata o cancellata.

Abbiamo già detto che il DR presenta i connotati di una filosofia rozza e che insieme esibisce alcuni aspetti pragmatico-esistenziali paralleli a quelli di una religione. Questo potrebbe indurre qualcuno a scambiarlo per qualcosa di simile ad un sincretismo(65) tra credenze in entità immateriali e assunzioni filosofiche di pretto stampo materialistico. Questo è prevedibile e per nulla sorprendente. Relativamente alla sua "rozzezza" si deve sperare che colga nel segno, poichè quello che qui viene esposto "deve" essere anti-intellettualistico, e quindi filosoficamente anche un pò rozzo, per essere compreso virtualmente da chiunque. D’altra parte il DR vuole essere un pensiero anche pragmatico, vale a dire "pratico"; che deve quindi servire "per la vita" (come sono le religioni) e non solo "per la cultura", come purtroppo sono troppo spesso le filosofie. In quanto all’eventuale accusa di sincretismo ritengo sia sufficiente riflettere sul percorso che ha portato alla formulazione del DR e i termini in cui esso si pone per renderla inconsistente, ma so bene che qualcuno non si darà la pena di rifletterci e che quindi, acriticamente, non si farà scrupoli di avanzarla.
Il tema dell’extrafisica mi offre anche l'occasione di esprimere il mio punto di vista su quella che io considero filosofia "esistenziale", poiché ritengo che una filosofia "esistenzialmente utilizzabile" non può essere quella che riempie di sé le biblioteche e le aule universitarie, producendo dotte disquisizioni e raffinatezze dialettiche, ma piuttosto quella che fornisce qualche indicazione su come guardare l'universo e gestire un pò meglio la vita, nel breve e nel lungo termine, in questa "valle di lacrime" dove l’ignoranza e la sofferenza ci attanagliano. Pertanto, secondo il mio modesto parere, abbracciare una vera filosofia dell’esistenza è sempre quell'avvenimento per cui "ne va della vita".



3.3) Finalità e casualità

Tutte le teorie finalistiche immaginano sempre dei processi al termine dei quali viene raggiunta una mèta stabile e definita. Questo spiega perché tutte le religioni e molte filosofie sistematiche hanno carattere finalistico (o teleologico = tendente a un fine), nel senso che presuppongono un "fine" (o causa finale) precostituito, a cui, nei vari campi di riferimento, soggiacciono tutti i processi e tutti i meccanismi di causa/effetto; dove pertanto le diverse classi di fenomeni si connettono, si integrano e si dispongono verso una conclusione "necessaria"(66). A questo atteggiamento si oppone un virtuale "casualismo"(67) (non esiste un indirizzo filosofico con questo nome), che attribuisce invece al caso l’inizio di ogni fenomeno di vera trasformazione. Finalismoe "casualismo" sono allora rispettivamente analoghi (ma con diverse sfumature di origine e significato) a determinismo e indeterminismo, coi quali peraltro sarebbe un errore confonderli. Il DR, che nega qualsiasi tipo di finalità in ogni campo di processi e l’impossibilità di predire il corso e il risultato di essi può essere considerato quindi una forma di casualismo e nello stesso tempo di indeterminismo.

Sotto il profilo esistenziale sono le religioni monoteiste a presentare aspetti marcati di finalismo, in quanto Dio è la causa originaria e il fine ultimo a cui tende tutto ciò che esiste, ma aspetti finalistici sono presenti anche nelle religioni orientali (Induismo, Buddhismo e Taoismo). La salvezza dal peccato come il nirvana, la perfezione come lo spirito assoluto, costituiscono il "fine" irrinunciabile a cui tendere. A questo aspetto si collega spesso un significato assiologico del fine, che è superamento e abbandono di condizioni imperfette o inferiori.

