II.
Sulla via dei Lumi
2.1 Il
vecchio e il nuovo: “ragionazione” e filosofia
Il Settecento è un secolo straordinario,
certamente il più importante, in assoluto,
nella definizione di ciò che sarà
l’Europa e l’Occidente sino ad oggi, ma numerosi
suoi elementi culturali
risalgono a duecento anni prima ed alcuni
anche oltre. Per molti versi esso è
solo la fase più rilevante di un processo
iniziato nel Cinquecento e ancora in
corso, visto che ci si trova nel XXI secolo
a dover fare i conti con il
pericoloso riflusso di un integralismo e
di un fanatismo metafisico-religioso
che mettono in pericolo le faticose conquiste
della cultura laicista. La
visione laica della vita e la sua separazione
dalla fede, rimanendo questa
un’opzione rigorosamente individuale ed intima,
è nata in Europa nel XVIII
secolo. Ma esso ci ha recato un’altra eredità
culturale assai importante,
peraltro già apparsa nel XVII, ed è la dicotomia
tra la vecchia ragionazione
pura, tesa a costruire sistemi teologici,
e la filosofia come amore del conoscere,
cioè tra una metafisica come culmine del
cogito antropocentrico e lo studio
della natura in se stessa. Dicotomia che
si esprime anche nella
contrapposizione tra i logico-matematici
e gli osservatori-sperimentatori, tra
i deduttivi e gli induttivi. La modernità
si avvia a costruirsi anche
attraverso questa guerra intellettuale, mai
sufficientemente studiata, tra un
vecchio e sacrale intellettualismo teologico
che cerca di “conservare ” e un nuovo pensiero scientifico-filosofico
che cerca di “innovare”. E ciò, si badi bene
indipendentemente fal fatto che i
partigiani del primo siano necessariamente
più devoti dei secondi, poiché, le
due personalità più notevoli tra questi,
Bacone e Gassendi, non sono meno
devoti di Cartesio o di Berkeley.
Ciò che caratterizza, allora, la cultura
dei Lumi è un coacervo di indirizzi fondamentalmente
teologici, ma differenziati,
e portatori o di un ritorno ad un passato
culturale messo in pericolo da un’ondata di nuove
istanze profane. Un passato teologico, quindi,
da difendere e da rafforzare, contrapposto
ad un modo nuovo di guardare alla realtà
che aveva trovato le proprie radici nel
terreno del Rinascimento. Una temperie culturale
che aveva tentato di tagliare
i ponti con un passato teocentrico e teologico,
in vista di un rinnovamento e
antropocentrico e naturalistico. Un primo
filone di esso aveva assunto un
profilo decisamente platonico e neoplatonico,
un secondo consisteva in una
corrente neo-aristotelica (e quindi ancora
metafisica), un terzo in un
indirizzo naturalistico-scientifico che guardava
alla natura come fonte
primaria di conoscenza e di integrazione
esistenziale. Il primo filone è
eminentemente rappresentato da Marsilio Ficino,
il secondo da Agostino Nifo, il
terzo da Bernardino Telesio. La prospettiva
rinascimentale muta nel Seicento
con l’irrompere della ricerca astronomica,
con la scoperta e la conferma di una
Terra non più al centro dell’universo, bensì
posta alla periferia di una stella
che ne determina l’esistenza. Ciò è potenzialmente
disgregante per la fede, andando l’eliocentrismo
ad impattare direttamente
sulla lettera biblica, poiché diventa difficile
continuare a credere che Giosuè
abbia potuto fermare da ciò che si muove
ciò che sta fermo. La fisica, dunque,
contro la teologia, una fisica che va combattuta
in nome di una verità che
nessun’osservazione potrà mai mettere in
forse: è il problema di Galileo, della
fede e della sua conciliazione con la scienza.
Una scienza che vede i suoi fari
in Copernico, Galileo e Keplero, ed ancora
in Galileo stesso e Bacone per
quanto riguarda la metodologia scientifica,
a cui si aggiunge l’empirismo e il
sensismo di Locke. Ma intanto una rilettura
di Epicuro da parte di Gassendi e
dei Libertini introduce anche un turbativo
elemento atomistico, che però si pensa,
almeno nella riflessione gassendiana, di
poter conciliare con la fede cristiana.
Per quanto differenti si offrano questi
vari aspetti innovativi nella cultura del
Seicento, ciò che, con la sola
eccezione dei Libertini, risulta dominante
è una visione del mondo ancora
sostanzialmente religiosa, tendenzialmente
deterministica, provvidenzialistica,
ottimistica, antropocentrica e mentalista.
In questo panorama la presenza di
Cartesio rimane incombente, poiché la sua
ontologia dualistica e idealistica
incomincia a perdere colpi e spazio solo
verso la fine del secolo, man mano che
la fisica newtoniana ne scalza i presuntuosi
e astratti princìpi. Restano però
presenti gli assiomi del dubbio metodico e del cogito ergo sum,
il primo alimentatore dello scetticismo anti-sperimentalistico,
il secondo del
mentalismo spiritualistico, ma entrambi sempre
fondati sugli eterni dogmi del
platonismo e più spesso su quello rivisitato
da Sant’Agostino. In quanto al dubbio
metodico: esso significa, in soldoni: “di tutto si
deve dubitare fuorché di
Dio”, e, per quel che riguarda il cogito ergo sum, esso può essere
correttamente interpretato come un: “l’unica
realtà certa è il pensare”. Ma per
quanto riguarda questa seconda “grande verità”
idealistica sappiamo che
Gassendi vi si oppose energicamente (e possiamo
persino immaginare che qualche
libertino burlone e sboccato potesse sostituirvi
un defaeco ergo sum, certamente
triviale, ma, dal punto di vista gnoseologico,
sicuramente più fondato).
Uno dei problemi che riguardano il pensiero
secentesco anti-convenzionale (e tuttavia
nominalmente cristiano) riguarda il fatto che in maggiore
o minor misura la censura ed i rischi connessi
alle sue condanne abbiano potuto
condizionare e nascondere una possibile miscredenza.
Non sono pochi gli storici
convinti che i rischi di apparire blasfemi
o poco devoti fossero così elevati
da indurre molti a mitigare le posizioni
potenzialmente censurabili e ad
infarcire i loro scritti di professioni
di fede. Vi è stato più d’uno, e tra questi
lo spesso citato Vartanian, che ha
osato pensare ciò persino di Cartesio, sicuramente
uno dei più convinti e
reazionari teologi del Seicento, facendo
inoltre di Diderot un suo propalatore
ed epigono (sic!) Abituati come siamo a sentirne
di ogni genere sull’Illuminismo
non ci stupiamo più di nulla, ma ci corre
l’obbligo di sottolineare che in
assenza di dati biografici in contrario soltanto
i testi, nella loro
icasticità, ci permettono di trarre giudizi.
E ciò anche relativamente ai testi
degli autori che prenderemo in considerazione:
essi testimoniano “tutti” una sicura e ferma fede
cristiana, senza che si abbia alcuna ragione
di poterne dubitare. La nostra
spiegazione? Che nel Seicento è quasi impossibile
non essere cristiani, e che
ancora nel Settecento pare assai difficile
non credere almeno nel Dio-Necessità
o nella Dea-Natura. Vi è poi il super-teologo
materialista Hobbes che
materializza e matematizza-meccanicizza tutto
il Creato, concedendo però
(probabilmente a malincuore!) un’essenza
spirituale al Creatore, non potendo
“fare lo stoico” sino in fondo.
I turbamenti materialistici e soprattutto
indeterministici del libertinismo costituiranno
una corrente sotterranea, ma
montante, che emergerà in tutto il suo peso
solo più tardi, scatenando le rampogne
di un Bossuet, che vi vedeva una grave pericolo,
e fargli ribadire:
Quello
che il nostro incerto giudizio scambia per
un caso è un disegno elaborato da un
superiore giudizio, da quel giudizio eterno
che comprende in una sola unità
tutte le cause e tutti gli effetti. In questo
modo tutte le cose cooperano allo
stesso fine, ed è solo perché non siamo capaci
di comprendere il tutto che
vediamo casualità ed irregolarità in accadimenti
particolari. [1]
Come
si vede quella del Disegno Intelligente è una suprema verità che ritorna
in tutte le forme possibili entro i due poli
del Dio-Volontà e del
Dio-Necessità, reciprocamente interscambiabili
quali fondamenti di due teologie
complementari
Per comprendere adeguatamente che cosa
rappresenti il Settecento nella storia della
cultura bisogna partire da un
coacervo di eredità multiformi per coglierne
sia le permanenze e sia le messe
in discussione, molte delle quali frutto
di ricerche e scoperte scientifiche.
Solo gli scienziati potevano insinuare seri
dubbi circa un confortante e
rassicurante quadro cosmico, proprio perché
il “dubbio metodico” di Cartesio
aveva messo in mora le opinioni umane, comprese
le acquisizioni scientifiche,
ma non la credenza nell’esistenza di Dio.
Questa, anzi, usciva rafforzata sia
dalla filosofia profondamente fideistica
di Newton e sia dalle metafisiche
razionalistiche. Secondo Cartesio, come è
noto, di tutto si doveva dubitare
salvo che della presenza del Creatore nella
nostra anima, sì da garantire
l’uomo dell’assoluta verità della credenza
in Lui. Atteggiamento aprioristico
che non solo rafforzava la credenza platonico-cristiana
in una verità innata
nell’anima di ogni uomo (res extensa particolare come pars parte
della divina res extensa generale) ma confermava, nel pensiero, le
idee-verità concernenti Dio e la sua indubitabile
esistenza. E tuttavia, il
pensiero cartesiano, attraverso la sua enorme
influenza culturale, era stato,
paradossalmente, col suo equivoco dualismo
pensiero/materia, all’origine di
molti degli sviluppi materialistici del secolo
successivo. Se la fisica
cartesiana era infatti del tutto inconsistente
(cosa della quale già nella
seconda metà del XVII secolo molti erano
consapevoli) nondimeno il suo
meccanicismo della materia era un dato culturalmente
acquisito e dalle pesanti,
e negative, conseguenze per la cultura del
secolo successivo.
Erano soltanto alcuni scienziati, come
Réamur (1683-1757), peraltro un cristiano
integralista, che potevano avanzare
il dubbio che le idee di per se stesse (ovvero
i ragionamenti astratti ad opera
della res extensa) non potessero portare alla conoscenza del
mondo
reale, e che tutte le classificazioni operate
dall’uomo fossero soltanto delle
convenzioni di utilità descrittiva. Un atteggiamento
che riprende
l’osservazionismo e lo sperimentalismo galileiani,
operando una
radicalizzazione che Galileo, peraltro, aveva
evitato, cioè l’affermazione che
“soltanto” la corretta osservazione e l’esperimento,
la loro verifica e la loro
ripetibilità confermativa, potevano valere
come “conoscenza” affidabile. Non
era certo questo l’atteggiamento di Descartes,
che disprezzava gli esperimenti
e che distillava le sue teorie quasi esclusivamente
sulla base di astratte
elucubrazioni metafisiche; e tuttavia, paradossalmente
(ma comprensibilmente,
in funzione di una “cogenza” psichico-metafisica
ancora dominante), sarà
proprio meccanicismo cartesiano ha influenzato
la cultura scientifica francese
sino alla metà del Settecento. Ci pare che
abbia colto bene il senso del
cartesianesimo Alfred Rupert Hall quando
scrive: «Così la scienza di Descartes
è un sistema centrifugo, che opera verso
l’esterno partendo dalla certezza
dell’esistenza della mente e di Dio per abbracciare
le verità universali o
leggi di natura scoperte dalla ragione, e
quindi dalla “concatenazione di tali
verità” svela i meccanismi implicati nei
fenomeni particolari.» [2] Un procedimento totalmente arbitrario,
quindi, ma la cui presenza nella cultura
francese rallenterà per lungo tempo
l’ingresso della ben altrimenti fondata fisica
di Newton.
Si mette in evidenza nel Seicento, visto
come un pre-Settecento, la differenziazione,
e
in qualche caso la dicotomia tra i ragionatori
e i filosofi; un conto è,
infatti, fabbricare sistemi di pensiero,
altro conto fare ricerca con l’uso del
pensiero. Si tratta di un punto metodologico
dirimente per la conoscenza:
mentre Spinoza e Leibniz fabbricano sistemi,
Locke e Bayle “ricercano”; i primi
due hanno un progetto, uno scopo ideologico
ed apologetico, i secondi lasciano
che il pensiero svolga percorsi intuitivi
e analitici, finendo in meandri
cogitativi complessi, ma uscendone per cercare
altre vie gnoseologiche. Questo
è il “fare filosofia”, mentre quello dei
teologi filosofali è un mero “fare
ragionazione”.
Il Seicento aveva lasciato in eredità al
Settecento due modelli gnoseologici, quello
astratto di Cartesio e Hobbes e
quello concreto di Bacone e Locke. Il passo
fondamentale compiuto dagli
Illuministi sarà quello di abbandonare il
cartesianesimo per affidarsi al
newtonismo, ma in Francia il meccanicismo
metafisico di Descartes rimane assai
più presente di quello scientifico di Newton.
Ma il razionalismo di buona parte
dell’Illuminismo francese ha ormai poco a
vedere coi meccanismi
logico-dialettici della metafisica, basandosi
sulla consapevolezza della
relatività della conoscenza. Una relatività
tipica della scienza, che si occupa
molto del “come” e assai poco del “che cosa”,
come aveva insegnato Bacone e
ribadito Newton. Quando il grande Isaac vedeva
se stesso come un bambino che
giocava con la sabbia sulla battigia di un
mare sconosciuto, era infatti consapevole
dei limiti della conoscenza, che è valida
nella misura in cui più sa e più
intravede la vastità di ciò che non sa. Atteggiamento
opposto rispetto alla
presunzione metafisica di sapere a priori le verità essenziali da cui
dedurre le contingenze della realtà. Tra
la ricerca sul “reale” concreto dello
scienziato e la meccanica deduttiva e astratta
dalla logica vi è quell’abisso
che delimita due sponde, non già complementari
come spesso si sente dire, ma
invece assolutamente dicotomiche del sapere.
Esiste una corrente critica piuttosto forte
e anche fortunata in termini di attenzione
e apprezzamento che pone Cartesio
come uno dei padri dell’Illuminismo. Noi
non siamo d’accordo e riteniamo, anzi,
che il suo metodo critico, per quanto assai
interessante come specchio di un
Barocco in evoluzione, sia zoppo nella misura
in cui mette in discussione la
conoscenza, ma per nulla la fede. L’Illuminismo,
quindi, poteva assumere il
modello cartesiano solo fraintendendolo,
come peraltro è accaduto a La Mettrie;
e se la presunta eredità di un pensiero si
basa manifestamente su un equivoco,
è difficile non constatare che molto “cartesianesimo”
settecentesco è in realtà
non-cartesiano e per alcuni aspetti persino
anti-cartesiano. Non è tutto, vi
sono storici come il Vartanian che ci presentano
Descartes quasi come un ateo ante-litteram,
una tesi certamente affascinante, ma che
si rivela del tutto inconsistente appena
si abbia la pazienza di leggere “attentamente”
i suoi testi: i tentativi di far
passare Cartesio per un pre-ateo sono smentiti
da Cartesio. Molto differente è
il discorso se si prende in considerazione
il meccanicismo, di cui
Descartes è stato sicuramente il maggior
promotore sul piano metafisico. Esso
si presentava come “estremamente utile” quale
sostegno del materialismo, poiché
consentiva, in quanto attributo di una res extensa sganciata dalla cogitans,
di costituire una valida (e prestigiosa)
stampella teorica. Descartes, in realtà,
resta fondamentalmente un platonico; egli
ha semplicemente spostato l’asse dei
suoi interessi dall’idea astratta e spirituale
(il pensiero) verso la sua
imitazione-creazione concreta e reale per
la percezione sensoria (la
materia).
Newton, che non credeva ai “meccanismi”
della materia alla maniera di Cartesio e
Leibniz, era con grande soddisfazione
giunto alla constatazione che le leggi fisiche
da lui scoperte spiegavano molte
cose, ma non rivelavano un universo rigorosamente
meccanicistico, essendo il
movimento non una costante dell’universo,
bensì ciò che «è molto più
predisposto ad essere perduto che acquistato,
ed è sempre in declino» [3].
Senza che egli se ne rendesse conto, in quest’asserto,
era implicato ante
litteram anche il secondo principio della termodinamica,
in quanto
“perdita” di energia utile e “perdita” di
ordine; ma, all’epoca, i sostenitori
dell’immutabile ordine divino erano i dominatori
incontrastati delle coscienze.
Alle deficienze del “sistema cosmo” in termini
di immutabilità del moto, si
accompagnava anche l’irregolarità degli assi
di rotazione dei pianeti, sicché
Newton era convinto (contro Leibniz) che
Dio dovesse continuamente intervenire
per riaggiustare il corso delle cose. Un
Dio però, è il caso di sottolinearlo,
che in effetti pareva più “necessitato” ad
intervenire come manutentore
obbligato, piuttosto che “libero” di farlo.
Ma l’importante della conclusione
newtoniana era che, sul piano fisico, era
contraddetta la credenza metafisica
in un ordine “necessario in quanto intrinseco”
(come pretendeva Spinosa),
“impresso ma autonomo” (come voleva Descartes),
“impresso ma necessitato” (come
teorizzava Leibniz). L’importanza della conclusione
scientifica di Newton non
sta nel fatto che egli, in quanto credente,
si vedesse costretto ad attribuire
a Dio un indispensabile riaggiustamento continuo
dei movimenti del cosmo,
quanto che essi non fossero necessitati da
un “meccanicismo” immutabile, e
quindi statico, ma come qualcosa che quasi
sfuggisse continuamente di mano al
Creatore.
Tuttavia, che i mutamenti potessero
avvenire “per caso” era del tutto fuori della
visione del mondo del pio Isaac, che
però, da fisico attento, finiva per ammettere
mutamenti cosmici contingenti e
non-programmati da Dio. In realtà la cultura
settecentesca era ancora del tutto
impreparata a considerare la casualità come
fattore evolutivo della dinamica
cosmica, se non nella misura in cui l’eredità
di Epicuro e Lucrezio era
ritornata, col Rinascimento, ad essere presente
nel patrimonio culturale
seppure con un’influenza modesta. Ciò che
si dava per noto ed acquisito era che
Newton avesse ”dimostrato” l’esistenza di
Dio attraverso la necessità del “Suo”
intervento sul cosmo, che Cartesio avesse
teorizzato che il cosmo si muoveva
“da se stesso” e che Spinoza fosse un ateo
perché sosteneva che il cosmo fosse
Dio e nel contempo Necessità assoluta. Sarà
quindi il cartesianesimo la base
prevalente del materialismo settecentesco,
esclusivamente determinista, il
quale, per quanto prevalentemente ateo, rimetteva
in gioco un Dio-Necessità
panteista al posto del Dio-Volontà monoteista.
Entro questo gioco circolare
ambiguo ed equivoco di divinità esplicite
o implicite, tra una Necessità o una
Volontà metafisiche quali cause prime dell’universo,
si manifesta l’impotenza
non solo di superare il determinismo cosmico,
ma di intravedere compiutamente
l’evoluzionismo biologico, ricadendo in un
vitalismo ilozoista che bloccherà
per lungo tempo l’evolvere della biologia.
Toccherà a Darwin, ma molti decenni
più tardi, di portare alla luce della conoscenza
il sostanziale indeterminismo
nell’evoluzione della materia vivente
Ci occuperemo nei paragrafi seguenti di sei
pensatori, cinque di essi sono, senza riserve,
innovatori della cultura del
loro tempo ed anticipatori di molti concetti
illuministici più tardi
sviluppati. Un caso a parte è Hobbes, il
cui lascito ha due versanti: uno d’avanguardia,
quello ontologico e gnoseologico, e uno reazionario,
quello socio-politico. Ma
su tutto emerge la sua antropologia, espressa
con la famosa espressione homo
homini lupus, che vede l’homo allo stato di natura in radicale
belligeranza coi suoi simili, con l’unico
sbocco positivo e risolutivo nell’istituzione
dello stato. Sul primo versante, quello sensistico-meccanicistico-materialistico,
vi sono numerosi aspetti che ritroveremo
nel pensiero laico del Settecento; sul
secondo, concernente l’etica e la politica,
e sfociante nella teorizzazione
dell’assolutismo dispotico monarchico, è
difficile non cogliervi un manifesto
anti-illuminismo. Perché allora daremo tanto
spazio al Leviathan? Perché non avremmo potuto limitarci a trattare
del De
corpore senza rapportarlo ad esso, ed anche per
mettere in evidenza uno di
quei frequenti usi “strumentali” di concetti
che, “facendo comodo”, vengono tarpati
ed adattati all’uopo. Hobbes è un materialista
rigoroso e intransigente, ed è
anche uno che fa della matematica il fondamento
del conoscere. Se si mette tra
parentesi Dio, che riguarda i tre quarti
della sua opera, e si piega il quarto
che resta ad un uso “a piacere”, che funga
da puntello storico di un
materialismo che si pretende “ateo”, il gioco
è fatto. Un gioco mistificante, e
che tuttavia “funziona” nella misura in cui
basta assumere materializzazione e
meccanicizzazione ed escludere il nucleo
duro teologico per farne un padre
dell’ateismo. Hobbes è principalmente un
teologo, che fonde il Dio-Necessità stoico
con quello della Bibbia, e che coniuga determinismo
e provvidenzialismo in una
teoria antropologica e politica compiuta.
I materialisti deterministi che hanno
guardato a lui e al suo radicale necessitarismo
si sono resi conto di tale inscindibile
nesso teologico di fondo? C’è da dubitarne.
Ma d’altra parte, quanti sono,
anche oggi, veramente consapevoli di quale
sia il “senso” teologico del determinismo?
In realtà molto pochi. La confusione ontologica
pare continuare a regnare
indisturbata.
2.2 Il
metodo conoscitivo di Francesco Bacone
Siccome riteniamo che Francis Bacon sia il
pensatore più importante ai fini del rinnovamento
della filosofia secentesca, ed anche colui
che, insieme a Galileo, ha aperto la strada
per un nuovo e autentico modo di fare scienza,
ci corre l’obbligo di soffermarci preliminarmente
sulle sue gravi manchevolezze morali. È stato
detto di lui essere un cortigiano ambizioso
ed arrivista, disposto a tutto per acquisire
onori e ricchezze e di aver proposto un metodo
scientifico molto sui generis,
privo di elementi matematici e basato su
un approccio ai segreti della materia
di carattere qualitativo del tutto inadeguato.
E ciò mentre, negli stessi anni,
Galileo intravedeva la reale base quantitativa
della realtà materiale, basata
sulla matematica e sulle sue equazioni. Di
più, egli non ha neppure compreso la
rivoluzione del modello eliocentrico copernicano,
ed ha assunto un
atteggiamento agnostico che dimostra, in
sostanza, essere rimasto ancorato a vecchie
concezioni cosmologiche. Bacone appare pertanto
un ritardatario nel campo delle
scienze cosmologiche e fisiche, avendo trascurato
il ruolo fondamentale della
matematica. Tutto vero ed anche di più, se
si tiene conto di un’accusa di
corruzione che lo colpisce nel 1621 e da
cui esce male, dovendo risarcire ed
abbandonare la vita pubblica. Il problema
che si pone dopo tale ritratto
negativo, sia sotto il profilo morale e sia
sotto quello epistemologico, che ci
descrive un Bacone non virtuoso e non scienziato
di rango, è quello di
comprendere se vi sia dell’altro che ci permette
di considerarlo così
importante o si tratta di un nostro pregiudizio.
