I. Il contesto politico e sociale
1.1 Genti e poteri
Un’indagine di carattere socio-politico non
può che partire dallo stato dei rapporti
tra dominanti e dominati, ed è ciò che
faremo anche qui poiché in nessun secolo
precedente né in alcun successivo è
messo fuoco in maniera altrettanto drammatica
il contrasto tra il potere e la
base popolare. In questo senso il Settecento
è veramente “storico” per
l’evoluzione del genere umano, poiché sono
messi a fuoco problemi sopiti da
millenni e mai affrontati. In altro senso
il Settecento è fatto di molte storie
differenti, e non solo dal punto di vista
geografico, essendo l’Europa
dell’Est, specialmente la Russia, in una
condizione ancora medioevale, e quella dell’Ovest,
soprattutto in Gran Bretagna
e Olanda, già in una condizione semi-moderna.
Il Settecento vede anche un
coacervo di aspetti contraddittori tra innovazione
scientifico-filosofica e
conservazione metafisico-ideologica; questa
sogna il ripristino
dell’unità-totalità di “potere spirituale
+ potere temporale”, cui fa riscontro
ambiguamente il sogno teologica all’unità-totalità
di una Natura divinizzata, dell’“essere
panico”. Quest’ultima si manifesta nell’Illuminismo
anche come Essere Supremo panteistico-deistico,
contrapposta al Dio cristiano, costituendo
uno dei punti focali delle ragioni
del contendere teologico. Il secolo vede
peraltro affacciarsi anche il concetto
di Stato come struttura metafisica, con una
pregnanza sconosciuta dai tempi
delle teologie medievali; ma a tale pulsione
retrograda fa riscontro anche l’innovativo
concetto di Stato quale “erogatore di servizi”
a fini eudemonistici, tale da
trasformare il concetto di “popolo” da un
insieme di “sudditi” a un insieme di
“cittadini”. Lo stato monarchico tradizionale,
riconosciuto e garantito da Dio,
e soprattutto “per sé”, si ritiene che possa
diventare uno stato “per
altro-da-sé”, ovvero per i cittadini, uno
stato servitore.
L’Europa dell’inizio del Settecento vede
quattro
nazioni trainare gli sviluppi della cultura
quasi in ogni campo, la Gran
Bretagna, le Province Unite olandesi, la
Prussia e la Francia. In campi più
specifici, come quello musicale, prevalgono
Germania ed Italia, e questa, col
suo sterminato patrimonio artistico e architettonico,
resta il centro della
cultura artistica, per quanto statico e ripiegato
su di sé. La Spagna,
politicamente potente, ma bloccata nelle
sue istituzioni, tende anch’essa a
ripiegarsi su se stessa. All’est vi è una
Polonia in crisi e una nascente
potenza, la Russia, ma ancora culturalmente
molto arretrata. Politicamente irrilevanti,
ma culturalmente allo stesso livello della
Francia, la Svizzera confederata e
l’Austria. Questa nostra sintesi, molto approssimativa,
non rende certamente
l’idea della complessità dello scenario europeo
(e soprattutto non tiene conto
degli Stati Uniti d’America) ma può aiutarci
a definire il quadro. Il secolo
vede anche la popolazione dell’Europa passare
dai circa 110 milioni del 1700 ai
quasi 180 milioni del 1780, un incremento
demografico notevole, che pone seri
problemi di disponibilità di risorse, di
alimentazione e di servizi essenziali
che spingono i politici illuminati a studiare
nuovi modi di produrre. Ma l’incremento
è dovuto soprattutto alla diminuzione della
mortalità per le migliori
condizioni di vita, l’instaurazione di più
attente norme igieniche; ed infine: meno
guerre e meno epidemie. La distribuzione
di questi fattori positivi è diseguale:
maggiore a Occidente e a Nord, inferiore
a Sud e ad Est.
La Gran Bretagna e la Francia sono le due
nazioni che, oltre ad essere importanti per
motivi culturali, costituiscono
anche due modelli amministrativi e due sistemi
di governo molto differenti. Il
già citato Pierre Chaunu, il promotore della
storiografia “quantitativa”
(ovvero statistica), trae su questo punto
conclusioni corrette: «Il sistema
inglese è molto fluido al vertice: esso assicura
una perfetta armonia tra
l’organizzazione del potere e i bisogni della
classe dirigente. Questa fluidità
al vertice si accompagna a una grande rigidità
alla base. Nella monarchia
francese avviene il contrario: la rigidità
è al vertice, il governo di ministri
e dei consigli ha perso progressivamente
la possibilità di captare gli
orientamenti e i bisogni dell’élite molto
vasta della nazione.» [1] Due
chiose: la prima è che si fa qui significativamente
riferimento solo al potere
del monarca francese e all’élite intellettuale, il popolo essendo
ancora, all’inizio del XVIII secolo, del
tutto fuori gioco. La seconda: la base
amministrativa nel sistema francese è più
articolata di quella inglese e quindi
detentrice di quelle istanze sommerse che
porteranno al rivolgimento traumatico della
Rivoluzione. Alla relativa
soddisfazione di una nascente borghesia in
un sistema duttile e liberale come
quello inglese, fa riscontro un bloccato
sistema francese, dove l’aristocrazia
ha guadagnato rendite e privilegi pur perdendo
potere politico. Ma questo
potere, sottratto all’aristocrazia, non è
messo “a disposizione” della
borghesia, ma concentrato nel monarca; sarà
proprio questa borghesia, compressa
nelle sue possibilità e frustrata nelle sue
aspirazioni, a diventare il motore
della rivoluzione. In ambito britannico,
invece, fin dal Seicento i cadetti
della gentry nobiliare, maschi e femmine, sposano spesso
i figli della yeomanry
borghese, dedicandosi ed assumendo anche
attività imprenditoriali tipiche
della upper middle class; una cosa impensabile in Francia. [2] In
Gran Bretagna si ha un’aristocrazia che si
dedica ad attività industriali e
commerciali per acquistare potere economico
e gratificazione imprenditoriale,
in Francia, invece, un aristocrazia che si
preoccupa solo di rafforzare i
propri privilegi di casta e di rendita visti
in pericolo.
Relativamente alle forme di governo
monarchico prevale nel Settecento l’assolutismo,
e solo la Gran Bretagna conta
un vero governo costituzionale e parlamentare,
con un bilanciamento tra i
diversi poteri che servirà da modello per
le democrazie a venire. Il fatto di
essere la nazione più progredita socialmente
ed economicamente, legittima
queste considerazioni del 1765 di William
Blackstone:
Il pregio del governo inglese consiste anche
nel
fatto che tutte le sue parti si controllano
reciprocamente l’una con l’altra.
Nel campo legislativo il popolo controlla
la nobiltà, la nobiltà controlla il
popolo, mediante il comune privilegio di
respingere ciò che l’altro ha
deliberato; mentre il Re controlla entrambi,
per evitare abusi da parte del
potere esecutivo. [3]
Ma
lo stesso Blackstone rilevava poi che il
re aveva ancora troppi poteri, tra i
quali la scelta dei ministri, l’influenza
sull’attività legislativa, la
decisione sulle linea di politica. Né bisogna
dare eccessivo credito al termine
“popolo”, in effetti la Camera dei Comuni,
perlopiù costituita dalla piccola
nobiltà rurale per quanto rinnovata dai mercanti,
che passano alla metà del
secolo da un nono a un quarto del totale.
Però, dopo il 1760, anche il popolo
vero e proprio comincia ad essere rappresentato
[4] . Va
tenuto presente che fin dal 1722 il re, pur
avendo diritto alla designazione
dei ministri, doveva sottoporre i loro nomi
all’approvazione del parlamento,
cosa impensabile in Francia. Non deve quindi
sorprendere se gli intellettuali
progressisti francesi vedono nel governo
inglese un modello da imitare,
quantunque sul piano democratico era ancora
migliore quello repubblicano delle
Province Unite olandesi, sia pure con alcuni
residui monarchici come la figura
dello statolder (capo dell’esercito e dell’amministrazione
pubblica). L’Olanda
era in realtà dominata dalla ricca classe
mercantile, costituta da un gruppo
quasi oligarchico di grandi famiglie, qualcosa
di simile a ciò che era stata la
Repubblica di Venezia all’epoca dei suoi
fasti. Un caso a parte la Svizzera:
libera confederazione costituita da una dozzina
di sottogoverni cantonali
governati da assemblee elettive. Vi erano
infine i “dispotismi illuminati” di
Federico II di Prussia [5] e di Caterina II di Russia e la teocrazia
della Spagna, nella quale gli autodafè e le condanne al rogo degli
eretici continuarono sistematicamente sino
al 1781 [6].
Nell’ambito dei vari regimi vi era però sempre
una confessione religiosa privilegiata ed
altre tollerate o combattute. Sotto
Luigi XV i protestanti tornano ad essere
perseguitati, in Inghilterra i
metodisti e i cattolici sono combattuti fino
alla prima metà del secolo, ma dal
1760 in il metodismo è tollerato e cessano
i moti antipapisti. Di questo nuovo
spirito di tolleranza, di cui era stato promotore
e sostenitore Locke,
beneficiano, dopo la metà del secolo, persino
gli ebrei, fino a giungere al Toleration
Act del 1689, che sancisce definitivamente l’ammissione
dell’esercizio di
fedi diverse da quella anglicana. In Francia
le cose erano andate in senso opposto;
se l’Editto di Nantes del 1598 assicurava
alla confessione protestante ugonotta
il diritto di esistere, già Luigi XIV nel
1685 la revocava. E tuttavia Luigi
XVI, nel 1787, firma un decreto che allevia
le sanzioni civili contro i
protestanti, ma contemporaneamente cominciano
a diffondersi nelle classi colte
religioni “naturali” o “razionali” come il
deismo. Qualcosa di simile ad una
“chiesa” era la Massoneria, e religione formale
l’insieme dei suoi principi
etici e dei suoi rituali. Non è un caso se,
a partire dal 1770 e specialmente
nelle élites di provincia, vi sia una certa migrazione dalle confraternite cristiane
“dei
penitenti” alle logge massoniche [7],
nelle quali, evidentemente, gli aderenti
alle vecchie organizzazioni
filantropiche vedono compatibilità con la
fede cristiana. La prima, la Grande
Loggia d’Inghilterra, è fondata nel 1717,
cui seguono le fondazioni di logge in
ogni altra parte del continente: dal 1726
in Francia e Italia, dal 1740 in
Prussia, dove nientemeno che il suo sovrano
riceve l’investitura di Gran
Maestro della Loggia di Berlino. Espandendosi
verso Est la Massoneria assunse
caratteri decisamente misticheggianti, con
richiami ai Rosacroce e ai Templari,
rafforzando gli aspetti religiosi delle proprie
strutture e delle proprie
regole.
Già nel secolo precedente i conflitti
religiosi che avevano accompagnato la Guerra
dei Trent’Anni (chiusa con la Pace
di Westfalia del 1648) avevano messo in evidenza
come la religione cristiana
covasse al suo interno terribili conflitti;
ciò alimentava negli Illuministi la
convinzione che essa fosse più un campo di
battaglia ideologica che di pace
evangelica. Il Pietismo era nato in Germania
dalla convinzione che le
sofferenze e le devastazioni di quella guerra
fossero stati un castigo di Dio
inflitto ai tedeschi per i loro peccati.
Questi esiti estremi del fideismo cristiano
trovano forme analoghe in ambito cattolico,
col giansenismo, e in ambito
anglicano col metodismo. Pietismo, giansenismo
e metodismo possono esser
considerati tre movimenti paralleli, costituenti
sbocchi settari ad un
cristianesimo in crisi, ma animati da sincera
fede, anche se spesso fanatica e
intollerante. Le guerre confessionali connesse
a quelle dinastiche avevano
devastato e depauperato gran parte dell’Europa,
ma la Francia era il paese in
maggiori difficoltà. La principessa palatina
(moglie del fratello del re) scrive
il 9 marzo 1704: «La corte non è più quella
di una volta e le sole persone che
si radunano sono quelle che stanno complottando
qualcosa. Tutti gli altri
vivono furtivamente e non c’è più allegria
da nessuna parte.» [8] Fénelon
in una lettera del 3 dicembre 1708 rileva:
« A causa della penuria di denaro manca
il necessario, sia per le roccaforti in caso
di assedio, sia nell’esercito […]
Non c’è nessuno che si occupi degli affari
di stato o qualcuno che osi
assumersi delle responsabilità […] Mancano
soldi e autorità di comando » [9]
Al fine di delineare il clima dell’epoca,
con un Ancièn Régime francese prossimo alla fine, può essere
interessante capire in che modo all’interno
di esso fosse percepito il rischio
eversivo al fine di prevenirlo e all’occorrenza
sopprimerlo. Robert Darnton ha
esaminato un quinquennio (1748-1753) di rapporti
di Joseph d’Emery, un
funzionario della polizia di Parigi, che
in quanto ispettore al commercio
librario, oltre che dei testi in circolazione
e della loro potenziale
pericolosità, doveva controllarne anche gli
autori [10]. Dai
suoi rapporti esce una galleria di personaggi
meticolosamente schedati e tra
numerosi autori insignificanti compaiono
alcuni dei philosophes più
noti. Ne deriva una serie di dati storico-sociologici
di notevole interesse in
cui, oltre a dati anagrafici e biografici,
compaiono giudizi di “buon
soggetto”, “pessimo soggetto”, “non sospetto”,
“estremamente sospetto”. Ma, al
diligente funzionario sembra completamente
sfuggito il potenziale rischio
eversivo delle discussioni che avvenivano
nei salotti, i più noti e frequentati
del tempo essendo quelli di Mademoiselle
de l’Espinasse, di Madame du Deffand e
di Madame de Tencin, insieme a quello di
d’Holbach [11]. La
cosa curiosa è che il diligente funzionario
sembra non cogliere il rischio insito
nel pensiero di quest’ultimo, forse perché
nobile e ritenuto quindi
appartenente a una classe non pericolosa
per l’establishment. Molto
pericoloso gli appare invece Diderot, D’Hémery
definisce: «È un giovane che fa
il bello spirito e si gloria della sua empietà;
pericolosissimo; parla con
disprezzo dei santi misteri.» [12]
La
perdita di potere della monarchia si fa evidente
verso la metà del secolo, il
parlamento comincia a trovare nell’opinione
pubblica un forte e inedito alleato;
le strutture monarchiche ne sono preoccupate
e Chrétien-Guillaume Malesherbes (intelligente
ministro della giustizia) le presta notevole
attenzione. Per la prima volta
nella storia della Francia pareri e decisioni,
prima prese nel segreto dei
gabinetti reali e ignorate dal grande pubblico,
diventano ora di dominio
pubblico, e utilizzate nella lotta politica
da schieramenti contrapposti. In
questa nuova situazione, in cui il popolo
dei lettori fa il gioco di un potere
parlamentare che vuole evolversi e non è
più disposto ad accettare soluzioni
dispotiche, il re pare fuori-gioco: impotente.
Malesherbes ne è consapevole e
nelle Remonstrances del 1775 rileva: «L’età della stampa ha
irrimediabilmente modificato le condizioni
di esercizio del potere: ha dotato
la nazione del gusto e dell’abitudine di
istruirsi con la lettura.» [13] Egli pensa che se la stampa fosse lasciata
libera il commercio nel settore editoriale
porterebbe vantaggi alla nazione
stessa, ma siccome per l’ordine pubblico
sarebbe rischioso vede come miglior
soluzione la riduzione del numero dei tipografi
per poterli meglio controllare [14].
Egli è anche consapevole che qualcosa bisogna
pur tollerare per evitare
problemi ancora maggiori:
Il commercio dei libri
è oggi troppo esteso, e il pubblico ne è
troppo avido perché lo si possa
reprimere a un certo punto su un gusto che
è diventato dominante. […] Io
conosco un solo mezzo per far eseguire i
divieti: darne pochissimi. […] Tutto
il mio sistema di amministrazione è fondato
sul fatto che bisogna tollerare
molti piccoli abusi per impedire i grandi
[…] In secondo luogo solo la
tolleranza può sopprimere gli inganni proficui
dei librai stranieri che
introducono nel regno, grazie a complicità
interessate, i libri che è vietato
stampare. Infine, è dalla libertà di pubblicare
ampiamente accordata che
dipende il progresso delle scienze, dei costumi
e dello spirito umano. [15]
Seguono le precisazioni sul “non-tollerabile”,
che può essere sintetizzato negli attentati
all’autorità regia, al comune senso
del pudore e alla religione:
Bisogna dunque
limitare la censura soltanto ad alcune opere:
i testi che mettono in
discussione l’autorità del re, i libri osceni
(accuratamente distinti da quelli
che sono tutt’al più “liberi” e “licenziosi”,
che è meglio tollerare
tacitamente), e le opere che urtano i fondamenti
della religione. [16]
Sul terzo punto l’intelligente funzionario
è
inflessibile, ma nello stesso tempo tradisce
le sue intime convinzioni sulla
natura della religione in un passaggio posteriore,
nel quale afferma:
D’altronde [la teologia]
non è una scienza suscettibile di progresso.
L’unità, la semplicità, la
costanza sono i suoi principali attributi.
Ogni opinione nuova è almeno
pericolosa e sempre inutile. Non si tema
dunque che il rigore dei censori
impedisca ai teologi di perfezionare i loro
studi. La scienza della religione
ha acquistato tutta la sua perfezione dal
momento in cui ci è stata data, e il
gusto delle scoperte è stata sempre per essa
soltanto pregiudizievole. [17]
Dunque, la religione è utile, e funziona
se
resta immobile nei suoi dogmi. Se i teologi
si attengono a tale immutabilità
non debbono temere la censura, ma ogni innovazione
è dannosa alla “scienza”
della religione. Difficile non cogliere una
celata punta di ironia in questo
omaggio piuttosto formale dell’amministratore
astuto, che sa come gestire
l’irrazionale con razionale pragmaticità.
D’altra parte, come osserva Chartier,
all’epoca la lezione cartesiana è ancora
cogente: il dubbio si può esercitare
su tutto, ad esclusione dei principi religiosi.
IL legame istituzionale e
strutturale che lega Stato e Chiesa, va difeso
per ragioni politiche e per le
sue implicazioni etiche e giuridiche. La
monarchia si legittima con la
religione e questa è difesa da quella; una
reciproca “conferma” di potere che
l’Illuminismo intende eliminare.
La
libertà di stampa diventa così un problema
cruciale per l’Ancien Régime e
Malesherbes, nella sua più tarda Mémoire sur la liberté de la presse (1788),
rileva preoccupato che le “autorizzazioni
tacite” sono un’incitazione
all’illegalità. Diderot, nella sua Lettre historique et politique sur le
commerce de la libraire, vede nelle cosiddette “autorizzazione tacite”
una
soluzione ipocrita ma intelligente del problema;
per il resto la pensa come
Malesherbes nel ritenere le proibizioni siano
inefficaci perché non tengono
conto della psicologia del lettore comune,
finendo per ottenere risultato
opposto di quello auspicato:
E quanti [libri] non
ne ha fatti conoscere la condanna, che sarebbero
stati condannati all’oblio
della loro mediocrità. Quante volte l’editore
e l’autore di un’opera
privilegiata, se avessero osato, non avrebbero
detto ai magistrati dell’alta
polizia: «Signori, di grazia, un piccolo
decreto che mi condanni ad essere
distrutto, bruciato in fondo alla vostra
scalinata». Quando si pubblica la
condanna di un libro, gli operai della tipografia
dicono: «Bene! Ancora
un’edizione!» [18]
Mercier, per parte sua, rileva l’inefficienza
del controllo e il danno economico che deriva
dall’elevata percentuale di libri
stampati all’estero (Darnton la valuta intorno
al 50%) [19]:
Sono [i censori regi]
gli uomini più utili agli editori stranieri.
Arricchiscono l’Olanda, la
Svizzera, i Paesi Bassi, ecc. Sono così tremanti,
così pusillanimi, così
formalisti, che osano approvare solo le opere
insignificanti. E chi potrebbe
biasimarli per questo, visto che rispondono
personalmente di quel che hanno
approvato? [20]
L’Olanda e la Svizzera sono sicuramente i
paesi
(repubblicani) nei quali la libertà di stampa
è pressoché totale, e soprattutto
nella prima si stampa tutto ciò che è vietato
da altre parti. Anche la Gran
Bretagna diventa da un certo momento in poi
un paese dove si può pubblicare di
tutto; nel 1795 la totale libertà di stampa
sarà sancita ufficialmente dal
Parlamento. Giornali come il Courier de l’Europe, il Journal général
de l’Europe, la Correspondence universelle, impossibili da stampare
in Francia vengono stampati all’estero e
importanti clandestinamente.
La
storia dell’attività di repressione della
stampa non autorizzata nell’Ancien
Régime parte da lontano e si intreccia con quella
degli ispettori librari.
L’operato di questi diventa particolarmente
importante dal 1757, quando è
promulgato un editto che sentenzia in maniera
inappellabile che gli autori, gli
editori e gli stampatori di libri non autorizzati
sono passibili di pena di
morte. Ne segue un altro, nel 1764, che proibisce
opere in tema di
amministrazione finanziaria, quindi un decreto
parlamentare del 1767 che
proibisce ogni pubblicazione non autorizzata
sulla religione. [21]
Sulla base di tali disposizioni si infittisce
la rete ispettiva, con una
recrudescenza di sopralluoghi, sequestri
e condanne; tra il 1750 e il 1779 le
carcerazioni toccano la punta massima. Per
controllarle meglio si limita il
numero delle tipografie autorizzate, con
un’attenta cernita di stampatori
“affidabili” e il ritiro della licenza agli
altri. Molti dei condannati
finiscono alla Bastiglia, dove i reclusi
per reati di stampa raggiungono il 40%
del totale. Si tratta di un carcere relativamente
vivibile, ma se la polizia è
relativamente indulgente con gli autori è
invece molto severa con stampatori e
commercianti.
Anche
i lettori corrono seri rischi: nel 1768 un
garzone di bottega che aveva
acquistato Le Christianisme dévoilé di d’Holbach fu condannato a nove
anni di prigione [22]. Nel
novero delle opere proibite potevano cadere
anche opere scientifiche che in
qualche modo potevano contraddire le Sacre
Scritture. Buffon, per non
compromettere la pubblicazione e la commercializzazione
della sua Histoire
naturelles (giudicata blasfema dalle autorità della
Sorbona), è costretto a
pubblicare una dichiarazione nella quale
riconosce l’autorità dei libri sacri e
la giustezza della diffida accademica nei
suoi confronti [23].