Storicamente il finalismo, prerogativa irrinunciabile dei sistemi di pensiero rigidi e dogmatici (definibili anche ideologie), implica quasi sempre sia la mèta da raggiungere, sia il percorso. Mèta e percorso sottindendono anche ciò che viene spesso definito il "senso" in un’ideologia. Per questo si sente spesso dire che "ha senso" soltanto ciò che prevede un fine determinato o vi tende.
Tale impostazione finalistica fa sì che si renda sempre necessario ricercare dei rigorosi rapporti di causa/effetto, fissare antecedenze e conseguenze, trovare una giustificazione per tutto ciò che accade e un’origine definita per tutto ciò che è, o avviene. Penso di poter dire che questo principio, che chiamerei anche "della mèta a tutti i costi", sia un a priori che ha imperversato fin troppo nella storia dell’umanità, determinando spesso dogmatismi forieri di fanatismo ideologico, con conseguenze devastanti sul piano civile, nonché sul piano gnoseologico e su quello esistenziale. Per questo l"indeterminazione", e specialmente il caso, sono stati espunti da tutte le religioni monoteiste e da molte filosofie basate su sistemi chiusi di pensiero. Al contrario, il caso, come "risultante" di cause sconnesse (68), è, secondo il DR, l"anomala" (multidirezionale) e inidentificabile causa di momenti molto importanti di tutta la macrorealtà.

Tuttavia l’atteggiamento casualistico/indeterministico non porta necessariamente ad un relativismo radicale e ad un assenza di valori. È l’accusa che viene spesso gettata addosso all’ateismo in generale in quanto priverebbe la vita di ogni senso, dando luogo e corso ad un caotico e disordinato "tendere" sostanzialmente verso il male. Questa forma mentis che demonizza l’indeterminazione (69)è sicuramente dovuta alla struttura della nostra psiche, la quale, oltre che fortemente conservatrice, riesce a rimanere ad un basso e salutare livello di tensione quando può contare sull’immagine di un mondo ordinato e possibilmente finalizzato. Ma non minor peso ha in ciò il fattore culturale, in quanto le istituzioni in generale e i poteri dominanti in particolare hanno sempre favorito l’instaurarsi di weltanschauungen (concezioni del mondo) che in modo esplicito o implicito prevedano finalità positive sia a carattere sociale che individuale. Tutto ciò ha fatto si che "ordine" e "fini" siano diventati per irrigimento culturale un’esigenza della quale è difficile sbarazzarsi. In altre parole; la "richiesta" finalistica in termini psichici rimane molto alta e ciò emargina ogni filosofia di carattere casualistico e indeterministico.

Va anche notato che pur avendo appaiato, dal punto di vista dei significati, finalismo e determinismo, e pur avendo evidenziato, ai fini del nostro discorso, il carattere finalistico delle ideologie religiose e delle filosofie idealistiche, nondimeno, quando si parla correntemente di Determinismo ci si riferisce a una corrente di pensiero opposta ad esse e specificamente materialistica. Secondo questa concezione (che può essere fatta risalire agli antichi atomisti greci), ma teorizzata ed espressa compiutamente soltanto nel XIX secolo (70), tutti i fenomeni naturali sono soggetti al principio di causa, per cui ogni fenomeno è "determinato" da leggi necessarie e universali. In questa concezione del mondo è sottinteso che la realtà è soltanto fenomenica e che si manifesta in un processo temporale dove ogni accadimento è effetto di un fenomeno precedente e causa di uno successivo. Quindi, contrariamente al DR (che ammette il caso come effetto di cause "sconnesse" e potenziale modificatore di strutture e leggi) nel Determinismo le cause sono sempre "connesse" e rispondenti ad una necessità "assoluta" e inviolabile, basata su leggi fisse e non soggette a variazioni di sorta.