Domanda retorica, poiché
diffusi e numerosi sono i riconoscimenti
dei meriti di Bacone; ma noi vorremmo
che i pregi, se ci sono, emergano dalla lettura
dei suoi testi e non da giudizi
dati per acquisiti.
Qualche breve cenno biografico: Bacone
nasce 1561 (tre anni prima di Galileo) in
un ambiente e in un contesto
culturale particolare, quello della corte
inglese elisabettiana. Suo padre è
lord guardasigilli della regina. Avviato
agli studi di legge, prima a Cambridge
poi a Parigi, entrò in politica trovando
spazio con l’andata al trono di
Giacomo I Stuart nel 1603. Nel 1607 diventa
avvocato generale, nel ’13
procuratore generale, nel ’17 lord guardasigilli,
lord cancelliere l’anno dopo
col titolo di barone di Verulamio. Una carriera
lenta ma efficace lo porta a 56
anni ad esser uno degli uomini più importanti
del Regno Unito, poi il crollo
del ’21 e la scomparsa dalla scena politica
per dedicarsi unicamente allo
studio fino alla morte, nel 1626 . Ma, aldilà
di ambizioni che lo perderanno, sir
Francis è tormentato dal problema del conoscere
la realtà e nel 1592 licenzia
un breve Discorso in elogio della conoscenza che contiene già molte
premesse di ciò che scriverà in seguito.
Nel secondo capoverso si dice: «La
mente è l’uomo e la conoscenza della mente.
Un uomo è solo ciò che egli
conosce. La mente stessa non è che un accidente
per la conoscenza, perché la
conoscenza è un duplicato di ciò che è; la
verità dell’essere e la verità del
conoscere sono tutt’una.» [4]
Asserzione forse ingenua, nell’oblio del
ruolo del linguaggio nella
formulazione della conoscenza, ma che esprime
bene un’aspirazione e una
tensione. Bacone tenterà per tutta la sua
vita di conseguire un approccio al
reale corretto, esente da pregiudizi e da
contaminazioni metafisiche, riuscendoci
nella misura in cui ha indicato la strada
dell’osservazione e della
sperimentazione, accostando e rafforzando
gli stessi principi che Galileo
andava formulando con ben maggior coerenza
scientifica. Il fatto è che Bacone
era filosofo e non scienziato; aveva un’idea
chiarissima del valore
dell’osservazione e della sperimentazione
per la conoscenza, ma evidentemente
non era capace di farne una propria attività
reale. Egli sapeva solo scrivere,
per questa ragione rimane un teorico, ma
un teorico che ha compreso chiaramente
il fondamentale ruolo della pratica per il
conseguimento della conoscenza
autentica, e soprattutto colui che ha indicato
nello “strumento” il dispositivo
fondamentale per andare oltre la percezione
sensoria.
Bacone è uomo pio e scrive le Meditazioni
sacre nel 1567, ma nella Quinta, nel citare San
Matteo (6, 34) e il suo «A
ciascun giorno basta la sua malizia.» lo
interpreta attraverso Orazio
affermando: «Noi dobbiamo esser di oggi a
causa della brevità della vita, e non
di domani, ma (come dice il poeta) «afferrando
il giorno» [5];
il futuro, infatti, «sarà presente a sua
volta; perciò basta esser solleciti delle
cose presenti.» [6]
Un’affermazione che sottolinea come Bacone,
che pur aspira al Cielo e
all’eternità, abbia gli occhi ben aperti
sulla Terra e sulla temporalità. Dopo
alcune opere minori, scritte tra il 1603
e il 1609, vi è un lungo periodo di
incubazione e di concepimento dell’Instauratio Magna, un grandioso
progetto di indagine sulla conoscenza previsto
in sei parti, che vede la luce
nel 1620 e di cui il Novum Organum (quale Seconda Parte) è di gran lunga
la principale. Il titolo stesso pone l’opera
come un superamento (in realtà una
vera cassazione) dell’Organon aristotelico, che Bacone contesta nei suoi
stessi fondamenti logici. Nella dedica
al monarca Francis esprime il desiderio che
la sua opera venga considerata un
“parto del tempo” piuttosto che del suo ingegno,
nel senso la messa in
discussione le conoscenze tradizionali è
cosa dovuta, necessaria da tempo, e
che il puro caso ha trovato in lui il suo
agente. Sicché: «se c’è qualcosa di
buono nell’opera che presento, sia attribuito
all’immensa misericordia e bontà
di Dio.» Troveremo ancora questa spersonalizzazione
degli intenti e la
necessità “oggettiva” di una revisione del
procedere scientifico, che si ferma
aldiquà della barriera metafisica, poiché:
« le conoscenze attuali sono come le
colonne d’Ercole per il progresso delle scienze.»
[7] Lo stato delle scienze attuali patisce
«principi generali suadenti e pomposi» ma
che sono quasi «cose morte» [8]
e che, tuttavia, sono oggetto di venerazione
al punto da determinare una
«servitù delle scienze» che nasce «dall’alterigia
di pochi e dalla viltà e
pigrizia degli altri.» Il peggio è l’approvazione
acritica di ciò che passa
per”autorità”:
Niente
di più ingannevole e sciocco, poi, di quell’approvazione
che sorge dal consenso
ormai inveterato […] Nei fasti non si registrano
né i parti né gli aborti del
tempo. Inoltre il consenso universale non
è cosa da apprezzare semplicemente
per la sua lunga durata. [9]
Uno stato del sapere fatto
di dottrine sterili, che tarpano le ali ad
ogni nuova scoperta nel loro
presentarsi come “perfezione di un insieme”
[10]
coerente quanto inconsistente. Ma che cosa
si deve intendere per “stato del sapere”?
Non certo ciò che alcuni coraggiosi scienziati
dell’inizio del Seicento stanno
operando, ma che probabilmente Bacone ignora,
mentre i Boyle e i Newton non
sono ancora apparsi. Ovviamente ciò che Bacone
intende stigmatizzare è la
pseudo-scienza aristotelica, che domina incontrastata
nelle università
catechizzando i giovani intellettuali del
tempo. Il punto è che Bacone ha
compreso che tale conoscenza tradizionale
è fondata più sulle elucubrazioni del
pensiero e sui meccanismi della parola che
sul rapporto diretto con la sfera
del reale. Così sono stati molti (i metafisici)
a credere di poter di fondare
la scienza sulla dialettica, senza avvedersi
che «l’intelletto umano
abbandonato a se stesso non è cosa di cui
ci si possa fidare» [11]
Infatti:
La
dialettica che essi vogliono adoperare, è
utilissima negli affari civili, dove
si richiedono le arti del discorrere e dell’opinare;
ma è ben lontana dal
penetrare nella natura; e, maneggiando ciò
che non comprende, essa servì
piuttosto a stabilire e quasi a fissare gli
errori, che ad aprire la via della
verità. [12]
Accusa pesante, che nello
stesso tempo giustifica l’intento di porre
rimedio allo stato depresso della
cultura scientifica, risolvibile attraverso
un nuovo approccio alla natura, un
nuovo modo di concepire la scienza, di coltivarne
la conoscenza, di affrontare
i problemi che questa pone.
Il programma operativo si esplicita
attraverso le sei parti dell’Instaurazione: 1. Partizione delle scienze;
2. Nuovo Organo o Filosofia prima (Principi
d’interpretazione della natura); 3.
Fenomeni dell’universo (Storia naturale e
sperimentale per la fondazione della
filosofia); 4. Scala dell’intelletto, 5.
Prodromi (Anticipazioni della
filosofia seconda), 6. Filosofia seconda
o Scienza attiva. Di quest’ambizioso progetto,
rimasto incompiuto, Bacone riuscì a completare
solo la seconda parte, il Novum
Organum, pubblicato nel 1620, per quanto il De augmentis scientiarum
(Della dignità e del progresso delle scienze) possa essere considerato
come prima parte dell’Instauratio. Ma vediamo il progetto:
Una
volta traversata la regione delle arti antiche,
istruiremo l’intelletto umano
sui modi di progredire. È destinata alla
seconda parte la ricerca di un
migliore e più perfetto uso della ragione
nell’indagine della realtà, e dei
veri aiuti da fornire all’intelletto per
accrescerne il potere conoscitivo e
renderlo capace, per quanto è nella condizione
nostra di uomini e di mortali di
vincere la difficoltà e l’oscurità della
natura. Quest’arte, che qui
presentiamo sotto il nome di Interpretazione
della natura, è una specie di
logica, sebbene sia ben lontana, anzi immensamente
lontana, dalla logica
volgare. [13]
Anche sotto i profilo
terminologico Bacone vuole cambiare lo stato
delle cose, la logica tradizionale
(quella di Aristotele e quella degli Scolastici)
è definita «volgare» mentre la
nuova logica, quella che ha come fine l’«
indagine della realtà», è
«interpretazione» del modo reale. Tali premesse
capovolgono tutto l’impianto
tradizionale del vecchio modo di filosofare,
che vedeva la metafisica come
filosofia “prima” e l’indagine sulla realtà
della natura come “seconda”. In
altri termini: Bacone propone una filosofia
della concretezza in sostituzione
di una filosofia dell’astrattezza. Proseguiamo:
Il
fine della nostra scienza non è di scoprire
argomenti, ma arti; non le
conseguenze che derivano da principi posti,
ma gli stessi principi; non ragioni
di probabilità, ma designazioni e indicazioni
di opere. E così, da un diverso
scopo vien fuori un diverso risultato: nella
logica volgare l’oppositore è
vinto e costretto per la forza della discussione,
in questa la natura è vinta e
costretta per la forza dell’operazione. [14]
Passo estremamente
importante, che dobbiamo esaminare con attenzione
per evitare equivoci. Col
termine «argomenti» Bacone intende “materie
di disputa”, con «arti» azioni
concrete di ricerca sulla realtà. Il «diverso
scopo» si costituisce
nell’abbandono della discussione fine a se
stessa (la disputa), frutto della
logica volgare, dove il confronto è tra menti pensanti che
dibattono e da cui esce un “vincitore”, per
perseguire l’instaurazione di un
confronto diretto con la natura, che è «vinta
» quando se ne carpiscono i
segreti attraverso l’«operazione» osservativa
e sperimentale. Capovolgendo il
procedere logico (interpretativo) si “entra”
concretamente nella natura e si
“esce” nel contempo da un mero mentalismo
sterile e si instaura così una relazione
diretta con essa non più mediato da un discorso
che le è in gran parte
estraneo:
Con
questo scopo s’accordano la natura e l’ordine
delle dimostrazioni: nella logica
volgare infatti tutto converge verso la teoria
del sillogismo. A mala pena i
dialettici si sono occupati dell’induzione,
e solo per farne una menzione
superficiale, e passare poi subito alle formule
del disputare. Noi respingiamo
la dimostrazione per sillogismo, perché produce
confusione, e si fa sfuggire
dalle mani la natura. [15]
La logica sillogistica e
deduttiva non ha per fine il rapporto diretto
con l’oggetto del conoscere, ma
piuttosto la creazione di «formule del disputare»,
prive di alcun rapporto con
la realtà. La deduzione, nei termini posti
dalla logica tradizionale, diventa
“dimostrazione” fine a se stessa e totalmente
astratta, quindi «si fa sfuggire
dalle mani la natura», laddove l’induzione
interroga la natura rimanendo
aderente ai suoi fenomeni. Le materie prime
del sillogismo sono “proposizioni”,
fatte di “parole”, e le parole sono nient’altro
che «etichette». La
“fabbricazione delle etichette” e il loro
assemblaggio logico può assumere caratteri
di tale arbitrarietà che splendidi castelli
sillogistici poggiano sul nulla:
Pertanto,
ove le nozioni stesse, che sono l’anima delle
parole e la base di tutto
l’edificio della sillogistica, vengano malamente
e arbitrariamente ricavate
dalla realtà naturale, e rimangano vaghe,
o insufficientemente definite e
circoscritte, insomma in qualunque modo viziose,
tutto è a cadere. [16]
Ma se « tutto è a cadere »
sul piano della conoscenza, « tutto è ad
erigersi » sul piano creativo della
metafisica. In questo senso Bacone è il primo
pensatore che coglie a fondo il
problema dell’opposizione radicale ed inconciliabile
tra la conoscenza del
reale fisico e l’invenzione dell’immaginario
metafisico. Il Nostro lascia così
la deduzione sillogistica alle «arti popolari
e alle credenze» metafisiche,
ribadendo invece il valore dell’induzione
diretta come fondamento del
conoscere. Il ragionamento deduttivo è semplice,
rapido e «si presta moltissimo
alle dispute» [17] quello induttivo è «continuo e per gradi»
ma
è tale che «la natura stessa li riconosca»
in quanto «inerenti all’interno
delle cose stesse.» [18]
Inoltre, l’induzione “sul reale” non ha
niente a che fare con l’induzione intesa
secondo la logica volgare:
Occorre,
però, che la forma stessa dell’induzione,
e il giudizio che sorge da essa,
siano profondamente modificati. Infatti quella
forma di induzione di cui
parlano i dialettici e che procede per enumerazione
semplice, è qualcosa di
puerile, e conclude senza necessità, perché
resta esposta al pericolo di
un’instanza che contraddice, conosce solo
particolari abituali, e non raggiunge
mai una conclusione. [19]
Bacone ha perfettamente
compreso come la logica tradizionale si fondi
solo su formule, moduli e schemi,
del tutto preconcetti e avulsi dalla realtà,
sicché in essa ciò che passa per
“induzione” è un puro fantasma. I « particolari
abituali », ovvero schematici e
formali, sono gli inconsistenti e astratti
costituenti di un’induzione sul
metafisico che non ha niente a che fare con
l’induzione sul reale. Solo l’operatività
scientifica, osservativa e sperimentale,
permette un’induzione vera e corretta.
La metafisica può ben disputare sull’astratto:
Per
la scienza è invece necessaria un’induzione,
che sia capace di vagliare e
analizzare l’esperienza, per mezzo di esclusioni
e reiezioni rigorose, e di
concludere infine secondo necessità. Se la
logica volgare dei dialettici ha
richiesto una lunga elaborazione ed ha fatto
esercitare tanti ingegni, ancora
più ci si dovrà affaticare per quest’altra,
che non deriva dai recessi della
mente, ma della viscere stesse della natura.
[20]
La dicotomia mente/natura è
qui posta con vigore ma va colta correttamente,
poiché è ovvio che solo la mente
può interpretare la natura in quanto strumento
primario per accedere ai suoi
segreti. L’opposizione è tra un uso “mentalistico”,
quindi autoreferenziale, e uno
“naturalistico”; quindi tra un’operatività
tutta mentale e astratta che agisce
su un piano “isolato” e alieno dalla natura
(meta-fisico), ed un’operatività
osservativa e sperimentale che agisce sul
piano (fisico) della natura stessa.
Piano che non è affatto quello dei sensi:
«poiché i sensi s’ingannano», e
«Perciò è un grande errore affermare che
il senso è la misura delle cose.» [21]
Viene posto così con forza teorica ciò che
Galileo pone negli stessi anni sul
piano della pratica: cioè l’utilizzo dello
“strumento” come mezzo primario di osservazione
della realtà e di misura dei suoi denotati.
Ciò che Bacone non ha ben chiaro è
che è strumento veritativo è anche quello
fornisce la misura, che la misura è
corollario indispensabile dell’osservazione,
che la misura è sempre una
“quantità”, e che questa si esprime solo
attraverso il dato matematico.
Il Nuovo Organo deve definire il
metodo d’approccio per un’autentica interpretazione
della natura, e il Nostro
pensa che la forma aforistica possa essere
efficace. In realtà solo i primi 58
punti del Primo Libro sono in questa forma,
i successivi presentandosi come
paragrafi numerati. Vediamone alcuni:
3.
La scienza e la potenza umana coincidono,
perché l’ignoranza della causa
preclude l’effetto, e alla natura si comanda
solo ubbidendole: quello che nella
teoria fa da causa nell’operazione pratica
è di regola. [22]
Essere in sintonia con la
natura significa “ubbidirle”, solo così essa
si lascia possedere. Ciò che è
individuato come “causa” sul piano teorico
(osservazionale) è la “regola” sul
piano operativo (sperimentale). Le «nuove
opere» della scienza non sono
possibili per mezzo della logica tradizionale
(11.), la deduttività
sillogistica è «incapace di penetrare nella
profondità della natura.» (13.)
poiché essa «costringe il nostro assenso,
non la realtà.». Gli strumenti della
logica tradizionale sono le proposizioni
(14.), fatte di parole-etichette che
strutturano solo « insegne di nozioni ».
Ma:
15.
Nelle nozioni non c’è nulla di rigoroso,
così in quelle logiche come in quelle
fisiche; sostanza, qualità, azione, passione e
neppure l’essere stesso sono veri concetti; tanto meno grave-leggero,
denso-tenue, umido-secco, generazione-corruzione, attrazione-repulsione,
elemento, materia-forma, e così via; son tutte nozioni
fantastiche e mal definite. [23]
La “nozione”, quindi, cioè
il preteso “saputo”, è la morte della conoscenza,
ed i “concetti” in senso
tradizionale (idealistico) puri fantasmi.
È veramente straordinario come un uomo
dell’inizio del Seicento abbia intuito come
la “nozione” basata sul discorso e
sulla nominazione non abbia nulla a che fare
con la complessità strutturale della
materia in un momento in cui essa era
ancora del tutto sconosciuta. Bacone intuisce
perfettamente che le
concettualizzazioni relative ad essa, espresse
con nomi dei suoi supposti “modi
d’essere”, ne mistificano profondamente l’essenza.
Il divenire profondo della
materia (quello noi oggi chiamiamo subnucleare
o elementare) non è concepibile
con “stati” nominabili ed etichettabili;
bensì come un flusso continuo e
complesso dove una cosa è nello stesso tempo
un’altra, o “già” un’altra, nel
momento in cui la si è osservata. «Arbitrio
e aberrazione» caratterizzano per
Bacone gli assiomi e i concetti astratti
derivanti dall’ «induzione volgare»
(17. e 18.) [24]
Vi è una via falsa e una via vera alla conoscenza
(19.); la prima (quella
dialettica): «dal senso e dai particolari
vola subito agli assiomi
generalissimi », la seconda (quella sperimentale): «risalendo per gradi e ininterrottamente
la
scala e della generalizzazione, fino a
pervenire agli assiomi generalissimi: questa
è la vera via, sebbene non sia
ancora stata percorsa dagli uomini.» [25]
La prima via, tutta “intellettuale”, è così
facile e comoda che da sempre è
stata preferita e ritenuta soddisfacente.
Però:
20.
L’intelletto abbandonato a se stesso infila
spontaneamente la prima via, e la
segue secondo le regole della dialettica.
La mente umana infatti tende a salire
subito a ciò che vi è di più generale e quivi
giunta fermarsi, perché si stanca
ben presto dell’esperienza. Questo difetto
è accentuato dalla dialettica con il
suo sfoggio di disputazioni. [26]
Pensiamo di interpretare il
pensiero baconiano nel tradurre così: il
lavoro sperimentale è faticoso e
noioso, il gioco dialettico facile, divertente
ed appagante. Però col primo si
produce conoscenza, col secondo si fabbricano
solo fantasmi metafisici. Quando
sorge qualche difficoltà non risolvibile
con artifici dialettici (26.) «si
cerca di salvare l’assioma con qualche distinzione
futile, laddove occorrerebbe
piuttosto correggerlo.» [27]
L’abbandono dei processi conoscitivi
erronei o falsi non è tuttavia sufficiente
per porsi su una corretta via alla
conoscenza, occorre anche “disintossicarsene”:
38.
Gli idoli e le nozioni false che hanno invaso
l’intelletto umano gettandovi
radici profonde non solo assediano la mente
umana sì da rendere difficile
l’accesso alla verità, ma (anche dato e concesso
tale accesso), essi
continuerebbero a nuocerci anche durante
il processo di instaurazione delle
scienze, se gli uomini, di ciò avvisati,
non si mettessero in condizione di
combatterli, per quanto è possibile. [28]
L’”assedio” della
pseudo-scienza alle facoltà intellettive
è tale che, se pure è possibile una
sortita liberatoria alla verità, il percorso
verso essa è reso difficoltoso dai
pesi di una tradizione inveterata. Non basta
perciò abbandonare gli idoli,
bisogna «combatterli», poiché essi sono sempre
tra noi. L’argomento è ben noto:
gli idoli secondo Bacone sono di quattro specie, quelli
“della tribù”
(41.) afferiscono la natura umana e tendono
a deformare la realtà; quelli
“della spelonca” (42.) dipendono dalla singolarità
dell’individuo e possono
portare all’incomprensione della realtà esterna;
quelli “del foro” (43.)
derivano dallo stare insieme degli uomini
e dal discorrere generico («per così
dire da un contratto e dai reciproci contatti
del genere umano» [29]),
dalle convenzioni del discorso, dalla chiacchiera,
dal “sentito dire”; quelli
“del teatro”, infine, sono i cosiddetti «sistemi
filosofici » costruiti con la
metafisica, escogitati come «favole preparate
per essere rappresentate sulla
scena, buone a costruire mondi di finzione
e di teatro.» [30]
La ragione per la quale gli idoli della
tribù si sono imposti dipendono da alcuni fattori.
Il primo (45.): la
nostra struttura psichica ci porta a vedere
nella realtà più ordine di quanto
ce ne sia, ciò conduce all’invenzione di
«parallelismi, corrispondenze e
relazioni che in realtà non esistono.» [31]
Un secondo (46.): «L’intelletto umano quando
trova qualche nozione che lo
soddisfa, o perché ritenuta vera, o perché
avvincente e piacevole, conduce
tutto il resto a convalidarla ed a coincidere
con essa. E, anche se la forza
delle instanze contrarie è maggiore […] non
ne tiene conto […] pur di
conservare indisturbata l’autorità delle
sue prime affermazioni.» [32] Per quanto l’intelletto umano sia mobile
e
cerchi spesso il nuovo, finisce spesso per
ricadere negli «universali ancor più
noti» [33],
cioè alle solite «cause finali» (48.):
Le
quali tengono assai più della natura dell’uomo
che di quella dell’universo, e
hanno corrotto la filosofia in mille modi.
Inoltre è proprio del filosofo
leggero ed inetto cercare la causa tra ciò
che è massimamente universale,
trascurando, invece, di ricercare le cause
nelle cose subordinate e subalterne.
[34]
Il cristiano Bacone non può
cogliere il senso della sua affermazione,
pena la negazione della causa finale
per eccellenza: Dio. Egli ha compreso molto
bene come il concetto di “causa
finale” sia meramente antropico («della natura
dell’uomo») e per nulla
ontologico, ma poi conserva il concetto di
causa prima, altrettanto
inconsistente, nel definire le uniche cause
vere, reali ed esistenti, come ad
Lui «subordinate e subalterne». D’altra parte,
il fantasticare su immaginarie
cause finali è una caratteristica della psiche
umana difficilmente eliminabile,
poiché la concettualizzazione causa–prima/causa–ultima appartiene alla
fenomenologia psichica quale esigenza omeostatica,
radicata e cogente. L’uomo “crede
ciò che sceglie” e tra l’inesistenza di Dio
e la sua esistenza è proprio questa
che egli “sceglie”, poiché lo rassicura,
lo tranquillizza, gli dà speranza.