Nell’agosto del 1770, il Parlamento francese
fa pubblicamente bruciare libri
come La contagion sacrée, l’Examen critique des apologistes chretiens,
Le Christianisme dévoilé, il Sistéme de la nature di d’Holbach e
il Discours sur les miracles de Jésus Christ di Woolston [24]. Uno
degli effetti della repressione è il fiorire
di stamperie clandestine la
migrazione all’estero di molta stampa, con
vantaggi per le aree di confine; le
opere proibite entravano in Francia attraverso
una fitta rete di
contrabbandieri. Facilissimo per le persone
di alto rango, che viaggiano in
carrozze private non-ispezionabili, introdurre
per solo piacere trasgressivo i
libri proibiti. La repressione tocca raramente
gli strati alti della società sì
da determinare da un certo momento in poi
ad una certa tolleranza vista
l’impossibilità di bloccare ingresso e circolazione
di oggetti di minimo
ingombro come sono i libri. Esemplare il
viaggio a Parigi del libraio svizzero
Fauche-Borel, che nel 1780 conduce indisturbato
i suoi affari per la vendita di
opere proibite in Francia [25]. Nei
salotti, indipendentemente dal punto di vista
e dalla classe di appartenenza,
si attua una sorta di sodalizio intellettuale
che vede cristiani, deisti ed
atei discutere tra loro al solo fine di confrontarsi,
di far emergere nuove
prospettive e di combattere arretratezze
e fanatismi. Sia presso Madame Necker
(cristiana) che presso Mademoiselle d’Espinasse
(deista) o presso d’Holbach
(ateo) si incontrano personaggi diversissimi
votati al trionfo della ragionevolezza.
Quasi degli “iniziati” verso nuovi e comuni
orizzonti intellettuali, uomini di
cultura diversissima come Helvétius, Galiani,
Morellet, Garat, Suard, Diderot,
d’Alembert, Raynal, Marmontel, Duclos, Boulanger,
Saint-Lambert, Roux, Darcet,
ecc. si incontrano e discutono amichevolmente
[26].
Nell’ambito delle strutture di potere i
nobili costituisco ancora nel Settecento
la “classe guerriera” per antonomasia
e per elezione. Un despota illuminato come
Federico II di Prussia apprezza i
borghesi in tutti i campi di attività, salvo
quello militare, dove li ritiene inadatti.
I nobili guerrieri, oltre al diritto di non
pagare tasse in quanto “difensori”
della nazione, sono gli unici uomini del
regno autorizzati a portare la spada.
La detenzione del potere militare pone peraltro
la classe nobiliare in
posizione dominante anche in politica. Editti
del 1718, 1727 e 1781 avevano
reso in Francia impossibile per i non-nobili
diventare ufficiali di rango
medio-alto. Ed al terzogenito di famiglia
aristocratica era d’uso riservare la
carriera ecclesiastica e posti di comando
nelle abbazie, creando così una
solida saldatura tra potere nobiliare e religioso.
Ciò valeva anche per le alte
cariche in magistratura e in altre istituzioni
pubbliche; esse erano “di
concessione regia”, acquistabili e vendibili
insieme col “titolo di
nobilitazione” che li accompagnava. A quei
pochi borghesi che riuscivano ad
accedere a tali cariche non per acquisto
ma per meriti personali seguiva la
ratifica “di classe”. L’assegnazione di un
titolo nobiliare avveniva da parte
funzionari ad hoc, agenti vicari del re, gli unici autorizzati
a “nobilitare”. Va da sé che questi meccanismi
“delegati” si prestavano a favoritismi e
corruttele, e che il livello di censo e le
disponibilità economiche potevano tradursi
in un’ascesa di rango per persone danarose
[27]. Anche
i brevetti di ufficiale erano acquistabili,
ma quasi esclusivamente riservati
alla classe nobiliare, con prezzi bassi per
i gradi inferiori ma molto alti per
i gradi superiori. Fu solo nel 1777 (sotto
il ministero Saint-Germain) che
nell’intento di professionalizzare l’esercito
si dette inizio alla graduale
soppressione dei brevetti trasferibili [28].
Quanto sopra va visto anche in ragione di
uno stato di più o meno riconosciuta bancarotta
dell’Ancien Régime.
Luigi XIV, nei momenti di difficoltà finanziaria,
era solito “immettere sul
mercato” titoli nobiliari, sicché non tutti
i nobili erano ricchi, ma solo i
ricchi potevano “diventare” nobili. Per rafforzare
questa classe si
utilizzavano anche i matrimoni; i bassi lignaggi
potevano rafforzarsi con
l’immissione di sangue d’alto lignaggio,
purché ne rimpinguassero le casse. Ma
per quanto un patrimonio potesse essere solido
non era facile per una famiglia
aristocratica media evitare i debiti, pena
il decadere di rango nella pubblica
opinione: si trattava del “sistema” inaugurato
dal Re Sole per tener sottomessa
e in stato di precarietà l’aristocrazia.
Vestiti, carrozze, feste e stuoli di
servi al seguito erano una prerogativa essenziale
e irrinunciabile
dell’immagine nobiliare; sinecure regie supplivano
un poco alle uscite, ma
nello stesso tempo rendevano il beneficiario
dipendente dal re. Il potere
regio, a sua volta, si svenava per sopperire
a questa necessità “politica”,
potendo contare solo sul prelievo impositivo
di tasse dirette ed indirette sulle
classi attive, produttrici di poco reddito
per sé e di molto per le strutture
parassitarie regali, nobiliari e religiose.
1.2 La demografia ed il mondo economico e
produttivo
Studiare la demografia, l’economia e le
attività produttive implica analisi tecniche
specifiche, ma dobbiamo dedicare
qualche spazio anche a tali argomenti per
adeguare il nostro quadro
dell’Illuminismo. Uno dei più elementari
principi economici è che, in un contesto
dato, è il rapporto tra il numero degli abitanti
e le risorse disponibili a
determinare la situazione socio-economica
di esso. Il XVIII secolo, con la sua
relativa stabilità e l’assenza di lunghi
e sanguinosi conflitti internazionali,
presenta un notevole incremento demografico
e in netta accelerazione dal 1750.
La popolazione europea (esclusi i popoli
soggetti all’Impero Ottomano) è
stimata dai 100 ai 120 milioni di individui
nel 1700, in 120-140 nel 1750, in
180-190 a fine secolo. Una progressione impressionante
(specialmente in Russia,
Polonia, Prussia, Austria e Gran Bretagna;
meno in Spagna, Francia ed Italia) [29], che
vede dall’inizio alla fine del secolo quasi
il raddoppio della popolazione.
Meno guerre, meno carestie ed epidemie, una
migliorata igiene e miglioramenti
in medicina e farmacologia portano ad una
notevole riduzione della mortalità
infantile. Nel 1798 Jenner aveva messo a
punto il suo vaccino contro il vaiolo,
che nel 1719 aveva fatto 14 mila morti nella
sola Parigi e che nel 1770 aveva
devastato tutte le grandi città europee.
Verso fine secolo l’incremento
demografico aveva preoccupato l’economista
inglese Malthus, che nel Saggio
sul principio della popolazione aveva messo in guardia sui rischi di un
aumento delle bocche non compensato da un
adeguato sviluppo dei mezzi di
sussistenza.
Ai miglioramenti della sanità aveva
corrisposto il miglioramento dell’acculturazione;
è stato statisticamente
rilevato che alla minore mortalità infantile
è corrisposto un aumento del tasso
di alfabetizzazione. Ciò si accompagna probabilmente
ad una maggior attenzione
all’infanzia, sia sotto il profilo sanitario
che sotto quello culturale, già
cominciata peraltro nel secolo precedente.
Alfabetizzare i bambini significa
anche sottrarli ad un prematuro impiego nel
lavoro manuale e offrir loro un
avvenire meno bloccato e aperto all’emancipazione.
Alla riduzione della
mortalità infantile si accompagna nel Settecento
una caduta della mortalità
generale e un aumento dell’attesa di vita.
Un paese all’epoca con una sanità
avanzata, la Svezia, vede in alcuni distretti
il tasso di mortalità scendere
addirittura sotto il 25 per mille annuo,
un dato che sarà raggiunto nel resto
dell’Europa Occidentale soltanto nell’Ottocento
[30]; una
Svezia, peraltro, che aveva avuto 40.000
bambini morti di pertosse tra il 1749
e il 1764) [31]. L’interesse per l’igiene
generale e personale comincia a crescere
dopo la metà del secolo; dal 1777 si
proibì in Francia di seppellire i morti entro
la cerchia urbana e tre anni
prima Luigi XVI aveva finalmente installato
in una stanza del palazzo reale un
vero water closet [32].
Notevoli progressi tecnologici determinano
una nascente industria manifatturiera in
Inghilterra, eppure i contadini
restano il 70% della popolazione attiva;
ma in Francia e Prussia sono l’80%
della popolazione ed in Russia il 90% [33]. Nel
Settecento vengono introdotte in agricoltura
innovazioni importanti, con i
fiamminghi primi protagonisti dell’abbandono
dei vecchi sistemi di rotazione,
resi più flessibili e con l’introduzione
di nuove colture, e primi anche a fare
ricerca e sperimentazione agricola con criteri
scientifici. Innovazioni che
irradiarono dai Paesi Bassi alle altre regioni
occidentali e nordiche, ma
tardarono a raggiungere un Sud più immobilista
e un Est ancora semifeudale,
caratterizzato dalla servitù della gleba,
tipico della Russia e della Polonia,
ma presente anche in Ungheria e in Austria
[34]. Le
innovazioni nate nell’agricoltura olandese
raggiungono inizialmente
l’Inghilterra dando luogo a sviluppi delle
colture con l’obbligo di recintare
gli appezzamenti per difenderne l’integrità;
provvedimento che rivoluzionerà
totalmente le vecchie leggi agro-pastorali,
eliminando la servitù di pascolo e
gli sperperi produttivi dei “campi aperti”.
In tale clima innovativo esce il
manuale La zappacavallo in agricoltura di Jethro Tull, un contadino del
Berkshire che inventa la seminatrice meccanica,
e gli studi di Robert Bakewell,
allevatore del Leicestershire che relaziona
sulla selezione di bovini e ovini e
sulla tipologia dei pascoli [35].
In
Francia le innovazioni non furono opera di
contadini e allevatori, ma di
latifondisti illuminati, i cosiddetti fisiocrati, che consideravano la
terra fonte di ogni ricchezza. Tra essi,
oltre a Turgot, di cui parleremo a suo
tempo, va ricordato almeno François Quesnay,
medico di corte e collaboratore de
l’Encyclopédie, il quale, già autore
del Quadro economico nel 1758,
divenuto il “manifesto” della fisiocrazia,
scriveva nel 1763 la Filosofia rurale affermando:
Il
governo […] che voglia rinsaldare la sua
autorità e garantirla contro ogni
opposizione, lungi dal macchiarsi di colpe
ricorrendo alle durissime e
pericolose misure di sicurezza caratteristiche
della tirannia o avvilendosi col
degradare il popolo, dovrebbe cercare di
renderlo partecipe di tutti i
differenti generi di beni e di tutti i prodotti
raffinati. Dovrebbe prevenire i
pericoli dell’autorità anarchica che è invocata
a favore di interessi
particolari […] Se nell’armonia della società
è introdotta una nota falsa,
tutto il meccanismo politico ne soffre e
si scompagina. [36]
Idee
assolutamente innovative nell’aver compreso
che la produzione di beni
voluttuari si giustifica solo in funzione
di un’ampia massa di consumatori qual
è quella popolare, ma è implicito anche un
monito a dare ad essa maggiore
dignità sociale.
Il governo francese non si mostrerà del
tutto sordo alle loro idee e creerà, nel
1761, un dipartimento amministrativo
per l’agricoltura, consentendo più tardi
la recinzione degli appezzamenti e
proibendo il pascolo in alcune regioni; provvedimenti
che incontrarono
l’ostilità dei contadini tradizionalisti,
sì da rendere tali norme inapplicate
o inefficienti. Se ci si domanda perché gli
stessi provvedimenti in Gran
Bretagna non avevano suscitato altrettanta
opposizione la ragione sta nella
profonda differenza di mentalità tra il contadino
francese e quello inglese.
Questo viveva in un sistema dove il sistema
feudale era ormai sparito, dove non
vi era più traccia dell’antico rapporto tra
proprietario e fittavolo e dove era
stata operata una profonda rivoluzione agricola
che poneva il paese ad un
livello assai più avanzato che nel resto
del continente. Si sarebbe però in
errore se si pensasse il contadino inglese
appagato e remissivo; ad esempio,
l’erezione di barriere sulle nuove strade
per ricavarne pedaggi da parte dei
costruttori, dette luogo a una sistematica
distruzione di esse nel 1727 e nel
1753 dalle parti di Bristol, con casi analoghi
a Leeds, Wakefield, Beeston e
nello Yorkshire, così come tra 1735 e il
1736 intorno a Hereford e Worcester.
Ma anche le recinzioni avevano incontrato
all’inizio forti ostilità; appena
dopo la prima legge del 1710 erano iniziati
i boicottaggi e le distruzioni di
esse, culminate nel 1758 a Norwich e nello
Wiltshire, nel 1760 a Northampton,
nel 1771 a Boston, nel 1772 a Worcester,
nel 1791 a Sheffield e nel 1798 ancora
nel distretto di Northampton [37]. La
Danimarca si distinse nell’allevamento dei
bovini, dei maiali e del pollame,
mentre in Germania vennero tentate tecniche
di bonifica delle terre incolte.
Innovazioni importanti, ma non esenti da
stravolgimenti sociali che
determinavano vincenti e perdenti. Un prezzo
da pagare per realizzare una
struttura agricola moderna, efficiente e
produttiva, che generava gestori
tecnico-amministrativi e coltivatori specializzati,
ma emarginava chi restava lavoratore
di pura fatica a bassissimo salario [38].
L’industria manifatturiera si sviluppa
inizialmente in Inghilterra, dove la produzione
industriale triplica tra il
1700 e il 1790, estendendosi poi nel vicino
oltre-Manica e raggiungendo più
tardi le altre regioni d’Europa. La necessità
di produrre energia per via
termica (la caldaia a vapore di Watt nasce
nel 1780) per il funzionamento delle
macchine intensifica anche la ricerca e l’estrazione
del carbone e le regioni
che ne sono ricche risultano avvantaggiate.
Nell’industria i progressi sono
enormi e la lana perde importanza in favore
del cotone; così la pastorizia
locale perde il suo ruolo di indispensabile
fornitrice di materia prima. Nel
nuovo modo di produrre su larga scala diventa
fondamentale l’abbondanza d’acqua
dolce corrente, sia come forza motrice e
sia per le numerose operazioni a monte
dei nuovi procedimenti di tessitura. Perdono
importanza le manifatture statali
rispetto a quelle private, a cui si affiancano
società di pubblica utilità
basate sul volontariato volte all’addestramento
e all’incremento di una cultura
pragmatica. Si tratta di iniziative frequenti
nel mondo anglosassone fin
dall’inizio del Settecento, e in seguito
diffuse, nelle stesse o in altre
forme, perlopiù statali, anche sul continente.
Tra esse va ricordata la Society
for the improvement of Husbandry, Agricolture
and Other Useful Arts di
Dublino, fondata nel 1731, sul cui esempio
nascerà nel 1754 la più potente e
organizzata Society for the Encouragement of Arts, Manufactures,
and
Commerce di Londra. L’intento di
queste società non era solo un astratto progresso
delle conoscenza, bensì la
loro immediata applicazione in attività pratiche
e produttive. Sul continente
fecero seguito le Sociétes Royales d’Agricolture in Francia, le Kaiserlich-Königlichen
Ackerbaugesellschaften nell’Impero Asburgico e la Societad des Amigos
del Paìs in Spagna.
In
realtà la prima, quella di Dublino, aveva
tratto stimolo ed origine dalla
terribile carestia del 1724, che aveva rivelato
gravi carenze di cultura
agraria e tecnologica, ma non meno di quella
economico-domestica ed alimentare.
I fondatori (il filantropo Thomas Prior
e il sacerdote anglicano Samuel Madden, ai
quali si associarono altre
dieci persone) intendevano ovviare a tali
carenze, anche in vista di temibili e
future incombenze, attraverso un pragmatico
programma di acculturazione
tradotta in attività reale, ben espresso
dalle parole seguenti:
I
membri della società … intendono favorire
nel modo più semplice la diligenza
del semplice artigiano, vogliono portare
il sapere pratico ed utile dalle
biblioteche e dai gabinetti scientifici alla
luce del sole. In breve, il loro
unico intento è di fare del bene, a prescindere
che questo avvenga per via di
nuove scoperte, attraverso la pubblicazione
di invenzioni già note, oppure
ampliando le conoscenze attuali diffondendole
tra un pubblico più vasto. [39]
Non
si sottovaluti tale programma nominalmente
modesto e assai semplice nella sua
formulazione, ma se ne colgano le importanti
implicazioni di promozione
tecnologica presenti. Se lo si confronta
con la vuota retorica dei programmi
delle strutture deputate all’istruzione,
perlopiù teologica o umanistica in
quel tempo, ci si renderà conto che qui qualche
cosa di nuovo appare e si
impone. Si tratta di quel pragmatismo britannico
che segnerà uno degli aspetti
più importanti della cultura “pratica” e
finalizzata dell’Illuminismo
scientifico-tecnologico. Nel 1754 nasce a
Birmingham una società collegata alla
Society of Art di Londra, allo scopo di promuovere nella
zona le
attività commerciali e industriali. Ad essa
si aggiunse un gruppo di persone,
perlopiù imprenditori e tecnici, che si riunivano
(nei giorni di luna piena)
nella casa di Mattew Boulton, titolare di
un’importante officina meccanica. Più
tardi, nel 1775 venne costituita la Lunar Society of Birmingham, e tra i
suoi membri si contavano naturalisti come
William Small e tecnologi come James
Watt [40].
Il processo di urbanizzazione è altrettanto
impetuoso. Il Settecento vede la crescita
ininterrotta delle città per numero e
dimensioni; alla fine del secolo Londra ha
900.000 abitanti, Parigi 600.000,
Napoli 400.000, Lisbona 350.000, Mosca 300.000,
San Pietroburgo 270.000, Vienna
230.000, Amsterdam 220.000, Berlino 170.000,
mentre Roma, Dublino e Madrid
seguono [41]. L’Inghilterra ha un
tessuto di centri urbani industrializzati
che diventa modello di riferimento,
tra cui spiccano, oltre a Londra, Manchester,
Glasgow, Liverpool, Bristol,
Leeds. Presto si industrializzeranno su quel
modello aree di Barcellona,
Amburgo, Marsiglia, Nantes, Bordeaux e, in
Italia, Livorno, all’epoca il porto
principale del dinamico Granducato di Toscana.
Nel 1776 Adam Smith, amico di Turgot e di
Hume, pubblica la sua Ricerca sulla
natura e causa della ricchezza delle nazioni e l’opera di questo filosofo
ed economista scozzese diventa un classico
dell’economia per lungo tempo
insuperato. Per quanto concerne il mondo
del lavoro un fatto di notevole
rilievo fu la creazione in Gran Bretagna
di alcuni sindacati dei lavoratori già
all’inizio del secolo: quelli dei cappellai,
dei sarti e dei cardatori della
lana. Associazioni illegali, ma che assunsero
sempre più evidenza con
l’adesione di altre categorie del settore
tessile e che tra il 1760 e il 1770
portarono a un’ondata di scioperi memorabili.
Anche in Francia vi furono, fin
dagli anni ’30, associazioni di lavoratori;
erano un po’ meno organizzate di quelle
britanniche e si presentavano in due forme:
una prima, legalmente riconosciuta,
con i caratteri di società di beneficenza,
chiamate confréries, che
dovevano tutelare i lavoratori in difficoltà;
una seconda, illegale e
clandestina, tipica di operai qualificati
e combattivi, che si esprimeva nelle
cosiddette compagnonnages, assai più aggressive ed organizzate delle
prime, e che avranno un ruolo non trascurabile
nei fatti rivoluzionari. Quali
le rivendicazioni? Nel 1776 i rilegatori
di Parigi scioperarono per ottenere la
giornata lavorativa di 14 ore, ma in altri
casi gli scioperi erano mirati
all’ottenimento di salari migliori o contro
l’installazione di macchine che
avrebbero tolto lavoro all’operaio. Salvo
gli scioperi dei cartai (prima del
1730) e quello dei setaioli di Lione nel
1744, va sottolineato che sino al 1768
la situazione operaia in Francia fu relativamente
calma. Ma a partire da tale
data ripresero e proseguirono gli scioperi
sino alla vigilia della Rivoluzione.
A scioperare furono nel 1669 tessitori e
gli scaricatori di carbone, nel 1772 i cartai,
nel 1776 i rilegatori e i
tipografi, nel 1778 i tessili, nel 1780
ancora i cartai, nel 1789 ancora i
tessili conto le “macchine inglesi”, che
vennero addirittura distrutte in molti
stabilimenti del Nord del paese. [42]
Accanto agli scioperi dei lavoratori sono
da considerare proteste legate all’indisponibilità
o all’eccessivo prezzo del
pane, i cosiddetti “tumulti per il pane”,
che interessarono specialmente le
campagne. Se ne ebbero in Inghilterra negli
anni 1727, seguiti da altri,
sporadici, tra il ’30 e il ’39, poi nel ’40,
nel ’56-57, nel ’66 (il più
notevole), e dal ’72 al ’95 in modo saltuario.
In Francia essi erano iniziati
nel 1724 e durarono con accessi periodici
sino al 1789. Ad essi talvolta si
associavano nella protesta categorie di lavoratori
e artigiani che si trovavano
a solidarizzare con i rivoltosi nel disagio
comune. Esisteva ancora il lavoro
schiavile e l’esistenza di esso confliggeva
direttamente con gli ideali
illuministici; a dispetto di ciò nel Settecento
le politiche coloniali registrano
il loro più attivo compimento. Anche scrittori
decisamente anti-colonialisti
come l’ex abate Guillaume-François-Thomas
Raynal (1713-1796) e Denis e Diderot non ebbero il coraggio di spingere
molto avanti le loro richieste per l’abolizione
dello schiavismo; d’altra parte
era opinione comune che tale provvedimento
avrebbe potuto risultate devastante per
un’economia già in grosse difficoltà. E tuttavia
Raynal aveva scritto ne l’Histoire des deux
Indes parole di fuoco contro lo schiavismo, che
vale la pena ricordare:
Questa
insaziabile sete di oro ha dato vita al più
infame e al più atroce di tutti i
commerci, quello degli schiavi. Si parla
di crimini contro natura e non si cita
questo come il più esecrabile. La maggior
parte delle nazioni d’Europa se ne sono
macchiate e un vile interesse ha soffocato
nei loro cuori tutti i sentimenti
che si dovrebbero avere verso i propri simili.