Ma allora, relativamente al "senso", come si colloca il DR? Diciamo subito che la prospettiva che il nucleo dell’individualità (l’idema), costituito di materia, sia l’attore del processo formativo di un elemento di aiteria, destinato forse a sopravvivere alla morte del corpo, non significa in alcun modo che l’idioaiterio sia un "fine" rispetto alla individualità materiale da cui proviene. Bisogna piuttosto abbandonare il pregiudizio "deterministico" ed entrare in un ordine di idee "possibilistico", per cui una realtà non unica, ma plurima, può in teoria ammettere l’esistenza, oltre che di più universi, anche di più forme di realtà all’interno di uno stesso universo. Il collegare la parola realtà a consistenza, solidità o permanenza è un vecchio pregiudizio materialistico che deve essere abbandonato, pena il rinchiudere la conoscenza in una scatola buia senza porte nè finestre. In questa prospettiva il DR, senza esorbitare dai limiti dell’intuizione, ammette tali possibilità, che diventano credibili nel momento in cui si esca da quella metaforica scatola chiusa e si acceda ad un atteggiamento euristico, che privilegi la ricerca rispetto alla definizione.



3.4) Le leggi e il caso

Quando, verso la fine del ‘600, Newton pubblicava i suoi Principia, sembrava che il celeste orologiaio avesse rivelato al pio Isaac i segreti meccanismi della sua creazione e mostrato un universo regolato da inflessibili leggi fisiche, che parevano disegnare, una volta per tutte, l’immagine definitiva del cosmo. Immagine dove le parti si coordinavano col tutto e nella quale ogni cosa era al suo posto e di quel posto e dei comportamenti della cosa parevano ormai svelati tutti i misteri. Un cosmo perfettamente ordinato, un cosmo-macchina, che accontentava tutti, razionalisti e irrazionalisti, scienzati, filosofi, teologi, e che doveva rimanere sostanzialmente valido sino a tutto il XIX secolo.

A rompere questa immagine idilliaca e rassicurante ci avrebbe pensato prima Einstein con la Relatività Generale, che faceva corrispondere la massa all’energia e che legava la sua teoria all’impressionante velocità della luce, e poco dopo gli sviluppi della Meccanica Quantistica e della nuova biologia. Ma a quel che già si sapeva della complessità del cielo si aggiungevano intanto nuove nozioni su ciò che sta "fuori" del nostro minuscolo sistema solare, dove ci sono stelle che collassano a nane bianche o a stelle di neutroni, dove le supernovae esplodono, dove ci sono coppie di stelle nelle quali una cannibalizza l’altra ed infine galassie che si allontanano in un universo che "gonfia" (che si espande). Se poi ci riferiamo alla nascita della vita sul nostro pianeta, dovuto con buona probabilità a un evento casuale, e alla casualità della posizione di un elettrone "guardato", ci si rende finalmente conto che la rigidità unitaria delle leggi della natura era stata una bella e consolante invenzione della nostra psiche, priva di riferimenti alla realtà.

Il caso è un fattore della realtà che agli scienziati e ai filosofi in generale non è mai piaciuto troppo, perchè se lo si tira in ballo saltano per aria tutte le definizioni chiare e riferibili a principi immutabili. Anzi, esso sfugge addirittura a una definizione di sé che non sia approssimativa o relativistica. E tuttavia i numerosi filosofi amanti del concetto di causa, pietra angolare di tutti i sistemi, non sono mai riusciti a sbarazzarsi del tutto di esso, malgrado il loro probabile segreto desiderio di non doverne più parlare "definitivamente". Se non ché il caso, gira rigira, ricompare sempre come un’araba fenice a inquietare i sonni di quegli iper-razionalisti che vorrebbero razionalizzare tutto.