Bacone vede che la “sapienza” tradizionale
è inconsistente perché l’intelletto
è debole ed influenzabile (49.). Ne tenta
una spiegazione :
Ciò
avviene perché l’uomo crede vero ciò che
preferisce, e respinge perciò le cose
difficili per l’impazienza del ricercare;
la realtà pura e semplice, perché deprime
le sue speranze; le supreme verità della
natura, per superstizione; la luce
dell’esperienza per superbia e vanagloria,
volendo evitare che la mente sembri
occuparsi di cose basse e mutevoli; i paradossi,
per stare all’opinione del
volgo; ed ancora in moltissimi modi, e spesso
impercettibili, il sentimento
penetra nell’intelletto e lo corrompe. [35]
Il discorso qui è
rigorosamente gnoseologico, e non ci si deve
quindi stupire se i sentimenti
vengono ritenuti in tale contesto “corruttori”
del conoscere, poiché è evidente
che, laddove i sentimenti condizionino la
ragione, diventa più difficile
conseguire il vero. E tuttavia, se i sentimenti
distraggono dalla conoscenza,
molto peggio fanno i sensi:
50.
.Ma il maggior ostacolo e la peggiore aberrazione
provengono all’intelletto dai
sensi, che sono ottusi e incapaci di risalire
al vero per la loro stessa natura
ingannevole, tale che quello che li colpisce
immediatamente ha sempre la
prevalenza su ciò che non li colpisce che
alla lontana, anche se quest’ultimo è
più importante del primo. [36]
Le ragione
dell’anti-sensismo di Bacone per un verso
hanno la loro ragione nell’aver
compreso che solo la strumentazione permette
l’indagine sulla realtà sotto la
soglia del visibile, ma trova anche ragione
in concezioni errate circa la
natura delle alterazioni, che egli considera
un tipo di movimento minimale e
invisibile.
Veniamo ora agli idoli della spelonca
cui vanno soggetti uomini di grande ingegno,
ma che (54.) credendo troppo in se
stessi lo utilizzano male e che «quando si
rivolgono alla filosofia e alle
speculazioni universali finiscono per deturparle»
[37] È questo il caso di Aristotele «che ha reso
la sua filosofia naturale schiava della logica
e quasi inutile, perché
influenzata dalle contese verbali.» Qui,
come altrove, Bacone sostiene che una speculazione
che non operi sulla realtà,
ma che utilizzi artifici puramente dialettici,
non è solo inconsistente, ma
conduce ad errori esiziali per la filosofia.
Il più disprezzato quale vittima degli
idola specus è Paracelso (definito altrove “imbroglione
e spregevole”)
insieme con tutta la banda dei suoi seguaci,
che «hanno costruito una filosofia
naturale affatto fantastica » [38].
In quanto agli idoli del foro (59.): essi vengono definititi «i più molesti di
tutti, perché si sono insinuati nell’intelletto
per l’accordo delle parole e
dei nomi. Gli uomini credono che la loro
ragione domini le parole, ma accade
anche che le parole ritorcano e riflettano
la loro forza sull’intelletto, e
questo rende sofistiche e inattive la filosofia
e le scienze.» [39]
Con l’espressione «parole e nomi» Bacone
intende il discorso banale della
quotidianità, in cui egli intravede delle
cogenze concettuali e semantiche che
sfuggono al controllo della ragione, e suddivide
gli idola fori in due
specie:
60.
Gli idoli che penetrano nell’intelletto per
mezzo delle parole sono di due
specie: o sono nomi di cose inesistenti (come
sono cose che mancano di nome,
perché non sono ancora cadute sotto l’osservazione;
così vi sono nomi di cose
inesistenti, perché prodotte da fantastiche
supposizioni); o sono nomi di cose
che esistono, ma confusi ed indeterminati
e impropriamente astratti dalle cose.
[…][40]
Gli idola fori della
prima specie, cui appartengono la fortuna,
il primo mobile, le orbite planetarie, l’elemento fuoco, Bacone li ritiene facilmente
estirpabili. Quelli della seconda, invece,
frutti di una «cattiva e inetta
astrazione», quali sono le parole con più
significati che generano ambiguità, e
tra queste la parola umido in cui
Bacone vede otto significati differenti,
diventando tutt’uno col linguaggio
corrente sino a diventare difficilmente emendabili.
Peggio sono verbi (come generare, corrompere, alterare)
riferiti ad azioni mal definite, mentre i
peggiori in assoluto sono aggettivi
come pesante-leggero e tenue-denso.
Gli idoli del teatro (61.) sono
quelli « introdotti dalle favole delle teorie
e dalle cattive leggi delle
dimostrazioni.» [41];
si tratta di prodotti spurii della filosofia,
che possono «fondare e stabilire
svariati dogmi dottrinari.» [42]
Di essi si precisa:
E
le favole di questo teatro hanno la stessa
caratteristica della
rappresentazioni teatrali, create dai poeti,
perché le narrazioni finte per la
scena sono più garbate ed eleganti dei fatti
veri, tratti dalla storia, e più
prossime a ciò che ognuno desidera. [43]
Torna in queste ultime
parole l’importante concetto del “desiderio
psichico” di trovare in una certa
teoria ciò in cui già si crede. Garbo ed
eleganza di tali filosofeggianti «
rappresentazioni teatrali » sono fatte apposta
per appagare tale desiderio, e,
“funzionando” assai bene, costituiscono un
gravissimo pericolo per la
conoscenza. I creatori degli idola theatri vengono suddivisi in tre
categorie: la prima riguarda la rationale genus philosophantium, alla
lettera: la “classe razionale dei filosofanti”
(tradotta anche dei sofisti o
intellettualisti). La seconda quella dei
faciloni (o empiristi), con
riferimento agli alchimisti. La terza quella
dei teologi. Vediamole
sinteticamente: «Così i filosofi intellettualisti
traggono dall’esperienza dati
volgari e sconnessi […] Un altro tipo è costituito
da quei filosofi che hanno
lavorato con cura e assiduamente attorno
a pochi esperimenti […] Un terzo tipo
è quello di quei filosofi che mescolando
alla filosofia la teologia …» [44]
I fabbricanti degli idola theatri della prima specie producono teorie
false perché partono da elementi inconsistenti
o incoerenti, quelli della
seconda perché i dati di base sono parziali
e insufficienti, quelli della terza
perché inquinano la ricerca del vero con
l’assunzione di elementi estranei di
tipo religioso (non-cristiano). Tra i rappresentanti
del primo tipo emerge
Aristotele, «colui che con la sua dialettica
ha corrotto la filosofia
naturale.»; tra quelli del secondo gli Alchimisti
ed anche Gilbert (lo studioso
del magnetismo); appartenenti al terzo tipo
sono quelli che hanno prodotto i
danni maggiori: Pitagora e Platone.
Il pretendere di “dimostrare” su basi
erronee è disastroso per il conoscere: «Le
cattive dimostrazioni sono la difesa
e il presidio proprio degli idoli: quelle
che si traggono dall’arte dialettica
valgono solo a sottomettere il mondo al pensiero
umano, e questo alle parole.» [45]
Bacone allude a una realtà cosmica “modellata”
sulle idee dell’uomo e non
considerata in se stessa, con il pensiero
che “va a rimorchio” del discorso
quale sequenza organizzata di parole. Mentre,
all’opposto: «La miglior
dimostrazione è l’esperienza, purché ci si
attenga strettamente
all’esperimento.» [46]
L’esperienza è propria dello studio della
natura, del naturalismo osservativo e
sperimentale, ciò che all’epoca era chiamato
filosofia naturale e che il Nostro ritiene oggetto di
trascuratezza e sottovalutazione:
80.
Questa gran madre delle scienze è degradata
indegnamente al posto di ancella e
se ne è fatto un aiuto alla medicina e alla
matematica, costringendola a dare
una prima ripulitura e infarinatura alle
menti impreparate dei giovanetti,
perché poi essi si applichino con maggior
facilità a qualche altra disciplina.
Nessuno si aspetti un gran progresso nelle
scienze, specialmente nella loro
parte operativa, finché la filosofia naturale
non sarà protratta alle scienze
particolari e queste similmente ricondotte
ad essa. [47]
Il naturalismo, sulla base
della gerarchizzazione degli studi in base
all’oggetto posta da Aristotele (Metafisica,
VI (E), 1, 1026 a) vede gli studi sulla natura
al gradino più basso (perché si
occupa di cose corporee), a livello intermedio
la matematica (poiché si occupa
di enti astratti), al vertice la teologia,
perché si occupa di Dio. Da ciò
sarebbe derivato un utilizzo ancillare dell’osservazione
e dello
sperimentalismo, quali puri esercizi ausiliari
propedeutico-didattici a studi
più “nobili”, quelli concernenti gli enti
immateriali o divini. È su questa
base della teologia idealistica greca passata
pari pari in quella cristiana,
che il pio Bacone, colui che aveva affermato
che «poca filosofia
naturale…inclina all’ateismo, ma molta…riconduce
alla religione.» (Meditazioni
sacre, 10.) [48]
si vede costretto ad ammettere sconsolatamente:
«Né si deve trascurare il fatto che in tutte
le età la filosofia
naturale ha trovato un avversario molesto
e difficile nella superstizione e
nello zelo religioso cieco e smodato.» [49]
Il Nostro tiene molto all’oggettività della
ricerca, ed a una certa sua “spersonalizzazione”,
sì che in più luoghi
ribadisce il fatto che il metodo che egli
propone non punta tanto sulla
capacità individuale, quanto sulla validità
del “metodo” di condurre
l’operatore serio e preparato a far sì che
la natura “si riveli” attraverso una
sorta di attività maieutica sulla natura,
che fa emergere e chiarirsi dal suo
seno stesso i segreti che la concernono.
Al 122. egli scrive:
Il
nostro metodo di ricerca delle scienze mette
quasi alla pari tutti gli ingegni,
perché lascia poco spazio alla capacità individuale,
ma li lega con regole
solidissime e con dimostrazioni. Perciò,
questa nostra idea, come si detto
spesso, è più felice che ingegnosa, e noi
siamo soliti considerare la nostra
opera come prodotto più del tempo che dell’ingegno.
Il caso ricorre non meno
nel pensiero umano, che nelle opere e nei
fatti. [50]
Si noterà come Bacone
anticipi di almeno tre secoli la metodologia
della ricerca scientifica contemporanea,
basata per un verso sul rigore delle “procedure”
e per un altro sull’”azzeccare”
la prova rivelativa tra molte sterili, ma
tutte eseguite “in batteria” con
minime e mirate varianti. La casualità per
Bacone è un elemento importante
della scoperta scientifica, ma assai raro;
all’articolo 108. si legge: «molte cose utili sono state scoperte da
uomini che non le cercavano affatto e che
le hanno incontrate quasi per caso o
occasionalmente, mentre attendevano ad altro.»
[51]
Il Secondo Libro dell’Organum mette
a fuoco il tema delle cause, osservando qui come sia accettabile la
differenziazione aristotelica in materiale, formale ed efficiente,
ma non certo in finale. Questa «è tanto lontana da portare giovamento
alle scienze che anzi le corrompe, essa può
valere soltanto per lo studio delle
azioni umane.» [52]
Osservazione corretta, ma che non tiene conto
che per Aristotele (che poneva la
teologia al vertice delle “scienze”) la causa
finale è irrinunciabile in quanto
è Dio-Verità-Bene, il superiore e paradigmatico
“limite della finalità”. Bacone
decide di superare le definizioni di
Aristotele utilizzando un termine, quello
di
forma, dal greco già utilizzato, ma con significato
totalmente
differente. Se per lo Stagirita si trattava
di forma-immagine
(μορφέ-εϊδος)
informante la
materia bruta (in un senso molto vicino all’”idea”
platonica) nel determinare
l’essere della “cosa” reale col passaggio
dalla mera potenza all’atto di
esistere, per il Nostro la forma è una legge
fisica che fa essere la cosa e la
governa. Leggiamo:
2.
Benché in natura non esistano, infatti, realmente
che i corpi individuali
producenti atti puri individuali, secondo
una legge; nelle scienze è questa
legge stessa e la ricerca, scoperta ed esplicazione
di essa, che fa da
fondamento del sapere e dell’operare. Col
nome di forma noi intendiamo questa
legge e i suoi articoli, specialmente perché
il nome di forma è invalso
generalmente e divenuto famigliare. [53]
Bacone ha deciso di
utilizzare il termine forma nel senso di “legge formativa” degli enti
materiali. In quanto alle aristoteliche cause
efficiente e materiale,
posto che le si voglia considerare, esse
si riducono a cause “instabili” (causae
fluxae) che solo «in alcuni casi portano la forma» [54]. Questa è la legge fondamentale dell’essere
a
cui lo scienziato deve fare riferimento:
3.
Ma chi conosce la forma, abbraccia l’unità
della natura anche nelle materie più
dissimili. Perciò può scoprire e produrre
ciò che ancora non si è verificato,
come quelle cose che né l’evoluzione naturale,
né le attività sperimentali e
neppure il caso stesso hanno mai fato venire
in atto, né sottoposto alla
riflessione umana. Perciò dalla scoperta
delle forme segue la verità nella
speculazione e la libertà nell’operare. [55]
Il concetto di forma
in Bacone rimane ambiguo e privo di una definizione
precisa. Il fatto stesso
che qui si passi dal singolare (in riferimento
all’unità della natura) al
plurale (come afferente i singoli fenomeni
o enti) ne è chiaro segno. Per un
verso egli pare ancora legato al vecchio
concetto di essenza, per un
altro egli pare riprendere una teoria corpuscolare
(in riferimento ai semi
anassagorei o agli atomi leucippei?) dove la forma potrebbe assumere
i
caratteri della struttura intima della materia
nei suoi componenti elementari.
In ogni caso Bacone esorta a stare lontani
dalla «dannosa e inveterata consuetudine
di volger la ricerca ad
astrazioni» e di «derivare le scienze da
quegli stessi fondamenti che sono
propri dell’attività pratica» [56]
Quest’insistere sulla “praticità” rivela
però anche l’incapacità di cogliere
l’elemento quantitativo-astratto della struttura
materiale, vedendone solo
l’aspetto qualitativo. Per Bacone il conoscere
la natura e l’operare su di essa
presuppongono gli stessi principi, per cui
indagare e trasformare sono connessi
e contigui, anche perché egli considera l’esperimento
stesso come un tipo di “azione”
mutativa o almeno perturbante.
Legato al concetto di forma è poi quello
di
regola (5.), che è propria dell’oggetto stesso
ma lo è, specularmente,
anche dell’approccio umano ad esso. La regola si fonda su due
considerazioni. 1. il corpo è la combinazione
di un insieme di elementi
semplici (schematismo latente), 2. il corpo, da un punto di vista
dinamico, nasconde una processualità evolutiva
sottostante (processo latente)
[57]
che è così spiegata:
6.
Il processo latente del quale parliamo, è ben lontano dal poter
essere
facilmente concepito dalla mente umana, così
piena di preconcetti com’è ora.
Non intendiamo, infatti, parlare di misure
o segni o scale del processo
visibile nei corpi, ma di un processo continuativo,
che per la maggior parte
sfugge al senso. [58]
Diventerebbe sin troppo
facile voler intravedere nell’”invisibile
processo continuativo” la dinamicità
intima della materia elementare in senso
moderno, ma ciò sarebbe poco
credibile, anche perché, lo ribadiamo, Bacone
ha un concetto puramente
qualitativo della struttura della materia
(es: l’oro è giallo, pesante,
malleabile, duttile, fusibile, ecc.). Ciò
si evince anche dal fatto che egli,
nella trasformazione dei corpi, non si preoccupa
mai del “quanto” vada perduto
o acquistato, ma del “che cosa” («in ogni
generazione e trasformazione dei
corpi bisogna cercare ciò che si perde e
svanisce» [59]).
Una frase dell’aforisma 8. in questo Secondo
Libro dell’Organum che recita: «Ottimamente si
svolge la ricerca naturale quando la parte
fisica si conclude matematicamente.»
potrebbe farci pensare diversamente, ma sappiamo
da altri passi che egli allude
esclusivamente all’opportunità di una qualche
misura, e che la matematica (come
la logica) sono materie ancillari della fisica.
La ricerca della forma
passa attraverso la definizione delle instanze di essa per un dato corpo
o fatto; come esempio, relativamente
alla natura del calore, Bacone individua
27 instanze di esso che vanno a
formare una Tavola dell’essenza (o della presenza); accanto a questa
è posta una Tavola dei gradi (o comparazioni), i quali, in numero
di 39, completano le definizioni del
concetto di calore.
La chiave per l’interpretazione corretta
dell’essenza della natura è, comunque, l’induzione (10.), non quella
della logica tradizionale, ma quella scientifica
(«legittima e vera» [60]),
che è più oltre spiegata come segue: «16.
Così è necessario interamente
analizzare e decomporre la natura, non col
fuoco certamente [come fanno gli
alchimisti] ma con la mente, che è quasi
un fuoco divino. La prima opera
dell’induzione vera, quanto alla ricerca
delle forme, è la reiezione o esclusione
delle nature singole […] », dopo di che:
«rimarrà sul fondo, in secondo luogo,
come residuo da cui siano volate via come
un fumo le opinioni, la forma
affermativa, solida, vera e ben determinata.»
Il concetto di solidità è in Bacone
un poco contraddittorio, anche perché, come
è detto più oltre (23.), se la
forma «una volta osservata in uno, si estende
a tutti soggetti» quale “instanza
migrante”, va sottolineato che una “migrazione
qualitativa” presuppone una
certa incorporeità che il Nostro vorrebbe
negare. Per delineare il metodo del
procedere cognitivo Bacone assume a titolo
esemplificativo il concetto di
“caldo”, a cui si accede dapprima attraverso
una serie di verifiche, poi approdando
a una Tavola dei gradi (o comparativa) cui seguono i Processi
di reiezione o di esclusione
delle ipotesi incompatibili. Infine, per
gradi successivi si giunge a una prima
vendemmia della forma [61]
come ipotesi veritativa provvisoria, che
andrà sottoposta a una serie ulteriore
di verifiche basate sulle differenze. Il percorso verso l’induzione
vera passa attraverso le instanze prerogative [62],
seguite da altre forma complementari di
controllo al fine di comprendere che cosa
realmente possa accadere se l’ipotesi scientifica
è corretta. Se la
realtà si accorda con la teoria significa
che la forma si è resa
evidente e registrabile come veritativa attraverso
la scoperta e del suo schematismo
latente (come struttura) e del suo processo latente (come divenire).
La procedura conoscitiva è descritta in
maniera un po’ pedantesca e pleonastica,
ma anche abbastanza discutibili sono
le varie caratterizzazioni della dinamica
naturale in diciannove tipi
differenti di moto o “virtù operative” (quali: resistenza,
connessione,
indipendenza, continuità, acquisizione, attrazione,
assimilazione,
configurazione, ecc.) di cui si dice:
Poiché
dei moti enumerati alcuni sono del tutto
invincibili, altri sono più forti e
incatenano, frenano e dispongono quelli,
altri agiscono più da lontano; altri
in minor tempo e con maggior celerità; altri
servono infine a rafforzare,
accrescere, ampliare, accelerare i rimanenti.
[63]
Come si vede si tratta di
attività degli elementi della materia che
esemplificano (in maniera
immaginativa) come essi “si muovano” nei
corpi. E non nel vuoto (come pensavano
Leucippo e Democrito), bensì in un “pieno”
di materia che “si piega” su di sé (Est
enim plane plica materiae) e senza lasciare spazi vuoti. In chiusura
si precisa:
Sia
ben chiaro a tutti che in questo Organo si
fa questione di logica [di metodo],
non di filosofia [di contenuto]. Ma essendo
questa nostra logica volta a
insegnare e a guidare l’intelletto, non ad
afferrare e stringere le astrazioni
della realtà con i tenui vitici, per così
dire, della mente (come fa la logica
volgare), ma ad inserirsi davvero nella natura
[sed natura revera persecet];
dirigendosi alla scoperta delle virtù e degli
atti dei corpi, con le loro leggi
determinate nella materia. [64]
Il Novum Organum è opera
metodologica estremamente valida nell’“indicare”
come debba procedere la
ricerca scientifica e l’operatività trasformativa
dell’uomo sulla materia,
uscendo dalle pastoie metafisiche teologizzanti,
non meno che delle fantasie
alchemiche e delle superstizioni. Quando
però Bacone tenta di entrare in
dettagli teorici relativi ai corpi o ai fatti
materiali (che sono gli oggetti
della sua indagine), ponendo criteri classificatori
dei componenti o delle
caratteristiche di essi, si coglie approssimazione,
insufficienza e persino
incoerenza.
Il Disegno di una storia naturale e
sperimentale, che possa servire di base e
di fondamento per la vera filosofia
è uno scritto pubblicato in appendice all’edizione
originale del Novum
organum nel 1620. All’inizio degli Aforismi per formare la storia prima
si legge:
Sotto
tre diversi stati può trovarsi la natura,
ed è, si può dire, sottoposta a tre
specie di governi. Se lasciata libera, la
natura segue il suo corso ordinario;
dal quale stato essa è allontanata, invece,
o
dalle difformità e dalle stranezze della
materia e dalla violenza degli
impedimenti, o perché costretta e guidata
dall’arte e dal ministerio degli
uomini. Nel primo stato rientrano le specie
naturali, nel secondo i mostri, nel
terzo le cose artificiali. Infatti, nelle
cose artificiali la natura si piega
al dominio dell’uomo e ne resta soggiogata,
giacché sono cose che non sarebbero
mai sorte senza l’uomo. [65]
Abbiamo qui la conferma che
il concetto di esperimento per Bacone assume
il doppio significato di “prova”
sperimentale sugli enti di natura e “manipolazione”
utilitaristica di essi da
parte dell’uomo. Esso riceve in Bacone la
sua legittimazione quale “corso umano
del reale” accanto al corso naturale (potremmo
dire “secondo legge” di natura)
ed al corso accidentale-traumatico (secondo
“casualità”). Egli è il primo
pensatore a tematizzare chiaramente il fatto
che l’uomo ha apportato artifici profondi
sul reale, un reale “alterato” che si alterna
e si accompagna alla regolarità e
all’irregolarità, sì da farne tre fattori
storici nell’evoluzione della natura:
La
storia naturale è perciò distinta in tre
parti, che trattano della libertà,
degli errori e dei vincoli della natura,
di modo che la possiamo ben
distinguere in storia delle generazioni regolari, delle generazioni
irregolari e delle arti: quest’ultima noi la chiamiamo anche storia
meccanica
o sperimentale. [66]
Viene poi posta la domanda
se si tratti di tre vicende separate o connesse,
e si conclude che lo storico
della natura deve, da caso a caso, coglierle
insieme o considerarle
separatamente. In ogni caso l’importante
è considerare la storia dell’universo
in tutta la sua ampiezza, ed uscire da una
visione meschinamente umana della
sua realtà:
Bisogna
evitare, infatti, di restringere il mondo
alle dimensioni anguste
dell’intelletto, come fin’ora si è fatto;
occorre invece dilatare ed estendere
la portata dell’intelletto fino ad accoglier
l’intera immagine del mondo,
qual’è in realtà. [67]
Con questa considerazione, di importanza
capitale per la conoscenza, passiamo ad occuparci
dell’opera Della dignità e
del progresso delle scienze (De augmentis scientiarum), pubblicato
nel 1623, col quale Bacone elabora una classificazione
delle scienze e una
storicizzazione del pensiero umano che coprono
la prima parta del progetto
originario dell’Instauratio Magna. Quest’opera riveste per noi minor
interesse, ma ci soffermeremo su alcuni passaggi,
come quelli che compaiono nel
Libro Primo e ribadiscono criteri metodologici
già posti, ma qui meglio
definiti in relazione a quel falso sapere
metafisico promosso dalla Scolastica
che Bacone vede come un «tipo di sapere malsano
e autocorrompentesi» da parte
di sfaccendati («avevano a disposizione molto
tempo libero») legati ad
Aristotele («loro dittatore»). Essi hanno
prodotto «tele operosissime, che si
vedono ancora nei loro libri, valendosi assai
poco dell’ordito della materia,
moltissimo invece dell’agitazione dello spirito.»