Ma, senza queste braccia, dei
paesi la cui acquisizione è costata così
tanto, resterebbero incolti. Eh !
Lasciateli incolti allora, se, per farli
fruttare bisogna che l’uomo si riduca
alla condizione dei bruti sia colui che vende,
sia colui che acquista sia colui
che è venduto.[43]
In verità la maggior parte delle grandi
nazioni europee difendeva la schiavitù, ritenendola
alla base della prosperità
agricola in generale e di alcune coltivazioni
in particolare, come il cotone,
che tuttavia avveniva perlopiù oltremare.
Negli Stati Uniti d’America, la cui
struttura sociale appariva come un modello
di riferimento anche per l’assenza
di classi sociali, lo schiavismo, specialmente
negli Stati del Sud, era
ritenuto irrinunciabile.
Per quanto riguarda la Francia, vi fu un
momento particolare in cui parve che fossero
possibili riforme tali da metterla
al livello di Inghilterra ed Olanda. È la
breve epoca in cui fu controllore
generale delle finanze Anne-Robert-Jacques
de Turgot, dal luglio del 1774 al
maggio del 1776. Convinto fisiocrate e legato
ai philosophes Turgot mise
in atto una serie di riforme che i settori
più retrivi del sistema politico e
di quello religioso, pilotati dalla regina
Maria Antonietta, temevano come
devastanti per il Régime. Ciò che fece fallire ed azzerò il programma
riformatore turgotiano, costringendo alle
dimissioni il suo inventore, fu il
disastroso raccolto del ’76, che in relazione
al provvedimento per la
liberalizzazione del commercio dei grani
determinò una serie di rivolte
popolari diventate note come la “guerra delle
farine”. Franco Venturi
sintetizza così le conseguenze dell’uscita
di scena di Turgot:
La caduta di Turgot, il 12 maggio 1776, non
fu
sentita soltanto come il fallimento di una
politica di riforme che negli anni
immediatamente precedenti era andata allargandosi
e approfondendosi, dalla
libertà del commercio dei grani ai diritti
feudali, dalla soppressione delle
corvées a quella delle corporazioni. Giustamente
in questa crisi si percepì un
vero mutamento di rotta, l’abbandono addirittura
d’una politica di principî. Si
chiudeva l’età dell’Enciclopedia. La Francia volgeva le spalle a
Voltaire, ai fisiocrati, al gruppo ormai
ridimensionato dei philosophes,
per dirigersi verso un avvenire di contorni
incerti e brumosi, vago e
attraente, privo tuttavia di quelle certezze
che i lumi avevano acceso e che
Turgot era parso rianimare. [44]
Vale la pena di soffermarsi un istante su
quest’uomo, nato nel 1727 e morto nel 1781,
poiché non fu soltanto un politico
e un economista, ma un vero illuminista,
che a soli 23 anni affermava:
Un debole chiarore comincia a fendere le
tenebre
sparse su tutte le nazioni, e si estende
gradualmente … i progressi producono
altri progressi, ed aumenta la diseguaglianza
tra le nazioni: qui le arti
cominciano a sorgere, e là esse procedono
a grandi passi verso la perfezione,
oppure si arrestano a mezzo sviluppo; altrove
le tenebre primitive non sono
ancora dissipate […] [45]
Turgot
è consapevole che il momento è cruciale per
i destini del mondo, ma anche che
il corso degli eventi unmai è caratterizzato
da progressi e arretramenti, per
quanto i primi prevalgano sempre sui secondi.
E che occorre:
Scoprire l’influenza delle cause generali
e
necessarie, delle cause particolari e delle
azioni libere dei grandi uomini, ed
il rapporto di tutti questi elementi con
la costituzione stessa dell’uomo,
mostrare le energie e la meccanica delle
cause morali attraverso i loro
effetti; ecco che cosa rappresenta la storia
agli occhi di un filosofo. [46]
Ruolo negativo ebbe anche in Francia una
pessima politica estera. Per un paese in
bancarotta i costi delle riforme e le
spese belliche in appoggio all’indipendenza
americana (in funzione
anti-inglese) risultarono assurde. Il dissanguamento
finanziario a cui andò
incontro la Francia in un momento di crisi
economica profonda determinò il
fallimento di ogni politica di riforme, avendo
tutte le riforme un costo.
D’altra parte, l’alleanza tra Filadelfia
e Versailles, tra la democrazia più
liberale del mondo e il più arretrato assolutismo
monarchico dell’Europa
Occidentale (dopo la Spagna e lo Stato Pontificio)
aveva del paradossale. Anche
a questo riguardo Turgot aveva capito che
mettersi in competizione con la Gran
Bretagna ed appoggiare il ribelle d’oltreoceano
avrebbe richiesto risorse
economiche di cui la Francia non disponeva.
D’altra parte nulla potevano avere
in comune Jefferson e il monarca francese,
se non il nemico: l’Inghilterra. La
lotta a questa, un miraggio americano mal
compreso quale modello impossibile
per un paese retto da un re incapace e da
consiglieri-avventurieri, avrebbe
fatto il resto, rendendo la Rivoluzione possibile.
Per comprendere quale fosse
il clima emotivo nei confronti della nuova
nazione americana, si pensi che nel
1783 fu elaborato il progetto di una città
satellite alle porte di Parigi da
denominare “Nuova Inghilterra”. Al centro
era prevista una “Piazza del
Congresso” con fontane di marmo e un obelisco,
da cui dovevano partire quattro
grandi avenues a nome Franklin, Washington, Rochambeau e
La Fayette, con
le quali si sarebbero incrociate quelle delle
capitali dei tredici Stati Uniti.
Con ciò la Francia avrebbe dimostrato, ancora
una volta la sua generosità. È
interessante la seguente motivazione apparsa
su un giornale dell’epoca:
Dopo aver sacrificato il nostro sangue e
i
nostri tesori per la causa degli americani
noi andiamo lor preparando ancora
delle vaghe abitazioni in evento che la curiosità,
il lusso o la riconoscenza
invogliasse alcuni facoltosi quaccheri a
stanziarsi presso di noi. [47]
Caduto Turgot nel ‘76, alcuni suoi
successori né furono all’altezza della situazione
né la situazione era
facilmente gestibile. Fu il caos nelle finanze
che portò al ritorno di Jacques
Necker, il ginevrino già controllore delle
finanze nel 1774 e poi licenziato
per alcune sue riforme anti-aristocratiche.
Nel rientro in gioco di quest’uomo
(che fu poi anche ministro delle finanze
del primo governo rivoluzionario) vi
era qualcosa di incoerente secondo Venturi:
Proprio il distacco, lo scompenso tra principî
e
realtà, tra real politik e grandi aspirazioni, resero possibile e
in
qualche modo necessaria l’esperienza Necker,
la lunga prevalenza cioè, a capo
delle finanze francesi, del banchiere ginevrino.
Il carattere paradossale del
suo governo è stato spesso sottolineato:
era protestante in un paese in cui i
suoi correligionari erano perseguitati, era
borghese in una monarchia dove
nelle più diverse forme si faceva sentire
un riflusso nobiliare, aveva nelle
mani il ministero chiave delle finanze ed
era incaricato di trovare i denari
per una guerra che rischiava di diventare
mondiale, ma non aveva alcuna
possibilità di influire sulle decisioni fondamentali,
quelle che riguardavano
l’andamento del conflitto stesso. [48]
Nello stesso tempo Necker, grande ammiratore
del sistema
politico-sociale britannico, aveva finito
per capire (vista anche l’esperienza
Turgot) che quei progressi che in Gran Bretagna
si potevano conseguire con la
libertà e le liberalizzazioni in Francia
non erano possibili; si potevano
tentare unicamente delle copie verisimili
quali “graziose concessioni” di un
sovrano designato dalla volontà divina. Conclude
Venturi:
Ancora una volta, guardando Necker
battagliare tra fermieri e banchieri, cortigiani
e burocrati, una conclusione
si impone. Arretrata, antiquata si rivela
la Francia non soltanto nel campo del
diritto penale e civile, dell’unificazione
amministrativa, della diffusione
delle scuole e in mille altri aspetti e problemi,
come gli enciclopedisti non
si stancavano di ripetere, ma tale è pure
nelle strutture essenziali della vita
finanziaria dello stato. Le riforme non riescono
anche perché mancano gli
strumenti per operarle. Turgot aveva affrontato
i problemi ed era caduto.
Necker cercò di uscire da questo circolo
vizioso intaccando l’antico regime in
un punto particolarmente sensibile, il rapporto
tra la finanza privata e quella
pubblica. [49]
Ma
era stato ancora Turgot ad avere chiaramente
espresso in uno scritto giovanile
(1751) come si ponesse in Francia il problema
del dispotismo e della
conseguente corruzione. Quest’uomo intelligente
che diventerà uno dei tecnocrati
della fisiocrazia aveva ben chiaro il ruolo
della scienza e della tecnica per
l’incivilimento della società. E ha già compreso,
poco più che ventenne, che il
dispotismo opera in senso contrario al progresso
e all’incivilimento e che,
all’occorrenza, va abbattuto:
Il dispotismo è facile: fare quello che
vuole, è un codice che un re impara assai
in fretta; per persuadere occorre
della capacità, mentre non ne occorre per
comandare. Se il dispotismo non
spingesse alla rivolta coloro che ne sono
le vittime, esso non sarebbe mai
bandito dalla terra. [50]
Torniamo a Necker. Se si
pensa che lo stato francese spendeva da tempo
soldi “non suoi”, ma del prestito
privato, portando così il debito pubblico
alle stelle per l’esborso degli
interessi, si comprende come agire su questo
fronte significava anche intaccare
un sistema di connivenze corruttelari tra
poteri pubblici e privati; Necker
comunque ci provò, e in un primo tempo i
risultati furono incoraggianti. Ma
c’era un altro problema: siccome le cariche
pubbliche in Francia si compravano,
il licenziamento di una pletora di tesorieri
ed esattori comportava il rimborso
ai titolari del controvalore delle cariche
soppresse d’autorità, e ciò
comportava un ulteriore aggravio sulle casse
già vuote dello stato. Come si
vede una situazione economica insostenibile
della quale va tenuto conto, per
non limitarsi a vedere il fallimento riformista
e il precipitare della
situazione dopo il 1789 come il puro frutto
di un dispotismo reazionario. Gli
illuministi francesi, in genere, non avevano
affatto auspicato la caduta della
monarchia, bensì un suo profondo rinnovamento.
Il sistema però, e pochi ne
furono veramente consapevoli, non era riformabile
“a costo zero”, e soldi non
ce n’erano.
L’Ancien Régime è certamente
in bancarotta, ma anche politicamente bloccato
da due classi dominanti che
vivono di pura rendita e che boicottano ogni
riforma che li danneggi. La
borghesia è economicamente importante, ma
non riesce ad aver peso politico e
quindi a mutare né gli indirizzi economici
né la struttura del paese. Nuova
classe, produttiva e dinamica, che si esprime
nelle arti, nella tecnologia
manifatturiera e soprattutto nel commercio,
può sì arricchirsi, ma non può influire
nel corso degli eventi, se non, come si vedrà,
in maniera rivoluzionaria. Produrre
beni e commerciarli, nella Francia di fine
secolo, è uno degli ultimi argini al
collasso imminente, ma impotente ad evitarlo.
Il commercio, come aveva già ben visto
Leon Battista Alberti, è motore di benessere,
di civiltà e d’intesa tra i
diversi popoli, ma è quasi nullo in campo
politico, e se la politica è
disastrosa, può solo evitare di farsene travolgere.
Aveva le idee chiare il
riformista Raynal quando scriveva, ne L’histoire des deux Indes (I,
Schelle, I, p.290):
I popoli che hanno civilizzato gli altri
sono stati popoli
commercianti. […] È il commercio degli Egiziani
e dei Fenici che ha civilizzato
i Greci; e questi, accrescendo le cognizioni
e le arti da essi ricevuti, hanno
portato la ragione umana ad un punto di perfezione
[…] Le loro ammirevoli
istituzioni erano superiori a ciò che di
meglio conosciamo oggi. Nessuna
nazione, eccettuando forse i Cinesi, aveva
compiuto tanti progressi quanti ne
avevano fatti i Greci in questa parte della
filosofia concernente il governo e i costumi. Nella
Grecia il commercio incontrò degli uomini,
mentre in Europa trovò degli
schiavi. [51]
1.3 La struttura
sociale e le classi
Il secolo XVIII vede la nascita di due modelli
socio-economici alternativi e contrapposti:
il comunismo e il capitalismo. Modelli
riferiti a due sistemi che, con più o meno
fortuna, attraverseranno i secoli
successivi con sviluppi, correzioni, riproposizioni
e relative cassazioni; essi
costituiscono le polarità di tutte le teorizzazioni
sociologiche. Il capitalismo
nasce in Gran Bretagna, ed avrà un suo ininterrotto
sviluppo ed applicazione
nel mondo anglosassone, il comunismo nasce
in Francia con Jean Meslier (ne
parleremo al § 13.3) all’inizio del secolo,
ed è ripreso da Morelly, Dom
Deschamps e Brissot de Warville [52] nella
fase pre-rivoluzionaria. In piena Rivoluzione
e nei primi anni della Repubblica
è Babeuf a farsene paladino, ma senza trovare
grandi consensi ed appoggi. Il
comunismo non trova validi sbocchi nell’istituzione
e nella legislazione della
Repubblica a causa di una leadership di orientamento
borghese, non propensa a
prendere in considerazione l’abolizione della
proprietà privata. Se si
esaminano dichiarazioni e scritti dei personaggi
citati ci si accorgerà come
Marx, a parte la profonda analisi del sistema
capitalista e la definizione del
modello economico alternativo, dal punto
di vista concettuale non abbia
inventato nulla di nuovo rispetto ai principi
che erano già stati largamente
teorizzati un secolo prima. Per quanto riguarda
invece i principi
capitalistici, attraverso una lunga evoluzione
che ha inizio nel Quattrocento
col Della famiglia (1432-1440) di
Leon Battista Alberti, essi vedono una teorizzazione
compiuta con l’economista
scozzese Adam Smith (1723-1790), che con
la ponderosa opera in cinque volumi An Inquiry into the Nature and Causes of
the
Wealth of Nations (1776) pone le basi teoriche del capitalismo,
scrivendo
tra l’altro:
La domanda di salariati aumenta quindi
necessariamente all’aumentare del reddito
e del capitale di ogni paese, e non
può aumentare diversamente. Aumento del reddito
e del capitale è aumento della
ricchezza nazionale. La domanda di salariati
aumenta quindi naturalmente
all’aumentare della ricchezza nazionale,
e non può aumentare senza di essa. Non
è la grandezza effettiva della ricchezza
nazionale, ma il suo continuo
incremento, a determinare l’aumento dei salari.
Conseguentemente, non è nei
paesi più ricchi, ma in quelli più prosperi
o in quelli che arricchiscono più
rapidamente che i salari sono più elevati
[53].
Si
accenna qui a due principi ineludibili del
capitalismo smithiano: la
produttività e il dinamismo. Solo sulla base
di essi si ha “sviluppo”, e solo
questo permette alti profitti per l’imprenditore
e buoni salari per i
lavoratori; due fattori strettamente connessi
che costituiscono la ricchezza di
un paese. Ciò posto, se un’economia è invece
statica, la ricchezza resta bassa
e a farne le spese sono principalmente i
lavoratori:
Per quanto grande possa essere la ricchezza
di
un paese, se è stata a lungo stazionaria
non ci si può aspettare di trovare in
esso salari molto elevati […] Raramente vi
si può essere scarsità di braccia, e
i datori non sono costretti a contendersi
il lavoro tra di loro. Al contrario,
in questo caso le braccia si moltiplicano
naturalmente al di là delle possibilità
di occupazione. Vi è una costante scarsità
di occupazione e i lavoratori sono
costretti a farsi concorrenza per ottenerla.
[54].
Data
la legge della domanda e dell’offerta
un’economia statica va a danno di tutti e
i lavoratori debbono mettersi in
competizione per assicurarsi un salario e
sopravvivere.
Ma è la Francia il “laboratorio sociale”
settecentesco più interessante, in quanto
nazione statica e arretrata rispetto non
solo alla Gran Bretagna, ma anche all’Olanda,
alla Svizzera e alla Prussia. In
essa le classi sociali erano tre, anzi quattro
se si fossero riconosciuti
diritti costituzionali alla plebe, cioè alla populace. Alla
vigilia della Rivoluzione il clero (che si
considerava il “primo” stato per
diritto divino) contava 120.000 unità, l’aristocrazia
300.000 circa, il terzo stato (l’alto ceto medio di
imprenditori commercianti e professionisti
) 250.000 unità. E scendendo la
scala sociale: 2.500.000 artigiani e 22 milioni
di contadini [55]. In
realtà anche il terzo stato era
marginale, poiché solamente i due primi erano
istituzionalizzati e quindi, dopo
il 1790, un concetto unico, come quello di
“cittadino”, per ogni francese, è
innovazione importantissima, anche se di
carattere nominalistico. La parola plebe
si lega a rozzezza e a ignoranza nel mondo
latino dove nasce il termine, e
mantiene questo significato in tutta la sua
forza sicuramente sino al ‘700 ed
oltre. Ma, a rigore, il termine riguarda
più il popolo urbano che quello del
contado, cui compete il termine di contadino, il piccolo proprietario o lavoratore
della terra; un termine che non riguarda
il grande proprietario terriero che pure
amministra e gestisce le su terre. A tutto
il Seicento il popolino di città e
la società contadina, forse con la sola eccezione
della Gran Bretagna, era rimasta
esente da ogni emancipazione sociale e culturale.
Dalla metà del Settecento non
è infrequente che qualche plebeo e qualche
contadino, attraverso attività
artigianali o commerciali di successo, diventi
un piccolo o medio borghese facendo
un “salto” di classe.
Anche fuori della Francia la struttura
sociale continuava ad essere sostanzialmente
tripartita in aristocrazia, clero
e popolo, ma un poco attenuata rispetto al
XVII nella misura in cui l’ambito
del commercio tendeva a portare, almeno in
Gran Bretagna, una maggiora
vicinanza tra la classe nobiliare più aperta
e quella mercantile. Persone
diventate facoltose potevano acquistare titoli
nobiliari da aristocratici decaduti,
e ciò avveniva anche sul continente. Tali
nobiltà “decadute” mettevano suo
mercato titoli che valevano spesso solo nella
misura in cui comportavano
privilegi, ma in quanto titoli “passati
di mano” non conferivano alcuna titolarità
di “sangue nobile” ai possessori. La
nobiltà continuava a dominare le gerarchie
militari e l’appartenere
all’aristocrazia era considerato un requisito
di “correttezza e onorabilità”. Anche
un sovrano relativamente moderno ed aperto
come Federico II di Prussia riteneva
che ammettere i non-nobili ad alti gradi
di comando sarebbe stato «il primo
passo verso il declino e la rovina dell’esercito».
In Francia la tendenza era
quella di escludere dal comando i borghesi
ed anche i nuovi anoblis, i
nobilitati di recente, a testimonianza di
quanto l’espressione “antico
lignaggio” avesse peso.
Persino
in Inghilterra, dove la casta militare non
godeva di molta considerazione e
contava poco, dire “ufficiale” era come dire
“nobile”, a conferma di una
quasi-sinonimia ancor valida nel Settecento.
[56] La “difesa di casta” si esercitava anche
negli altri campi, a testimonianza del tentativo
di difendersi dall’ascesa
della borghesia e di tenerla fuori dai centri
del potere. Prima del ‘700 il
problema non si poneva; la classe nobiliare
era quella che forniva la leadership
politica, militare, giudiziaria, amministrativa,
tecnocratica, mentre il clero
aveva il monopolio dell’educazione e dell’istruzione.
Ma aristocrazia e clero
ora avevano paura e questo stato d’animo
aveva determinato una reazione
protettiva che si realizzava nei campi che
potevano essere ritenuti propri dell’”animo
nobile”, di chi ha sangue blu nelle vene,
e di chi è “servo di Dio”, cioè
eletto dalla divinità. I regnanti invece
costituivano una sorta di super-classe
cosmopolita e internazionalizzata, connessa
da una rete di parentele la cui
unica prerogativa era il matrimonio tra “pari”,
costituendo una rete di
parentele (si pensi agli Absburgo e ai Borboni)
che riesce quasi a spartirsi
tutto il potere politico sul continente.
Parere quasi unanime degli storici è che
le
guerre del Settecento siano state meno frequenti
e feroci di quelle del secolo
precedente (si ricordi la terribile Guerra
dei Trent’anni, tra il 1618 e il
1648), ma furono egualmente numerose ed ininterrotte
nei periodi 1733-1748,
1755-1763, 1775-1792, come dire che i due
terzi del secolo furono, comunque,
funestati da eventi bellici. Il Settecento
risulta però caratterizzato da una
maggiore attività diplomatica rispetto al
passato; la politica estera, quindi,
si andava profilando come un importante elemento
di risoluzione di conflitti.
“La parola alle armi” era data con minore
frequenza e leggerezza, sì che
Clausewitz poteva affermare essere la guerra
nient’altro che “la continuazione
della politica con mezzi differenti”. Il
Settecento vede anche un’importante
novità: la realizzazione della teoria di
Machiavelli in base alla quale
soltanto un esercito di cittadini può difendere
una nazione. Ciò spiega i
successi iniziali dell’esercito rivoluzionario
francese e alcune travolgenti
vittorie napoleoniche, mentre gli altri eserciti
avevano truppa costituita
perlopiù da disperati, nullatenenti, stranieri,
criminali comuni. Persone
demotivate al combattimento, tra le cui schiere,
nei momenti difficili, la
diserzione diventava regola [57]. Almeno
dal ‘500 vi erano intere popolazioni disagiate
di zone di montagna, con scarsi
terreni coltivabili, e sovrappopolate i rapporto
alle risorse, presso le quali
il mestiere delle armi, per i maschi dai
15 ai 40 anni, era diffusissimo. Vi
erano addirittura governi, come quelli di
alcuni cantoni svizzeri o di
staterelli tedeschi come l’Assia-Kassel,
che gestivano direttamente
l’arruolamento e controllavano un fiorente
traffico di mercenariato [58].