Traggo dal dizionario dell’Abbagnano (58) tre principali linee interpretative di questa "bestia nera" della filosofia: 1) l’imprevedibilità e l’indeterminazione del caso dipende da ignoranza o confusione nel capire le cause, 2) si tratta di evento dove le cause si mescolano e s’intersecano, 3) si verifica quando le probabilità sono insufficienti per prevedere un accadimento. La 1) e la 3) hanno carattere soggettivistico e solo la 2) attribuisce una certa oggettività al caso ed è quella che noi assumeremo, magari nella variante che lo vede quale conseguenza della "pluralità e dell’intreccio delle cause"(59) . Noi ci permetteremo un’ulteriore piccola variante, definendo il caso come la risultante di cause "sconnesse", nel senso che, indipendentemente dal numero e dalla complessità delle cause che concorrono, il problema non sta tanto nell’intersezione-intreccio di esse, ma nel fatto che si connettano verso un risultato prevedibile e ripetibile oppure no. Dove poi abbondano le intersezioni e gli intrecci è quando si riferisce il caso alla necessità e alla libertà, ma qui occorre dire che il caso può essere chiamato in causa a proposito di entrambe, senza che si possa dire se egli le concerna veramente o le favorisca, dal momento che egli si rapporta ad esse proprio...."a caso".

Naturalmente non c’è bisogno di sottolineare troppo che esso è, oltre che la bestia nera della filosofia, anche "l’intollerabile" di tutte le religioni e soprattutto di quelle monoteiste, per le quali prenderlo in considerazione in termini reali equivale a una bestemmia. Su questa entità fantastica e scomoda ci si potrebbe soffermare a lungo, ma non voglio dilungarmi più del necessario ai fini essenziali che mi sono proposto. Perciò concluderei il discorso dicendo che forse il caso sarebbe definibile come quel folletto bricoliere e burlone che si diverte a prenderci in giro, mettendo insieme tutte quelle cause che "dovrebbero" deterministicamente o provvidenzialisticamente restare separate e che invece si sovrappongono. Per questo motivo anche quei materialisti che hanno bandito la provvidenza per aderire alla "religione" della ragione deterministica e finalistica vorrebbero vederlo svanire nel nulla. Quel nulla da cui esso proviene e di cui ha rotto l’uniformità, facendo sì che da qualche parte "ci fosse qualcosa". Buon motivo, se non altro, per definirlo come la remota "origine" di tutte le cause.

Il caso rappresenta inoltre un interessantissimo elemento di riferimento per lo studio psico-sociologico dell’uomo, in quanto oggetto di una "fobia" che ha accomunato e accomuna vastissimi strati della fauna umana, dalle dottissime eminenze grigie della cultura agli ingenui primitivi con l’anello al naso. Il rifiuto della casualità si manifesta in quella profonda e perversa manìa che è la superstizione, in tutte le sue forme: essa infatti non è altro che l’esorcizzazione del maledetto e intollerabile caso. Ciò porta a ritenere (o inconsiamente a volere) che gli accadimenti non possano mai essere imputabili al cieco e neutro caso, ma che (invece) ciò che avviene (a me o a tutti) sia sempre colpa di qualcuno o di qualcosa; il ché corrisponde alla "personalizzazione" della causa, e ciò è verosimilmente alla base di tutte le buffissime forme in cui si manifesta la superstizione. Allora il caso diventa un pò l’entità paradigmatica dell’indipendenza del soggetto dalle psicosi "animistiche" che affondano la loro radice nella notte dei tempi e nel profondo della psiche. Indipendenza che è il corrispettivo irrinunciabile di un’autentica libertà umana rispetto ai feticci e ai fantasmi creati dalla psiche, che sono ancora oggi gli infausti generatori del "sonno della ragione".



3.5 Perché ateismo?

Dopo aver dichiarato il mio ateismo ed essermi lasciato andare a qualche dichiarazione circa l’inesistenza di ogni divinità in generale, senza fornirne alcuna ragione di tale atteggiamento, mi corre l’obbligo di soffermarmi su questo tema e colmare questa lacuna. Come si sarà capito l’ateismo non è soltanto implicito nel DR, ma ne è per molti versi "fondamento", ed è quindi presupposto in ogni suo sviluppo. Non avrebbe alcune senso porre l’aiteria se tutto ciò che si presenta come immateriale fosse attribuibile, anche solo in via ipotetica, a qualche singola divinità (all’interno di un politeismo) o a un Dio unico che sia una summa di tutte le forme e attributi della "divinità" in generale. Ma non lo avrebbe neppure nel caso di un panteismo globalizzante, dove ogni singolo aspetto della realtà venga sussunto dalla "divinità" generale che tutto permea e comprende.