[68]
È ribadito anche qui il danno per la conoscenza
di un mero intellettualismo
ripiegato sul pensiero e lontano dalla realtà.
Infatti l’indagine sul reale va
lasciata pilotare dalla realtà stessa e non
da elucubrazioni mentali astratte,
poiché:
Invero,
la mente umana, se agisce sulla materia e
si mette a considerare la natura e le
opere di Dio, è guidata dalla materia e nella
materia trova il suo limite; se
invece si volge entro di sé, quasi tessendo
una tela di ragno, allora resta
affatto indeterminata, e produce magari tele
ammirabili per la finezza dei fili
e dell’opera, ma di nessuna utilità, perché
frivole e vane. [69]
Le tele di ragno del
“mentalismo” metafisico non sono altro che
auto-trappole, che rendono
impossibile ogni conoscenza e portano ad
opere esteticamente «ammirabili», ma
inutili quanto oziose. All’origine dei numerosi
errori metodologici messi in
atto da una pseudo-filosofia scissa dalla
realtà vi è una sopravvalutazione
della mente umana:
Un
altro errore proviene dall’eccessiva reverenza
per l’intelletto umano,
reverenza che rasenta l’adorazione; e per
questo motivo gli uomini si sono
allontanati dalla contemplazione della natura
e dall’esperienza, riducendosi ad
aggirarsi tra le loro proprie
meditazioni e le finzioni della mente. [70]
Ma questa presunzione umana
si coniuga anche con l’«impazienza di dubitare
e la cieca fretta nel giudicare,
senza la debita e matura sospensione del
giudizio.» Le vie dello studioso sono
paragonabili a quello del viandante; quelle
inizialmente facili possono portare
al difficile, mentre spesso la via migliore
è aspra all’inizio in seguito
diviene agevole e porta più facilmente alla
meta. Perciò: «Non altrimenti
avviene nella speculazione, dove se si inizia
dal certo si finisce nel dubbio,
se invece si comincia col dubbio, pazientemente
sopportandolo per un certo
tempo, si sbocca poi nel certo.» [71]
Saltiamo ora al Libro Terzo del Della
dignità, dove si cerca di fondare una filosofia prima che sia base di
branche specifiche in funzione dell’oggetto.
Non ci stupiremo del fatto che
Bacone includa Dio tra gli oggetti del filosofare,
ricadendo in una “scienza
del Divino” identificabile con la metafisica
che intende combattere. All’epoca,
infatti, era del tutto impensabile la sua
esclusione dall’orizzonte delle
conoscenze. Si legge:
Bisogna
dunque dividere la filosofia in tre discipline:
scienza di Dio, della natura,
dell’uomo. Ma poiché le singole parti della
scienza non assomigliano a linee
che da diversa provenienza si congiungano
poi in un angolo, ma assomigliano
piuttosto ai rami i un albero che si dipartono
da uno stesso tronco, il quale
era liscio e continuo prima di dipartirsi
nei vari rami; perciò è necessario, prima di entrare nella prima
divisione, costituire una scienza universale
che sia la madre di tutte le
altre, e che si possa considerare, nel cammino
del sapere, come quella parte
della via che è comune, perché anteriore
a ogni separazione e divisione. Questa scienza
noi la possiamo chiamare filosofia
prima. A essa nessun’altra scienza s’oppone, differendo
essa dalle altre
più per i limiti entro i quali è contenuta,
che per il contenuto e i soggetti
che tratta. [72]
Nel Capitolo Secondo si vede
però come Bacone abbia serie difficoltà nel
definire una “scienza di Dio” che
ha dovuto essere inclusa “per convenienza”
in un contesto, quello gnoseologico,
che non può esserle che estraneo. Vediamo
come il Nostro cerca di districarsi:
«I limiti di questa scienza si definiscono
bene quando si considerano i suoi
scopi: confutazione dell’ateismo, conversione
degli increduli, e conoscenza
della legge naturale, ma essa non arriva
a tanto da poter edificare la
religione.» [73]
Sembra evidente che gli “scopi” di una Scienza
di Dio, per definizione
sfuggente a tutte le procedure poste nel
Novum Organum, è immaginabile solo
sulla base di assiomi aprioristici e dogmatici
del tutto estranei a quella
“dignità e al progresso delle scienze” che
dà titolo all’opera. Non gliene
faremo certo carico, perché sir Francis è
colui che con acutezza e con forza ha
spazzato di tutte le cianfrusaglie metafisiche
il terreno della conoscenza,
indicando nel contempo come procedere e quali
strumenti utilizzare. C’è solo da
rammaricarsi che nel suo secolo ben pochi
abbiamo colto la portata del suo
pensiero e che ci siano voluti quasi cent’anni
perché le sue considerazioni e
il suo metodo incominciassero a ricevere
la dovuta attenzione.
2.3 Matematismo, meccanicismo e
materialismo in Hobbes
Prima di entrare nel merito del pensiero
hobbesiano è opportuno accennare al giusnaturalismo, poiché in qualche
modo è premessa tematica della sua antropologia
politica. Si tratta di una
teoria sociologica che nasce con Huig van
Groot (1583-1647), più noto come Ugo
Grozio, che si sviluppa tra il XVI e il XVIII
secolo, ma che investirà quasi
esclusivamente l’Europa Nord-Occidentale
protestante, rimanendo sostanzialmente
ignorato in area cattolica. Il giusnaturalismo
vede ogni forma di diritto
positivo fondarsi su un “diritto naturale”,
innato nella coscienza dell’uomo e
che si coniuga con la sua tendenza ad aggregarsi
per costituire società organizzate.
Per sommi capi, Grozio poneva come diritti
naturali: A. la proprietà privata,
B. il rispetto della persona indipendentemente
dal rango, C. la libertà di
pensiero, D. la reciproca tolleranza in fatto
di fede religiosa. Il suo De
iure belli ac pacis (1625) segna l’inizio di questo corso di
studi sulla
naturalità di associazione e sui diritti
che questa comporta, ma nello stesso tempo è colui che pone chiaramente la necessità
di
un “contratto” tra i molti, affinché i diritti
naturali vengano riconosciuti e
difesi da uno, lo stato, in cui si riconoscono.
Il diritto naturale è quindi
realizzabile solo attraverso “regole” condivise
che lo tutelino, e lo stato, il
garante di tali regole, ne è legislatore,
giudice, guardiano e difensore.
Perciò esso deve possedere anche un “potere”
per istituire e mantenere una
convivenza armonica sulla base della condivisione
del principio che l’interesse
della comunità è primario rispetto a quello
del singolo. Questo “può”
coincidere con quello, ma, in caso di contrasto,
deve prevalere sempre lo stato. Questo stato, anzi, questo
“potere”, tuttavia (e qui corre la fondamentale
differenza con il Leviatano
hobbesiano) non si identifica col sovrano,
poiché questi è delegato “di volta
in volta” dalla comunità ad esercitarlo.
La sovranità, per Grozio, non è del
sovrano, ma è fondata sullo “stare insieme”
di molti, ed è ratificata da un
contratto stipulato da persone che decidono
di costituire una comunità
sovraindividuale. Comunità che è naturale
nei principi che la fondano, ma artificiale
nel “contratto” che fissa le regole della
convivenza. Ordine e pace sociale
sono i due aspetti di una società armonica
come base anche del diritto
internazionale, sì che vengano regolati,
con lo stesso criterio, i rapporti tra
stati simili in un regime di collaborazione
che torni utile a tutti.
Anche John Locke fornirà un importante
contributo nel ribadire il carattere “contrattuale”
delle associazioni umane
nel senso di condivisione e armonizzazione
di esigenze individuali differenti. Sulla linea hobbesiana (quella del
fondamento conflittuale dei rapporti umani)
si colloca invece Samuel Pufendorf
(1632-1694), uno storico e giurista tedesco
che elaborerà nel suo De iure
naturae et gentium (1672) una sintesi tra i fondamenti del
giusnaturalismo
groziano e l’antropologia hobbesiana. In
esso si colgono due principi
sociologici di base: il “patto di unione
tra eguali” e il “patto di sudditanza”
al potere sovrano, accettato e
condiviso per questioni di ordine ed organizzazione.
Nel Settecento vi sarà ancora
Jean-Jacques Rousseau a riprendere la posizione
groziana, accentuandola in
senso arcaistico ed egualitaristico, come
vedremo al § 7.3..
La figura di Thomas Hobbes (1588-1679) è
importante perché è colui che per primo pone
in modo chiaro, dopo molti secoli
di idealismo, le esigenze di una concezione
materialistica della realtà, per
quanto essa sia fondata nella teologia giudaico-cristiana.
Siccome il suo
intento è eminentemente etico-politico, si
potrebbe sostenere che la sua
teologia sia eminentemente strumentale, in
funzione anti-papista e
filo-anglicana, il che è solo in parte vero.
In Hobbes vi è infatti molto più di
una posizione politica, la sua è una vera
e propria teologia materialistica sul
tipo di quella stoica, e l’argomento teologico
nel Leviathan, or the Matter,
Form and Power of a Commonwealth Ecclesiatical
and Civil, del 1651, ha più o meno lo stesso
spazio della somma di quello antropologico
e di quello politico messi assieme. Vi
è di più: costituendo il tema religioso il
blocco finale dell’opera; è questo
che spiega e certifica il senso religioso
di tutta l’opera ed ogni differente
interpretazione è fondamentalmente errata.
Commenteremo
prima la Parte III del Leviatano, che ha per titolo Uno stato
cristiano, per entrare subito nel vivo del pensiero
hobbesiano. Poiché i
principi qui posti riprendono quelli degli
Elements of Law, Natural and
Politics (1640) e del De cive (1642), costituendo inoltre la base di
ciò che Hobbes svilupperà nel De corpore (1655) e nel De homine
(1658). Dobbiamo però soffermarci un istante
sul titolo e sull’Introduzione. La
parola leviathan in ebraico sta anche per coccodrillo, ma
indica
metaforicamente un animale marino gigantesco,
invulnerabile ed invincibile. In
tal senso è visto nel Libro di Giobbe come « il re di tutte le bestie
feroci » (41,
26), ma per Hobbes esso indica il «Dio
mortale » quale rappresentante terreno del
“Dio immortale” della Bibbia e dei
Vangeli, Creatore dell’Universo e dell’uomo
quale sua copia materiale. Sul
frontespizio dell’opera la figura di Leviathan
è rappresentata come quella di
un gigante barbuto e incoronato, ricoperto
di squame ed emergente a mezzo busto
dalla terra. Egli imbraccia nella destra
una spada e nella sinistra un
pastorale, ad indicare che egli riunisce
in sé il potere politico e quello
religioso. Nell’Introduzione si legge:
La
Natura (l’arte attraverso cui Dio ha creato
e governa il mondo) è imitata dall’arte
dell’uomo come in molte altre cose anche
in questa: nella capacità di produrre
un animale artificiale. Infatti, visto che
la vita non è altro che un movimento
di membra, la cui origine è interna ad una
delle parti principali, perché non
dire che tutti gli automata (macchine che si muovono come orologi,
attraverso molle ed ingranaggi) sono dotati
di vita artificiale? Che cos’è
infatti il cuore se non una molla e che cosa sono i nervi
se non tanti fili e le articolazioni tanti ingranaggi che
fanno muovere l’intero corpo secondo le modalità
volute dall’artefice? L’arte
va anche oltre, imitando quel razionale che
è anche il più eccellente prodotto
della natura, l’uomo. Infatti attraverso
l’arte è creato quell’enorme
Leviatano chiamato Commonwealth o Stato (in
latino Civitas), che non è
altro che un uomo artificiale, anche se dotato
di una statura e di una forza
più grandi rispetto a quello naturale, per
proteggere e difendere il quale è
stato ideato. In esso la sovranità è un’anima artificiale, in
quanto fornisce vita e movimento all’intero
corpo. I magistrati e gli
altri funzionari della magistratura e dell’esecuzione sono
le articolazioni
artificiali. Ricompensa e punizione (con le quali ogni
articolazione e membro, legato alla sede
della sovranità, è spinto ad adempiere
al proprio dovere) sono i nervi, che si comportano in modo uguale nel
corpo naturale. Il benessere e la prosperità di tutti i membri
sono la forza. La salus populi (la sicurezza pubblica) è il suo compito.
I consiglieri, che suggeriscono tutto ciò che è necessario
sapere, sono
la memoria. L’equità e le leggi sono una ragione e
una volontà artificiali. La concordia è la salute, la sedizione
la malattia e la guerra civile la morte. Infine, i patti
e gli accordi, tramite cui le parti di questo corpo politico sono state per la prima volta
prodotte, messe insieme ed unite, possono
essere paragonati a quel fiat
o sia fatto l’uomo pronunciato da Dio nella creazione. [74]
Nel più autentico orizzonte
antropocentrico il più vero e importante
fiat, per Hobbes, non riguarda
quindi un universo di cose, ma l’uomo, come
fine primario della Creazione. Ermeneuti
distratti che accentuano solo l’elemento
materialistico in Hobbes, finendo per
promuoverne un’immagine quasi-atea, sono
già da questo incipit nettamente smentiti. La realtà
testuale si offre come una riconsiderazione
in senso anti-spiritualistico delle
Sacre Scritture (specialmente del Vecchio
Testamento) e per nulla in un loro
accantonamento. In altri termini, la Parola
Sacra diventa per Hobbes il
fondamento su cui costruire un’ontologia,
un’antropologia, un’etica e una
politica materialistiche e meccanicistiche
che da essa nascono e si sviluppano.
Se il materialismo meccanicistico hobbesiano
ha potuto costituire una base di
sviluppo dell’ateismo settecentesco, ciò
è potuto avvenire (come per Cartesio)
esclusivamente attraverso un operazione selettiva
ed arbitraria di ciò che “poteva
servire”. Tale operazione tradiva il senso
stesso del pensiero di Hobbes, come
d’altra parte avremo modo di constatare relativamente
all’ateismo sensistico di
Helvétius, che riprende e nello stesso tempo
tradisce il sensismo
spiritualistico di Condillac.
Nell’Introduzione quel che emerge subito
è
che il Leviatano è un iper-uomo; un’ Unità-Totalità
antropica meta-individuale,
tanto forte ed indistruttibile-invincibile
quanto benevolo-provvidente. Anzi, il
Leviatano è la Provvidenza materialistica
attraverso cui la Provvidenza
spirituale si estrinseca nell’umanità come
“corpo sociale”. Non a caso è qui
anticipata la metafora dell’orologio come
automaton, con le sue molle e
i suoi ingranaggi, in analogia con l’immagine
di un universo-orologio che avrà
grande successo nel resto del XVII secolo
e sino all’inizio del XIX (si pensi a
Laplace). E vi è poi la Sovranità-Anima del
Leviatano come materializzazione
dello spirito di Dio, creatore, giudice,
onnisciente, onnipotente, onniprovvidente.
Nella Parte Prima dell’opera, che ha per
titolo L’Uomo, Hobbes pone già
tutti gli elementi di base che svilupperà
più tardi nel De homine, per
cui ci limiteremo ad evidenziarne qui pochi
punti essenziali. Tra questi vi è
sicuramente il concetto di ragione come “strumento di calcolo” che opera
attraverso il linguaggio. Questo è un’organizzazione
di “segni” che sono
espressi in parole-nomi. (Cap.IV, § 3) [75],
così spiegati al § 1 del Capitolo V:
Quando
un uomo ragiona non fa altro che concepire una somma totale
da un’addizione
di parti oppure un resto da una sottrazione di una somma da un’altra, e
questo (se si fa con le parole) è il concepire
la consequenzialità dai nomi di
tutte le parti al nome dell’intero; oppure
dai nomi dell’intero e di una parte al nome dell’altra
parte. E, anche se in alcune cose (come nei
numeri), oltre all’addizione e alla
sottrazione gli uomini nominano altre operazioni,
come la moltiplicazione
e la divisione, tuttavia queste sono la stessa cosa e cioè
la
moltiplicazione non è altro che l’addizionare
insieme cose uguali e la
divisione non è altro che il sottrarre una
cosa per quante volte è possibile.
Queste operazioni non riguardano soltanto
i numeri, ma tutte quelle cose che
possono essere addizionate insieme e sottratte
l’una dall’altra. Infatti, come
gli aritmetici insegnano ad addizionare e
sottrarre con i numeri, così i
geometri insegnano la stessa cosa riguardo
a linee, figure
(solide e piane), angoli, proporzioni, tempi, gradi di velocità,
forza, potenza e simili. I logici insegnano la stessa cosa
a
livello della consequenzialità delle parole, addizionando insieme due nomi
per dar luogo a un’affermazione e due affermazioni per creare un sillogismo
e più sillogismi per produrre una dimostrazione; e dalla somma
o conclusione di un sillogismo sottraggono una proposizione per
trovare l’altra. Gli scrittori di politica
sommano i patti per trovare i
doveri degli uomini e i legislatori le leggi e i fatti per
trovare che cos’è giusto e che cos’è sbagliato nelle azioni dei privati.
Insomma, in qualsiasi materia ci sia posto
per l’addizione e la sottrazione,
allora c’è posto anche per la ragione e, dove per esse non c’è posto,
con ciò anche la ragione non ha nulla a che vedere. [76]
La ragione è calcolo e la
conseguente totale “matematizzazione” del
pensiero razionale corrisponde alla
concezione materialistico-meccanicistica
dell’essere hobbesiano, che
costituisce la vera alternativa al cartesianesimo
nell’ambito della teologia
filosofale del Seicento. Ma l’assunzione
del sillogismo a base del conoscere,
implica una gnoseologica deduttivistica che
è l’esatto opposto di quella
induttivistica perseguita da Bacone. Se per
questi conoscere significava
osservare e sperimentare al fine di trarne
elementi di conoscenza
confrontabili, verificabili sperimentalmente
e cumulabili in un processo
conoscitivo in fieri, per Hobbes conoscere significa il calcolo
astratto
di elementi “assunti” come basi del conoscere
e non “scoperti” attraverso
l’attività scientifica. Se per Bacone il
conoscere è un paziente “ricercare”,
per Hobbes è un mero “calcolare”. Il
sapere della ragione per Hobbes «si ottiene
sforzandosi in primo luogo nella
capacità di denominazione ed acquisendo in
secondo luogo un buon metodo
sistematico, procedendo dagli elementi, che
sono i nomi, fino alle asserzioni
costruite connettendo un nome con un altro,
fino ai sillogismi, che sono
connessioni di asserzioni.» [77] Non le “cose” reali ma i loro “nomi” e la
meccanica delle connessioni logiche sono
gli elementi del conoscere. Nominare
correttamente ed adeguatamente e organizzare
le parole in un “sistema” logico è
la base della gnoseologia hobbesiana.
In questa concezione matematicistica e
meccanicistica, analogamente, la vita non
è altro che “movimento”. Ed ecco come
si apre il Capitolo VI:
Negli
animali ci sono due specie di movimento,
che sono loro peculiari: uno si chiama
vitale; cominciato con la generazione e continuato
senza interruzione
per tutta la vita, si tratta di ciò in cui
i movimenti non hanno bisogno
dell’immaginazione, come lo scorrere del sangue, il battito,
la respirazione, la digestione, la nutrizione, l’escrezione,
ecc.; l’altro è il movimento animale, altrimenti chiamato movimento
volontario, come l’andare, il parlare, il muovere un
arto nella maniera che abbiamo prima immaginato
nella nostra mente. [78]
Negli esseri viventi vi sono
due “motori”, uno è la vita l’altro è l’anima; la prima come
“causa dell’esistere” e la seconda come “sistema
meccanico” dell’immaginare
azioni, del volerle e dell’eseguirle. Analogamente
meccanicizzati sono il
desiderio, l’amore e l’odio, la stima o il
disprezzo, come pure la concezione
di ciò che è buono e di ciò che è cattivo,
in termini di bello-brutto,
piacevole-spiacevole, vantaggioso-dannoso,
ecc. In tale meccanica: «la volontà è l’ultimo appetito nel
deliberare » [79]
come impulso finale e decisivo all’agire
e quale risultante conclusiva di una
serie di immaginazioni e deliberazioni provvisorie.
In ogni caso, “concludere”
è “risolvere un discorso”, ovvero un sistema
sillogistico più o meno
esplicitato che comporta una processualità
conoscitiva di tipo puramente
discorsivo. Il “sapere” (che cosa, come o
perché) è quindi, come recita il
titolo del Capitolo VII, il giungere a: Conclusioni o risoluzioni del
discorso [80].
In questo contesto la “risoluzione” di un
problema fideistico risulta concluso
grazie all’”autorità” di un soggetto che
in virtù del suo status si
istituisce come agente dirimente:
Di
conseguenza, quando crediamo che le Scritture
siano la parola di Dio, non
avendo una rivelazione immediata da parte
di Dio stesso, il nostro credo, la
nostra fede e la nostra fiducia sono riposte
nella Chiesa, le cui parole
accogliamo adeguandoci ad essa. [81]
Si deve credere ad un
profeta senza mettere in discussione il “che
cosa” della profezia, bensì se
egli sia degno di fiducia o no. Altrettanto
vale per la storia: la storia è “credibile”
se si crede a chi ce la racconta(!) E siccome
la verità è da Dio, ne consegue
che:
Così,
è evidente che qualsiasi cosa noi
crediamo, non lo facciamo per nessun’altra
ragione oltre a ciò che è tratto
dalla sola autorità degli uomini e dei loro
scritti; se questi siano inviati da
Dio oppure no, è solo una questione di fede
negli uomini. [82]
Se Bacone si era preoccupato
di demolire l’autorità per sostituirvi l’esperienza
diretta, Hobbes compie
l’operazione opposta, ripristinando l’autorità
come fonte delle nostre
convinzioni. Il “credere” alle conclusioni
dei meccanismi sillogistici o
all’autorità di una di una fonte di sapienza
sono i due poli entro i quali si distende
la gnoseologia hobbesiana. D’altra parte,
non meno formalistica appare la
definizione di virtù intellettuale (VIII,
1):
La
virtù in generale, in ogni specie di soggetto,
è qualcosa che è valutato per la
sua eminenza e che consiste nella comparazione.
Infatti se tutte le cose
fossero uguali in ogni uomo, nulla verrebbe
stimato. Per virtù intellettuali
si intendono sempre quelle abilità mentali
che gli uomini stimano, valutano e
desiderano di possedere in sé e che vanno
comunemente sotto il nome di buon
ingegno, anche se la stessa parola ingegno è usata anche per
distinguere una certa abilità dalle altre.
[83]
L’”eminenza” nasce non da
opinioni valide o da comportamenti encomiabili
del “virtuoso”, ma da un
comparazione (sillogistica) tra “abilità
mentali” da riconoscere e imitare e
realizzare come obbiettivo di un “desiderio
di possesso”. Ogni riferimento alla
realtà e ogni adeguamento ad essa in senso
cogitativo o comportamentale è
espunto in una valutazione dell’ingegnosità
umana che è capacità di dire o fare
cose “eminenti” in una certa “scala di valori”.