Famose le truppe svizzere, già lodate da
Machiavelli come le più resistenti, combattive
ed affidabili, in quanto
temprate da costumi rigidi e austeri. Ma
non va neppure dimenticato che le
regole d’ingaggio di queste truppe ammettevano
il saccheggio e la legittimità
del bottino. D’altra parte, anche i regolamenti
di guerra sassoni e polacchi
del 1752 stabilivano chiaramente che «L’onore
è riservato agli ufficiali,
l’obbedienza e la lealtà al soldato semplice.». L’ufficiale doveva
astenersi dalla violenza contro gli inermi
e astenersi dal furto, ma non il
militare di truppa, i cui comportamenti criminali
nei confronti dei civili non
erano sanzionabili. Anche la viltà e la diserzione
erano messi nel conto del
soldato comune, sì da far dire a Federico
II di Prussia che il soldato doveva
temere i suoi ufficiali più del nemico (e
da ciò punizioni molto crudeli come
la fustigazione e persino la mutilazione).
[59] La
lezione di Machiavelli diventava così di
attualità proprio nel Settecento,
quando si cominciò a pensare seriamente alla
possibilità di istituire eserciti
di leva da parte di Justus Möser in Germania,
del Conte de Guibert e del
maresciallo Saxe in Francia. Ma il concetto
prevalente rimaneva quello per cui
le persone produttive non potessero, per
il bene dello stato, venir sacrificate
alla guerra. E tale parere era espresso proprio
dal più abile creatore di
eserciti dell’epoca pre-napoleonica, Federico
II di Prussia, il quale
dichiarava: «Gli operai validi debbono essere
protetti come la pupilla degli
occhi e in tempo di guerra si devono arruolare
reclute nel proprio paese
soltanto in caso di estrema necessità.» [60]
Lo stretto
legame tra il potere regale (sui corpi) e
il potere religioso (sulle anime) era
istituzionalmente sancito da sempre, e forse
si trattava dell’unico principio
politico che non era mai stato messo in discussione
prima dell’Illuminismo. I
re erano designati e garantiti da Dio e dovevano
rendere conto del loro operato
soltanto a Lui; ciò faceva sì che il monarca
fosse sottoposto ad un vincolo
tacito anche nei confronti della Chiesa,
quale vicaria di Dio sulla Terra. Ciò
è però vero però solo sino ad un certo punto,
poiché Luigi XIV nella Dichiarazione
dei quattro articoli, del 1682, aveva voluto rivendicare la propria
autonomia dal Papa, facendo derivare la sua
autorità in linea “diretta“ da Dio [61]. E
tuttavia, istituzionalmente e concettualmente,
l’abbattimento del monarca
implicava anche l’abbattimento della struttura
religiosa che lo supportava,
fosse essa nazionale o legata a Roma, senza
peraltro che ciò potesse mettere in
discussione la religione in sé, fortemente
radicata nel sentimento popolare.
Non a caso la Repubblica uscita dalla rivoluzione
offrirà ai preti di
continuare ad esercitare il loro ufficio,
ma come servitori di essa. È il caso
di ricordare il significativo ammonimento
di Bossuet, il più prestigioso
portavoce della cattolicità francese sino
ai primi del Settecento, che nel 1681
aveva ribadito: «Dobbiamo riverire l’ordine
celeste e l’impronta
dell’Onnipotente nei principi, qualunque
cosa essi facciano. […] La loro corona
è intoccabile.» [62] Il grande teologo, nel suo La politica tratta dalle parole
della Sacra Scrittura, pubblicato nel 1709, riprendeva il concetto
hobbesiano in base al quale, una volta istituito,
il potere monarchico
diventava autorità legittimata e immutabile,
sì da rendere illegittima ogni
messa in discussione di esso e ogni tentativo
di sottrarsi alla sua volontà. Ma
se Hobbes vedeva nell’assolutezza del potere
monarchico l’unico modo di ridurre
all’ordine il coacervo di pulsioni egoistiche
dei sudditi, il teologo francese
riteneva che la disobbedienza al sovrano
si configurasse come diretta
disobbedienza a Dio. Com’è noto Locke la
pensava in maniera diametralmente
opposta, ritenendo che la monarchia assoluta
fosse incompatibile con una
società civile.
Il clero godeva ovunque di privilegi, ma
si deve fare un’importante
distinzione tra l’alto e il basso clero;
quello (perlopiù di estrazione
nobiliare) godeva di privilegi notevolmente
maggiori di questo, che spesso si
sorreggeva soltanto col reddito delle decime e di un piccolo stipendio come
la portion congrue francese. Ciò determinava anche all’interno
della
religione una stratificazione di rango assai
accentuata, con l’alto clero
vicino al potere e il basso clero vicino
al popolo. La confessione che godeva
del rango di “religione di stato” esercitava
pressioni per la negazione di ogni
diritto alle confessioni concorrenti, spesso
promuovendone la persecuzione
violenta. Ciò valeva specialmente per i cattolici
in Francia e per i calvinisti
in Svizzera, meno per gli anglicani in Gran
Bretagna e ancor meno per i
luterani in Prussia. Questa lotta millenaria
tra confessioni durava fin dalle
origini del Cristianesimo; era iniziata col
Concilio di Nicea del 325, che
aveva dato inizio alla lotta alle eresie
e più tardi contro gli “assassini di
Dio”, gli Ebrei. Una lotta violenta e sorda,
basata su scarso senso morale
poiché la fede nel “Dio vero” (il “mio”!)
doveva essere dominante e indiscussa,
con il principio inviolabile che “il fine
giustifica i mezzi”, poiché la fede è
“al di sopra di tutto”.
Ma nel XVIII secolo, il potere temporale
incomincia ad assumere nei
confronti della religione ufficiale atteggiamenti
più critici e meno benevoli.
È il caso di Pombal [63], in
Portogallo, che difese gli ebrei, e di Federico
II nel cui regno un ebreo come
Moses Mendelssohn aveva potuto diventare
cittadino eminente e vincere il premio
dell’Accademia di Filosofia nel 1763. Il
testatico a favore dei preti venne
abolito in Francia nel 1784 e in Prussia
tre anni dopo. Sia Federico II che
Caterina di Russia avevano aperto le porte
a manodopera straniera per
l’ammodernamento del proprio stato, e si
erano trovati a fare i conti con le
fedi più disparate, assumendo come insegnati
anche colti gesuiti espulsi dopo
il 1773. Tale tolleranza, in aperto contrasto
con la Chiesa di Roma o con i
cardinalati locali, era dettata perlopiù
dalla ragion di stato, ma in qualche
caso da un indifferenza verso la fede o da
aperta miscredenza; evidente in
Federico II di Prussia, massone e deista,
protettore delle arti e delle
scienze. Anche Caterina non brillava per
devozione, andando oltre i
provvedimenti di Pietro il Grande aveva laicizzato
i possedimenti terrieri
ecclesiastici e chiuso 400 conventi. Ma anche
il devotissimo Giuseppe II in
Austria non era stato da meno, adottando
criteri di limitazione dei poteri
della Chiesa di non minore efficacia. Anzi,
il “giuseppinismo” divenne
esemplare nell’infliggere colpi significativi
nei confronti del potere
ecclesiastico, che si espressero nella chiusura
di più di 700 conventi,
riducendo il numero dei religiosi da 65.000
a 27.000, nell’abolizione
dell’Inquisizione, nell’editto di tolleranza
nei confronti di protestanti ed
ebrei, nella trasformazione dei religiosi
in impiegati statali con l’obbligo di
giurare fedeltà all’imperatore.
Tutti provvedimenti dell’ultimo quarto del
secolo, a ridosso della
Rivoluzione Francese, e al cui scoppiare,
i reazionari riuscirono a mandarli in
soffitta approfittando della pubblica esecrazione
di quanto avveniva in Francia
contro gli ecclesiastici [64]. Ma
il criterio alla base di tali atti governativi
non era quello di colpire la
fede in sé, bensì l’invadenza dei religiosi,
diventata intollerabile per uno
stato moderno. Come sottolinea lo studioso
svizzero Ulrich Im Hof il clero
occupava seggi in tutti i parlamenti quale
che fosse la struttura del potere.
In Germania vescovi e abati sedevano nelle
Diete, in Francia il clero era
presente in tutti i parlamenti provinciali,
in Inghilterra la Camera Alta era
costituita da lords laici e lords religiosi
(i vescovi anglicani) [65].
L’opera di indebolimento dell’influenza del
clero locale e della lunga mano del
papato erano solo in funzione di un rafforzamento
dello stato, poiché, in
realtà, il sentimento religioso non fu per
nulla attenuato nel ‘700, e, fatta
eccezione per gli eventi francesi, la devozione
popolare fu persino in aumento.
Ne sono testimonianza il movimento pietista
e quello dei Fratelli Moravi. Lo
stesso Giansenismo era una rigorizzazione
della religione; altri movimenti
religiosi e revivalisti fiorivano ovunque,
Gran Bretagna compresa, dove anche
il misticismo di Swedenborg contava numerosi
seguaci. I Rosacroce, e gli
Illuminati trovavano seguaci dall’Austria
alla Russia e il misticismo Hassidim aveva
ricevuto un forte impulso [66].
Nell’
Ancien Régime la classe contadina era la più vessata dalle
imposte e dai
servizi obbligatori; in modo sistematico
ed inflessibile. Era anche la meno
protetta in ogni senso e considerata uno
strato sociale da sfruttare senza
troppi scrupoli. A far testo era l’estensione
della terra e il bestiame, con
pochissima considerazione per gli incerti
del mestiere, specialmente in tempi
di crisi finanziaria dello stato, che oltre
a non poter effettuare alcun
prelievo fiscale su nobili e clero doveva
a queste due classi assicurare
prebende fisse. Il contadino era in balia
totale del clima, come di
infestazioni e malattie che potevano colpire
la vegetazione e bestiame; eppure,
specialmente nelle regioni del Sud-Ovest,
l’attaccamento e la deferenza a tutto
ciò che concerneva il re e la chiesa era
indefettibile e fu infatti in queste
regioni che si ebbe la più forte attività
controrivoluzionaria. Tra le varie
imposte, la “decima”, corrispondente al 10%
dei frutti del suolo e che andava
completamene a favore del clero, era una
delle tasse più odiate, poiché era
applicata indipendentemente dall’andamento
dei raccolti. Poteva venir pagata in
natura o convertita in danaro, soluzione
che fu via via preferita dai contadini
più avveduti, che sfruttavano così la graduale
svalutazione della moneta. Non
era evadibile, perché legata alla terra,
e il «Muori ma paga!» sarebbe
stata la frase tipica dell’esattore che non
si faceva impietosire da chi aveva
avuto i raccolti distrutti dalle gelate o
dalla grandine [67] Non si sa se dovessero essere invidiati i
“senza terra”, i braccianti agricoli il cui
unico patrimonio era un baracca
dove dormire, sfruttati e sballottati da
un podere all’altro come bestie da
soma, ma che avevano lo straordinario privilegio
di non dover pagare la decima.
Altra imposta inappellabile, e da cui erano
perlopiù esentate le classi
privilegiate, era la gabelle sul sale, monopolio di stato, che imponeva
alle famiglie di comprarne una quantità minima
annua, indipendentemente dai propri
bisogni. Tra i servizi obbligatori vi era
poi la corvée, che colpiva
tutti i sudditi maschi residenti in zone
rurali e che consisteva in un certo
numero di giorni all’anno in cui erano tenuti
a prestare lavoro gratuito ai
titolari della terra. Venne abolito all’indomani
della Rivoluzione, tra i primi
provvedimenti urgenti, il 4 agosto del 1789.
La
situazione contadina, una sorta di gabbia
sociale faticosa, disagevole e senza
vie d’uscita che induceva molti giovani a
emigrare in città. Qui la vita era
più facile e vi erano notevoli possibilità
di impiego e sistemazione sicura
come servitori nelle famiglie abbienti, specialmente
aristocratiche (a Parigi
nel 1780 il 16% della popolazione era costituito
da servitori). Ciò però
determinava in chi non ce la faceva a sistemarsi
un’emarginazione pesante,
essendo la massa di poveri nelle aree urbane
via via crescente e diventando
verso fine Settecento uno dei maggiori problemi
nella maggior parte delle
nazioni europee, poiché la miseria portava
a delinquenza comune e
prostituzione. La miseria urbana aveva anche
un altro sbocco, non perseguibile,
quello dell’accattonaggio; infermità simulate
e false piaghe disgustose
potevano indurre l’incauto passante a gettare
subito la moneta per evitare di
essere inseguito da un postulante insistente.
Sarà anche stata la
consapevolezza che dell’elemosina fruivano
più gli arroganti che i veri
bisognosi a spingere i filantropi a organizzarla
per portare aiuto in maniera
mirata. Con l’aumento della popolazione degli
indigenti nelle città la miseria
urbana crebbe dalla metà del secolo in tutte
le città europee e si stima che
una città in ascesa, come Berlino, avendo
raddoppiato la sua popolazione dal
1750 al 1801 avesse dovuto registrare la
decuplicazione degli indigenti. La miseria
produceva prostituzione e nascite indesiderate;
da ciò l’aumento esponenziale
dei trovatelli, mentre altri trovavano morte
immediata ed oscura. Erano i monasteri femminili a raccogliere
e
allevare i trovatelli e tale attività encomiabile
poneva qualche rimedio a una
strage degli innocenti infame e difficilmente
quantificabile. La Rivoluzione,
almeno nelle utopiche intenzioni dei migliori,
avrebbe dovuto porre rimedio a
tutte queste situazioni. Qualche cosa fu
effettivamente fatto, ma i
provvedimenti possibili e la portata del
problema in molti casi potevano solo
far pensare al prosciugamento di una palude
con un cucchiaio.
Il
livello culturale del mondo rurale era bassissimo
e indipendentemente
dall’alfabetizzazione le letture quasi esclusive
dei contadini che sapevano
leggere erano le Sacre Scritture; d’altra
parte, in molte piccole comunità
rurali l’unico intellettuale del posto era
il parroco. Anche nei centri
maggiori e in quelli semi-rurali e già parzialmente
industrializzati la
teologia cristiana rimaneva la “scienza”
prima e fondamentale, sì che
l’acculturazione per eccellenza restava la
teologica. Da ciò il fatto che la
classe degli insegnanti fosse esclusivamente
costituita da religiosi; soltanto
i ricchi potevano permettersi dei precettori
laici e quindi soltanto
l’insegnamento privato poteva evadere da
un teologia imperante. Le stesse
università rimasero perlopiù in mano ai religiosi
fino a secolo XVIII inoltrato,
e la cultura laica cominciò ad affacciarsi
in istituzioni private come accademie
scientifiche o società letterarie soltanto
a fine secolo. Tali istituzioni
costituivano un forma importante dell’iniziativa
privata e della presenza della
borghesia nella cultura ufficiale. Ma essa
quale soggetto sociale emergente dell’Epoca
dei Lumi, non era una vera classe né era
omogenea; ciò perché i livelli di
censo all’interno di essa erano assai differenti,
ma anche perché vi era il
borghese che solidarizzava col popolo e quello
che cercava di imbrancarsi con i
preti o con gli aristocratici. La borghesia,
classe dinamica per eccellenza, così
veniva definita da William Doyle: « per il
suo carattere proprio, essa è sempre
in ascesa.» in quanto “mobilità sociale in atto” [68]. Ma
ad essa si associano presto, specialmente
in Gran Bretagna, aristocratici che
investono i loro capitali in attività produttive
e mercantili. Si ha così un
rimescolamento sociale che fa dello spirito
borghese una dote “produttiva”
trasversale, che indica chi lavora, investe
e risparmia, secondo principi già
chiaramente esposti da Leon Battista Alberti
nel Della famiglia.
Naturalmente il borghese diventa anche il
capitalista spregiudicato che fonda
manifatture dove sfrutta la forza lavoro
in maniera schiavistica, e questo è
ciò che indignava gli spiriti illuminati
e che darà più tardi a Marx gli
elementi per la sua condanna della borghesia
e del modello capitalistico. Una
definizione di come nasca dal popolo il borghese
nella Francia di fine
Settecento, e come l’esistenza della borghesia
prepari un mutamento nella mappa
del potere, ce la offre uno scritto di Antoine
Barnave rinvenuto dopo la sua
morte. Il capo dei Foglianti, ghigliottinato
nel 1793, affermava:
Quando le arti ed il
commercio si diffondono nel popolo, creando
nuovi strumenti di ricchezza e di
sostegno per la classe lavoratrice, nelle
leggi politiche si prepara una
rivoluzione; la nuova distribuzione della
ricchezza prepara una nuova
distribuzione del potere. [69]
Il
Settecento deve essere considerato il secolo
più importante per la civiltà
occidentale se non altro perché è quello
che porta alla ribalta per la prima
volta una classe tanto antica quanto occultata,
misconosciuta, sottovalutata e
vessata: quella delle donne. Quantunque solo
all’inizio del XX secolo nasca una
vera coscienza femminista, con le suffragette britanniche all’assalto, è
alla metà del XVIII che ci si accorge veramente
dell’esistenza del mondo
femminile e dell’evoluzione emancipativa
di esso. La Rivoluzione, pur carica di
violenza e caos, è tappa fondamentale di
tale evoluzione, poiché è proprio nei
giorni della Rivoluzione e nei mesi successivi
che si evidenzia sulla scena
l’elemento femminile [70]. La
partecipazione delle donne diventa così il
sicuro indice di un’evoluzione
antropologica e civile che apre la nuova
via verso l’uscita di esse da uno
stato di minorità e sudditanza. Una vera
eroina è Olympe de Gouges, che nel
1791 con una Dichiarazione dei diritti della donna e della
cittadina
rivendica una lettura corretta e una conseguente
applicazione della Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Purtroppo il corso degli
eventi, con l’andata al potere dei Montagnardi
sotto la guida di Robespierre,
vedrà la Costituzione del 1793 negare i diritti politici alle
donne, ma
non solo: verranno chiusi i club femminili
di auto-organizzazione e il 3
ottobre dello stesso anno Olympe sale il
patibolo, colpevole, come avrebbe
scritto la Gazette nationale: «di aver dimenticato le virtù che
convengono al suo sesso.» [71]
E
tuttavia qualche importante passo, almeno
nel primo periodo rivoluzionario era
stato fatto. Prima della Rivoluzione soltanto
i maschi ereditavano e se nella
coppia sorgevano problemi la moglie non aveva
alcuna possibilità di far valere
i suoi diritti, essendo giuridicamente soggetta
all’uomo. Con le correzioni
apportate dalla legislazione rivoluzionaria
i diritti del maschio e della femmina
si avvicinavano quasi alla parità. Le donne
ottengono il diritto di ereditare e
di essere titolari di beni; di comprare
e vendere, di far valere la propria volontà
nell’ambito famigliare e di
divorziare in caso di intollerabilità della
convivenza. Ma l’innovazione più
importante fu l’acquisizione del diritto
ad un istruzione pubblica identica a
quella dei maschi [72]. E
tuttavia, la donna, anche se colta, non aveva
diritto al voto, che restò fuori
dalle innovazioni sociali della Rivoluzione,
ma ciò non deve poi neppure
stupire se si pensa che cosa pensasse delle
donne uno dei padri di essa (e
“idolo” di Robespierre), Rousseau, che nel
Libro V dell’Emilio scriveva:
Così tutta
l’educazione delle donne dev’essere in funzione
degli uomini. Piacere e
rendersi utili a loro, farsene amare e onorare,
allevarli da piccoli, averne
cura da grandi, consigliarli, consolarli,
rendere loro la vita piacevole e
dolce: ecco i doveri delle donne in ogni
età della vita e questo si deve loro
insegnare fin dall’infanzia. [73]
Ma non basta:
Per il fatto stesso
che la condotta della donna è soggetta alla
pubblica opinione, la sua fede
religiosa è soggetta all’autorità. Ogni ragazza
deve seguire la religione della
madre e ogni moglie quella del marito. […]
Incapaci di giudicare da sé, esse
debbono accettare le decisioni dei padri
e dei mariti come quelle della Chiesa.
[74]
Le donne rimasero tuttavia escluse da tutta
la
sfera dei diritti politici; i partiti fondati
da donne furono boicottati e poi vietati,
i circoli culturali femminili poco spazio
e nessun aiuto. Ma nella misura in
cui la donna era messa da parte nella gestione
del potere, si pensava di
risarcirla quale immagine della patria e
della raggiunta libertà. L’iconografia
rivoluzionaria aboliva il padre-padrone regale
e lo sostituiva con la Marianna,
la Madre della Patria e della Libertà, e
creava persino la nuova divinità della
Dea Ragione [75].
Il
XVIII secolo vede anche per la prima volta
l’apparire della donna giornalista. In
Gran Bretagna nel 1693 nasce il The
Ladies Mercury, un giornale destinato specificamente al
pubblico femminile.
In questo nuovo clima ad un certo punto le
donne cominciano a scrivere articoli,
presto però i giornali li creano anche. Come
il Female tatler, che comincia a pubblicare nel 1709 su iniziativa
di
Mary de la Rivière Manley. Donna volitiva
e indipendente (e fervente tory) la Manley attaccò sul suo giornale
i whigs al governo per supposte
corruzioni. Accusata di diffamazione ed arrestata
finì in carcere per qualche
tempo. Appena rilasciata Jonathan Swift ne
fece la direttrice del suo Examiner [76]. Nel 1721 Ann Dodd era la principale
distributrice del London Journal e
anch’essa si distinse per coraggio e spregiudicatezza
nell’accusare e sapersi
difendere con abilità tutta femminile [77]. Nel
1737 Mary Wortley Montagu, sostenitrice dei
whigs fonda il The Nonsense
of Common Sense, una testata satirica di grande successo.
Lady Montagu si
rende anche protagonista di una straordinaria
operazione di informazione
sanitaria; durante un viaggio in Turchia,
avendo appreso come in quel paese si
operasse la “variolizzazione” (una sorta
di immunizzazione dal vaiolo) ne
importa la conoscenza in Europa. Ma la
più nota giornalista inglese dell’epoca è
Eliza Haywood che pubblica dal 1744
al 1746 il giornale Female Spectator,
esportato anche oltre oceano a New York,
in Pennsylvania e Connecticut [78]. In un altro giornale, Epistles for the Ladies la Haywood promuove l’istruzione femminile
in generale e in particolare gli studi scientifici
tra le donne.
In
Francia la prima donna giornalista è Marie-Jeanne
L’Heritier, che nel 1703
concepisce L’Erudition enjouée ou
Nouvelle savantes, un giornale che non uscirà mai, ma che
intendeva
protestare contro l’esclusività maschile
della stampa e sottolineare la
capacità delle donne di fondare giornali.