Lasciando da parte il politeismo, come forma ormai pregressa della divinità, ma per alcuni versi quasi più vicina alla realtà (come noi l’intendiamo) col suo "pluralismo attributivo", ci soffermeremo brevemente sul teismo abramitico e sul panteismo (sostanzialmente identico nelle sue varie forme). Come si sa esiste anche una forma di ateismo attenuato o incompleto, che rientra nel cosidetto agnosticismo, col quale ci si astiene dall’esprimersi sull’esistenza o inesistenza di Dio, in quanto l’una e l’altra non sono scientificamente provabili. Dal punto di vista del DR riteniamo che tale atteggiamento (in generale) sia frutto, più che di scrupoli gnoseologici veri e propri, della più o meno consapevole volontà di "non escludere" definitivamente l’esistenza di Dio, onde evitare un’orfanità totale del "padre divino" piuttosto scomoda. Ma questo è un giudizio "di parte" e dobbiamo peraltro riconoscere che questa posizione è del tutto legittima e rispettabile.

Il dibattito sull’inesistenza di Dio è molto complesso e nella sua forma moderna dura da almeno tre secoli, per cui non è questo il luogo per occuparcene diffusamente. Io mi limiterò pertanto ad alcune considerazioni sintetiche e a carattere strettamente personale, senza pretendere quindi di interpretare le ragioni dell’ateismo in generale, e quindi soltanto nei termini indispensabili per non lasciare una grave lacuna nel discorso che andiamo svolgendo.

Cominciamo col teismo: perchè "no" a un Dio-persona unico, onnisciente, onnipotente, creatore, ordinatore e trascendente? Perché esso presuppone che una volontà unica determini l’universo e questa volontà, sia pure nella sua imperscrutabilità, si riflette nel nostro imperfetto intelletto che nè è copia derivata e imperfetta, ma con esso coerente. Se la volontà è unica essa agisce senza contrapposizioni, quindi il suo progetto creativo e il suo agire sull'universo si devono presupporre improntati alla perfezione che l’onniscienza impone. Ora, risulta francamente difficile immaginare un Dio-ingegnere che nel creare un universo e dargli delle leggi per il suo funzionamento lo faccia in modo così approssimativo e caotico da permettere tante operazioni abortive e tanto spreco di energie elementari e vitali. Tutto questo poi per far funzionare un baraccone dove le stelle sarebbero lì (con tutte le loro esplosioni e i loro collassi) e la biosfera funzionerebbe (con tutta la ferocia e la complessità della selezione e della catena alimentare) soltanto per un Suo capriccio o per fare da sfondo a un animale "fatto a sua immagine e somiglianza".

Ma ancora meno credibile ci pare un secondo aspetto di quella stessa creazione che sta a base del monotesimo, in quanto la biosfera si evolve in modo prevalentemente casuale, con uno spreco enorme di vitalità, facendo pensare più che a un dio onnipotente e onnisciente a un incerto bricoliere che tenta e ritenta milioni di volte una certa mutazione genetica finchè imbrocca quella buona. In quanto poi alla cosidetta teodicea(74) e al "migliore dei mondi possibile" di leibniziana memoria, credo che soltanto una fede cieca e che nel contempo rinunci all’esercizio di quella ragione, che sarebbe "divinamente" ricevuta" e poi "umanamente" rifiutata, possa ritenerli credibili e accettabili.