Il Capitolo IX offre una vasta tabella in
cui Hobbes sistema e incasella il sapere
in diciotto discipline. Ma vediamone
le premesse: 1. vi sono due generi di conoscenza,
quella “assoluta” (memoria di
un fatto) e una seconda “condizionata” (tipica
della scienza); 2. Il registro
della conoscenza di fatto si chiama storia, che può essere naturale
(indipendente dall’uomo) o civile (frutto delle azioni umane); 3. La
scienza si costituisce come l’insieme dei
libri di filosofia costituenti
«il registro delle dimostrazioni delle conseguenze
di un’affermazione su
un’altra.» [84]
Ancora una volta, il sapere si riduce a nient’altro
che al gioco delle
“affermazioni” umane sulla realtà, ovvero
alla traduzione del reale nel
linguaggio umano e nelle sue formule. Ma
il sapere è prevalentemente in funzione del
“potere” (Cap.X, 1) e: «Il potere di un uomo (in senso
universale) consiste nei suoi attuali mezzi
per ottenere qualche futuro bene
visibile. Ed è originale o strumentale.» [85],
dove il primo tipo (2.) si esprime come una
forza, una forma, un’arte, una
prudenza un’eloquenza, ecc. mentre strumentali
sono la ricchezza, la
reputazione, le amicizie, la fortuna. Il
massimo potere si ha nell’”unione” di
singoli poteri (3.): «Quindi, avere
servi è potere e avere amici è potere, perché
si tratta di forze unite.» [86]
Anche la ricchezza unita alla liberalità
(4.) dà potere; e così (5. e segg.) la
buona reputazione, la popolarità, l’affabilità,
la nobiltà, l’eloquenza l’aspetto,
le scienze e le arti. Le scienze (14.), invece,
servono a poco:
Le
scienze sono un potere piccolo, in quanto
non eminente, quindi non riconosciuto
in ogni uomo; non sono neppure in tutti,
ma solo in pochi e in questi non
riguardano che poche cose. Infatti, la scienza
è di una natura che può capire
nessuno, se non chi l’ha ottenuta in buona
misura. [87]
La scienza non dà
“eminenza”, riguarda «poche cose » e in buona
parte non la «può capire
nessuno». Le arti invece (15.) se sono di
uso pubblico, come «la
fortificazione, la costruzione di macchine
e altri strumenti di guerra, in
quanto conferiscono la difesa e la vittoria,
sono potere…» [88].
In definitiva (16.):
Il
pregio o il valore di un uomo, come di tutele altre cose,
costituisce il suo prezzo; indica cioè quanto
sarebbe dato per l’uso del suo
potere e quindi non è assoluto, ma dipende
dal bisogno e dal giudizio altrui.
[…] E come nelle altre cose così anche negli
uomini non è il venditore ma
l’acquirente a determinare il prezzo. [89]
Si può restare perplessi di
fronte all’hobbesiano considerare gli uomini
vendibili/acquistabili «come tutte
le altre cose » e tuttavia occorre riconoscere
che questo acuto studioso dei
meccanismi collettivi umani ha compreso come
l’unico vero valore unanimemente
riconosciuto sia il potere, e che un uomo
“vale in quanto può”. Ciò è ribadito
nel Capitolo XI, dove, in relazione ai costumi
degli uomini e alle loro
differenze, si afferma: «Così, in primo luogo,
stabilisco come inclinazione
generale del genere umano un perpetuo ed
incessante desiderio di potere dopo
potere, che cessa soltanto con la morte.»
[90]
E chi non possiede potere obbedisce a chi
ce l’ha nella misura in cui dal
riconoscimento di esso e dall’obbedienza
può trarne benefici (XI,4), sicché,
chi ha potere, ha come beneficio la sudditanza
degli altri, e questi, di godere
della sua benevolenza.
Vediamo ora come si colloca la religione
nel sistema hobbesiano (Capitolo XII). Il
senso religioso allo stato di natura
si origina primariamente nell’”ansia per
il futuro”, poiché l’ignoranza delle
cause porta ad immaginare (XII, 6.) qualche
“potere invisibile”, quali sono
stati gli dèi pagani. Altra cosa è il riconoscimento
del vero Dio, poiché qui è
piuttosto la comprensione dell’esistenza
di una causa “unica e prima” assolutamente
vera perché rivelata. Se i legislatori pagani
dovevano preoccuparsi unicamente
(20.) «di mantenere il popolo obbediente
e pacifico», con quella cristiana la
situazione è totalmente mutata:
22.
Ma dove Dio stesso impiantò la religione
con la rivelazione sovrannaturale, qui
creò anche un suo regno peculiare e diede
delle leggi non soltanto sul
comportamento da tenere nei suoi riguardi,
ma anche su quello da tenere gli uni
con gli altri, per cui nel regno di Dio la
politica e le leggi civili sono una
parte della religione e, quindi, qui la distinzione fra dominio temporale e spirituale non ha
luogo. [91]
Siamo qui di fronte
all’esplicita teorizzazione dello stato teocratico
cristiano, poiché le leggi
di Dio sono la base stessa dell’esistenza
di una comunità umana approvata e
benedetta, che, in quanto “cristiana”, è
per ciò stesso anche “civile”. In soldoni:
il Regno di Dio deve considerarsi realizzato
in uno stato cristiano le cui
leggi siano compatibili con quelle divine.
Teoria vera perché il Dio-Padre
della Bibbia si è rivelato agli uomini come
un Dio “nazionale”, e solo in un
secondo tempo, col sacrificio del “Figlio”,
esso è diventato “universale”.
Il vero problema per l’umanità sta però nel
fatto che l’uomo nasce in uno “stato di natura”
che non lo dispone ad
un’armonica integrazione coi propri simili.
Siccome gli uomini, malgrado
differenze fisiche e psichiche, sono in definitiva
tutti abbastanza eguali, per
cui «la differenza tra uomo e uomo non è
così considerevole che uno possa
pretendere per sé qualsiasi beneficio che
anche un altro non possa pretendere.»
Ed allora, secondo Hobbes, non già dalla
disuguaglianza ma esattamente dal suo
opposto, l’eguaglianza, nascono tutti i problemi
di convivenza umana; poiché è
dall’uguaglianza che nasce (XIII, 2.) la
presunzione di poter prevalere e la
diffidenza (3.) verso l’altro, visto come
potenziale agente di qualche danno.
Da ciò la naturale belligeranza (4.):
A causa di questa diffidenza
reciproca, per l’uomo non c’è un modo di
mettersi al sicuro ragionevole tanto
quanto l’anticipazione, cioè l’uso della
forza e di stratagemmi per sopraffare
la persona di tutti gli uomini che può, fino
a che non vede più nessun altro
potere abbastanza grande da metterlo in pericolo
e questo non è più di quanto
richiede la sua conservazione ed è generalmente
ammesso. [92]
La guerra tra gli uomini si
genera (6.) per competizione, per diffidenza
o per il conseguimento della
gloria, perciò gli uomini (7.) si aggrediscono
per guadagno, per la propria
sicurezza e per conseguire una certa reputazione
[93]:
Con
questo è evidente che, per tutto il tempo
in cui gli uomini vivono senza un
potere comune che li tenga soggiogati, si
trovano in quella condizione chiamata
guerra e questa guerra è tale che ogni uomo
è contro ogni uomo. [94]
Abbiamo qui la tesi ben nota
del bellum omnium contra omnes che precede l’istituzione di uno “stato”;
la sola entità in grado di bloccare una conflittualità
non solo naturale ma
legittimata ove non esista un “potere” centrale
(13.) e di leggi da questo emanate
ed imposte. Perciò:
Da
questa guerra di ogni uomo contro ogni uomo
consegue anche questo, che nulla
può essere ingiusto. Le nozioni di giusto
e sbagliato, di giustizia e di
ingiustizia qui non hanno luogo. Dove non
c’è potere comune, non c’è legge e
dove non c’è legge non c’è ingiustizia. La
forza e la frode sono le due virtù
cardinali in guerra. [95]
Che cosa spinge l’uomo ad
essere incline alla pace? La risposta è (14.):
la paura della morte, il
desiderio di beni per realizzare una vita
comoda, la speranza di ottenerli col
proprio lavoro e di poterli conservare.
Veniamo ora al Capitolo XIV, che tratta del
diritto di natura e del contratto tra uomini.
Lo jus naturale è la
libertà che ha ognuno di realizzare il potere
di cui dispone “come vuole” per
conservarsi in vita, e la libertà è l’assenza di impedimenti all’uso di
tale potere. La legge naturale è allora un precetto o una regola
generale (artificiale) escogitata dalla ragione
per vietare che un uomo possa
danneggiare se stesso. Diritto e legge per Hobbes sono cose che
vanno tenute ben distinte (3.): il primo
è la «libertà » di fare o di non fare,
la seconda la “costrizione” a fare o a non
fare. Finché persiste lo stato di
natura e manca la legge lo stato di belligeranza
tra gli uomini è inevitabile e
ne deriva una prima (4.) fondamentale legge:
Quindi,
per tutto il tempo in cui persiste questo
diritto naturale di ogni uomo ad ogni
cosa, nessun uomo (per quanto sia forte o
saggio) può avere la sicurezza di
vivere per tutto il tempo che la natura concede
normalmente agli uomini di
vivere. Di conseguenza, è un precetto o una
regola generale della ragione che
ogni uomo dovrebbe sforzarsi di cercare la
pace nella misura in cui ha speranza
di ottenerla; e quando non può ottenerla,
che possa ricercare ed utilizzare
tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra. [96]
Vediamo (5.) la seconda:
Da
questa fondamentale legge di natura, che
ordina agli uomini di cercare la pace,
è derivata questa seconda legge, che un uomo sia disposto, quando lo sono
anche gli altri, a deporre questo diritto
a tutte le cose, nella misura in cui
lo riterrà necessario per la pace e per la
propria difesa, e che si accontenti
di tanta libertà contro gli altri uomini
quanta ne concederebbe agli altri
uomini contro se stesso. [97]
Il diritto naturale va
quindi deposto se si vuole la pace (6.) e:
« Deporre un diritto a ogni cosa è per un
uomo privarsi della libertà di
impedire ad un altro di beneficiare del suo
diritto alla stessa cosa.» Ma ciò
non è sufficiente per superare la conflittualità:
quel diritto va “rinunciato”
e “trasferito” (10.) attraverso un contratto, e se non può esserci
contestualità tra i contraenti si ha (11.)
un patto o accordo che
diventa assolutamente impegnativo nel tempo
quali che siano le motivazioni e le
circostanze della stipula [98].
Il patto è tanto inderogabile da valere anche se
è stato estorto con la
paura (27.), poiché la paura non “obbliga”
e il patto “sotto minaccia” rimane
libero [99]
. Il giuramento è ammissibile soltanto se
fatto “su Dio” (32.), ma esso non aggiunge
nulla all’obbligazione (33.) assunta col
patto.
[100]
Nel Capitolo XV si entra nel vivo della
concettualizzazione dello “stato”, che si
instaura con la nascita della
“giustizia”. Ciò si verifica quando (XV,
2.), in assenza di patti precedenti,
un patto è stipulato ed entra in vigore.
Da quel momento tutto ciò che lo viola
diventa “ingiusto” e tutto ciò che non è
ingiusto è per ciò stesso “giusto” [101].
Ma, affinché venga eliminata la paura che
l’”altro” non rispetti il patto, ci
vuole un’istituzione (3.) detentrice del
potere di coercizione:
Quindi,
prima che possano avere luogo i nomi di giusto
e ingiusto, deve esserci un
qualche potere coercitivo per costringere
ugualmente gli uomini all’adempimento
dei loro patti con il terrore di una certa
punizione più grande del beneficio
che si aspettano dalla rottura dei loro patti
e per rendere valida la
proprietà, che gli uomini acquisiscono con
il reciproco contratto, come
ricompensa del diritto universale che abbandonano;
e non c’è alcun potere del
genere prima che lo stato venga eretto. [102]
Siamo giunti a una prima
definizione di stato a cui si correlano le azioni consentite,
i tipi di
giustizia che ne derivano (commutativa e
distributiva), e con essi un nuovo
quadro di riferimento in cui si inseriscono
sentimenti ed azioni come la
gratitudine, la compiacenza, il perdono,
la contumelia, l’orgoglio,
l’arroganza, l’equità, l’arbitraggio, ecc.
[103]
Le leggi di natura portano al desiderio di
vederle attuate (in coscienza), ma non sempre
(36.) spingono alla loro
attuazione pratica. E tuttavia la giustizia,
la gratitudine, la modestia,
l’equità, la compassione rispondono a leggi
di natura che si configurano come virtù
morali determinando i loro contrari come vizi. La disciplina che se
ne occupa è la filosofia morale e questa concerne principi o criteri
“naturali” che solo impropriamente vengono
definite “leggi”, poiché (41.)
«la legge, propriamente, è la parola di
chi comanda per diritto sugli altri.» Ma,
se quei principi naturali vengono
enunciati «in nome di Dio, che per diritto
comanda ogni cosa, allora vengono
propriamente chiamate leggi.» In altre parole,
solo se c’è un potere che ha
diritto a “comandare” un comportamento si
ha la “legge”, altrimenti si tratta
solo di un criterio non vincolante. Il Capitolo
XVI si occupa del concetto di
alcuni concetti complementari concernenti
la persona come attore (in
quanto presenza) e come autore (in quanto agente) e l’autorità
come acquisizione del diritto di agire ed
operare secondo canoni. Il concetto
di persona per Hobbes (che ci ricorda significare etimologicamente
maschera
o aspetto) può anche valere come “rappresentante”
legittimo di molti
individui:
13.
Una moltitudine di uomini diventa una persona quando è rappresentata da
un uomo o da una persona e ciò avviene con
il particolare consenso di ogni
singolo componente di tale moltitudine. Infatti,
è l’unità del
rappresentante e non l’unità del rappresentato
che fa una la persona, ed
è il rappresentante che sostiene quella persona
ed essa soltanto, non potendo
altrimenti l’unità essere compresa nella
moltitudine. [104]
Si vede bene come, per
gradi, Hobbes si avvii a definire quell’Unità-Totalità
che è lo Stato,
attraverso una serie di passaggi che dalla
naturalità selvaggia e disordinata
portano all’artificialità civile e ordinata
che vedremo ora nella Parte Seconda
del Leviatano, che si intitola appunto: Lo Stato. Le premesse
della necessità di costituire il Commonwealth-Leviathan
per superare lo stato
di guerra di tutti contro tutti ed assicurare
la pace e la sicurezza per ognuno
sono comunque già tutte presenti nella Parte
prima dell’opera, sicché si tratta
ora di coglierne soltanto alcune precisazioni
più significative. Tra queste il
fondamentale concetto di “forza” che nello
stato trova la sua concentrazione
più alta, poiché solo una grande forza è
in grado di assicurare il rispetto
della legge («E senza spada i patti non sono
che parole» [105]).
Il potere forte, che va accentrato (13.)
in un’unica volontà (14.), dev’essere
di una sola persona giuridica, e quindi:
«Chi si fa carico di questa persona si
chiama sovrano e si dice che ha il potere sovrano; tutti gli
altri sono suoi sudditi.» [106]
Lo stato nasce con la sua “costituzione”
(XVIII, 1-3), ad opera di una
moltitudine di uomini che singolarmente l’approvano
pattuendo “a maggioranza”
che un loro “rappresentante” assuma il potere
assoluto e che perciò diventi il
depositario di «tutti i diritti». [107]
L’istituzione dello stato attraverso il patto
costitutivo obbliga i costituenti
e i loro discendenti all’obbedienza assoluta
a chi ha assunto la sovranità, non
si può mutare in nulla lo stato delle cose
senza il previo assenso del sovrano.
Questo, inoltre, essendo stato investito
del potere da chi gli si è
riconosciuto suddito, attraverso il conferimento
assume tutti i diritti e nessun
obbligo nei confronti dei contraenti che
gli hanno ceduto la loro libertà [108].
Il sovrano, essendo divenuto “proprietario”
della sovranità, è il solo a poter
decidere chi debba essere il suo successore
(18.); ogni sua designazione è
quindi insindacabile [109].
Sia che lo stato nasca per istituzione
(come decisione volontaria di una moltitudine)
sia che ciò avvenga per
acquisizione (in seguito a una conquista con la forza)
i diritti del
detentore del potere sono gli stessi (XX,
1-3) [110]. Nel secondo caso non è la vittoria a sancire
la sovranità, ma il consenso del vinto, sì
che la sua sottomissione vale come
ratifica del potere assunto dal vincitore
anche se avviene sotto minaccia di
morte (11.). Il vinto, assumendo la
condizione di servitù, cede con la sua libertà
anche ogni suo bene al
vincitore, che assume il potere di “disporre”
di lui come il padre dispone dei
suoi figli. Infatti (8.): «Chi ha il dominio
su un figlio, ce l’ha anche sui
figli del figlio e sui figli dei figli» [111]
In questo modo il dominatore assume sia il
potere paterno e sia quello dispotico,
che vengono così a coincidere, avendo i sudditi
stipulato un “patto” di sottomissione
che vale come istituzione. Il modello del potere assolutistico nasce
nella Bibbia, laddove (Esodo, 20, 19) i figli di Israele si sottomettono
a Mosè (16.), quando Dio stesso conferisce
il diritto sovrano (I Samuele,
8, 11-17), nella preghiera di Salomone (I Re, 3, 9), nel Vangelo di
Matteo (21, 2, 3, e 23, 2-3) e in San
Paolo (Lettera a Tito, 3, 2).. Ma il modello della sovranità e
del
dovere di obbedire del sottoposto sta già
nel Genesi (3, 5) là dove Dio,
il Re di tutti i re, pone ai nostri progenitori
il vincolo di obbedienza
assoluta [112].
Secondo Hobbes, costituendosi la libertà
come “mancanza di ostacoli al volere” (XXI,
1), la sottomissione volontaria
alla necessità dell’obbedienza al sovrano,
sia decisionale e sia per sconfitta,
costituisce la connessione di libertà e necessità (4.) attraverso
un’irrevocabile cessione di sovranità e dove
la libertà del suddito assume
compatibilità con il potere illimitato del
sovrano (7.) [113]. Solo questo potere dispone di libertà
assoluta ed ogni teorizzazione di una residua
libertà individuale, ove esista
lo stato, è sviante (9.),
poiché la libertà di un suddito si configura
come inderogabile
obbligazione-sottomissione assoluta al sovrano
(10., 11.). E tuttavia il
suddito non assume con la sudditanza alcune
vincolo ad uccidere un altro e non
è tenuto ad andare in guerra se teme per
la sua vita (16.). Perciò gli deve esser
data la possibilità di rifiutare l’arruolamento
o di cercarsi un sostituto;
egli sarà un codardo, ma rimane nel suo diritto
di conservarsi la vita. Oltre
al caso in cui sia in gioco la propria vita,
il suddito è sciolto
dall’obbedienza nel momento in cui (21.)
il sovrano non fosse più in grado si
assicurargli protezione da aggressioni esterne
[114]. I Capitoli dal XXI al XXV concernono aspetti
strutturali e organizzativi del potere e
nel XXVI si definisce il concetto di legge civile di cui la sovranità è unica
promulgatrice (1.-7.) ed essa sussume, in
quanto tale, anche la legge
naturale, che è così superata e conglobata (8.) [115].
Corollario estremamente importante di ciò
è il fatto che se la legge naturale,
che è opera di Dio, è sussunta in quella
civile, questa, automaticamente,
diventa divina e il sovrano è legittimato da Dio nel suo potere.
Come si vede, attraverso una serie di passaggi
logici, Hobbes giunge a
divinizzare il potere sovrano, facendo del
rappresentante di esso un’immagine
terrena di Dio.
Nel
Capitolo XXVII persino il peccato è inquadrato
in questo orizzonte statuale,
sicché, come era stato per il Peccato Originale,
esso é “trasgressione” della
legge, ovvero del dovere di obbedienza; mentre
dove non esiste legge non
esistono né peccato né crimine (2., 3.) [116]
. Il Capitolo XXIX è dedicato all’elencazione
delle cause di indebolimento e
dissoluzione di uno stato, che è, come si
è visto, un uomo artificiale che
può soffrire di “malattie” analoghe a quelle
dell’uomo reale. La sedizione
assume pertanto i caratteri dell’idrofobia
(14.), la frammentazione del potere
all’epilessia (15.), il carisma di un sobillatore
di popolo una possessione
stregonesca (20.), la presenza di corporazioni
private troppo potenti la
presenza di vermi intestinali (21.) [117] Il sovrano ha il dovere di istruire i suoi
sudditi sui loro obblighi nei suoi confronti
(XXX, 3) e (10.), disporre che
alcuni giorni vengano dedicati («Dopo aver
pregato e lodato Dio, il Sovrano dei
sovrani» [118])
ad una catechesi sulle leggi. Esse si qualificano
come “analoghi” dei
Comandamenti posti nel Deuteronomio (5, 1-22); così non parlare
indebitamente del sovrano corrisponde al
III comandamento (“Non nominare il
nome di Dio invano”), la reverenza ad esso
fa riferimento al V (“Onora il
padre…”), i doveri civili al VII, all’XVIII
e al IX; l’onestà e la sincerità al
X (“Non desiderare…”) [119]
Siccome lo stato sovrano è la
realizzazione del Regno di Dio “in terra”,
nel Capitolo XXXI (che conclude la
Parte Seconda) e dal XXXII al XLIII della
Terza Parte (con titolo Uno Stato
Cristiano) vi è da parte di Hobbes la dimostrazione
della divinità di esso
in base al contenuto delle Sacre Scritture.
È sviluppata pertanto un’analisi
testuale dei passi dell’Antico e del Nuovo
Testamento che certificano la
legittimità della sovranità terrena “in nome”
di quella celeste, costituendosi
questa sezione dell’opera come la parte più
analitica e corposa del Leviatano.
Nell’impossibilità di seguire passo passo
l’elaborazione teorica hobbesiana ci
limiteremo a considerare alcuni punti salienti.
Uno dei punti dirimenti è che
il “comando” divino implica l’obbedienza,
indipendentemente dal fatto che si
comprendano o meno le ragioni di esso XXXII,
3-5) [120].
I libri della Sacra Scrittura costituiscono
il canone regolativo della
Cristianità stessa in ogni sua espressione
(Cap.XXXIII). Lo Stato Cristiano è
nello stesso tempo Chiesa se la sovranità
(24.) è unica, come è unico Dio: «Ma
la Chiesa se è un’unica persona, coincide
con lo Stato dei cristiani, che si
chiama Stato, perché consiste di uomini cristiani uniti
in un unico
sovrano cristiano.» [121]
L’”unità” è l’elemento principe della “cristianità”
dell’istituzione, che
esclude quindi ogni condivisione del potere,
che è “assoluto”. Il Capitolo
XXXIV è dedicato alla dimostrazione che “ciò
che è” (universo come
totalità dell’essere) è “corpo”, e che il concetto di “sostanza”,
se è
tale, può essere solo come “corporea”, poiché
l’aggettivo “incorporea” sarebbe
una contraddizione in termini. La spiritualità
compete solo a Dio e in ogni
caso è per noi incomprensibile, ma in tutto
il Vecchio Testamento lo “Spirito
di Dio” è sempre concepito come un soffio
o un vento, quindi come un
“movimento”. Gli stessi angeli, in quanto
messaggeri del vento divino, possono
essere considerati legittimamente null’altro
che “corpi sottili” (17.) come
l’aria e il vento [122].
E d’altra parte, l’angelo, più che un
essere è (22. e 23.) una ”funzione”, e come
tale corporea.