Le fece seguito Anne-Marguerite Petit
Dunoyer che diresse dal 1711 al 1719 La
quintessence des Nouvelles. Nel 1759
inizia le pubblicazioni il Journal des
Dames, un giornale di ispirazione femminista (ma
anche frondista) che
durerà sino al 1778. Il giornale, in difficoltà, vieen rilevato nel 1761 da Madame de Beaumer.
Si tratta di una donna coraggiosa, che si
adopra a favore degli ugonotti. È
anche femminista convinta, ma oltre che per
l’emancipazione delle donne si
batte per la giustizia sociale e la tolleranza
religiosa, la libertà
d’espressione e l’uguaglianza. Probabile
massone la Beaumer opera anche a favore della
Libera Massoneria, sostiene le idee massoniche e crede
nell’utopica “armonia universale. Alla direzione
del giornale le succede Madame
de Maisonneuve, che con la sua capacità gestionale
porta il giornale a una
buona tiratura ed in tre anni riesce a quadruplicarne
il suo valore d’impresa [79]. La Rivoluzione apre al mondo femminile grandi
speranza poi in gran parte andate deluse,
e tuttavia per qualche tempo un vero
e proprio movimento femminista fu attivamente
presente. Nell’autunno del 1789
circola anonimo un opuscolo dal titolo Requête
des Dames à l’Assemblée Nationale dove si legge: «Ah, signori … tutti i
giorni voi soffrite ancora per il fatto che
13 milioni di schiavi portano
vergognosamente le catene di 13 milioni di
despoti! Voi avete conferito la
giusta eguaglianza dei diritti […] E ne private
ingiustamente la dolce e più
interessane metà di voi!» [80] Appena un anno dopo in Motion de la pauvre Gavotte, si rilevava sconsolatamente «che
la
Rivoluzione non ha fatto niente per le povere
donne; che la disuguaglianza dei
vantaggi perpetua a loro spese l’aristocrazia
maschile.» [81]
1.4 Aneliti, pulsioni ed utopie
Dopo aver cercato di
inquadrare il contesto socio-politico-economico
del XVIII secolo dobbiamo a
trarne qualche prima indicazione filosofico-antropologica.
La nostra ipotesi è
che l’uomo riflessivo del Settecento potesse
chiedersi: « Che cosa sono? Dove sono? Dove vado ? »,
e,
guardandosi intorno, pur in una situazione
relativamente tranquilla, avere la
vaga sensazione che domani o dopodomani “nulla
sarà più come prima”. Qualcosa
“sta per morire” e qualcosa “sta per nascere”,
egli può aver pensato, ed
esserglisi affacciati timori, dubbi e speranze
entro questa polarità
possibilistica. Il filosofo è un po’ come
il cane, che avverte l’infrasuono del
movimento tellurico che si prepara e ne cerca
un’”interpretazione”, ma accanto
a lui vi è sempre un politico che vive il
prossimo terremoto come una
“possibilità”. Tra il pensiero del filosofo
e l’azione del politico si dispiega
il coacervo di progetti, movimenti, azioni,
retroazioni e reazioni di tutti i
momenti epocali della storia umana. Il politico
non si chiede tanto che cosa
stia accadendo, quanto piuttosto come possa
cavalcarlo od agire su di esso ad
un certo fine, teleologicamente. Se qualcosa
sta per morire, si domanderà:
«Quando” e “come” ciò sarà?», «Come evitarlo?»,
«Come salvarsene?»; oppure:
«Come promuoverlo?», «Come accelerarlo?»,
«Come gestirlo?»; queste le domande
del politico. Se il filosofo è relativamente
neutrale e il suo coinvolgimento soltanto
una possibilità o una scelta, il politico
vi è
da sempre “dentro”, a scegliere il suo destino,
pena non esser tale. In
questa differenziazione di atteggiamento
si gioca tutta la variegata compagine
dei protagonisti dell’epoca dei Lumi, ed
è da questo punto di vista che va
condotta un’analisi di quella temperie per
cogliere quanto in essa vi sia di filosofia,
quanto di politica, quanto di ideologia,
quanto di utopia. Con ciò non
intendiamo definire la filosofia come una
sorta di “categoria mentale” dell’esser
uomo, scissa da quella della politica o della
religione, ma operare una
distinzione tra il “produrre riflessioni
e ricerche filosofico-antropologiche”
e il “produrre progetti e accadimenti antropotropi”.
Il
Settecento è un secolo in cui l’uomo che
pensa, indipendentemente da come pensa,
e quale che sia la sua weltanschauung, avverte che di fronte a sé ha un
orizzonte di liberazione “da” qualcosa e
la possibilità di accesso “a”
qualcos’altro. Questa sensazione può indurre
timori o speranze, tutte legittime
e tutte fisiologiche, ma anche psicosi, fobie,
appetiti, tra i quali si
insinuano i germi del millenarismo, del messianismo
e dell’ideologia. Tra i
sentimenti di timore o di speranza per la
fine di un buono o cattivo “vecchio”
sistema umano e le perplessità o l’aspettativa
di uno “nuovo” si gioca la
dialettica delle ideologie settecentesche
e in qualche maniera il destino del
secolo. Molte delle nuove idee partono da
lontano, dal ‘500, e anche da prima,
tra le qual spiccano quelle che riservano
una nuova attenzione
all’individualità, che delineano una nuova
etica del “profano” volta alla
felicità terrena, all’interesse per la natura
in se stessa e non quale
creazione di Dio. Idee che nascono in un
ambito sociale nuovo, né aristocratico
né religioso, ma che si differenzia da un
popolino vessato e umiliato, al
servizio dei primi due e lasciato nell’indigenza
e nell’ignoranza. È costituito
da individui che vengono dal popolo, ma che
non sono più disposti a restare
popolo; uomini che contano sul loro lavoro,
sull’intelligenza, sull’inventiva, sull’intraprendenza;
ma anche sulla furbizia, sulla spregiudicatezza,
talvolta su di un’evidente
disonestà.
Tale è
la complessità antropologica della borghesia,
un gruppo che non gode di
privilegi, né di poteri, né di diritti particolari,
ma che si conquista i
propri agi e i propri poteri passo a passo
e a fatica, ma in modo ineluttabile,
sfruttando tutti i vicoli e le nicchie che
il regime regal-nobiliar-clericale gli
lascia aperti. E nelle sue file ci sono anche
approfittatori e sfruttatori di
un popolino dal quale provengono, individui
che si costruiscono delle fortune
con arroganza, senza scrupoli, al solo fine
di arricchirsi. Il fenomeno non è
nuovo, già largamente presente nel mondo
romano con la nascita dell’aristocrazia
“di censo”, riapparsa col superamento del
Medioevo nel XIV secolo e che si
distende nei secoli successivi. Ma nel mondo
antico ciò era considerato
fisiologico, essendo la società divisa in
liberi e in schiavi senza diritti. I
nobili, gli equites, erano ricchi di famiglia, i plebei avevano
un unico
modo di arricchirsi, diventare commercianti
o imprenditori e sfruttare qualcosa
e qualcuno. Dal Settecento in poi ciò non
è più ritenuto “fisiologico”, e si
pone il problema morale se i fini giustifichino
i mezzi di tale ascesa di censo.
Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo provoca
una nuova riflessione sulla
legittimità morale di quel fenomeno iniquo,
e specialmente la tratta degli
schiavi, il colossale “affare” del secolo
precedente, incomincia a turbare le
coscienze. E non sono il papa, né altezzosi
porporati, né, né pii abati, a
porsi tale problema, ma “anticristi” come
Diderot e spretati come Raynal. E
tale nuova visione dei rapporti tra gli uomini
si accompagna ad un interesse
del tutto nuovo vero il “diverso”, quello
considerato “inferiore”, colui che
appartiene a un cultura “non cristiana”.
Occupiamoci
ora più da vicino del tema di questa sezione
di studio, che abbiamo incentrato
sui concetti di anelito, pulsione, utopia,
proprio per analizzare aspetti
culturali ed emotivi che non nascono dall’Illuminismo,
ma che ad esso si
sovrappongono come retaggi del passato in
quanto ancestrali, ed anche tipici di
ogni temperie magmatica ed evolutiva. Tutte
le vere rivoluzioni, pacifiche o
violente che siano, sono caratterizzate da
una base pulsionale; sopra di essa nascono
aspirazioni per il cambiamento di una situazione
giudicata non più tollerabile,
soluzioni immaginate nell’ambito di un ottimismo
talvolta metafisico o messianico,
utopie di riorganizzazione umana talvolta
più “sognata” che “possibile”. Il
soggetto agente di queste emergenze del sistema
umano è un “corpo attivo” di
persone, anche di provenienza sociale e culturale
differenziata, animate da
idee convergenti, che nel “momento” rivoluzionario
costituiscono una forza
sodale unica. Gli elementi irrazionali spesso
prendono il sopravvento su quelli
razionali, ed allora riemergono elementi
di arcaismo che tradiscono sempre
(ancorché occultate) basi religiose molto
profonde. E il fondo religioso non è
necessario che evochi figure divine, basta
che evochi esiti ideali che in
qualche modo evochino illusioni di “redenzione”
dal male, tipiche dei
messianismi, generando una sovrastruttura
ideale della pulsione rivoluzionaria
che finisce per diventare la calamita occulta
dell’impulso all’azione. Tipici
di tale sovrastruttura sono la credenza nell’esistenza
di una Virtù come valore
in sé calato nell’umano, la convinzione che
l’uomo sia perfettibile e
rigenerabile “d’un sol colpo”, che la società
possa realizzare il superamento
dell’egoismo individuale. Tocqueville (un
reazionario intelligente) era
addirittura convinto che la religione c’entrasse
in modo diretto, accompagnando
in sottofondo il processo rivoluzionario:
Quando la religione
disertò i cuori, essa non li lasciò, come
spesso avviene, vuoti e debilitati;
valsero temporaneamente, a colmarli, sentimenti
e principi che della religione
tennero il posto, impedendo ad essi di accasciarsi
d’un tratto. [82]
Non va
dimenticato che all’indomani della Rivoluzione,
con la costituzione civile del
clero francese, il 54% di curati, cappellani
e vicari, giurò fedeltà alla
Repubblica, continuando a rendere i servizi
divini e praticare i sacramenti
come nell’epoca monarchica. Gli altri o si
nascondono o contano sulla cintura
di protezione dei fedeli. Ma nel settembre
del 1792, quando si accentua la
grande paura del “complotto aristocratico”,
si mette in moto una macchina
preventiva e punitiva feroce, che vede 3.000
arresti tra aristocratici e preti [83]
refrattari al messaggio rivoluzionario. Si
fanno processi-farsa al solo fine di
mettere in mano ad una massa di esagitati
circa mille persone (di cui 300
preti) che vengono massacrati in maniera
sommaria nelle prigioni di La Force
e de L’Abbaye [84] Lo scopo è di placare l’odio e la sete di
vendetta di persone che, a torto o a ragione,
ritengono che i preti siano i
primi responsabili dei loro guai, ma anche
quello di realizzare un’ebbrezza
liberatoria che erompe da animi frustrati.
La forza
predicatoria di alcuni protagonisti della
Rivoluzione è un elemento d’analisi
assai interessante. Si legga ciò che scrive
nel 1789 il dantoniano Lucie-Simplice
Desmoulins sulla France libre:
Fiat, Fiat,
tutto questo bene sta per attuarsi, questa
Rivoluzione fortunata e questa
rigenerazione stanno per compiersi, nessuna
potenza sulla terra è in grado di
impedirlo. Per un sublime effetto della filosofia,
della libertà e del
patriottismo, siamo divenuti invincibili!
[85]
Un tono profetico e predicatorio che nasconde
un’evidente pulsione religiosa. Il “compimento
dei tempi” e l’”invincibilità” degli
“eletti alla Rivoluzione” che hanno il privilegio
di viverla. Nello stesso
tempo, con un’idea un po’ confusa di ciò
che sia la “filosofia”, le si
conferisce la paternità di un evento prodigioso
di mutamento e di rigenerazione
umana. La Rivoluzione è infatti “fortunata”,
e la rigenerazione che essa comporta
è il realizzarsi della speranza messianica
in un “evento” che sembrava
impossibile. Marat, analogamente, affermava
sull’Ami du peuple: «La
Rivoluzione si realizzerà infallibilmente,
e nessuna forza umana potrà
opporvisi! » [86] Si tratta probabilmente di pura retorica,
ma
è difficile pensare che un filosofo ateo
potrebbe mai parlare di “forza umana”
per sottintendere che solo una forza “sovra-umana”
potrebbe mutare gli eventi.
Il conseguimento del rovesciamento del vecchio
ordine e l’instaurazione di un
“nuovo ordine”, da parte di un popolo che
solo “ora” acquista una sua realtà
politica, fa dire a Emmanuel-Joseph Sieyès
nel gennaio 1789: «Che cos’è il
Terzo Stato? Tutto. Che cos’è stato finora
nell’ordine politico? Nulla. Che
cosa vuole? Diventare qualche cosa.» [87]
L’idea
di eguaglianza si coniuga con quella di una
felicità che diventa
automaticamente “per tutti” costituendosi
la “buona novella” rivoluzionaria.
Saint-Just afferma nel marzo 1794: «La felicità è un’idea nuova in Europa»
(come se essere felici fosse una prerogativa
solo dei nuovi tempi). Marat
scrive nel 1793 in Le pubbliciste de la Révolution franςaise: « […] era riservata ai Francesi la pretesa
di
rovesciare tutte le istituzioni politiche
e di stabilire un nuovo ordine
attraverso la sola forza della filosofia.»
[88]
Frase notevole, sia perché rivendica una
“missione” del popolo francese, sia perché
pone la tesi del “nuovo ordine” e sia perché
chiama in causa la filosofia in
sostituzione della teologia. Dirà nel febbraio
1789 (Offrande à la Patrie):
«Sappiate finalmente qual è il prezzo della
Libertà, sappiate qual è il prezzo
di un istante.» [89] Ma per quanto gli accadimenti superino ciò
che si era potuto immaginare, sì da risultare
inaspettati (almeno nella loro
dimensione e intensità) nondimeno vi è la
convinzione del “non ritorno”.
Persino un Joseph Cambon, tecnico razionalista
e poco incline agli entusiasmi,
scrive il 23 gennaio 1793 in uno slancio
lirico: «Siamo finalmente approdati
all’Isola della Libertà, e abbiamo bruciato
il vascello che ci ha portati fin
qui!» [90] Due
giorni prima Luigi XVI è stato ghigliottinato
e vi è la consapevolezza di aver
eliminato un ostacolo prima considerato insuperabile
sulla strada della
libertà. Nulla sarà più come prima.
L’eliminazione della monarchia in maniera
radicale, l’annientamento
fisico del suo rappresentante, è un fatto
insperato che stupisce gli stessi
protagonisti dell’impresa. Ma se qualcuno
mostrasse qualche perplessità vi si
contrappone Jacques-René Hébert che nel Père Duchesse esorta: «Non
dobbiamo tornare indietro, perdio, la Rivoluzione
deve esser portata a termine,
un solo passo indietro sarebbe la fine della
Repubblica!» [91] Ed
il 20 gennaio 1793: «Eccoci ormai lanciati,
ci siamo tagliati i ponti alle
spalle; bisogna andare avanti per amore o
per forza e ora soprattutto è davvero
il caso di dire: vivere liberi o morire!»
[92] Qui
serpeggia il dubbio sull’”irreversibilità”
dei fatti, e l’amore per la libertà
si coniuga col rischio eroico della morte
come prezzo da pagare. Gli fa eco
pochi giorni dopo Jean Bon Saint-André: «Dobbiamo
condurre in porto il vascello
dello stato, o morire con lui.» [93] In un
clima da “trionfo della morte” eroica, messianica
e giustizialista, i nuovi
eroi l’assumono come categoria esistenziale
fatale e inevitabile. Danton nella
primavera del 1793 si domanda: «Il popolo
non ha forse il diritto di fremere
per la patria fino al delirio?» [94] A
cui risponde Jacques Roux affermando: «Che
il patriottismo si scateni come un
leone, ancora più terribile che al suo primo
risveglio!» [95]
Scatenamento e terribilità in quest’epoca
di bufera che tutto sovverte e
travolge. Molti storici si sono chiesti che
cosa avrebbero pensato Voltaire e
Rousseau, considerati dai fautori della Rivoluzione
i due grandi profeti di
essa, se si fossero trovati a viverla. Un
sopravvissuto come Condorcet vive,
nota Vovelle, il dramma umano del confronto
«tra mutamento sognato e mutamento
vissuto» [96]. In ogni caso la morte
pare essere diventata una categoria antropologica
propria della temperie
rivoluzionaria. Che i fuoriusciti monarchici
cercassero appoggi negli altri
regni europei per invadere una Francia stremata
e prendersi la rivincita è
sicuro, ma è da chiedersi come mai, fin dal
1792, ci fosse qualcuno che potesse
pensare a una guerra “totale” contro le monarchie
vicine. Si sa per certo che
Robespierre raccomandava di non enfatizzare
le provocazioni dall’esterno per
evitare di avventurarsi in conflitti pericolosi,
che avrebbero ulteriormente
dissanguato il paese di uomini e di risorse.
Ma vi sono spiriti battaglieri
come Jacques Pierre Brissot (si veda la nota
78), che non esita a scrivere un Discours
sur la nécessité de déclarer la guerre, pensando che solo con la guerra i
Francesi possano consolidare le libertà conquistate,
mettendole al sicuro da
attacchi proditori, ed insieme concretizzare
il superamento dei vizi pregressi
del dispotismo.
Non
può nemmeno sfuggire, insieme col tono profetico
di alcuni protagonisti, il
senso di arcaismo sacrale del fatto rivoluzionario.
Una sorta di “evento
sacrificale” di purificazione e di rigenerazione
messo in evidenza da Mona
Ozouf, che nel suo La fête révolutionaire, parla di un “transfert di
sacralità” [97]. In effetti veri e propri
autodafè simbolici sono le coreografie pubbliche che
hanno luogo dal
1792 in poi. Il 14 luglio di quell’anno a
Parigi è montato un gigantesco albero
carico di relitti del “passato”, come stemmi
e blasoni nobiliari, e il fuoco
divoratore che lo distrugge scatena l’entusiasmo
e la commozione di chi vede
compiersi una speranza messianica. Il fuoco
purificatore compie la sua funzione
sacrale un po’ dovunque, e gli arredi sacri
sono spesso oggetti privilegiati di
essa: confessionali, statue lignee, quadri,
paramenti, vengono tolti alle
chiese, ammucchiati davanti ai sagrati e
dati alle fiamme. La cerimonia
cristiana dei falò della notte di San Giovanni
trova qui la sua
rivitalizzazione blasfema; partecipando
ad essa numerosi sono i protagonisti che
si mascherano secondo i criteri del charivari
e del Carnevale. Si diffonde anche il corteo
dell’asino “mitrato”, che fa il
verso alla processione cristiana, e altri
cortei coi simulacri dei re e degli
imperatori, condotti ad un simbolico rogo
finale, come per il fantoccio
carnascialesco di Caramantran o per quello della Vecchia, che
sanciva la fine dell’inverno [98].
Irrazionalismo popolare pilotato? Forse.
Ma con esso, su un terreno politico
razionalistico, si fa strada il nuovo concetto
di “popolo”, che si esprime
nelle figure del “cittadino” e del “patriota”.
Nell’Ancien Régime vi era
solo una massa indistinta di sudditi da cui
si esigeva venerazione, mentre nella
Repubblica ogni cittadino vede nascere una
“patria” che è diventata “roba
nostra”, e non più “roba di altri”. Il berretto
frigio e la coccarda ne sono
simboli tangibili apposti sul suo corpo.
Ma vi
è anche chi diffida di questa nuova religione
della patria e delle sue
manifestazioni simboliche. Tra questi Marat,
che ne denuncia l’ambiguità
mistificatoria, in nome di un’autenticità
rivoluzionaria ed austera che gli
pare tradita vedendo il rischio che la Rivoluzione
si tramuti in una
carnevalata pseudo-religiosa. E non ha tutti
i torti, a giudicare da cerimonie
come il cosiddetto “Bacio Lamourette”, messo
in scena dal cardinale Lamourette
di Lione quale simbolismo di una fusione
tra la fede religiosa e quella
patriottica, attraverso la quale eliminare
la cesura profonda in un orizzonte
edenico ed irenico di fraternità. Il concetto
di felicità entra direttamente in
simbiosi con quello di rinnovamento (o di
rinascita) fin dal 1789, quando in
Notre-Dame, il principale tempio della religiosità,
il 7 settembre Claude
Fauchet chiede di giurare sulla “volontà
di felicità” con le seguenti parole:
«Fratelli, giuriamo nel primo tempio dell’Impero,
giuriamo sotto le bandiere
consacrate alla religione della libertà,
giuriamo che saremo felici!» [99]
Esortazione sicuramente assurda, ma che testimonia
quell’ingenua speranza che
caratterizza molte espressioni della mentalità
rivoluzionaria. Va tuttavia
osservato che il tema della felicità è tipico
dell’etica dei Lumi, sì che nel
1743 il gesuita Jean Croiset aveva tuonato
contro gli “heureux du siècle” che
si sono votati al piacere: «Questi uomini
di mondo la cui vita è una continua
festa […] questa gente che fa voti solo alla
fortuna […] Credono che non ci sia
salvezza [dal dolore] per quelli che vivono
secondo la morale di Gesù Cristo?» [100]
Siamo qui quasi al paradosso che il teologo
cristiano, dopo secolo di apologia
dell’espiazione dei peccati, annunci la “via
alla felicità” del Cristianesimo,
una via che peraltro aveva già imboccato
il deista Samuel Clarke col suo A
Demonstration on the Being and Attributes
of God del 1705, dove sosteneva
che: «L’esistenza di Dio è una cosa desiderabile,
e ogni uomo saggio non può
non dirsene contento per il bene e la felicità
del genere umano.» [101]
L’esito finale di questo processo può essere
visto in una corrente del
Cristianesimo che finisce per riconoscersi
nel deismo sentimentale di Rousseau,
come è desumibile da un’opera del 1779 di
un certo Vernes che porta il titolo
di Catéchisme, dove, come nota la Froeschlé-Chopard «È
la stessa visione
ottimistica dell’uomo, la stessa fiducia
nella natura, la stessa incapacità di
peccare. La sola differenza tra cristiani
e deisti sta nel fatto che i primi
restano legati a dogmi irrazionali che i
secondi non possono più accettare.» [102] La
studiosa passa a citare per esteso un brano
de La nouvelle Héloïse (parte
sesta, lettera VIII) che Rousseau mette in
bocca a Julie. Si tratta del credo
di una “religione del sentimento” di notevole
forza teologica e ricco di
fascino, che vuol far piazza pulita dell’immagine
biblica del “Dio irato” per il
peccato edenico dei nostri progenitori:
Il Dio che io servo è
un Dio clemente, un padre. Ciò che mi colpisce
e mi commuove è la sua bontà,
essa cancella ai miei occhi tutti gli altri
suoi attributi, è il solo attributo
che io concepisco. La sua potenza mi meraviglia,
la sua immensità mi confonde,
la sua giustizia … ha fatto l’uomo debole;
poiché è giusto, è clemente. Il Dio
vendicatore è il Dio dei malvagi, io non
posso né temerlo né invocarlo contro
altri. O Dio di pace, Dio di bontà, è te
che adoro! Io sono opera tua, lo
sento, e spero di ritrovarti il giorno del
giudizio così come mi parli durante
la mia vita. [103]
La fede di Julie è la fusione di un
cristianesimo razionalistico con l’amore
panico per la natura, dispensatrice (“per
conto di Dio”) di ogni bene, in un empito
entusiastico che unisce l’uomo,
figlio del Dio padre, alla sua culla naturale,
la divina Madre Terra. Anche da
qui partirà il Romanticismo e le varie evoluzioni
panteistiche dell’Idealismo
ottocentesco, dove Dio prenderà il nome di
Spirito, di Assoluto o di Ragione.