Un discorso sul panteismo ha minori frecce al suo arco, poichè tutto si riduce al funzionamento e alla supposta "divina" perfezione dell’universo, quindi l’argomento contrario deve concentrarsi sul fatto che un supposto funzionamento "unitario", "ordinato" e "finalistico" cozza con la realtà caotica che l’universo offre di sé. Relativamente poi all’instabilità dell’universo stesso (che continua ad espandersi) non si vede perchè l "ordine" divino, il quale non può essere che sinonimo di "stabilità" dovrebbe presentarsi nei termini perversi, o addirituura diabolici, del "disordine" e dell"instabilità" tanto per far spremere un pò di più i cervelli di quei poveri teologi che devono riuscire in qualche modo a spiegare a quei fedeli pericolosamente dubbiosi che ciò che appare come disordinato e casuale è solo una forma degradata o contingente del perfetto ordine divino che alla fine si rivelerà in tutta la sua magnificenza.


NOTE


NOTE 3.2

(65) Dicesi sincretismo (in campo filosofico o religioso) l'unione o la sovrapposizione di idee e teorie di origine diversa.



NOTE 3.3

(66) In termini storici il finalismo nasce con Anassagora che pone l'intelligenza divina (mente ordinatrice) come causa e fine di tutte le cose. Essa "corregge" il caos primitivo attraverso un processo "ordinatore". Questa dottrina è ripresa in vario modo da Platone e Aristotile, dagli Stoici, da Leibniz e da Heghel.
(67) Il casualismo può essere fatto risalire a Epicuro nell'antichità e in epoca moderna a Peirce (tichismo). Particolarmente interessante, in campo biologico ed evoluzionistico, il casualismo di Jacques Monod, secondo il quale il caso è all'origine del sorgere della vita sulla Terra e alla base delle mutazioni genetiche, nonché dell'evoluzione della biosfera. Ma al risultato "casuale" (se il "nuovo" che ne esce è anche "adatto" alla vita) segue l'instaurazione di una "necessità" che si fissa nell'invarianza (conservazione strutturale da una generazione alla successiva) e nella teleonomia ( trasmissione dell'informazione genetica dell'invarianza stessa).

(68) Per il DR il caso è antecedente alle cause e quindi origine stessa di esse. Ma in seguito, quale risultante di cause concorrenti ma sconnesse, diventa una sorta di "fantasma" inidentificabile.

(69) Per inciso vorrei rilevare che, per contro, il principio di indeterminazione di Heisemberg è stato più volte utilizzato dagli anti-materialisti per supporre una "libertà" o una "coscienza" della materia elementare.

(70) Dopo gli atomisti furono gli stoici a sostenere un determinismo di tipo provvidenzialistico. Ma una vera teorizzazione del Determinismo è opera dello scienzato francese P.S.Laplace, che nel 1814 (Saggio sulle probabilità) fissava i termini del d. moderno nei termini seguenti: << Se in un determinato istante fossero note tutte le forze in gioco e tutte le posizioni dei corpi, sarebbe possibile, in linea di principio, prevedere tutti gli stati futuri dell'universo >>



NOTE 3.4

(71) N. Abbagnano – Dizionario di filosofia – UTET 1971 – pag.111 e sgg.

(72) Si tratta della tesi di Roberto Ardigò (1828-1920), un esponente del positivismo evoluzionistico che meriterebbe migliore attenzione da parte della cultura italiana. Come altri filosofi positivisti fu vittima nella sua epoca dell’imperante cultura cattolica ed idealistica. (60) Per animismo si intende una forma di religione molto elementare, in base alla quale ogni oggetto, o meglio ogni ogni entità singolarmente percepibile (sia essa animale, vegetale o minerale) viene considerata sede di una volontà individuale, cioè di un anima.


(73) Per animismo si intende una forma di religione molto elementare, in base alla quale ogni oggetto, o meglio ogni ogni entità singolarmente percepibile (sia essa animale, vegetale o minerale) viene considerata sede di una volontà individuale, cioè di un anima.

NOTE 3.5

(74)Ricordo che il concetto di teodicea (letter.: giustizia divina) è stato posto da Leibniz per "giustificare" l'esistenza di Dio e l'ordine della sua creazione, che possono apparire in contrasto con la presenza del male e con la libertà umana di farlo.