Al Capitolo XXXV si entra nel merito
dell’origine del Regno di Dio a partire dal
Genesi (17, 7-8), nei
termini di un patto che è paradigma di tutti i patti, dove Dio
dice ad
Abramo: «Io stabilirò il mio patto fra me
e te e il tuo seme dopo di te nelle
sue generazioni come un patto perenne […]
»; un patto rinnovato da Mosè ai
piedi del Sinai (Esodo 19, 5). Nel I Libro di Samuele (12, 12) esso diviene regno sacerdotale,
com’è
poi ribadito nella I Lettera di Pietro (2, 9). Il fine di Hobbes è di
strutturare una genesi dello stato cristiano attraverso le Scritture,
ritenendo che Gesù sia stato crocifisso proprio
per aver rivendicava un regno
divino “sulla terra”. Ciò anche in base a
Luca (1, 32-33) dove l’angelo
Gabriele dice di Gesù: «Egli sarà grandioso
[…] e il Signore gli darà il trono
di suo padre Davide» e ad Atti (17,7), dove si dice che «Tutti loro
erano contrari ai decreti di Cesare dicendo
che c’era un altro re: Gesù.». [123]
Al §13 è ribadito che il Regno di Dio delle
Scritture è in realtà un “un regno
civile” reale, poiché anche il termine “santo”
significa “pubblico” e “regale” [124].
Sempre attraverso una critica terminologica
Hobbes sostiene che (17.)
l’aggettivo sacro si distingue da profano come regale da comune;
la sacralità significa quindi regalità [125],
poiché (XXXIX, 5) la Chiesa di Cristo e lo Stato Cristiano sono,
in base alle Scritture, la stessa cosa. [126]
La Parte Quarta del Leviatano si intitola
Il
Regno delle Tenebre e costituisce un duro attacco al Papato,
colpevole,
secondo Hobbes, di non onorare il messaggio
di Gesù, di interpretarlo
erroneamente e di tollerare pratiche superstiziose
contrarie alla sacralità
autentica. Vi sono anche prese di posizione
dottrinarie di non poco peso, come
quella di ritenere che le figure dei demoni
abbiano origine nella mitologia
greca e che siano state assunte solo più
tardi in quella ebraica. La demonologia
è quindi elemento spurio, pagano, e Gesù
parla di demoni solo in senso
metaforico, quali “malattie” (XLV, 2-5) [127] Anche l’idea di “immaterialità” ha origine
in
contesti pagani, si ché Hobbes aggiunge (8.):
Per
concludere, nella Scrittura trovo che ci
sono angeli e spiriti, buoni e
cattivi, ma non che sono incorporei come
le apparizioni che gli uomini vedono
nel buio o in sogno o in una visione e che
i Latini chiamano spectra,
prendendoli per demoni. Trovo inoltre che ci sono spiriti corporei
(anche
se sottili ed invisibili), ma non che qualche
corpo umano sia stato posseduto o
abitato da essi. [128]
Il culto delle immagini sacre nasce secondo
il Nostro nel paganesimo (10.) e l’abuso
che se ne fa è riprovevole in quanto
concessione dottrinaria al pensiero reco
(11.), anche perché: «La loro
filosofia morale non è che un descrizione
delle loro passioni» e «La loro
logica, che dovrebbe essere il metodo del
ragionamento, non è altro che un
insieme di capziosità di parole e di invenzioni
per crearle e per risolverle.» [129]
In conclusione: le “tenebre spirituali” pagane
calano sul Cristianesimo
autentico (17.). Perché ciò accade? E, cui bono? Ecco la risposta di
Hobbes:
Dunque,
in base alla suddetta regola del cui bono, possiamo giustamente
affermare che gli autori di tutte queste
tenebre spirituali sono il Papa, il
clero romano e tutti quegli altri che si
sforzano di inculcare nella mente
degli uomini questa dottrina erronea, che
la Chiesa ora sulla terra è quel
regno di Dio menzionato nell’Antico e nel
Nuovo Testamento. [130]
La visione “politica” della
religione si coniuga qui con la negazione
che la Chiesa Romana sia la legittima
rappresentante di Dio sulla Terra. Per quanto
questo argomento ci interessi
assai poco, e per quanto appaia
evidentemente molto “di parte”, occorre riconoscere
che alcune obiezioni non
sono ingiustificate, come l’accusa alla dottrina
cattolica di aver
capziosamente “spiritualizzato” molti
elementi testuali del Vecchio Testamento,
per la verità assai più profano e
materialista di quanto l’ermeneutica catto-idealista
abbia voluto farci
credere.
Vista la posizione socio-etico-politica del
Nostro possiamo ora occuparci del testo teorico
più importante di Hobbes, il De
corpore, quello in cui più compiutamente è esposta
la dottrina materialistica
dell’essere, nella quale, però, è più l’elemento funzionalistico
ad
emergere che quello ontologico. L’opera è
pubblicata nel 1655 e riprende
concetti già espressi negli Elements del 1637, con largo spazio ad una
ripresa del metodo geometrico euclideo. Nella
Lettera dedicatoria si
rileva come ipotesi corrette espresse dagli
antichi in astronomia, o fisica
celeste, siano (con allusione ad Aristotele):
«state strangolate con lacci
verbali dai filosofi che seguirono» [131] e che «l’inizio dell’astronomia non si debba
far risalire oltre Nicolò Copernico» [132]
e «ai giorni nostri Galileo che per primo
ha a noi aperto la prima porta di
tutta la fisica, cioè la natura del moto.»
[133]
Il moto è l’elemento che conferisce alla
materia e il suo essere tale in senso
dinamico e il suo estrinsecarsi nella moltitudine
degli esseri materiali in
termini di specie, di natura e di forma.
In questa impostazione meccanicistica
dell’essere non poteva mancare la figura
di Harvey, il primo teorizzatore della
circolazione sanguigna: «il solo, che io
sappia, che, ancor vivente, vincendo
l’invidia, abbia stabilito una nuova dottrina.»
[134]
Abbiamo già visto come Hobbes sia tenero
con Platone ma niente affatto con
Aristotele, portatore di «dottrine stupide
e false», sì che gli Scolastici,
assumendole: «tradirono la cittadella della
fede cristiana». Secondo Hobbes,
quindi, gli Scolastici camminarono su un
piede “saldo”, la Sacra Scrittura, e
su uno “putrido”: «costituito da quella filosofia
che l’apostolo Paolo chiamò vuota
e che avrebbe potuto chiamare dannosa.» [135]
Nell’indirizzo Al lettore vengono
enunciati i presupposti dell’opera, che,
a partire dalla «ragione umana
naturale», hanno come intento l’indicazione
di un nuovo metodo di conoscenza
secondo il seguente ordine: «la ragione,
la definizione, lo spazio, gli astri,
la qualità sensibile, l’uomo.» [136]
Hobbes chiama la filosofia anche ragione naturale, innata in ogni uomo
ma usata spesso male e senza metodicità;
esiste infatti la possibilità di
rendere “esatta” la filosofia, ma occorre
spogliarla di ogni “ornamento
discorsivo”. Per conseguire ciò il ragionamento
deve trasformarsi in calcolo:
Calcolare
è cogliere la somma di più cose l’una aggiunta all’altra, o conoscere
il resto, sottratta una cosa all’altra. Ragionare, dunque, è la stessa cosa
che addizionare e sottrarre; e, se qualcuno volesse aggiungervi
il moltiplicare ed il dividere, non avrei niente in contrario,
poiché la moltiplicazione non è altro che l’addizione di termini
uguali e la divisione la sottrazione di termini uguali tante
volte quante possibile. Si risolve, quindi,
ogni ragionamento, in queste due
operazioni della mente: l’addizione e la sottrazione. [137]
Progetto semplice e
affascinante, quello di ridurre il ragionamento
razionale ad un calcolo, e non
privo di buone motivazioni, dal momento che
la logica da sempre si pretende
procedimento meccanico del discorso a fini
veritativi. Matematizzare il
ragionamento, e quindi la sua esposizione
discorsiva, riducendola ad operazioni
di calcolo risolverebbe d’un sol colpo il
problema del conoscere, riducendolo
ad operazioni di computo: una “riduzione
di riduzione” di ciò che già fa la
logica sillogistica volgare. L’unico problema,
e grosso, e di cui Hobbes non
pare rendersi conto, è che il valore semantico
(delle parole e delle frasi) è
difficilmente riducibile al valore quantitativo
di numeri o di porzioni di
spazio geometrico. Ma se ci chiediamo la
ragione per cui egli ritenga ciò
possibile, l’unica risposta plausibile è
che egli proprio non coglie o nega le
sfumature del linguaggio. Ne abbiamo testimonianza
nel passo di un manoscritto
poco noto della Bibliothèque Nationale di
Parigi, probabilmente risalente al
1642, nel quale Hobbes cerca di definire
il concetto di filosofia scrivendo:
La
vera filosofia si identifica interamente
con una vera, propria ed accurata
nomenclatura delle cose, dato che consiste
nella conoscenza delle differenze. È
chiaro infatti che conosce le differenze
delle cose solo chi ha imparato ad
attribuire alle singole cose i loro propri
appellativi. [138]
È chiaro che egli crede
nella possibilità dell’istituzione di un
linguaggio artificiale, basato su
parole concepite in termini logico-matematici,
dove la variazione
lessico-vocale tra nome e nome deve corrispondere
alla differenza tra le cose
nominate. Ovviamente, vi dovrebbe essere
una classificazione-tabulazione di
gruppi di parole-universali, di parole-generali
e di parole-categoriali dalle
quali, “per discesa”, si passa dalla generalità
alla singolarità. Intento
meramente utopico, ma che, soprattutto, costituirebbe
la morte delle
articolazioni individuali del linguaggio
e la cassazione di ogni suo utilizzo
poetico.
Egli rimarrà convinto per tutta la vita che
la gnoseologia sia riducibile al calcolo
nominalistico, che l’ontologia
riguardi la corporeità materiale e che la
politica si possa costruire in
accordo coi modelli narrativi delle Sacre
Scritture. Ma seguiamolo ancora in un
esempio assai significativo di come il conoscere
si estrinsecherebbe attraverso
la percezione delle forme (con il senso)
e la loro addizione/sottrazione, nella
più totale ignoranza delle strutture (accessibili
solo all’esperimento
scientifico) come rapporti di elementi e
funzioni reali. Afferma Hobbes:
In
che modo, poi, noi, con la mente, senza parole,
con tacita riflessione ragionando,
siamo soliti addizionare e sottrarre, si
deve mostrare con uno o due esempi. Se
uno, dunque, da lontano, vede qualcosa oscuramente,
anche se non è stato
esposto alcun vocabolo, ha tuttavia di quella
cosa la stessa idea per la quale,
imponendo ora dei nomi, dice che quella cosa
è un corpo. Quando la cosa
si è avvicinata ed egli in qualche modo la
vede ora in un luogo e ora in un
altro, avrà di essa un’idea nuova, per la
quale ora chiama questa cosa animata.
Da ultimo, quando, trovandosi in prossimità
di quella cosa, ne vede la figura,
ne ascolta la voce e coglie le altre cose
che sono i segni di una mente
razionale, si forma una terza idea, anche
se fin’ora non c’è stato un suo nome,
la stessa, cioè, per la quale diciamo che
qualcosa è razionale. Finalmente,
quando, vista la cosa completamente e distintamente,
la concepisce nella sua
totalità come una, la sua idea è composta
da quelle precedenti, e la mente
compone le idee predette nello stesso ordine
in cui nel discorso questi singoli
nomi: corpo, anmale, razionale, sono composti in un unico
nome: corpo animato razionale o uomo. [139]
La conoscenza è una
procedura consecuzionale di aggiunte/sottrazioni
di “fattori” di conoscenza
“quantitativi-computazionali” anziché “espressivi-significanti”.
Una volta
definita la cosa “una”, e qualificata come
“uomo”, parrebbe che la conoscenza
sia realizzata e compiuta, potendo lasciare
nell’indefinito (in quanto
matematicamente non-definibile) il “chi”,
con tutte le sue implicazioni
caratteroriologiche, storiche e personali,
che evidentemente non sono quantificabili.
Non a caso il secondo esempio riguarda il
quadrato come somma di quadrilatero
+ equilatero + rettangolo, come se, tutto sommato, la sensibilità
umana potesse essere messa tra parentesi
per ridurre una persona a una figura
geometrica. L’obiezione è ovvia: Hobbes pone
una logica puramente formale e
nominalistica senza pretesa che il “vero”
logico cui mira abbia alcun rapporto
al “reale” ontico-funzionale. Vero: ma c’è
da chiedersi allora a che cosa possa
mai servire da un punto di vista conoscitivo
questo tipo di processualità
definitoria “nella realtà” umana del vivere
dell’apprendere e dell’esperire. Dal punto
di vista gnoseologico essa è,
infatti, inconsistente, dal punto di vista
ontologico, nulla, dal punto di
vista esistenziale, inutile.
Per Hobbes «effetti e fenomeni sono le
facoltà e le potenze dei corpi» [140]
e la materia è la somma dei corpi esistenti
e
il filosofare deve servire a “prevedere effetti”:
Il
fine o lo scopo della filosofia è che possiamo
servirci della previsione degli
effetti per i nostri vantaggi o che, attraverso
l’applicazione dei corpi ai
corpi, con l’ingegnosità umana si producano,
per quanto lo consentano la
capacità umana e la materia delle cose, per
gli usi della vita degli uomini,
effetti simili a quelli concepiti con la
mente. [141]
I modelli mentali costruiti
attraverso la logica possono tradursi in
un “fare” i cui limiti sono soltanto
costituiti dalle capacità del “fabbricante”
e dalle caratteristiche fisiche
della “materia prima” a sua disposizione.
I modelli mentali ottenuti con la
logica “computazionale” hobbesiana non sono
mai fini a se stessi, per il gusto
del soggetto conoscente («ne goda in silenzio»)
ma deve condurre a una azione
che “costruisca qualcosa” come cose o fatti.
Infatti, per Hobbes: «Il fine
della scienza è la potenza.» [142]
Il sapere, o è saper fare, oppure è inutile.
Il conoscere è trarre vantaggi da esso,
mentre il non-conoscere è foriero di guai.
Quindi conoscenza ed ignoranza si
giocano nel computo del + e del – di utilità.
Il pensiero filosofico deve
beneficiare il pensatore o chi per lui:
Causa
di tutti questi benefici è, dunque, la filosofia.
Ma l’utilità della filosofia
morale e civile si deve misurare non tanto
dai vantaggi che derivano dalla conoscenza
di essa quanto dalle calamità in cui incorriamo
per l’ignoranza di essa. [143]
La filosofia in ambito
morale-civile (politico) è utile non tanto
per ciò che “dà” quanto per ciò che
“evita” e ciò che in politica va evitato
sopra ogni altra cosa è il “disordine”,
portato dalla guerra in generale ed in particolare
dalla sua forma più
perniciosa, quella “interna” a uno stato:
la guerra civile. Abbiamo visto nel Leviatano
che tutta la teoria politica hobbesiana può
esser tradotta in tre soli termini:
forza, stabilità e ordine; dove il primo
e il secondo sono in funzione del
terzo. Da ciò l’assolutismo monarchico auspicato
da Hobbes nella sua forma più
radicale, poiché è forte in quanto il potere
si legittima attraverso la
violenza coercitiva, è stabile perché irrevocabile
e perché la sovranità è indivisa, è ordinato poiché le leggi sono
sempre “definitive” e non ammettono deroghe
né aggiornamenti. L’oggetto
del conoscere è sempre un “corpo” tra
altri corpi inseriti in una corporeità generale,
ed il metodo per conoscere sta
nella scoperta delle cause, del suo generarsi
e del suo essere. Fuori di ciò il conoscere è impossibile, ed è questa
la ragione per cui Dio (generatore di tutte
le generazioni) essendo la causa
prima di tutte le cause non è conoscibile,
ma va solo “creduto”, “obbedito” e
“onorato”. La filosofia, quindi, è di due
generi: la naturale (relativa
ai corpi) e la civile (concernente i fatti umani).
La logica hobbesiana, lo abbiamo già visto,
pone il vocabolo o nome e come elemento del linguaggio e come elemento
del ragionamento. Il nome è “nota” in se
stesso e “segno” in un certo contesto
di significazione. Esso può essere naturale, come è il caso del nome
“nube” come causa generatrice di “pioggia”,
oppure artificiale
(arbitrario), come può essere l’insegna di
un negozio, un cippo che delimita
una proprietà o i suoni vocali («le voci
umane») del linguaggio parlato. Ed
allora:
Le
voci umane connesse in modo tale che costituiscano
segni dei pensieri, si
chiamano discorso, mentre le singole parti di esso si dicono
nomi.
Alla filosofia, come abbiamo detto, sono
necessari e le note e i segni
(le note per essere capaci di ricordare, i segni per essere
capaci di dimostrare i nostri pensieri).
I nomi servono all’una e all’altra
cosa, ma svolgono prima il ruolo di note e quello di segni. […]
presi ad uno a uno, sono note, giacché richiamano i pensieri anche
isolatamente, mentre sono segni unicamente in quanto si dispongono in un
discorso e sono parti di esso. [144]
Ogni nome è stato creato ad
arbitrio umano come ausilio mnemonico riferito
ai corpi e come elemento del
discorso comunicativo; essi sono quindi :
«segni dei concetti» e non dei corpi [145].
Con ciò il segno linguistico, nella sua assoluta
convenzionalità, è
completamente avulso dalla realtà e la sua
utilità sta nel fatto che il suoi
“modelli” deduttivi sono traducibili in modelli
“operativi”. Se ne deduce che al
Nostro non interessa la conoscenza della
realtà, bensì come l’uomo possa
collocarsi ed agire in questa realtà, e,
semmai, piegarla a suo favore. Se ci
si domandasse come mai Hobbes possa pensare
che si possa fare del tutto a meno
di cercare di conoscere la realtà, la
risposta non potrebbe esser che quella che
l’unica realtà che all’uomo
serve conoscere è quella di Dio, essendo
ogni altra conoscenza superflua se non
“funziona” per il nostro vantaggio. Si comprende
allora come l’ambito del
“conoscendo” per Hobbes è quello dell’”utilizzando”
per trarne qualche
vantaggio, o dell”evitando” per sfuggire
a qualche guaio. I nomi possono esser
“propri” se riferiti a una singola cosa,
“comuni” se a più cose, ed
“universali” in senso generale ed astratto.
Nomi di prima intenzione
sono quelli di oggetti definiti, di seconda intenzione i « nomi di nomi
o di discorsi ». Definiti o indefiniti,
univoci od equivoci, assoluti o relativi,
semplici o composti sono le ulteriori
qualificazioni degli elementi della logica
nominalistica hobbesiana [146]
Hobbes ama molto schemi e tabelle, e ce ne
offre un primo esempio in quattro Formule
del predicamento: 1. dei corpi, 2. delle quantità, 3. delle
qualità e 4.
della relazione [147].
Il Capitolo III è tutto dedicato alla
definizione della proposizione, mentre il
IV è dedicato al sillogismo, dove si
vede chiaramente come Hobbes non riesca a
sganciarsi dal modello aristotelico
del quale tenta soltanto un aggiornamento.
Abbastanza originale il fatto di
ritenere che non siano tanto le regole a
far funzionare bene la logica
deduttiva ma l’esercizio:
D’altronde
per un legittimo ragionamento, c’è
bisogno più di pratica che di regole; ed
infatti impareranno molto più presto
la vera logica quelli che passano il loro
tempo nelle dimostrazioni matematiche
di quelli che lo passano a leggere le regole
per sillogizzare dei logici: non
altrimenti i bambini imparano a camminare
non con le regole, ma camminando
spesso. [148]
Come ogni logica che si
rispetti si arriva, nel Capitolo V, a mettere
in guardia contro il “falso” dei
ragionamenti ingannevoli, con un solo punto
(al § 13) condivisibile, laddove si
rileva che il sillogismo zenoniano, negando
il moto, era falso nelle premesse
quanto inconsistente nella conclusione [149].
Nel successivo Capitolo VI si tratta del
Metodo filosofico hobbesiano,
dei suoi elementi e delle sue articolazioni,
precisando: «Dunque, il metodo
del filosofare, è la ricerca più breve possibile degli effetti
attraverso la
conoscenza delle cause o delle cause attraverso
la conoscenza degli effetti.
» [150]
Conoscenza quindi di fenomeni attraverso l’indagine sul loro verificarsi
tra un antecedente-causa e un susseguente–effetto,
dove il primo termine può
servire a conoscere il secondo o viceversa,
poiché la processualità può esser
irreversibile nel tempo ma sempre reversibile
nella ricerca logica. Una ricerca
che non è tanto interessata ai dettagli
fenomenici, quanto alla “generalità”, poiché
i fenomeni particolari sono
parti di quelli universali.
In ogni caso Hobbes (da buon metafisico)
pensa che siano le cause e non gli effetti gli oggetti primari del
conoscere, precisando:
E,
poiché i filosofi cercano semplicemente la
scienza, che consiste nella
conoscenza delle cause per quanto possibile
di tutte le cose e poiché le cause
di tutte le cose singolari si compongono
delle cause delle cose universali o
semplici, è necessario che essi conoscano
le cause della cose universali o
degli accidenti che sono comuni a tutti i
corpi, cioè ad ogni materia, prima
che quelle cose singolari, cioè degli accidenti
per i quali una cosa si
distingue dall’altra. [151]
Si vede bene come il
“metodo” di Hobbes ricalchi quello aristotelico,
esso non persegue affatto la
conoscenza scientifica, ma esattamente il
suo opposto, quella metafisica. Ciò
nella misura in cui mira a fissare le generalità
per dedurne le particolarità,
procedimento tipicamente teologico filosofale,
e non il contrario, proprio della
scienza. Nella ricerca scientifica, infatti,
l’inferenza procede sempre dal
particolare al generale e non viceversa.
Ma la generalità, anzi l’universalità,
trova il proprio culmine nel movimento, «causa universale» creata da Dio ma che
pare agire in modo
autonomo. Abbiamo quindi la teorizzazione
di un
meccanicismo cosmico simile a quello cartesiano,
ma mentre per Cartesio
l’interpretazione del movimento è ontologica
in Hobbes è funzionalistica. In
altre parole, per il francese il meccanicismo
è la “realtà dell’essere” per
l’inglese è un “modello mentale” da utilizzare,
in ragione della sua maggiore o
minore funzionalità nell’agire
umano. Non a caso per il Nostro l’ambito
della fisica è contiguo a quello dell’etica,
poiché: «Dalla fisica si deve
passare alla morale, in ci si considerano
i moti degli animi » e tali moti sono
del tutto analoghi a quelli dei corpi
materiali. Siamo al materialismo riduzionistico
estremo, dove il
movimento è minimo comun denominatore dei
corpi come delle menti, essendo il pensiero
null’altro che moto. Ma tutto ciò che è morale ha senso se può
configurasi come civile, poiché il
bene della Civitas, lo Stato, è lo scopo ultimo di ogni lavoro
intellettuale. Ed allora:
La
filosofia civile è strettamente legata alla
filosofa morale, dalla quale
tuttavia può essere staccata: infatti, le
cause dei movimenti della mente
possono conoscersi non soltanto con il ragionamento,
ma anche con l’esperienza
attraverso la quale ciascuno osserva i propri
movimenti. E, perciò, quelli che
con metodo sintetico, partendo dai principi
primi della filosofia, siano giunti
alla scienza delle passioni e dei turbamenti
dell’animo, procedendo per la
stessa strada, arriveranno alle cause necessarie
della costituzione delle
comunità e conseguiranno la scienza del diritto
naturale e dei doveri civili,
nonché dei diritti che si devono alla comunità
in ogni genere i comunità, e di
tutto il resto che spetta alla filosofia
civile, per il fatto che i principi
della politica derivano dalla conoscenza
dei movimenti della mente, mentre la
conoscenza dei movimenti della mente
deriva dalla scienza dei sensi e dei pensieri.
[152]
“Cause necessarie” nella
costituzione delle comunità e “diritti” di
esse sono desumibili secondo Hobbes
dai movimenti mentali “in generale”, come
funzionalità meccanica del cervello
dell’”animale-macchina-uomo” nella sua “generalità”.