Il rousseaismo d’altra parte è molto di moda,
e Louis-A. de Caraccioli in La religion de l’honnête homme, del
1766, constata come anche i religiosi vi
stiano cedendo, come a un
irresistibile spirito del tempo:
In quanto preti e
spesso uomini pii erano meglio preparati
di altri per capire quanto vi fosse di
profondo e convincente nel cristianesimo
di Jean Jacques. Hanno respinto le sue
negazioni ma si sono impregnati del suo spirito,
e hanno messo questo spirito
al servizio della loro religione. […] Nel
momento in cui scoppia la Rivoluzione
c’è già nei preti più moderni e più aperti
alla sensibilità del secolo un
“genio del cristianesimo” diffuso, che aspetta
solo un grande artista per
essere scritto. [104]
Il pensiero
rivoluzionario porta anche al tentativo di
riformare (almeno formalmente) il
rapporto con la morte. Sia che venga vista
sotto il punto di vista panteista,
deista, agnostico od ateo, vengono meno molti
dei presupposti cristiani che la
vedono come il grande passaggio all’aldilà
e, nel caso di morte in grazia di
Dio, come l’accesso all’eterna beatitudine
del Paradiso. Tra le metafore di
maggior successo in epoca rivoluzionaria
si impone quella del “sonno”; Joseph Fouché,
che ne è proponente e sostenitore, fa scrivere
sui muri dei cimiteri della
Nièvre “La morte è un sonno eterno”. Nel settembre 1793 egli emana
un’ordinanza che regola il rito funebre nei
tempi e nei modi: i resti del
defunto vanno seppellito in “luogo comune”
previa cremazione, l’urna va coperta
con un lenzuolo che reca l’immagine del Sonno.
Il luogo comune, in cui devono
trovano riposo le ceneri dei defunti, sarà
pieno di alberi, sotto l’ombra dei
quali sarà posta una statua rappresentante
il Sonno (e ogni altra
raffigurazione è proibita!). Infine, sull’ingresso
del cimitero, sarà posta
l’iscrizione “La morte è un sonno eterno”
[105]. Ma
Robespierre non è d’accordo e lo sconfessa;
elabora invece un testo importante,
che suona risposta ai materialisti ed è preludio
della proclamazione ufficiale,
nel giugno del 1794, del rito dell’Essere
Supremo. Con esso: «Il popolo
francese riconosce l’Essere Supremo e l’immortalità
dell’anima».
L’Incorruttibile comincia col domandare:
Che vantaggio
troveresti nel persuadere l’uomo che una
forza cieca sovrintende al suo destino
e colpisce a caso crimini e virtù, che la
sua anima è solo un alito leggero che
si spegne alle porte della tomba? [106]
Per finire atto di fede nel Dio deista:
Non arrivo a capire
come la natura avrebbe potuto suggerire all’uomo
delle finzioni che fossero più
utili di tutte le realtà; se anche l’esistenza
di Dio e l’immortalità
dell’anima non fossero altro che sogni, sarebbero
ancora le più belle creazioni
dello spirito umano. [107]
Questa
nuova coreografia della morte coincide col
richiamo al mondo antico pre-cristiano
e alle sue virtù. Secondo Vovelle, almeno
sei immagini su dieci relative alla
morte si rifanno al mondo greco o a quello
romano. Le morte guerriere di
Ettore, di Achille, di Enea sono evocate
come modelli di eroizzazione laica,
sostitutivi delle agiografie dei martiri
cristiani. Le cerimonie di
eroizzazione subentrano alle assunzioni in
cielo; nasce un pantheon
rivoluzionario nel quale spiccano e giganteggiano
le figure di Marat, di
Lepetelier e di Chalier; la “trinità” dei
proto-martiri della patria, che in qualche caso dà luogo
ad
un vero culto a testimonianza della devozione
popolare verso questi personaggi.
Curiosamente, questo culto confluirà in seguito
con quello di eroi romantici
(virtuali contro-rivoluzionari) in una temperie
che esalterà la “bella morte” e
il “culto della memoria”, così ben espressa
nell’alta poesia dei Sepolcri foscoliani.
Il
rappresentante Marie Joseph Lequinio, a Rochefort,
nel Tempio della Verità
(l’ex cattedrale della città), aveva dichiarato:
«No, cittadini, no, non esiste
una vita futura […] di noi resteranno solo
le sparse molecole che ci formavano,
e il ricordo della nostra esistenza passata.»
[108]
L’unica cosa che resta di una vita è il ricordo
dei posteri, se il defunto ha
saputo guadagnarselo in vita con azioni gloriose,
o comunque meritevoli di
pubblica riconoscenza. Un nuovo orizzonte
escatologico, più realistico e laico,
ma che non possiede il fascino dell’escatologia
religiosa cristiana. Nel
contesto dell’etica rivoluzionaria un posto
particolare occupa quella
giacobina, di cui tratta Vovelle ne I giacobini e il giacobinismo. Il giacobinismo
non è stato un movimento univoco (già Michelet
distingueva tra tre epoche e tre
tipi di esso), ma sul piano etico ebbe una
relativa omogeneità basata sul
concetto di unità solidale del gruppo, alla
quale si associano criteri etici
che valorizzano la sobrietà, la frugalità,
la fedeltà, la generosità, la
probità, l’altruismo, la solidarietà. A tale
assunto etico, del tutto
encomiabile, si accompagna tuttavia un concetto
di “esclusione” del
non-giacobino, quindi un certo settarismo,
che finisce per farne una “chiesa”
laica sostitutiva di quella religiosa. Né
mancheranno attività di proselitismo
di “missionari della libertà” e di “apostoli
civici” che girano le campagne e
predicano la nuova morale rivoluzionaria
[109].
Tra le numerose stravaganze vi è anche il
tentativo di imporre una nuova religione
chiamata “teofilantropia”, il cui inventore,
Louis-Marie La Révellière-Lépeaux, ministro
per l’istruzione pubblica nel 1795,
è stato definito dallo storico Albert Sorel (con allusione
a
Rousseau): «il vicario savoiardo del governo»,
e che Furet e Richet giudicano un’«autentica
personificazione delle contraddizioni del
suo tempo» [110] Ma le contraddizioni del Settecento sono
inesauribili, e così anche un anti-illuminista
come Rousseau viene fatto
passare per un illuminista da molti eminenti
storici un pò distratti. Del
pirotecnico Jean-Jacques parleremo a suo
tempo, ma per ora leggiamo una sua breve
frase, dove l’apologia dell’arcaismo si lega
ad un pessimismo antropologico dai
toni melodrammatici:
Tra gli elementi naturali regna l’accordo,
e gli
uomini vivono nel caos! Gli animali sono
felici, solo il loro re è sventurato!
O saggezza, dove sono le lue leggi? O Provvidenza,
è così che regoli il mondo?
Essere benefico, che fine ha fatto il tuo
potere? Io vedo il male sulla terra. [111]
1.5 Concetti
illuministici, misticismi,
esoterismi, massoneria
Nel
considerare alcuni concetti-chiave dell’illuminismo
dobbiamo richiamarci alla nostra
prefazione, dove abbiamo visto che
sia per Mendelssohn e sia per Kant l’Illuminismo
non fosse una “fase” storica,
bensì un processo antropico, un tendere alla
“liberazione della ragione”. Un
giudizio molto più tardo, quello di Cassirer,
espresso nel Die Philosophie
der Aufklärung, ci dice che l’illuminismo in realtà si
sarebbe configurato
come un progetto di predominio della scienza
a scapito della tradizione e della
religione, la cui partenza egli pone con
Leibniz e il suo compimento con Kant.
Quasi scontato che il neokantiano vedesse
nel pensiero del filosofo di
Königsberg il compimento di un processo di
illuminazione del pensiero; meno
comprensibile come potesse farlo iniziare
da Leibniz. Il teologo filosofale
della Monadologia avrebbe fatto partire un processo di liberalizzazione
del razionalismo cogitativo sì da mettere
in mora il pensiero religioso? Ne
dubitiamo molto. In realtà tutto ciò nasce
dal sostanziale fraintendimento
cassireriano del concetto di “scienza”, tipico
dei metafisici.
Pet
Gay, in un’opera notevole anche per dimensione
(due volumi successivi a partire
dal 1966), dal titolo The Rise of Modern Paganism e The science of
Freedom, segue il criterio cassireriano vedendo
l’inizio del processo
illuministico in una prima “generazione”,
rappresentata da Voltaire e
Montesquieu e da una seconda rappresentata
da Diderot, d’Alembert e Rousseau.
Sottostante sarebbe stato, secondo Gay, un
vero e proprio “progetto” per
liberarsi della religione cristiana attraverso
la sostituzione del rispetto
verso l’autorità con l’uso critico della
ragione, sì da rifondare il rapporto
dell’uomo con se stesso e con la società.
Di fronte a tale posizione un altro
studioso, Bernard Plongeron, nel suo Recherches sur l’Aufklärung catholique
en Europe occidentale, 1770-1820, del 1969, ritiene invece il processo
assai più complesso e problematico, sottolineando
il fatto che non sempre i
rapporti tra le istituzioni religiose e la
cultura illuministica sono stati
conflittuali; è noto, infatti, che tra gli
intellettuali illuministi vi erano numerosi
religiosi. Non solo, la complessità della
cultura illuministica si evidenzia
anche dalla presenza ingombrante di tendenze
decisamente irrazionalistiche,
come il “mesmerismo”, insieme ad aspetti
mistici, esoterici e ritualistici
della massoneria.
Una
delle interpretazioni più note e critiche
è certamente quella resaci da
Horckheimer e Adorno col loro Dialektik der Aufklärung, sulla quale
torneremo più diffusamente nel XIV capitolo.
Essa vede nella barbarie nazista
una filiazione del razionalismo illuministico,
facendo risalire all’uso di una
ragione “strumentale” il suo compiersi nel
totalitarismo. Esso sarebbe stato il
puro esercizio di un potere razionale perverso
sulla natura e sugli uomini, con
la trasformazione in “merce” dello stesso
“conoscere” e la scissione tra
conoscenza ed etica. In realtà i due francofortesi
non facevano che riprendere
un atteggiamento già di Hegel, che in Fenomenologia dello spirito (1807)
si domanda: «Se ogni pregiudizio e ogni superstizione
sono stati messi al
bando, si presenta allora la questione: che
resta dunque? Qual è la verità che il
rischiaramento [Aufklärung] ha divulgato
in luogo di quelli?» [112] L’iper-idealista Hegel pare
diffidasse della ragione quale strumento
conoscitivo, come se essa fosse una
facoltà da usare “con riserva” o “con moderazione”.
Atteggiamento tipicamente
teologico (ancorché anticristiano), che ha
creato (spinozianamente) una
Ragione-Dio-Spirito dell’immanenza, come
peraltro si evince sin dall’inizio
della Prefazione della Fenomenologia, dove
si evoca il senso del divino e si
definisce dell’uomo con l’Assoluto, ovvero
con il Dio-Spirito:
Un tempo essi [gli
uomini] avevano un cielo fatto di vasti tesori
di pensieri e immagini. Il
significato di tutto ciò che è stava nel
filo di luce che tutto al cielo teneva
attaccato; una volta rifugiatosi in cielo
lo sguardo, anziché soffermarsi sulla
presenzialità di questo mondo,
vi scivolava su verso l’essenza divina, verso,
se così si possa dire, una
presenza fuori del mondo. L’occhio dello
Spirito dovette a forza venir rivolto al terreno, e qui venir
trattenuto; e c’è voluto tempo assai prima
di introdurre, nell’ottusità e nello
smarrimento in cui si trovava il senso dell’aldiquà,
quella chiarezza che solo
il sovraterreno possedeva, prima di riconsacrare
all’interessamento umano
quell’attenzione a ciò che è presente, la
quale vien detta esperienza [113].
Dunque, “ripristinare” un sistema di credenza
e
nel contempo rimpiazzarlo con qualche cosa
di meno ingenuo, di meno
irrazionale, e, in definitiva di più “spirituale”
e “totalizzante”. Hegel, in
fondo, diffidava soprattutto di un individualismo
di cui l’Illuminismo sarebbe
stato foriero, e di una prevalenza della
mente dell’uomo a scapito
dell’aspirazione alla Mente del Tutto, lo
Spirito divino. Egli riprendeva così
la preoccupazione di Mendelssohn, ritenendo
che la ragione potesse condurre al
solipsismo umanistico dell’autosufficienza.
La Rivoluzione Francese, in quanto
borghese, era per Marx la prova abortita
di quella che sarebbe stata la “vera”
rivoluzione sociale che solo il Comunismo
poteva compiere. In realtà, quella
francese, e contrariamente alle conclusioni
della superficiale analisi marxiana,
non è stata solo un caso di “lotta di classe”,
bensì un fenomeno assai più
complesso, nel quale le giuste rivendicazioni
delle classi vessate si
evidenziano, ma non sono le uniche motrici
degli eventi. La stessa presa della
Bastiglia, che apre la stagione rivoluzionaria,
non fu affatto opera di
popolani disperati ed affamati, bensì di
piccoli borghesi, di commercianti ed
artigiani “arrabbiati”, non “affamati”. Sono
“più rivoluzioni” culturali e
politiche a convergere in un unico evento
rivoluzionario, che tutte le
raccoglie e tutte le interpreta, comprendendo
aspirazioni anti-monarchiche e
filo-repubblicane, anti-cristiane e filo-deiste,
messianiche e millenaristiche,
nelle quali disperazione e speranza, scetticismo
e ideali si intrecciano in un
coacervo concettuale intricato e contraddittorio.
Vi sono storici come Furet e
Richet che pongono fin dal 1796, con il fallimento
della cospirazione di Babeuf
(che definiscono «primo comunista della storia
di Francia» e fautore
dell’«egualitarismo della miseria» [114]) la
fine di un moto di popolo come forza indipendente
all’interno di un complesso
gioco politico [115].
François-Noël Babeuf (1760-1797), importante
figura di giornalista rivoluzionario, scoprendo,
all’indomani della Rivoluzione, che la componente
borghese prevale su quella popolana (e non
abolisce il diritto di proprietà) nel novembre
del 1795 scrive sul suo giornale, «Il tribuno del
popolo», un Manifesto dei plebei
che pone l’eguaglianza “reale” a base di
ogni stato virtuoso. Per conseguirla
egli sostiene che è indispensabile distruggere
«i germi della cupidigia e
dell’ambizione» [116] ed
inoltre:
Che l’unico mezzo per
arrivarci è stabilire l’amministrazione
comune; sopprimere la proprietà privata; legare
ogni uomo al talento,
all’attività che conosce; obbligarlo a depositare
il prodotto in natura al
magazzino comune; istituire una semplice
amministrazione della distribuzione,
un’amministrazione delle sussistenze, la
quale, tenendo registro di tutti gli
individui e di tutte le cose, ripartirà queste
ultime secondo la più rigorosa
eguaglianza [117].
Dal
punto di vista culturale sono filosofi del
‘600 inglese come Bacone e Locke a
porsi come padri nobili del rinnovamento
sociale, ma è il caso di ricordare la
profonda ambiguità della parola “rivoluzione”
in politica, poiché il termine è astronomico
e significa “ritorno”, non già “rinnovamento”,
in quanto è la “orbita completa”
di un pianeta intorno alla sua stella. Va
però anche notato che molti
rivoluzionari, tra il 1750 e il 1775, pensavano
ad un abbattimento dell’
Ancien Régime al fine di “ripristinare” un situazione
sociale alterata
dagli abusi monarchici, ma poi avevano come
modello la liberale e democratica
Gran Bretagna, che semmai era “avanti”. E
non potrebbe essere che il frutto
della cultura anglosassone quel Preambolo alla Dichiarazione
d’Indipendenza degli Stati Uniti, del 1776,
quale primo e chiaro assioma
rivoluzionario nella storia dell’Occidente:
Che ogni qualvolta una
forma di governo si rilevi lesiva di quei
fini [democratici], il popolo ha il
diritto di mutarla o abolirla, e di istituire
un nuovo governo, che abbia il
suo fondamento in quei principi e organizzi
i suoi poteri in una forma che
appaia più idonea a generare la sua sicurezza
e felicità. [118]
Forse vi
era poco di anarchico nelle basi culturali
della Rivoluzione Francese, ma nel
suo accadere numerosi furono gli episodi
anarchici poco compatibili col progetto
di instaurazione di un di “nuovo ordine”
. Un ordine nuovo sostitutivo del
vecchio, ma anche ricostruttivo di un ordine
“naturale” assai più antico, come
quello teorizzato da Rousseau, ma probabilmente
immaginato e sognato da molti.
Ritorna sempre la vecchia teoria arcaica
dell’esistenza pregressa di un’”età
dell’oro” dell’umanità e da ciò il sogno
utopico di riprodurla dell’arcaismo
rousseauviano. E tuttavia nel Settecento
si realizza compiutamente l’abbandono
della mentalità fatalistica e provvidenzialistica
del “ciclo del mondo“ voluto
da Dio, facendosi strada l’idea di un processo
pilotato dalla volontà
dell’uomo, oppure (secondo una metafora di
Dorinda Outram [119]) il
passaggio dalla metafora della “ruota della
fortuna”, tanto amata nel Medioevo,
a quella del “dardo del tempo”; quindi: dalla
ciclicità arcaistica alla vettorialità
moderna. Ma vi è uno storico come Reinhardt
Koselleck (di cui parleremo al § 19.2)
che ribalta la usuale considerazione della
Rivoluzione come foriera di
cambiamento, enfatizzando il fatto che essa
bloccò di fatto riforme già in
cantiere o in progetto da parte dei vari
regimi monarchici europei
“illuminati”.
Ma non va neppure dimenticato l’elemento
repubblicano ed egualitario, che “il parroco
ateo” Jean Meslier, importante comunista
ante litteram (ma raramente è citato tra i padri della
Rivoluzione),
aveva posto sin dall’inizio del secolo, invocando
chiaramente la rivolta per
realizzare giustizia ed eguaglianza. Peraltro,
anche Morelly (che però è
fervente cristiano) è un importante comunista
ante litteram, il quale pubblica nel 1755 un Code de la
nature che può esser assunto a
modello canonico di tutti i comunismi
posteriori. Egli parte dall’assunto che il
Cristianesimo: «per considerarlo
solo come istituzione umana, era tra di queste
la più perfetta.» [120]
e che il suo vero spirito sia stato tradito,
scrivendo:
Il
Cristianesimo trionfante fece cadere gli
idoli, ma difese meglio i suoi misteri
della sua legge morale: anzi questa, per
mantenere quelli, non osò combattere i
pregiudizi, gli usi, le leggi civili contrarie
alle intenzioni della natura,
con la stessa forza con la quale aveva combattuto
il paganesimo. Questa stessa legge
morale, anzi, si conformò alle istituzioni
politiche in tutto quanto no nera
contrario alle sublimi speculazioni sulle
quali poggiava. [121]
Morelly,
che vede nella spiritualità del Cristianesimo
primitivo, nella solidarietà
sociale e nella comunione dei beni, l’autentico
“senso” morale di una vera fede
in Cristo, lamenta ancora:
Questa
stessa religione, del tutto spirituale, cedendo
alle debolezze del volgo
grossolano, santificò alcune delle antiche
superstizioni, tollerò presso popoli
barbari pratiche ancora più assurde; il moltiplicarsi
delle cerimonie non fece
che alro che distrarre gli uomini dal principale
oggetto del culto;
l’accessorio prese il posto del principale.
[122]
Poste
le premesse teologiche di una società morale
Morelly passa all’enunciazione del
sistema sociale che ne consegue e delle 3
Leggi fondamentali e sacre
destinate a tagliar la radice ai veri vizî
e a tutti i mali di una società in una lunga serie
di principi, il primo dei quali enuncia chiaramente
il principio comunistico:
I
- Nella società niente apparterrà singolarmmente
o in proprietà ad alcuno,
eccetto le cose di cui farà uso effettivo
sia per i bisogni e piaceri
personali, che per il quotidiano lavoro.
II
– Ogni cittadino sarà persona pubblica, nutrita,
mantenuta e occupata a
pubbliche spese.
III
– Ogni cittadino, per parte sua, contribuirà
alla pubblica utilità secondo le
proprie forze, il talento e l’età. Su questa
base saranno regolati i suoi
doveri, in conformità alle leggi distributive
[123]
Posto
che tutto diventa “pubblico” va abolito il
libero commercio e le risorse
vengono distribuite secondo necessità, con
una conclusione categorica nell’XI
delle Leggi distributive ed economiche:
XI
– Nulla, secondo le “leggi sacre” si venderà
o scambierà tra cittadini, di modo
che, per esempio, colui che ha bisogno di
erbaggi o legumi o frutta andrà a
prendere quanto gliene abbisogna per un sol
giorno alla piazza pubblica […] Se
qualcuno ha bisogno di pane andrà rifornirsene,
per il tempo indicato, presso
colui che lo fa […] Chi ha bisogno di un
vestito lo riceverà da quello che lo cuce
[…] [124]
In
tale coacervo di indirizzi socio-politici
innovativi uno dei problemi
fondamentali concernenti la temperie illuministica
è il rapporto tra il
pensiero teorico e la rivoluzione, che può
essere posto con la domanda
provocatoria: «È stato l’Illuminismo a creare
la Rivoluzione o è stata questa a
creare l’Illuminismo?». Domanda che si è
posto anche Roger Chartier, che
cambiando solo un aggettivo nel titolo di
un suo saggio (da “intellettuale” e
“culturale”) si pone sulla scia, ventiquattro
anni dopo, del lavoro di Daniel
Mornet Origini intellettuali della
Rivoluzione Francese. Richiamandosi anche a Michel Foucault,
egli mette in
dubbio che la Rivoluzione abbia avuto un’”origine”
definita (come lasciava
pensare Mornet) in chiare idee innovatrici.