Si vede bene come quello
di “individualità” sia concetto del tutto
assente nell’orizzonte gnoseologico
hobbesiano, che riguarda un mondo da conoscere
nei suoi meccanismi all’unico
fine di costituire un Stato, unico, forte,
stabile e ordinato, non può certo
preoccuparsi delle singole “menti”, insignificanti
parti di questo Uno-Tutto
che è il Leviatano.
Siccome la trasmissione della conoscenza,
l’insegnamento, si estrinseca come “re-invenzione”
da parte del discente di un
“invenzione” del docente che la trasmette
attraverso il discorso, il metodo
«per dimostrare» è lo stesso che è stato
usato «per ricercare definizioni » [153].
L’importante è “definire”, ed allora: «Da
quanto si è detto si può intendere in
che modo si possa definire la stessa definizione,
cioè che è una proposizione,
il cui predicato risolve il soggetto, quando
è possibile, e lo esemplifica
quando non è possibile.» [154]
L’importante rimane sempre “definire” un
termine conclusivo del procedere
logico che si qualifichi come “modello” mentale
operativo, da cui derivano “le
proprietà della definizione” esposte nel
§ 15 del Capitolo sesto. Ad Hobbes
piacciono gli schemi (quanto all’altro teologo
dell’Uno-Tutto, Spinoza) per cui
elenca accuratamente ben sette proprietà della definizione: 1. eliminare
l’equivoco, 2. esibire nozioni universali,
3. porre principi chiari, 4.
definire i termini di base, 5. geometrizzare
il ragionamento, 6. coniugare i
vocaboli esplicativi, 7. distinguere tra
il “definito” e la “definizione” in
quanto «il tutto non può esser parte di se
stesso.» [155] Come tutti i logici formali a Hobbes preme
soprattutto “dimostrare”:
16.
Due definizioni, quali che siano, che si
possono comporre in un sillogismo,
producono una conclusione che, derivando
dai principi, cioè dalle definizioni,
si dice dimostrata, e la stesa derivazione o composizione si dice dimostrazione. Allo stesso modo, se da due proposizioni,
delle quali una è una definizione e l’altra
è una conclusione dimostrata, o
delle quali nessuna è una definizione, ma
entrambe sono state prima dimostrate,
si ricava un sillogismo, anche questo si
dice dimostrazione, e così via di
seguito. Dunque la definizione della dimostrazione
sarà la seguente: la
dimostrazione è un sillogismo o una serie
di sillogismi derivata dalle
definizioni dei nomi sino alla conclusione
ultima. [156]
Il Nostro, che ci aveva
detto voler trattare la logica attraverso
le sole operazioni di addizione di
sottrazione, si impegola qui in un verbalismo
pleonastico tipico dei metafisici.
La logica deduttivistica di essi proclama
sempre la semplicità e la chiarezza
della definizione nel definire se stessa,
salvo poi complessare le definizioni
di tutto il resto al limite dell’incomprensibile.
Ma per tentare di rendere comprensibile ciò
che è poco chiaro o poco plausibile si passa
alla “dimostrazione metodica”, che
si articola in tre punti:
I.
Che ogni serie di ragioni è legittima,
cioè in accordo con le leggi dei sillogismi
sopra addotte. II. Che le premesse
dei singoli sillogismi sono dimostrate prima,
sin dalle prime definizioni. III.
Che si procede, dopo le definizioni, con
lo stesso metodo con i quale chi
insegna era pervenuto all’invenzione […]
[157]
Inventare premesse
sillogistiche per pervenire a dimostrazioni,
al fine di costituire modelli
unificanti di lettura della realtà, e poi
costruire il mondo degli uomini in
modo razional-totalitario. Pare essere questa
la meccanica della logica
hobbesiana, il cui fine, non dimentichiamolo,
è la definizione dello Stato-Uno-Tutto
che è etico-civile-assolutista-dispotico
e che deve risolvere nell’Unità
Totalizzante l’inconsistenza delle singole
individualità umane; semplici numeri
da sommare per determinare la massa numerica
dei sudditi.
La Parte Seconda (con titolo La
filosofia prima) si apre con una trattazione sul luogo e sul tempo.
Qui Hobbes utilizza un procedimento interessante:
quello di porre una finta annichilazione
del mondo e da essa partire per “ricostruirlo”
con operazioni mentali basate
sulle tracce mestiche lasciate da esso attraverso
i nostri sensi. Infatti ci sono
rimaste “idee” e “fantasmi” di cose correlate
col fantasma di uno spazio che
esse “occupavano”, e se lo spazio può essere
occupato da corpi (ma esso stesso
è corpo) vuol dire non solo esiste, ma che
è il fondamento dell’esistenza di
tutti gli altri corpi particolari. Da ciò:
2.
[…] Ritornando all’assunto, perciò affermo
che questa è la definizione dello
spazio: lo spazio è il fantasma di una cosa
che esiste in quanto esiste, cioè
senza considerare alcun altro accidente di
quella cosa, tranne il fatto che
appare fuori di noi.
3.
Come un corpo lascia un fantasma della sua
grandezza, così un corpo mosso
lascia un fantasma del suo movimento nella
mente, cioè l’idea di un corpo che
passa ora per questo, ora per quello spazio,
in una continua successione. E
questa idea o fantasma è ciò che io, non
allontanandomi molto né dall’opinione
né dalla definizione di Aristotele, chiamo
tempo. [158]
Nella nostra mente al
principio si dà l’idea di un luogo in cui
“sta” un corpo, che nel momento in
cui “muove” ci dà l’idea dell’esistenza del
tempo: «Il tempo, dunque, è un
fantasma, ma un fantasma del moto » in quanto
«nel moto immaginiamo il prima ed
il dopo» [159].
E ritorna la matematizzazione nel trattare
lo spazio e il tempo:
5.
Dunque, far parti o spartire o dividere spazio o tempo non
è altro che considerare nello stesso spazio
o tempo uno ed un altro spazio o
tempo. Perciò, se uno divide lo spazio o il tempo, ha tanti concetti
diversi
quante sono le parti in cui lo divide, ed
ancora uno di più: infatti, il primo
concetto sarà quello dello stesso dividendo,
poi della parte di esso e poi
della parte di un altro, e così continuamente,
finché continuerà a dividere. [160]
Dividere degli “insiemi”
come lo spazio e il tempo significa ricavare
delle unità-parti che come i punti
matematici permettono l’operare continuo
e finché la divisione risulta
possibile. E ancora: «7. Il numero è uno
e uno o uno uno e uno, e così via di
seguito: cioè, uno e uno costituisce il numero
due, uno uno e uno il numero
tre, e così avviene per gli altri numeri;
e questo è lo stesso che se
dicessimo: il numero è unità.» [161]
Addizionando unità si realizzano altre unità
e alla fine si avrà una conclusiva
’”unità delle unità”, un “uno-totale”, su
cui la mente si ferma (e finalmente
può riposare!).
Il Capitolo VIII si intitola Il corpo e
l’accidente e ricalca la distinzione aristotelica tra
sostanza e accidente.
La definizione diventa: «l’accidente è il modo di concepire il corpo.» [162],
non quindi un “modo d’essere”, ma “di pensarlo”.
Hobbes, in riferimento alla Metafisica di Aristotele (E, 2, 1026 b), nota:
«E la definizione aristotelica è giusta unicamente
perché alcuni accidenti non
possono staccarsi dal corpo senza la sua
distruzione.» [163] Per quanto riguarda il moto di un corpo è
precisato più avanti (10): «Il moto è l’abbandono continuo di un luogo
e
l’acquisto continuo di un altro luogo: il
luogo che si lascia si è soliti chiamarlo
terminus a quo, il
luogo che si acquista terminus ad quem.» [164],
dove continuo sta a significare che un corpo che si muove
non lascia del
tutto il posto antecedente senza essere già
in parte nel susseguente. In
relazione ai concetti aristotelici di essenza-sostanza e di forma
quali Condizioni del divenire (Metafisica VII, 1033 a, 18-19) si precisa:
La
materia prima, dunque, non è nulla;
e, perciò, si è soliti non
attribuirle alcuna forma e nessun altro accidente
oltre la quantità. Ma,
essendo tuttavia tutte le cose singolari
fornite di proprie forme e di
determinati accidenti, la materia prima è
corpo in generale, cioè corpo
considerato universalmente, che non ha alcuna
forma, alcun accidente, ma in
nessuna forma o nessun accidente, oltre
la quantità, è considerato, cioè è portato
nell’argomentazione. [165]
Il corpo in generale è la
materia, e il fatto che “tutto ciò che è”
non possa essere considerato
altrimenti che “corpo” sta a significare
che nel linguaggio hobbesiano la
corporeità va intesa come la materialità
di ogni cosa reale e di cui si possa
parlare ed argomentare.
Siccome poi si conosce “per cause” (e la
causa di tutto ciò che possiamo prendere
in considerazione è “movimento”), una
qualsiasi causa, “muovendo”, genera un effetto
come azione del corpo-causa
generatore, l’agente, che trasforma “negli accidenti” un altro
corpo, il
paziente:
Perciò,
la causa di tutti gli effetti consiste in
determinati accidenti degli agenti e
del paziente, per la presenza di tutti i
quali si produce un effetto e per la
mancanza di uno dei quali non si produce.
L’accidente, o dell’agente o del
paziente, senza il quale non può prodursi un effetto, si chiama causa
senza la quale non può seguire un effetto
e causa necessaria per ipotesi,
nonché requisito per produrre un effetto. [166]
L’aggregato degli accidenti
dell’agente (o degli agenti) può venire chiamata,
aristotelicamente, anche causa efficiente, e l’aggregato degli accidenti
del paziente, a sua volta, causa materiale. Ma va considerata
anche una causa più generale, nei termini
seguenti:
Invece,
la causa semplice o causa intera è l’aggregato
di tutti gli accidenti e
degli agenti, quanti sono, e del paziente,
con la supposizione che con la
presenza di tutti questi non può intendersi
che l’effetto non sia prodotto
nello stesso tempo, e con la supposizione
che con la mancanza di uno di essi
non può intendersi che l’effetto sia prodotto. [167]
La causa efficiente e
la causa materiale non sono quindi che “parti” di ciò che Hobbes
chiama causa
intera, ed essa «è sempre sufficiente a produrre
il suo effetto purché
possibile» e quindi «nello stesso istante
in cui la causa diventa intera,
è prodotto anche l’effetto.». [168]
Vediamo ora come è concepito il processo
di causazione:
6.
Dal fatto che, nello stesso istante in cui
si ha una causa intera, è prodotto
un effetto, risulta evidente che la causazione
e produzione degli effetti
consiste in un certo continuo progresso,
di modo che, per il continuo mutamento dell’agente o degli
agenti, il quale è operato da altri
agenti sullo stesso, si muta continuamente
anche il paziente su cui essi
agiscono. […] In questo progresso della causazione,
cioè dell’azione e della
passione, se uno ne comprenderà con l’immaginazione
una parte, e la dividerà in
parti, non può non considerarne la prima
parte, o il principio, se non come
azione o causa. […] Allo stesso modo, l’ultima
parte, si considera unicamente
come effetto […] Per questo avviene che,
nell’azione, il principio e la causa
si ritengono al stessa cosa. [169]
Il passo è un poco contorto
ma il senso è chiaro, descrivendoci la meccanica
di un corpo (agente) che si
muove e agisce su un altro (paziente) e in
questo suo “muoversi” quale causa,
“muove o trasforma” un altro corpo sotto
forma di effetto. Questa
meccanica dei corpi può essere solo il frutto
di una riflessione pre-newtoniana
(i Principia appaiono nel 1687), che ignora l’attrazione
gravitazionale
e che può immaginare la causa di movimento
solo come effetto di un corpo che ne
“tocca” o ne “spinge” un altro, presupponendo
la contiguità. Contiguità
materiale in un cosmo “tutto pieno” che è
in tutto simile a quella cartesiana;
ed infatti: «7. La causa del movimento può
essere unicamente in un corpo
contiguo e mosso.» [170]
Ancora “aristotelicamente” Hobbes aggiunge
(Capitolo X, La potenza e l’atto):
«1. Alla causa e all’effetto corrispondono
la potenza e l’atto.» [171]
e quindi «Da ultimo, come l’accidente prodotto
si chiama effetto
rispetto alla causa, così si chiama atto rispetto alla potenza.»
Nella Parte Terza (Capitolo XV) Hobbes si
occupa di moti e grandezze, esponendo una
serie di princìpi del
movimento di cui si dà la definizione. Riprendendo
il concetto dell’ormé
stoica in senso dinamicistico il conatus diventa il primo principio e
quello scolastico di impetus (come valore quantitativo di esso) il
secondo. Da ciò: «il conato è un moto che
si verifica in uno spazio e tempo
minore di quello dato» [172]
e «l’impeto non è altro che la quantità o
velocità dello stesso conato.»,
mentre la resistenza è «conato contrario a un conato» e la forza
«un impeto moltiplicato per se stesso» [173].
Il moto assume anche otto modalità o aspetti, a testimonianza di come il principio dinamicistico
sia
fondamento del meccanicismo materialistico,
ed i Capitoli dal XVI al XXIV
costituiscono la dettagliata descrizione
matematico-geometrica di come il moto
possa estrinsecarsi nelle sue varie tipologie.
La Parte Quarta (Fisica, o dei fenomeni della natura)
apre (Cap.XXV, Sensazione e moto animale ) col ribadire la concezione
sensistica che era posta anche nell’incipit del Capitolo I del Leviatano
(tit. Il senso) in due frasi: «Singolarmente ognuno di
essi [i pensieri]
è una rappresentazione o apparenza di qualche qualità o altro accidente
di un corpo fuori di noi » e «L’origine di
tutte le apparenze è ciò che
chiamiamo senso » [174].
Ma qui la tesi è ulteriormente sviluppata,
precisando che «sentire di aver sentito è ricordare» [175],
anticipando ciò che anche Condillac sosterrà:
ovvero che ricordare non è altro
che rinnovare una sensazione pregressa. Una
sensazione ovviamente attenuta,
sicché «L’immaginazione, dunque, non è niente
altro che una sensazione
illanguidita o indebolita per l’allontanamento
dell’oggetto.» [176]
L’apparenza del corpo dell’oggetto esterno
ai nostri sensi è l’origine di ogni
nostra immagine mentale (di ogni pensiero) e quindi è solo il rapporto
con esso a determinare la qualità-intensità
dell’immagine. Vi è però anche una
componente aggiuntiva alla sensazione che
Hobbes chiama moto animale.
Siccome nella sensazione sono due conati ad incontrarsi, quello
dell’oggetto esterno e quello del senso,
succede che «il moto prodotto dall’uno
e dall’altro continua ai lati da ogni parte
» provocando un rafforzamento della
sensazione e dando quindi origine ad un’idea
«più grande.» [177]
Il Capitolo XXVI si occupa de L’universo
e gli astri e offre l’occasione al Nostro di esprimere
le sue forti
perplessità circa l’esistenza del vuoto,
mentre nel XXVII (Luce, calore e
colori) egli sfoggia competenze fisiche conformi
ai livelli scientifici del
tempo. Il concetto di spirito animale (che riprende quello di moto
animale) ritorna nel XXVIII in una interpretazione
della sensazione di
caldo e di freddo:
Come
avvertiamo calore quando gli spiriti e le
parti fluide del nostro corpo sono
attratti dal moto della sostanza d’aria circostante,
così, quando c’è il conato
all’esterno degli stessi spiriti ed umori,
sentiamo freddo. Raffreddare
significa, dunque, fare in modo che le parti
esterne di un corpo tendano
all’interno, con un moto contrario appunto
a quello che si ha nel
riscaldamento, in cui le parti interne sono
attratte all’esterno. [178]
Concezione prettamente
meccanicistica che si ritrova anche negli
ultimi due capitoli del De corpore,
il XXIX dedicato a Suono, odore, sapore e tatto e il XXX alla Gravità,
considerata qui una forza terrestre che si suppone coniugata con l’impeto
degli atomi presenti nell’aria, immaginati come dei
corpuscoli
infinitesimi che differiscono «per consistenza,
moto e grandezza.» e che sono
responsabili della velocità di caduta dei
gravi in base all’interazione tra impeti.[179]
E ciò in accordo con le scoperte galileiane,
per cui: «Ne segue, sulla base di
ciò che ha dimostrato Galileo nei dialoghi
sul moto, che i gravi cadono nei
singoli tempi con le differenze degli spazi
percorsi, le quali sono le
differenze dei numeri quadrati a cominciare
dall’unità.»
Ci occupiamo ora del De homine,
apparso nel 1658, nella dedica del quale
si sottolinea: «L’uomo, infatti, non è
solo corpo naturale, ma anche parte della comunità, cioè, per
così dire,
corpo politico.» [180].
Non a caso “corpo” e non “soggetto”, poiché,
come già abbiamo visto nel Leviatano,
l’unico soggetto politico è il sovrano. Dopo alcune considerazioni sulla
genesi biblica dell’uomo e su alcuni elementi
fondamentali del suo corpo,
trattati nel Capitolo I, Hobbes passa (Capitoli
II, III, IV, V, VI e VII) ad
occuparsi della percezione visiva, in una
lunga e dettagliata trattazione ricca
di considerazioni fisiologiche, ottiche,
geometriche e prospettiche. Nell’VIII
si occupa di rifrazione di lenti, nel IX
del telescopio e del microscopio,
quali amplificatori della capacità visiva
che è lo strumento primario della
conoscenza. Questa parte dell’opera è estremamente
importante per comprendere
l’atteggiamento hobbesiano, ma da un punto
di vista strettamente filosofico a
noi interessa passare al Capitolo X, dove
il Nostro si occupa dal rapporto tra
il linguaggio e la conoscenza, introducendo
così l’argomento:
Il ragionamento o discorso è
un contesto di vocaboli stabiliti dall’arbitrio
degli uomini, per significare
la serie di concetti delle cose che pensiamo.
Perciò, come il vocabolo sta
all’idea o al concetto di una sola cosa,
così il discorso sta al contesto
mentale. [181]
Pensare e dire per Hobbes
sono una cosa sola, poiché il pensiero può
essere solo discorsivo e basato su
un unità minima, la “parola-idea”; dall’insieme
delle parole-idee si forma
l’intelletto. Tuttavia l’intelletto non ha
un rapporto diretto coi corpi, ma è
“idea” (cioè immagine mentale) di essi:
«Ed invero, l’intelletto è immaginazione,
ma che nasce dal significato
istituito delle parole.» [182]
Alla radicale materializzazione dell’essere
corrisponde la radicale
convenzionalizzazione del pensiero in quanto
dipendente dal «significato
istituito delle parole», che sappiamo essere
totalmente arbitrario. Ma il
Nostro, che non separa mai la sua speculazione
dalla Sacra Scrittura, dopo aver
ricordato che Dio ha dato facoltà all’uomo
di “nominare” cose e animali (Genesi,
II, 19-20) si domanda:
Ma,
dal momento che nel secondo capitolo della
Genesi [II, 16-17] si dice
che Dio proibì di mangiare i frutti dell’albero della scienza
del bene e del
male, prima che Adamo avesse dato i nomi ad alcuna
cosa, come poté
comprendere il comando di Dio, lui che ignorava
ancora che cosa fosse mangiare,
che cosa fosse frutto, che cosa fosse albero, che cosa scienza,
che cosa infine, bene o male? [183]
Hobbes si pone qui un
problema che può parere ozioso e tipicamente
“scolastico”, ma rivela come il
testo biblico sia per lui verità assoluta
in quanto sacro, e che la lettera di
esso ponga un problema temporale da dirimere,
poiché la proibizione divina
precede ogni nominazione umana. La tesi hobbesiana
è che Adamo « dovette
comprendere quella proibizione divina, non
dalla forza delle parole, ma in
maniera soprannaturale ». Quindi, soprannaturale
è l’intuizione che l’uomo ha
del comando in una situazione di “assenza”
di linguaggio, e questo nasce “dopo”,
quale operazione arbitraria [184].
Un linguaggio che non è solo fatto di parole,
ma anche di numeri, sicché
«l’uomo » trae dall’invenzione del linguaggio
il beneficio del poter conoscere
per mezzo di esso:
I
principali vantaggi derivanti dal discorso
sono
i seguenti. In primo luogo, con l’ausilio
dei nomi numerali, l’uomo può
contare non solo le unità, ma anche gli uni, quali che siano,
come i corpi, in quanto sono i qualche modo
forniti di quantità, o lunghi, o
lunghi e larghi, o lunghi, larghi e profondi;
e gli stessi può addizionare,
sottrarre e moltiplicare e dividere per numeri
e confrontare tra di loro; e può
assoggettare a calcolo tempi, moto, pesi
e, nelle qualità, gradi di intensità
e di fluidità. [185]
Troviamo qui riassunto ciò
che avevamo già appreso nel Leviatano, cioè il ragionamento come
“calcolo”. Ma questo calcolo implica qui
un’importante differenziazione tra lo “scientifico”
e il “noto”, che ci fa
capire come Hobbes nel De homine relativizzi un poco ciò che la sua
logica deduzionistica ferrea aveva fissato
in
precedenza. Infatti qui si dichiara:: «Per
scienza si intende la
verità dei teoremi, cioè la verità delle
proposizioni generali, cioè la verità
delle conseguenze. Ma, quando si tratta di
una verità di fatto, non si dice
propriamente scienza, ma semplicemente cognizione ». Verità
“logica”, quindi, ma anche verità “di fatto”,
per quanto il “fatto” rimanga
percettivo e non ontico, come emerge da un
ulteriore distinzione tra la
“matematica pura” («quella che tratta la
quantità in astratto » [186])
e quella che «ha bisogno della cognizione
dell’oggetto, come la geometria e
l’aritmetica.» [187]
Queste due discipline, operando con oggetti
“noti”, sono quindi le più “corporee”,
mentre sono “miste” (astratte/corporee) l’astronomia,
la musica e la fisica, e
“aprioristiche” la politica e l’etica come
scienze del giusto/ingiusto
ed equo/iniquo, le quali seguono «la stipulazione dei patti
e
l’istituzione delle leggi.» [188]
Nel Capitolo XI vengono esaminati il desiderio,
l’avversione, il piacevole e lo
spiacevole. La sensazione viene prima del desiderio, poiché
bisogna prima di desiderare sapere ciò che
« sarà piacevole o no » [189].
Ciò che si desidera è per noi il bene [190]
ed il primo bene è l’autoconservazione
[191];
e tuttavia: «Il sommo bene, o come si dice,
la felicità e fine ultimo, non si
può trovare in questa vita» poiché solo in
Paradiso essa sarà conseguibile.
L’ultima opera hobbesiana che prendiamo in
considerazione ha per titolo Libertà e necessità. Essa è costituita da
due scritti, uno del 1646 (Della libertà e della necessità) e uno di
poco posteriore (Questioni concernenti la libertà, la necessità
e il caso)
e nasce da una contrapposizione di ordine
teologico tra Hobbes e il vescovo
John Bramhall sul tema del libero arbitrio.
La posizione del Nostro è nota: un
determinismo radicale che riguarda sia la
sfera fisica sia quella psicologica
(e in parte modellata sulla legge d’inerzia
galileiana), ed in base alla quale
la libertà si potrebbe dare solo in totale
assenza di condizionamenti. Ma
siccome i condizionamenti all’azione umana
sono sempre presenti e “determinano”
totalmente, secondo Hobbes, i nostri comportamenti,
il libero arbitrio non c’è.
Posizione contraria all’ortodossia cristiana,
che il vescovo intende ribadire
attaccando un Hobbes che deve difendersi.