In effetti ciò validerebbe un
determinismo causale e una teleologia culturale-fattuale
del tutto
indimostrata. Chartier pensa che siano stati
semmai i rivoluzionari a cercarsi
dei padri nobili in Voltaire e Rousseau,
Mably [125] e
Buffon, Helvétius e Raynal, piuttosto che
i pensieri di questi abbiano prodotto
la Rivoluzione [126].
Concordiamo abbastanza con questa tesi; tanto
più in riferimento al tema della
nostra ricerca, avendo avuto la filosofia
ateistica una ruolo del tutto
marginale nei fatti rivoluzionari, mentre
il ruolo più importante lo ha avuto
l’anti-cattolicesimo della teologia deistica,
propria di Voltaire, di Rousseau
e di Robespierre. Un’idea teleologico-deterministica
dei fatti rivoluzionari, come
è noto, era stata quella dei primi storici,
tra i quali Hyppolite-Adolphe Taine,
che vedeva l’origine di essi in una cultura
secentesca privata dei dogmi
monarchico-religiosi, e Charles-Alexis Tocqueville,
che la vedeva come l’esito
inevitabile del collasso di un Ancien Régime corrotto.
Nell’ambito del rapporto tra il pensiero
illuminista e la Rivoluzione
anche alcuni elementi marginali diventano
significativi. Nell’elezione dei
padri nobili della Rivoluzione (il fenomeno
che qualcuno chiama “panteonizzazione”
di essa) spiccano due principalmente due
nomi: Rousseau e Voltaire. Ricordiamo
ciò che Robespierre dice di Voltaire nel
suo discorso del maggio 1794 Sur
les rapports des idées religieuses et morales: «Ah! Se fosse stato
testimone di questa rivoluzione della quale
fu il precursore, e che lo ha
portato al Pantheon [il 12 ottobre 1793]
chi può dubitare che la sua anima
generosa avrebbe abbracciato con trasporto
la causa della giustizia e
dell’eguaglianza!» [127] Sul
sarcofago di Voltaire venne peraltro scritto:
«Combatté gli atei e i fanatici.
Ispirò la tolleranza. Rivendicò i diritti
dell’uomo contro la servitù della
feudalità.» Non possiamo che approvare i
crediti tombali di questo grande intellettuale,
e notare (a beneficio di
qualche sedicente “ateo” superficiale) che
un anti-cristiano può essere
anti-ateo, e che essere anti-cristiani non
significa per nulla essere atei.
Sergio
Moravia (Il tramonto dell’Illuminismo) sottolinea il fatto che già nel
1789 la maggior parte dei grandi intellettuali
dell’Illuminismo francese erano già
usciti di scena:
Fu indubbiamente,
quello che si consumò in Francia a partire
dagli anni Settanta, un tramonto di
proporzioni vistose, che non parve privo,
già agli occhi di qualche
contemporaneo, d’un suo significato simbolico.
Helvétius muore nel ’71;
Voltaire e Rousseau si spengono entrambi
nel ’78, sono seguiti da Condillac
nell’80 e da Turgot nell’81; due anni più
tardi è la volta di d’Alembert;
nell’84 la morte sorprenderà anche Diderot;
Buffon e d’Holbach, i due superstiti,
moriranno di lì a non molto, il primo nel
1788, l’altro nell’89. Questa lista
funebre è indubbiamente piuttosto significativa.
Essa dà veramente
l’impressione che, con la fine di un certo
periodo politico, gli anni 1770-1790
indichino anche la fine di una determinata
epoca della cultura e della
filosofia. [128]
Si esaurisce la stagione dei philosophes e
nasce quella degli idéologues, una fioritura intellettuale che dura almeno
un decennio e prosegue anche dopo l’ascesa
di Napoleone, peraltro loro avversario.
Abbiamo già qui osservato che il termine
idèologie l’aveva inventato
Destutt de Tracy, nel suo significato di
“studio delle idee” (e naturalmente in
senso positivo), mentre negativamente lo
intenderà Marx (e in tal senso è da noi ripreso per
ragioni
di opportunità). In fondo Marx, pur mostrando
positiva attenzione verso gli idéologues,
ha fatto proprio il termine nel senso negativo
utilizzato da Napoleone e dai
suoi accoliti proprio contro di essi, ritenuti
speculatori filosofici oziosi,
lontani dalla realtà politica. Probabilmente
Marx riprendeva anche Hegel, che
aveva già fatto suo lo spregiativo napoleonico.
Nelle Lezioni sulla storia
della filosofia, dove parla di Locke e della sua teoria
della formazione
delle idee (che, com’è noto, disprezzava)
aveva affermato:
Possiamo ben dirlo:
nulla è più superficiale di questa deduzione
delle idee. […] Orbene questa
cosidetta analisi lockiana delle idee complesse,
e la sua cosidetta spiegazione
delle medesime, a motivo della sua non comune
chiarezza e perspicuità è stata
accolta dovunque. […] Specialmente i Francesi
hanno accettato questo metodo, e
lo hanno fatto progredire: la loro idéologie non contiene altro. [129]
Ci
soffermeremo ora sulla nascita della Massoneria.
Questa istituzione è implicata,
seppure in termini spesso ambigui, coi principi
etici di libertà, uguaglianza e
fraternità che caratterizzano il Settecento.
Istituzione tipicamente borghese,
almeno per come nasce in Inghilterra, la
Massoneria conta tuttavia nelle sue
file sia aristocratici e sia religiosi, almeno
nella sua fase iniziale. Il
decreto papale del 1738, che la condanna,
è diretto in realtà contro i preti e
gli abati iscritti alle logge nel timore
di deviazioni dottrinarie e di
trascuratezza pastorale, piuttosto che contro
le operazioni sociali e
culturali, umanitarie e filantropiche, di
cui la massoneria è promotrice. A ben
vedere l’anticlericalismo della massoneria
è fenomeno solo secondario, che
prende piede proprio dopo la condanna papale.
In origine le attività massoniche
non sono per nulla anti-cristiane, ma semmai
solo competitive nell’opera
filantropica con analoghe istituzioni chiesastiche.
La presenza di religiosi,
abati e sacerdoti, nella Massoneria è quindi
all’inizio diffusa e tollerata;
c’è un abate Lapauze che diventa nel 1778
venerabile della loggia
inglese di Bordeaux, ma diventano massoni
anche i padri superiori dei conventi
di Beauprés in Lorena e di quelli dei minimi
di Vitteaux e dei frati minori di
Troyes [130]. Dal punto di vista
statistico, un storico di fede massone come
Amiable ha valutato in 198 le logge
francesi nel 1776, dato che si desume dal
Tableau alphabétique des loges
cosnstituées par le Grand-Orient de France. Ma nel 1789 esse erano già
salite a 629 secondo Deschamps, mentre i membri iscritti erano intorno
ai 30.000 [131]. I nomi assunti dalle
logge sono talvolta idillici o mistici, come
Le tendre accueil ad
Angers, la quale, tra l’altro, è costituita
nel 1733 soltanto da preti, oppure La
vrai lumière a Poitiers (che ha 7 ecclesiastici su 40
membri). Molte logge
nascono addirittura religiose come quella
dello Spirito Santo dei Discepoli
di San Vincenzo dé Paoli e la presenza dei religiosi è quasi ubiquitaria.
In quella di Tolosa ci sono 25 preti e 2
professori di teologia, nel 177 la
Loggia di Sens conta 20 ecclesiastici su
50 membri, mentre quella di Brest, L’heureuse
rencontre, conta nel 1788 tra i suoi membri un benedettino,
un carmelitano
e un abate. Molte logge hanno un cappellano
che in determinate occasioni
celebra la messa. Per contro, alla loggia
L’Amitié di Boulogne-sur-mer,
è rifiutata l’iscrizione di un ateo che non
accetta di dover rinnegare il suo
ateismo [132].
In
generale, non è fuori luogo ritenere, come
sostiene Mornet, che i rapporti tra
la Massoneria e le autorità ecclesiastiche
fossero, se non eccellenti,
certamente buoni; improntati a cortesia e
a reciproco rispetto. In qualche
loggia, come a Tolosa, si modificano gli
orari delle riunioni «per facilitare
ai fratelli l’esercizio della religione»
[133] Ma
ciò che probabilmente destava sospetto a
Roma era la deriva mistico-esoterica
che pervadeva molti ambienti massonici. I
massoni portarono infatti avanti, ma
senza successo, un programma di occultismo
sincretico da introdurre nei
conventi tra il 1785 e il 1787. Si tratta
perlopiù della rimessa in auge di
vecchie pratiche che si insinuano tra le
pieghe di misticismi come quelli di
Pasqually, di Pernety, di Saint-Martin o
di Swedemborg [134]. Ma vi furono anche alcune logge che
accoglievano gli atei, infatti, framassoni
furono Helvétius e Diderot. Per
quanto riguarda poi l’”uguaglianza”, proclamata
a tutta voce dai massoni, nella
realtà essa non era sempre attuata, tendendo
ad escludere persone di bassa
estrazione e di scarsa cultura. Così ne La Vertù di Nancy e ne L’amitié
di Arras non si accettavano operai, e lo
stesso Grande Oriente (dietro
pressione di molte logge) nel 1777 decide
per il rifiuto all’iscrizione dei
salariati, smentendo quanto stabilito in
una circolare di appena due anni prima
[135].
Tra i
massoni eccellenti vi è anche l’americano
Benjamin Franklin, il quale,
approdando a Parigi nel 1767, raccoglie inizialmente
cortesia e simpatia che si
tramutano presto in amore e persino in devozione.
Invitato nei più illustri
salotti questo anziano e gentile signore,
saggio nella sua semplicità e
gaiezza, affascina sia per la sua umanità,
sia per la sua cultura e sia per gli
ideali rivoluzionari e repubblicani che porta
al mondo intellettuale francese.
Visita Voltaire morente accompagnato dal
suo nipotino per chiederne la
benedizione, e Voltaire mette la sua mano
sulla testa del fanciullo
pronunciando le parole “Dio e libertà”. Frequentatore
del salotto di Madame
Helvétius si dice che avesse aspirato addirittura
a sposarla, la Loggia delle Sette
Sorelle lo acclama membro onorario, ed egli ne fa
parte dal 1779 al 1782.
Così gli Americani, anche grazie a Franklin,
diventano modelli di riferimento
per una rivoluzione che al momento nessuno
in Francia ritiene molto probabile.
Le testimonianze di ammirazione sono numerose:
a Tolosa l’abate Racine nel 1784
durante un sermone intona un inno alla Rivoluzione
Americana e il gentiluomo
Jean de Marsillac si fa addirittura quacchero
per promuovere questo indirizzo
religioso del Nuovo Mondo [136]
1.6
Gli accadimenti tra progetto, improvvisazione
e casualità
Quali
che possano essere i risultati di una diagnostica
dell’epoca illuministica è
inevitabile una conclusione immediata circa
il fatto che, quanto meno tra il
1750 e il 1789, è successo “qualcosa” di
assai importante, ma che non coincide
con la Rivoluzione quale suo deterministico
esito. Essa è solo una sorta di
epifenomeno di qualcos’altro di più profondo
e decisivo, qualcosa che ha mutato
profondamente le coscienze, sì da far apparire
la religione cristiana, nel suo
legame con’autorità monarchica “garantita”
da Dio (e non dal popolo),
responsabile e di un governo arbitrario ed
assolutistico e di una millenaria
mistificazione ideologica. Al di là di un’analisi
storica che non abbiamo certo
l’ambizione di produrre di fronte a innumerevoli
ottimi saggi disponibili, ci
limitiamo qui a sostenere che quel “qualcosa”
è una nuova mentalità che solo in
parte coincide con quella rivoluzionaria.
Nel Settecento si fa strada una nuova
weltanschauung generale che è il frutto di un’evoluzione
antropologica
maturata nell’arco di tre secoli, e che non
è tanto post-teologica quanto post-cristiana.
In realtà il processo evolutivo genera teologie
alternative meno dogmatiche e
più legate all’intuizione dell’onnicomprensività
della natura; tra esse la più
diffusa è certamente il deismo, incentrato sull’ipostasi di un Essere
Supremo presente nel mondo e conforme alla
ragione senza richiedere alcuna
“rivelazione” né alcuna credenza preconcetta.
Nella maggior parte dei casi
questa nuova divinità, nella sostanza,
non è altro che il Dio biblico nella versione
del Dio-Necessità di
Spinoza, rivisto alla luce di Newton,
come i vari Toland, Clarke e Collins testimoniano.
Non solo però, vi sono anche
un agnosticismo e un ateismo magari timorosi
di esprimersi e raramente
espressi, ma riposti nel profondo delle coscienze
per quanto nella maggior
parte silenti.
Relativamente al fatto che gli eventi rivoluzionari
siano stati il frutto
di un rigoroso determinismo o di una causalità
contingente, secondo le tesi deterministiche
di storici dell’Ottocento come Tocqueville
e Taine, gli studiosi moderni
tendono ad interpretare la Rivoluzione Francese
in senso opposto, cioè decisamente
indeterministico, poiché i fatti rivoluzionari
dipendono storicamente perlopiù
da improvvisazione e per nulla da preventiva
progettazione. La pensa così anche
Alan Forrest, che afferma: «Nessuno nella
Francia del 1788 e del 1789 pianificò
la rivoluzione imminente e molte delle iniziative
degli anni rivoluzionari
furono poco più che espedienti escogitati
per superare crisi contingenti quali
la scarsità di generi alimentari o la fuga
del re.» [137]
Quale che sia stata la realtà dei fatti ci
sembra di potere desumere da quel
clima di generale isteria della temperie
rivoluzionaria, e dall’enfasi dei
discorsi e delle riflessioni di protagonisti,
che possa essersi trattato di una
sorta di viaggio nell’ignoto che nessuno
sapeva dove sarebbe finito, né come e né
con chi. Lo stesso ottimismo esasperato e
le speranze utopiche e millenaristiche
rendono storicamente realistica questa interpretazione.
Di tali
due avvenimenti epocali, che hanno profondamente
segnato il destino dell’Europa
moderna e sono accomunati dal medesimo nome
di “rivoluzione”, il primo è
un’accozzaglia di avvenimenti scomposti e
spontanei, il secondo la razionale
pianificazione di un evento determinato,
studiato, organizzato e messo in atto
al momento opportuno. In Francia, una catena
di fatti spontanei e spesso
casuali porta i protagonisti che si avvicendano
via via sulla scena a
rimetterci quasi tutti la testa; in Russia,
il padre della rivoluzione, Lenin,
ha organizzato il tutto restando perlopiù
all’estero, lasciando a Trotskij di
condurre le operazioni sul campo. Così può
arrivare “in carrozza” ferroviaria a
Pietroburgo a cose fatte, con la sola incombenza
di gestire il successo, mentre
le contrarietà ad agire di Kamenev e e Zinovev
erano state spente non da lui,
ma dal decisionismo trotskiano che mette
in atto le precise “le tesi di aprile”.
In altre parole, la Rivoluzione Bolscevica
è il frutto di un progetto, di una
pianificazione e di un’operazione militare
organizzata e risultata così relativamente
facile e poco cruenta, invece quella francese
è un susseguirsi incoerente di
fatti casuali o contingenti in cui il sangue
scorre a fiumi e si determina una
catena di accadimenti che assume la
connotazione di un massacro continuo.
È
opinione diffusa tra gli storici moderni
che in Francia, nella seconda metà del
Settecento, un numero relativamente alto
di laureati in discipline umanistiche
e retoriche che non trovavano impieghi adeguati
determinava in questi giovani (perlopiù
di modesta estrazione) scontento e frustrazione.
Lo stato assolutistico
francese, bloccato nelle sue strutture e
nel quale gli incarichi pubblici, se
non li si ereditava da un parente, andavano
“comprati” a caro prezzo, metteva
molti giovani provenienti dagli strati bassi
in gravi difficoltà. Mornet parla
di un immenso “proletariato intellettuale”
allo sbando, costituito da laureati
che non trovano un impiego adeguato ai loro
studi e che si vedono costretti o
ad occuparsi in lavori dequalificanti, o
rimanere disoccupati, oppure emigrare.
Questa massa intellettuale delusa da un sistema
che in qualche maniera, in modo
diretto o indiretto, li istruisce e poi li
abbandona al loro destino, pare ad
alcuni storici essere stata una fucina di
delusione e di frustrazione in cui si
sono forgiate le forze rivoluzionarie dell’89.
Che il numero dei laureati fosse
eccessivo rispetto all’assorbimento del sistema
sarebbe testimoniato dal fatto
che il numero degli studenti nei collegi
universitari tende a decrescere già
verso la metà del secolo. Daniel Mornet ha
riportato una nutrita messe di dati
statistici, ai quali rimandiamo [138], e
dai quali si evince chiaramente tale tendenza
alla diminuzione degli iscritti..
Un’improvvisa caduta nelle iscrizioni ai
corsi superiori negli anni ’80
sembra testimoniare una disaffezione agli
studi determinata da scarse
possibilità di occupazione in determinanti
settori piu ancora che in difficoltà
economiche delle famiglie di appartenenza.
In realtà, una delle ragioni
principali per cui gli studi universitari
non offrivano sbocchi adeguati stava
nel fatto che vi si insegnavano prevalentemente
materie umanistiche, tra le
quali prevaleva la retorica, e da ciò un’inflazione
di umanisti. All’uscita dai
collegi dell’Ancien Régime molti giovani si ritrovavano con un titolo
di
studio che era messo in un cassetto o appeso
al muro. Si offrivano le carriere
militare ed ecclesiastica, la magistratura
o l’avvocatura pubblica, ma le
opportunità migliori erano trasmesse di padre
in figlio, come l’avvocatura privata
o la medicina, con studi avviati e clientela
acquisita. Come osserva ancora Mornet
”medici senza pazienti e avvocati senza cause”
erano frequenti nella fase
finale Ancien Régime, e sarebbero stati proprio questi giovani,
piuttosto
che i popolani senza pane a cui Antonietta
pare avesse voluto dare le mitiche brioches,
ad essere i veri motori della rivoluzione.
Il panorama sarebbe incompleto se
non si precisasse che alcune riforme scolastiche
tra il 1750 e il 1770 già
avevano cercato di porre rimedio a tale situazione,
riducendo le ore di
insegnamento del latino e inserendo lezioni
di chimica, fisica, geografia e
lingue straniere, rincorrendo in qualche
maniera un’evoluzione culturale che a
livello privato o locale si era già verificato. Ma tali operazioni erano
perlopiù opera delle iniziative personali
di insegnanti o di amministratori
sensibili alla modernità, come l’abate Bérardier,
che paga di tasca sua gli
strumenti di fisica al Collegio di Quimper,
o provvedimenti come quelli del
Collegio di Riom, dove vengano aumentate
le quote di iscrizione per creare un
gabinetto di fisica [139].
Nella
maturazione dell’evento rivoluzionario del
1789, non ha giocato tanto, come
nelle precedenti rivolte, la disperazione
o l’ira improvvisa, ma la presa di
coscienza dei propri diritti e l’azione di
pratiche giudiziarie di nuovo tipo,
ignorate in passato, che un gruppo di avvocati
di estrazione popolare o piccolo
borghese decide di patrocinare. Queste azioni
legali, tramite un’avvocatura
autorizzata, diventano una forma di pressione
continua ed erosiva per un potere
assolutistico, abituato a non incontrare
ostacoli giuridici nel suo agire
arbitrario. Il rapporto popolare con l’autorità,
in ogni sua forma e dal centro
alla periferia, assume un carattere politicizzato,
consapevole e critico che è del
tutto nuovo. Da un punto di vista statistico,
alla vigilia della Rivoluzione,
le controversie riguardano per il 33% lagnanze
fiscali e contro le imposte, per
l’11% rivendicazioni anti-feudali, per il
12,5% il prelievo della “decima” a
favore del clero. Seguono (10%) questioni
normative e (6%) lamentele sul
comportamenti di singoli religiosi. [140].
Un
capitolo a sé è costituito dagli scioperi
della classe operaia. Gli archivi
della polizia rivelano un aumento degli scioperi
in quasi tutti i settori
produttivi a partire dal 1760, totalmente
differenti dalle violente rivolte
urbane e suburbane del secolo precedente.
Meglio organizzate, le proteste ora
incidono profondamente sul sistema: a Nantes,
tra il 1761 e il 1789, scoppiano
36 conflitti operai e a Lione, circa nello
stesso periodo, essi sono 18 [141].
Una struttura cospirativa ormai ben organizzata
in qualche misura pilota tali dimostrazioni,
promovendo solidarietà tra i lavoratori più
che una volontà di rivolta
violenta. La violenza non è quindi parte
del programma rivoluzionario iniziale,
anzi, è vista con sospetto e persino disgusto
dagli stessi intellettuali che
passano per “eversivi”. Anche se le loro
dichiarazioni potrebbero non essere
sincere, ma semplicemente giustificative,
come quando Babeuf scriveva, nel
luglio 1789: «[…] i padroni, invece di renderci
civili, ci hanno resi barbari
come loro. Raccolgono e raccoglieranno quello
che hanno seminato.» [142] Michel
Vovelle nel parlare di “idee forza” prerivoluzionarie,
tra le quali spiccano i
concetti di libertà, uguaglianza e fraternità,
rileva la non esistenza di
quello di rivoluzione, ed afferma che per
la maggior parte dei suoi
protagonisti lo scoppiare della rivoluzione
è stata una “sorpresa” inaspettata.
Saint-Just dichiara significativamente: «La
forza delle cose ci può portare a
risultati ai quali non avevamo affatto pensato.»
[143] Ancora
Saint-Just cita Billaud-Varennes, che avrebbe
affermato (non sappiamo se
preoccupato od entusiasta): «Camminiamo
su un vulcano!» [144]
Sono infatti pochi coloro che devono aver
pensato alla realizzazione della
Rivoluzione prima del suo accadere, ma tra
questi certo Marat, che l’aveva
preconizzata in Les chaînes de l’esclavage del 1774 e poteva affermare:
«Ho affrontato la Rivoluzione con idee già
pronte!» [145]
Com’è
noto la “folla” è soggetto storiografico
importante, tanto importante da essere
diventato quasi uno stereotipo dell’irrazionalità
e della passionalità fuori
controllo. In realtà sono necessarie alcune
distinzioni, la prima delle quali è
che non sempre la folla dei sanculotti esagitati
era costituita da membri del
popolino; in buona misura era costituito
da commercianti, artigiani, piccoli
impiegati. Va sfatata quindi l’immagine,
tanto cara ai reazionari, di una
plebaglia stracciona eccitata dal sangue
e protagonista di massacri indicibili
tra il 1789 e il 1794. I massacri ci furono,
e in molti casi ingiustificati, ma
spesso i protagonisti appartenevano alla
piccola borghesia. I processi, per
quanto spesso sommari, erano fatti secondo
certe regole, e non tutti i giudici
si chiamavano Maillard, il fanatico usciere-giudice
che pronunciò molte
sentenze capitali nel 1792. Si hanno anche
dei dati statistici attendibili,
frutto delle ricerche di Albert Soboul (Precis d’histoire de la Révolution
franςaise), dove risulta che a Parigi queste folle
erano costituite
per il 57% da commercianti ed artigiani indipendenti,
per il 18% di elementi
della borghesia e solo per il 20% di salariati
del proletariato urbano. Ma
nelle città del Sud, per esempio a Marsiglia,
i borghesi erano oltre il 30% [146].
Nei
confronti di questa folla le opinioni sono
spesso divergenti; Michelet ne ha un’opinione
comprensiva e quasi affettuosa, mettendone
in evidenza l’ingenuità,
l’entusiasmo e l’impulsività, coniugate con
l’infantilità di pensare che la
violenza sugli oppressori sia l’unico passaporto
per una futura libertà. Questa
folla, inoltre, è come il braccio attivo
di un popolo che si libera e che la
delega, come suo rappresentante legittimo,
a fare giustizia in nome della
storia. Molto differente l’atteggiamento
di Taine il quale dà credito ad
aristocratici e clericali in fuga [147],
cronisti terrorizzati di una Francia divenuta
indemoniata e invivibile. Da ciò
famose metafore come quella della folla quale
“scimmia malvagia e lubrica”:
un collettivo furioso di criminali assetati
di sangue e privi di ogni ideale
che non sia l’assassinio. Con la creazione
della Guardia Nazionale vi è un
certo inquadramento in ranghi più ordinati
fin dal 1792, e una militarizzazione
delle masse che ne razionalizza l’attività
e la mette sotto controllo. Marat ha
già elaborato la sua teoria della “guerra
di strada”, e con essa nasce il mito
della picca, arma terribile nelle mani del
sanculotto che coraggiosamente
affronta i fucili della guardia regia. E
relativamente a una certa ferocia
combattiva non va neppure dimenticato che
appena due anni prima della presa
della Bastiglia la giustizia francese prevedeva
ancora la tortura e il
supplizio, e che la violenza di strada nella
prima metà del ‘700 era all’ordine
del giorno [148].
Non si
dà realtà storica senza cifre, e quelle relative
agli “anni del terrore” non
sono eclatanti se raffrontate a massacri
ed eccidi di tempi più recenti. Molte
possibili vittime (tra aristocratici, religiosi
e loro collegati) ripararono
all’estero ben prima dell’instaurarsi della
repressione rivoluzionaria, e
questa, in numerosi casi, fu caratterizzata
perlopiù da regolamenti di conti
tra congiurati di opposte fazioni. Del tutto
fantasiosa la cifra di 600.000
morti nel soffocamento della controrivoluzione,
un cifra messa in circolazione
da una propaganda clericale e monarchica
fortemente ideologizzata e faziosa. La
cifra dovrebbe essere inferiore alle 35.000
nell’area vandeana e non andare
oltre le 5.000 vittime in altre aree di insurrezione
anti-repubblicana. Anche
per quanto riguarda il bagno di sangue delle
esecuzioni decretate dai tribunali
rivoluzionari qualche precisazione è d’obbligo:
furono circa 50.000, quindi il
2% della popolazione francese dell’epoca
[149]. Il
periodo più terribile e sanguinario, quello
del Terrore, che si svolge tra il
1793 e il 1794, corrisponde all’andata al
potere dei Montagnardi e la sua
teorizzazione è desumibile dal discorso di
Robespierre del 25 dicembre ’93:
La Rivoluzione è la
guerra della Libertà contro i suoi nemici
e la Costituzione è il regime della
Libertà vittoriosa e in pace. Il Governo
rivoluzionario ha bisogno di
un’attività straordinaria dal momento che
è in guerra ed è sottomesso a regole
meno uniformi e meno rigorose perché si trova
in circostanze tempestose e
incerte, e soprattutto perché è costretto
a rispondere con sempre nuove e
rapide iniziative a pericoli nuovi e pressanti
[…] Il governo rivoluzionario
deve ai buoni cittadini tutta la protezione
della nazione, ma ai nemici del
popolo deve solo la morte. [150]
Il Terrore è stata una macchina infernale
sfuggita probabilmente di mano ai suoi stessi
costruttori e manovratori,
rappresentando il passaggio dello stato rivoluzionario
a quello di polizia, che
della libertà è antitesi e negazione. È questa
la stagione di Robespierre, ma
anche di Saint-Just, certamente uno degli
uomini più sanguinari e fanatici
dell’epoca, con uno spirito passionale coniugato
ad un forte carisma personale
e ad una certa genialità politica. Colui
che come “commissario” era riuscito a
galvanizzare coi suoi discorsi le armate
del Reno e del Nord in difficoltà,
portandovi disciplina e ardore combattivo.
Un uomo che amava la rivoluzione
permanente e la guerra, affermando nel Rapport présenté à la Convention
Nationale au nom du Comité de Salut Public
dell’ottobre 1793:
L’arte militare della
monarchia non ci soddisfa più, perché siamo
diversi e diversi sono i nostri
nemici. […] La nostra nazione possiede già
un carattere nazionale. Il suo
carattere militare deve essere diverso da
quello dei suoi nemici. Ebbene: se la
nazione francese è terribile a causa del
nostro ardimento e della nostra
abilità, e se i nostri nemici sono fiacchi,
frigidi e pigri, allora il nostro
sistema militare deve essere impetuoso. [151]
È noto il parere negativo di Engels sul «sanculottismo
selvaggio e sregolato» (articolo Joel Jacoby dell’aprile 1840 sul Telegraph
für Deutschland [152]),
giudizio rincarato trent’anni dopo in una
lettera a Marx del settembre 1870,
dove afferma:
Per parte mia, sono
convinto che la colpa del governo terrorista
del 1793 ricada quasi
esclusivamente sul borghese, che si atteggiava
a patriota ma era totalmente in
preda al panico, sul piccolo borghese filisteo
e cacasotto e sulla marmaglia
che nel Terrore ebbe modo di farsi i propri
affari. [153]
Il panico, che Engels giudica “borghese”,
è un
elemento sottolineato da molti storici e
che rivela la sostanziale
impreparazione dei protagonisti di una rivoluzione
non pianificata; accaduta
come una contingenza inattesa e travolgente
cui fanno seguito comportamenti
sostanzialmente improvvisati. È il tema della
Grande Paura, la paura di un caos
incontrollabile da domare con una giustizia
sommaria ed affrettata, che porta
ad abolire nei processi l’habeas corpus e le giurie popolari. La
sicurezza dello stato, ritenuta fortemente
compromessa, impone decisioni
rapide, e l’individuazione dei colpevoli
è approssimata e spesso dipendente da
delazioni per vendetta. Siccome il nemico
si annida dovunque, il criterio
quantitativo pare essere il migliore, ovvero:
quanti più se ne elimina, quanto
più è probabile che tra essi ci siano gli
individui pericolosi. Con una legge
del giugno 1794, abolita l’avvocatura di
difesa, persino la convocazione dei
testimoni è lasciata alla discrezione della
corte, e il riconoscimento di
colpevolezza comporta un solo tipo di pena:
la morte. Sarà da quel momento che
gli imputati non saranno solo i controrivoluzionari,
ma molto spesso gli avversari politici. Come avevamo già
visto nel passo de la Battaglia critica contro la Rivoluzione francese (in La Sacra Famiglia)
riportato a pag. 11, il giudizio di Marx
è più analitico, e vede il Terrore
come uno sganciamento del potere rivoluzionario
dalla base civile e popolare su
cui si era innestato. Così egli scrive: «Dopo
la caduta di Robespierre
l’Illuminismo politico che aveva voluto sorpassare
se stesso, che aveva vissuto
una fase di esaltazione, comincia a realizzarsi
prosaicamente. […] La borghesia inizia
quindi il suo governo. I diritti
dell’uomo cessano di esistere semplicemente nella
teoria.» [154]
[1] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, il Mulino 1987, p.157.
[2] Ibidem
[3] G.Rudé, L’Europa del Settecento, storia e cultura, Roma-Bari, Laterza 1986, p.141.
[4] Ivi, p.142.
[5] Federico II soleva dire: «Nel mio regno ognuno va in Paradiso per la via che più gli piace.».
[6] In realtà la condanna a morte dell’ultima “strega” in Prussia, a Posen, è del 1793.
[7] M.Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Roma-Bari, Laterza 1987, p.45.
[8] P.R.Campbell, Luigi XIV e la Francia del suo tempo, Bologna, Il Mulino 1997, p.134.
[9] Ivi, p.141.
[10] R.Darnton, Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese, Milano, Adelphi 1988, Un ispettore di polizia riordina il suo archivio, pp.179-231.
[11] Si tenga presente che già sotto Luigi XIV la nobiltà colta si riuniva per discorrere, e che all’epoca scettici e libertini come Saint-Evremond potevano trovare ospitalità nel salotto di Madame de Sévigné, dove si poteva discutere di Epicureo e di Montaigne. I moralisti critici, come La Rochefoucauld, si ritrovavano invece nel salotto di Madame de Sablé (U.Im Hof, L’Europa dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1993, p.119.
[12] R.Darnton, op.cit., p.221.
[13] Ch.-G.Malesherbes, Remonstrances relatives aux impôts, 6 mai 1775, in Les «Remonstrances» de Malsherbes, a cura di E.Badinerl Paris, UGE 1978. Citato in R.Chartier, Le origini culturali della Rivoluzione francese, Roma-Bari, Laterza 1991, p.45.
[14] R.Chartier, Le origini culturali della Rivoluzione francese, Roma-Bari, Laterza 1991, p.45.
[15]Ivi, p.46.
[16] Ivi, p.47.
[17] Ibidem.
[18] Citato in: R.Chartier, cit., pp.53-54.
[19] La più importante tipografia (e appena “fuori porta”) beneficiata dalla censura francese è stata la svizzera Societé typographique di Neuchâtel, che ha dedicato la sua prolifica e fruttuosa attività a stampare tutto ciò che in Francia era proibito.
[20] R.Chartier, cit., p.74.
[21] D.Mornet, cit., p.143.
[22] Ivi, p.144.
[23] Ivi, p.145.
[24] Ivi, p.145.
[25] Ivi, p.281.
[27] In Francia, ancora nel 1789, alla vigilia della Rivoluzione, vi erano 4.000 uffici di nobilitazione (W.Doyle, L’Europa del vecchio ordine, Roma-Bari, Laterza 1987, p.111).
[28] W.Doyle, op.cit., p.124.
[29] G.Rudé, L’Europa del Settecento, storia e cultura, Roma-Bari, Laterza 1986, p.16.
[30] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, il Mulino 1987, p.119..
[31] G.Rudé, L’Europa del Settecento, storia e cultura, Roma-Bari, Laterza 1986, p.21.
[32] Ivi, p.22.
[33] Ivi, p.27.
[34] In Austria sarà solo nel 1780 con Giuseppe II che si limiterà il potere del padrone sul proprio contadino, consentendo a questo di cambiare podere e padrone e di spostarsi liberamente con chi e dove volesse.
[35] G. Rudé, cit., pp.31-32.
[36] Cit. da L.Formigari, La Francia dei philosophes, in: Storia della filosofia, vol.II, Roma, Editori Riuniti, p.249.
[37] G. Rudé, cit, p.285.
[38] G.Rudé, cit., p.41.
[39] U. Im Hof, L’Europa dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1993, pp.129-130.
[40] Ivi, pp.131-132.
[41] G.Rudé, cit., p.79.
[42] G.Rudé, cit, p.288-289.
[43] G.-F.-T.
Raynal, Histoire philosophiqe et
politique sure les établissements et les
commerces des Européens dans les deux
Indes, Genève,
Pellet, 1780, in: http://www.univ.trieste.it/~humdiv/CORSO/Antologia_Raynal.doc, p.39.
[44] F.Venturi, Settecento riformatore, vol.IV/1, Torino, Einaudi, 1984, p.329.
[45] A.-R.-J. Turgot. Tableau philosophique (Schelle, I, pp. 214-7) in: Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, p.357.
[46] Turgot, Plan de deux discours sur l’histoire universelle (Schelle, I, p. 276) in : Gli illuministi francesi, cit, p.357.
[47] F.Venturi, Idem, vol.IV/2, idem, p.976.
[48] Ivi, p.331.
[49] Ivi, pp.345-346.
[50] Turgot. Plan de deux discours sur l’histoire universelle (Schelle, I, p.290), in: Gli illuministi francesi, cit, p.362.
[51] Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, pp.363-364.
[52] Jacques-Pierre Brissot de Warville (1754-1793) può essere considerato il primo ad aver affermato che “la proprietà è un furto” nel suo Recherches philosophiques sur la proprietà et sur le vol considérés dans la nature, del 1780. Nel 1789 fondò il giornale Le Patriot français per diffondere le idee rivoluzionarie. Influente capo girondino, nel 1792 fu fautore di uno dei tanti governi transitori. Contrario all’uccisione di Luigi XVI, con l’andata al potere dei montagnardi di Robespierre fu ghigliottinato come traditore nell’ottobre del ’93.
[53]
A. Smith, La ricchezza delle nazioni, a cura A. e T. Biagiotti, Torino, UTET
1996, p.158.
[54] Ivi,
p. 160.
[55] N.Merker, Filosofia e libertà borghesi, in: Storia della filosofia, vol.II, Roma, Editori Riuniti, pp.136-137.
[56] G.Rudé, cit., p.315.
[57] Ivi, pp.316-323. Alcuni dati storici sulla diserzione. Durante la Guerra dei Sette Anni vi furono 62.000 disertori tra gli austriaci, 70.000 tra i francesi e 80.000 tra i russi, mentre durante la guerra di successione bavarese (1778-79) l’esercito prussiano ebbe un 80% di disertori contro il 20% di caduti in battaglia. In un contesto differente, quello della marina da guerra inglese, risulta che tra il 1776 e il 1780 vi furono 1.200 morti in azione, 18.500 morti di malattia e 42.000 disertori.
[58] Ivi, p.316.
[59] Ibidem.
[60] Ivi, pp.315-316.
[61] A.Tenenti, L’età moderna, XVI-XVIII secolo, Bologna, Il Mulino 1990, p.380.
[62] Citato in: W.Doyle, L’Europa del vecchio ordine, Roma-Bari, Laterza 1987, p.215.
[63] Sebastião José di Pombal (1699-1782) è colui che, in veste di primo ministro, pone fine in Portogallo al potere dei Gesuiti. Uomo coraggioso ed energico seppe affrontare gli esiti del disastroso terremoto di Lisbona organizzando i soccorsi e provvedendo alla ricostruzione. Favorì l’agricoltura e l’industria, riorganizzò l’istruzione e decretò l’abolizione della schiavitù in Portogallo e nel Brasile.
[64] Per le notizie presenti in questa pagina si veda G.Rudé, L’Europa del Settecento, storia e cultura, Roma-Bari, Laterza 1986, pp.198-201 passim.
[65] U. Im Hof, L’Europa dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1993, pp.37-52.
[66] G.Rudé, cit, p.203.
[67] Citato in: W.Doyle, L’Europa del vecchio ordine, Roma-Bari, Laterza 1987, p.145.
[68] W.Doyle, cit., p.192.
[69] Citato in: W.Doyle, cit., p.493.
[70] Secondo Mercier nell’ottobre del 1789 furono per la maggior parte donne (ventimila circa) a marciare fino a Versailles per riportare il re e la sua famiglia a Parigi. Le donne avevano inoltre un ruolo fondamentale nella gestione degli ospedali rivoluzionari, lavoravano nelle fabbriche in sostituzione dei mariti impegnati nelle operazioni belliche, controllavano il movimento delle derrate alimentari contro accaparramenti ed abusi (A.Forrest, cit., p.105).
[71] F.de Luise-G.Farinetti, Storia della felicità, Torino, Einaudi 2001, pp.469-470.
[72] A.Forrest, La rivoluzione francese, Bologna, Il Mulino 1999, p.103.
[73] J.-J.Rousseau, Emilio
o dell’educazione, Milano, Mondadori 2003, p.506-507.
[74] Ivi, p.526.
[75] A.Forrest, op.cit., p.104.
[76] N.Rattner Gelbart, Le donne giornaliste e la stampa nel XVII e XVIII secolo, in: AaVv, Storia delle donne, acura di N.Zemon Davis e A.Farge, Roma-Bari, Laterza 1991, pp.437-438.
[77] Ivi, p.438.
[78] Ivi, p.439.
[79] Ivi, pp.448-449.
[80] R.Reichardt, Uguaglianza, in: L’Illuminismo. Dizionario Storico, cit. pp.98-99.
[81] Ivi, p.99.
[82] Citato in: R.Chartier, op.cit., p.95.
[83] Durante il Terrore persero la vita 920 religiosi, pari al 6,5% del totale delle vittime (da: W.Doyle, op.cit., p.491).
[84] M.Vovelle, op.cit., p.63.
[85] Vedi: M.Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Roma-Bari, Laterza 1987, p.23.
[86] Ivi, p.23.
[87] Ivi, p.22.
[88] Ibidem.
[89] Ibidem.
[90] Ivi, , p.23.
[91] Ibidem..
[92] Ibidem.
[93] M.Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Roma-Bari, Laterza 1987, p.23.
[94] Ivi, pp.23-24.
[95] Ivi, p.24.
[96] Ivi, p.24.
[97] Cfr.: M.Ozouf, La fête révolutionaire,
Paris, Fayard 1969.
[98] M.Vovelle, cit., p.99.
[99] M.Vovelle, cit., p.109.
[100] M.H. Froeschlé-Chopard, Religione, in L’Illuminismo, Dizionario storico, a cura di V.Ferrone e D.Roche, Roma-Bari, Laterza 1997, p.238.
[101] Ivi, p.239.
[102] Ivi, p.239.
[103] Ivi, p.239.
[104] M.H. Froeschlé-Chopard, cit., p.242.
[105] M.Vovelle, cit., p.235.
[106] Ivi, p.233.
[107] Ibidem.
[108] M.Vovelle, cit., p.233.
[109] M.Vovelle, I giacobini e il giacobinismo, Roma-Bari, Laterza 1998, p.46.
[110] F.Furet e D.Richet, La Rivoluzione francese, vol. II, Roma-Bari, Laterza 1986, p. 398.
[111]
J.-J.Rousseau, Emilio o dell’educazione, Milano, Mondatori 2003, p.377.
[112]
G.W.F.Hegel, Fenomenologia dello spirito,
a cura di E.De Negri, vol II, Firenze, La
Nuova Italia 1985, p.103
[113] Ivi, vol. I, p.7.
[114] F.Furet e D.Richet, La Rivoluzione francese, vol. II, Roma-Bari, Laterza 1986, p.426-427.
[115] A.Forrest, La rivoluzione francese, Bologna, Il Mulino, p.51.
[116]
F.N.Babeuf, Il tribuno del popolo, a
cura di C.Mazauric, Roma, Editori Riuniti
1969, p.241.
[117] Ibidem.
[118] N.Hampson, cit., p.193.
[119] D.Outram, cit., pp.160-161.
[120] Morelly, Il codice della natura, a cura
di
E.Piscitelli, Torino, Einaudi 1952, p.90.
[121] Ivi,
p.91
[122] Ibidem.
[123] Ivi,
p.143
[124] Ivi,
p.145.
[125] Gabriel Bonnot de Mably (1709-1785) fratello di Condillac, fu un grande erudito che scrisse un Sulla legislazione, pubblicato nel 1776. col quale si indicava nell’eguaglianza la condizione originaria delle comunità umane e quindi la conditio sine qua non per la stabilità e la felicità sociale.
[126] R.Chartier, Le origini culturali della Rivoluzione francese, Roma-Bari, Laterza 1991, p.7.
[127] R.Chartier, op.cit., p.90.
[128] S.Moravia, Il tramonto dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1986, p.14.
[129] G.W.F.Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, 3, II, Firenze, La Nuova Italia 1981, pp.163-164.
[130] D.Mornet, cit., p.377.
[131] Ivi, p.372.
[132] Ivi, pp.377-379.
[133] Ivi, p.378.
[134] Ivi, p.386.
[135] Ivi, p.391.
[136] D.Mornet, cit., p.407.
[137] A.Forrest, La rivoluzione francese, Bologna, Il Mulino 1999, p.19.
[138] D.Mornet, cit., p.332.
[139] D.Mornet, cit., p.336.
[140] R.Chartier, cit., p.149.
[141] Ivi, p.155.
[142] M.Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, cit., p.18.
[143] Ivi, p.25.
[144] Ivi, p.23.
[145] Ivi, p.22.
[146] Ivi, p.114.
[147] Furono 25.000 i religiosi (un quarto del totale) che lasciarono la Francia dopo l’89 (da W.Doyle, cit., p.491).
[148] cfr: M.Vovelle, cit., p.89.
[149] Ivi, p.231.
[150] M.Vovelle, cit., p.94.
[151] E.J.Hobsbawm, L’età della rivoluzione, Milano, Rizzoli 1999, p.129.
[152] AA.VV., L’albero della Rivoluzione, a cura di B.Bongiovanni e L.Guerci, Friedrich Engels, di B.Bongiovanni, Torino,Einaudi 1989, p.170.
[153] Ivi, p.175.
[154] In: V. Ferrone e D. Roche, Postfazione de L’Illuminsmo, Dizionario storico, cit. p.539.