La base argomentale del Nostro è che
scelta e necessità possono coesistere e che,
in definitiva (Della libertà e
della necessità): «Che cos’altro fa un uomo che delibera, se non ora
avviarsi a compiere un’azione, e ora ritrarsene, a seconda che la
speranza di un bene maggiore lo
attiri, o la paura di un male maggiore l’allontani?» [192]
La speranza o la paura determinano l’agire
dell’uomo in modo ineluttabile, e il
fatto che l’uomo faccia delle scelte non
significa che esse non siano
necessitate. All’obiezione di Bramhall, secondo
il quale se non vi fosse
libertà di compierlo non esisterebbe più
peccato (e quindi non dovrebbe esserci
punizione) Hobbes risponde:
Ora,
quando io dico che l’azione era necessaria, io non dico che fu fatta contro
la volontà dell’autore, ma con la sua volontà e necessariamente,
poiché la volontà dell’uomo, ovvero ogni
volizione o atto della volontà e proposito
umano, ha una causa sufficiente,
e perciò anche necessaria, e di conseguenza
ogni azione volontaria è
stata necessitata. Un’azione perciò può essere volontaria e peccaminosa
e tuttavia essere necessaria; e dal momento che Dio può affliggere per
un diritto che gli deriva dalla Sua onnipotenza, pur non essendovi
peccato, e poiché l’esempio della punizione
dei peccatori volontari è la causa
che produce la giustizia e rende il
peccato meno frequente, per Dio punire tali
peccatori, come ho detto prima, non
è ingiustizia. [193]
Il Nostro rileva che è la legge
che fa il peccato come sua trasgressione
e non la libera intenzione di peccare.
In altre parole, è la punizione che denuncia
l’esistenza del peccato, e in ciò
sta la giustizia divina. Persino chi non
ha commesso alcun peccato può esser
punito da Dio in modo per noi imperscrutabile,
in virtù del solo fatto di
essere Egli onnipotente e di poter fare tutto
ciò che vuole, senza che lo si
possa tacciare di ingiustizia. Una differenza
tra la necessità stoica e
quella cristiana non esiste secondo Hobbes,
si tratta esclusivamente di due dottrine
differenti [194].
Il secondo scritto (Questioni
concernenti la libertà, la necessità e il
caso), presenta un’alternanza di
periodi di Bramhall che contesta Hobbes e
di repliche di questi sui vari argomenti;
noi trarremo da queste i punti che ci paiono
salienti. Ritorna anche qui
l’argomento della libertà di Adamo di peccare
e Bramhall ribadisce che se la
decisione o la prescienza di Dio o l’influsso
delle stelle avessero
condizionato Adamo (come sostiene Hobbes)
«allora Adamo non aveva vera
libertà.». Conclusione che il Nostro giudica
«falsa» (Critiche alla risposta
del vescovo n. XI) replicando: « Ma in nessun caso io
nego che la necessità
tolga la libertà » poiché: «libertà è sceglier
quello che vogliamo, non scegliere
la nostra volontà.» [195] In replica ad una risposta circa la giustizia
divina (Questione X) Hobbes afferma:
Dio, ho detto, può comandare apertamente
una cosa e
tuttavia impedirne il suo compimento, senza
ingiustizia. […] E forse se la
morte di un peccatore fosse, come egli [Bramhall]
pensa, una vita eterna di
sofferenza estrema, un uomo potrebbe, come
fece Giobbe, fare rimostranze a Dio
Onnipotente, non accusandolo di ingiustizia,
perché qualsiasi cosa Egli compia
è resa giusta dal fatto che è compiutala
Lui, ma di poca tenerezza e amore
verso l’umanità. E questa rimostranza sarà
egualmente giusta o ingiusta, sia
che venga ammessa sia che venga negata la
necessità di tutte le cose. Poiché è
evidente che Dio avrebbe potuto fare l’uomo
impeccabile e potrebbe ora
preservarlo dal peccato, o perdonarlo se
vuole; e perciò, se non lo vuole, la
rimostranza è tanto ragionevole per gli argomenti
della libertà quanto
per quelli della necessità. [196]
Dio è giusto e benevolo e
tutto ciò che avviene è secondo la sua volontà.
Egli ha voluto l’uomo “così e
non altrimenti”, quindi, non ha senso disquisire
su libertà e necessità umane,
che sono coincidenti (come già sosteneva
l’etica stoica).
All’obiezione di Bramhall (Questione
XII) che: «togliere
la libertà mette in pericolo il paradiso,
ma certamente non lascia alcun
inferno.» Hobbes replica citando San Paolo
(Romani, IX, 20-21): «Chi
sei tu, uomo, per disputare con Dio? Dirà
l’opera all’artefice, perché mi hai
fatto così? Forse il vasaio non è padrone
dell’argilla, per fare con la
medesima pasta un vaso per uso nobile e uno
per uso volgare?» [197]
Dio è libero di fare una vaso “nobile” (un
giusto) o uno volgare (un
peccatore), senza che stia a noi giudicarlo,
confermando con quest’affermazione
che il Fato stoico e la Provvidenza cristiana
sono la stesa cosa. E ribadisce:
«Quando Dio rimproverava Giobbe non gli rimproverava
alcun peccato, ma
giustificava il fatto che lo affliggesse
parlandogli della sua potenza. Hai
tu (dice Dio) un braccio come il mio? Dov’eri tu quando
ponevo le
fondamenta della Terra?» Ed ancora: «Le bestie sono soggette alla
morte e
ai tormenti benché non possano peccare. Fu
volontà di Dio che esse fossero
così. Un potere irresistibile giustifica
tutte le azioni, realmente e
propriamente, in chiunque lo si trovi.» [198]
Torna anche qui il concetto di “potere assoluto”
già teorizzato nel Leviatano,
come realtà fattuale e legiferatrice “al
di là di ogni giudizio”; il potere
statuale, per il fatto stesso di esserci,
è assoluto ed insindacabile.
Ci siamo occupati a lungo di Hobbes, per
quanto egli sul piano politico, come si è
visto, propugni l’esatto contrario di
ciò che l’Illuminismo nella sua accezione
più nota combatte: l’assolutismo
monarchico. Abbiamo già rilevato come il
ritenere l’autore del Leviatano
un innovatore rispetto allo scenario culturale
secentesco sia opinabile, poiché
egli reinterpreta la teologia stoica in chiave
cristiana e teorizza il dispotismo.
Si aggiunga anche che, a ben vedere, molte
delle tesi socio-politiche che egli
elabora e propone sono già presenti in Machiavelli,
per quanto da lui esposte
in maniera più sistematica e con maggior
rigore logico-dialettico. La ragione per
la quale Hobbes viene indicato come un precursore
dell’ateismo settecentesco concerne
il suo determinismo materialistico: la teologia
hobbesiana è infatti un materialismo
provvidenzialista. Ma ciò si coniuga anche
perfettamente con il voluto equivoco
di un Hobbes nascostamente “empio” (lo si
utilizzerà anche con Spinoza) e
facendo passare ogni deroga all’ortodossia
cristiana come anti-religiosa, e per
ciò promotrice di ateismo. Grossolano errore
oppure applicazione di un consapevole
“il fine giustifica i mezzi”? Come riteniamo
di aver modestamente dimostrato Hobbes
teorizza una gnoseologia sensistico-materialistica
sovrapponendola ad un
notevole cinismo socio-politico. Ma è anche
un convinto cristiano che sviluppa
un’ampia e forte apologia della verità biblica ed evangelica. Se lo si
dimentica si tradisce Hobbes.
2.4 L’epicureismo teologico di Gassendi
Il
pensiero di Pierre Gassendi (1592-1655) rappresenta
sicuramente una delle più
importanti voci di una vera filosofia sullo
scorcio della prima metà del
Seicento, ma per noi italiani un vero e proprio
“caso” di colpevole ignoranza.
Gassendi è stato, infatti, quasi del tutto
ignorato in Italia sino a tempi
recenti, e ciò, probabilmente, per la nota
barriera di una cultura idealistica,
antiempiristica, antisensistica, antimaterialistica
e, cosa più grave, sostanzialmente
antiscientifica. D’altra parte, è in considerazione
dell’opposizione di
Gassendi a Cartesio che in un’immaginaria
bilancia sui cui piatti essi siano
posti in Italia Gassendi sia ultra-leggero
e Cartesio ultra-pesante. L’interpretazione
di ciò è facile: l’idealismo (e sostanziale
platonismo) di Cartesio ha trovato
nel nostro paese un terreno fecondo per svilupparsi
come”autorità” venerata e
coltivata relegando on un angolo il suo più
coerente oppositore. Gassendi,
appunto, lasciato nell’ombra quale elemento
turbativo di quella sublime aura
dello Spirito che Croce e Gentile hanno radicato nella
cultura italiana e i
cui tentacoli sono ancora tra noi in una
prolifica progenie più o meno
camuffata. Si aggiunga che la scarsezza delle
traduzioni italiane di opere
gassendiane è veramente impressionante, e
che nella manualistica Gassendi sia liquidato
in pochi tratti. Sono assai rare trattazioni
serie, come è dato cogliere nel
buon sunto che ne dà Gianni Paganini nel
Capitolo XVI del III volume della Storia
della filosofia [199]
(Laterza 1995) curata da Pietro Rossi e Carlo
Augusto Viano (non a caso due dei
pochi storici della filosofia non-idealisti).
Va anche ricordato l’ottimo
saggio di Tullio Gregory Scetticismo ed empirismo, Studio su Gassendi,
uno dei pochi importanti lavori analitici
sul Nostro.
È
doveroso precisare subito che non solo Gassendì
non è materialista, ma è anzi
un teologo cristiano (ordinato prete nel
1617) i cui scritti hanno per scopo
primario la glorificazione di Dio. La sua
colpa secondo la maggior parte degli
idealisti? Aver voluto riabilitare Epicuro
reinterpretandolo in senso
cristiano, andando in rotta di collisione
con una cultura imperante che
relegava l’atomismo edonistico del greco
negli empi sotterranei del
libertinismo irreligioso. Poiché, in realtà,
proprio di questo si tratta,
essendo il Nostro null’altro che uno spirito
indipendente (e solo in questo
senso “libertino”) che vuole affrancare la
cultura filosofica dai lacci della
tradizione aristotelica e da quelli del dualismo
cartesiano per arginare un
materialismo ateo incipiente che vedeva come
un grande pericolo per la fede. Ci
si domanderà allora come si possa conciliare
la lotta al materialismo con una
rivalutazione dello studio di una filosofia
materialistica come quella
epicurea. Ebbene, proprio qui sta il più
interessante aspetto del pensiero di
Gassendi; quello di essersi reso conto dell’insostenibilità
del pensiero
metafisico applicato alla realtà e di aver
cercato un nuovo sbocco alla
conoscenza che potesse conciliare empirismo,
sensismo, osservazione e
sperimentazione scientifica, astronomia e
cosmologia post-copernicane, con la
fede cristiana.
Il background
culturale di Gassendi è abbastanza complesso
e vede tra i suoi autori preferiti
Vives, Charron, Ramo e Giovan Francesco Pico,
ma ciò che emerge fin dai suoi
primi tentativi teorici è l’attenzione allo
scetticismo di Pirrone di Elide
quale assertore del primo indirizzo filosofico
che oppone al dogmatismo
metafisico il primato dell’esperienza diretta
degli enti e dei fenomeni. Non fa
difetto tuttavia anche una buona conoscenza
di autori antichi come Orazio,
Giovenale, Luciano e Lucrezio, tenendo presente
che gli ultimi due dalla
cultura dominante appartenevano al piccolo
perverso gruppo di atei antichi tenuti
in buon conto dai libertini. Ricordiamo che
sia Vives che Ramo erano stati tra
i pochi a combattere l’aristotelismo e che
Charron aveva assunto lo scetticismo
come il più alto grado di una sapienza profana.
L’opposizione del Nostro
all’aristotelismo, ritenuto «ozioso ed inutile»
e «sostituente le cose con le
parole», insieme con l’adesione allo scetticismo
empiristico ed esperienziale,
lo porta su posizioni abbastanza vicine a
quelle di Bacone. Del progetto
gnoseologico dell’inglese egli si sente in
qualche misura un prosecutore e di
lui dice nel Syntagma: «Con un
atto di audacia veramente eroico Bacone ha
osato difendere una nuova via e ci
si deve attendere che tenendosi con forza
e con diligenza nella sua via, si
possa finalmente fondare e possedere la nuova
filosofia.» [200] Significativo il fatto che
nella prefazione alle Exercitationes paradoxicae adversus Aristoteleos
del 1624 asserisse, non senza ferocia, che
sulla metafisica aristotelica «è
difficile non fare satira » [201]
e che il maggiore responsabile della creazione
del “mito” dello Stagirita è
stato Averroè [202]. Ma non è tutto: seguire Aristotele è come
«chiudersi in un carcere » [203]
e il cumulo di errori del suo pensiero è
diventato «quasi un diritto ereditario
che passa dal maestro ai discepoli » [204]
Dopo
questo primo assaggio dell’atteggiamento
di Gassendi, diamo un occhiata alla
sua produzione, caratterizzata da una prima
fase (sino al 1644) che potremmo
definire anti-aristotelica, anti-esoterica
ed anti-cartesiana, e da una seconda,
filo-epicurea, dove la prima costituisce
la pars destruens del suo
pensiero, la seconda la construens. Ma va rilevato che gli interessi per
la filosofia di Epicuro risalgono, in
realtà, al 1626 [205].
I suoi primi scritti sono il già citato Exercitationes paradoxicae del
1624; l’Epistolica dissertatio in qua praecipua principia
philosophiae
Fluddi deteguntur del 1630. Seguono le Objectiones (1641) e le Instantiae
(1642) contro la metafisica cartesiana, poi
confluite nella Disquisitio
metaphysica seu dubitationes et instantiae
adversus Renati Cartesii
metaphysicam del 1644. Il De vita, moribus et placitis Epicuri è del
1647, le Animadversiones in decimum librum Diogenis
Laertii e il Syntagma
philosophiae Epicuri sono entrambi del 1649. Ad esse si aggiungono
importanti opere di astronomia, come l’Institutio astronomica del 1647
e il Thichonis Brachei, Copernici,
Peuerbachi et Regiomontani vitae del 1654. La sua opera più complessa e
corposa, il Syntagma philosophicum, la definitiva pars construens
del suo pensiero, uscirà tre anni dopo la
sua morte, nel 1658.
Se
abbiamo dato conto nel dettaglio della produzione
gassendiana è perché
intendiamo seguirne passo passo l’evoluzione,
dalla contestazione di Aristotele
e Cartesio, all’interesse per Epicuro ed
infine ad una reinterpretazione (ma
quasi una rielaborazione) della filosofia
del greco in senso cristiano.
Inizieremo quindi col prendere in considerazione
le Exercitationes
paradoxicae (in sei Libri) con le quali Gassendi nel sottolineare
il
dogmatismo del pensiero aristototelico intende
contrapporgli un atteggiamento
critico su base scettica (pirroniana) tale
da rendere evidente l’inconsistenza
della pretesa metafisica di conoscere astrattamente
“per cause” allo scopo di
sostituirvi un conoscere basato sull’esperienza
e sull’analisi dei
fenomeni reali, come si evince dal seguente
passo delle Exercitationes:
Se dicessi che l’esperimento è l’ago della
bilancia con il quale deve
essere ponderata la verità di qualche cosa,
come sarebbe il fuoco, caldo o
freddo? Il sole splendente od oscuro? Non
lo
negherei davvero; questo infatti è un Indicatore,
o come dicono i Greci
κριτήριον
che fra i molti sembra
debba essere scelto; ma l’esperimento appartiene
al senso, o alla facoltà
naturale, non certo alla Dialettica. [206]
Non solo il metodo dialettico non porta a
nulla, neppure la matematica può essere posta
come disciplina capace di fondare
ogni conoscenza, e quindi: «Ciascuna scienza
deve conoscere il vero come
proprio, nello stesso modo ha proprie regole
di conoscenza. La geometria ha il
suo quadrante, l’aritmetica i suoi calcoli,
la fisica il senso e la Teologia la
rivelazione.» [207]
L’accusa fondamentale che egli muove all’aristotelismo
è di prodursi in una
sostanziale eristica, un’abilità discorsiva
che non persegue il vero, ma la
“dimostrazione”. La metafisica, dunque, se
non decisamente ingannatrice, quanto
meno oziosa, senz’accesso al reale, che solo
con un approccio diretto
all’oggetto primario della conoscenza, i
fenomeni, diventa possibile. Anziché
perseguire «la perizia nel disputare» si
tratta infatti di cercare: «la
conoscenza della verità, e, una volta ottenutala,
vivere bene e felicemente
goderne.» [208]
Per
quanto all’epoca delle Exercitationes (inizio anni ’20) il Nostro fosse
ancora molto lontano da Epicuro, il riferimento
ad una conoscenza da conseguire
per «vivere bene e felicemente goderne.»
è già vicino alla concezione epicurea,
e si può ritenere che anticipi una
congenialità che andrà via via crescendo,
sino a portarlo più tardi, nel Syntagma
philosophicum, a creare un “suo” Epicuro cristianizzato.
Fatto non
trascurabile al fine di comprendere il pensiero
gassendiano è che egli non solo
fu seguace di Galileo, ma anche eccellente
astronomo che “in proprio”, avendone
ripercorse le scoperte; dalle macchie solari
alle irregolarità della superficie
lunare ai satelliti di Giove. E se egli fu
un deciso sostenitore dell’esistenza
del vuoto non era per una posizione preconcetta,
ma perché ne aveva verificata
l’esistenza con i suoi esperimenti e con
la determinazione del peso dell’aria
nella colonna di mercurio. Così come aveva
dato una formulazione del principio
di inerzia più precisa di quella dello stesso
Galileo e si era costantemente
dedicato ad osservazioni di vario genere,
ponendosi anche il compito di
contribuire allo sviluppo della nuova cosmologia,
attenta alla dinamica
terrestre, al sistema solare e all’universo
nella sua infinità. In altre
parole, la sua specificità di pensatore rispetto
ai metafisici dell’epoca sta
nel fatto di aver accompagnato costantemente
le sue riflessioni filosofiche con
la pratica scientifica, e di aver basato
il suo pensiero, per quanto possibile,
su “dati” reali.
Per
quanto Gassendi contaminerà egli stesso l’atomismo
con la teologia cristiana [209]
rimane un assertore della rigorosa separazione
della filosofia dalla fede,
vedendo nel cristianesimo gravi contaminazioni
aristoteliche [210].
Imputabili, ovviamente, specialmente alla
Metafisica, che egli
disprezza, mentre consiglia una maggiore
attenzione ad opere come gli Economici,
i Politici e la Storia degli animali [211].
Da un punto di vista ontologico va rilevato
che Gassendi apporta modifiche non
di poco conto dell’ontologia epicurea poiché
è proprio il problema dell’essere
ad assumere particolare rilievo. Se per il
greco la realtà dei corpi era data
da una sostanziale identità tra il soggetto
percipiente e il percepito, in
quanto sensazione emergente nel soggetto
conoscente stesso nel suo rapporto
sensorio con l’oggetto, per il francese la
realtà sta nell’esser corpo
indipendentemente dal venir percepito. Nella
lettura che Gassendi dà della Lettera ad Erodoto, a proposito del vuoto, dei corpi e degli
atomi,
tali elementi dell’ontologia epicurea assumono
una realtà concreta su cui
Epicuro aveva sorvolato, essendo il suo orizzonte
gnoseologico limitato al
“modo di darsi” del conoscibile e non al
suo essere. In Epicuro l’atomòs era un seme-potenza, che,
attraverso le aggregazioni operate dal casuale
movimento nel vuoto, produceva i
corpi reali; per Gassendi è invece un corpuscolo-base
della materia creata da
Dio in attuazione del suo progetto creazionale.
Ma la Creazione non è
necessariamente opera conclusa al sesto giorno
(Genesi, 1-2), essa pare continuare. Scrive Gassendi
nel Syntagma che la materia è corpo esteso
reale [212] e
che: «[Dio] creando la massa di Materia solubile
in corpuscoli, e anzi composta
di corpuscoli, quali particelle minime ed
ultime, abbia concreto insieme con
quella questi stessi corpuscoli.» [213]
Singoli elementi e totalità del mondo sarebbe
stati un frutto contemporaneo
della volontà di Dio; vuoto, atomi e corpi,
da oggetti di percezione per
Epicuro, diventano per Gassendi sostanze
reali [214].
Le Exercitationes
sono un contributo per ridare alla filosofia
il suo diretto rapporto col “dato”
reale, contro le astrazioni di un “pensato”
metafisico fittizio; da ciò i suoi interessi
con frequenti riferimenti all’operato di
categorie di lavoratori come i
tagliapietre e gli orafi, alle esperienze
dirette di botanici e zoologi. In
altre parole, è la pluralità dell’esperienza
in ogni singolo campo che produce
conoscenza, e non certo una generale e generica
conoscenza aprioristica basata
sul “pensato” meta-fisico; poiché è la fisica
la base sicura di ogni
speculazione sul reale. Nel Secondo Libro
si afferma: «ciascuna scienza, come ha
il proprio oggetto vero da conoscere, così
ha anche le proprie regole di
conoscenza.» [215];
quindi, la metafisica aristotelica, che si
pretende “fondamento” della scienza,
è scienza falsa. Ogni autentica scienza deve
infatti partire dal particolare
per giungere al generale e mai viceversa,
ed il procedimento sillogistico è del
tutto ozioso poiché non si dà deduzione corretta
se non da induzioni corrette sul
“reale”. Le costruzioni logiche sono del
tutto sterili e l’Organon
aristotelico (che all’epoca domina ancora
il sapere ufficiale) produce schemi
artificiali, inconsistenti, fuori della realtà.
Da ciò la considerazione:
Nelle categorie non
sono racchiuse le cose in se stesse, ma soltanto
concetti e nomi […] Credimi,
queste categorie non le troverai né sopra
il cielo, né al centro della terra,
né in aria, né altrove, ma le potrai
vedere soltanto in quanto vengono concepite
dalla mente o espresse dalla
voce, o tracciate sulla carta. [216]
Asserzione profonda, che delinea in modo
chiaro l’orizzonte gnoseologico a cui egli
guarda, in riferimento a quello che
definisce un «naturale desiderio di sapere
» che non può venire confuso con il
«costruirsi un sapere» su basi metafisiche.
Pur limitando la sfera di azione
della filosofia al fenomenico nell’atteggiamento
gassendiano non vi è nulla di
rinunciatario, ed ancora meno il rammarico
di non poter sapere ciò che sta
aldilà dell’apparenza; ed allora: «non
si può sapere di qual sorta sia una cosa
in se stessa o per sua natura, ma
soltanto come essa appaia agli uni o agli
altri.» [217]
Frase provocatoria ed in parte incoerente,
contrastante con altre che
riconoscono alla fenomenicità non soltanto
certezza conoscitiva, ma anche che ogni
rinuncia è un’espulsione. Provocazione voluta,
per evidenziare che ogni
rinuncia a conoscere l’ignoto pensandolo
inconoscibile significa negarlo,
poiché la conoscenza è progressiva e mai
conclusa. La scienza autentica, quella
di Galileo, che si istituisce come sapere
esclusivamente fenomenico, che non
pretende di fornire verità definitive, ma
“cerca”, è l’unica che può garantire
certezze cognitive. Appena si esce da tale
ambito, si inquina la scienza con la
menzogna metafisica e si perde ogni legame
con la conoscenza.
La consapevolezza che la
base del sapere stia nella ricerca su una
realtà pluralistica e mutevole, fa sì
che siano molteplici le discipline che vi
concorrono, tutte con pari dignità, ed
essa porta Gassendi a colpire duramente la
logica quale fondamento per
il conseguimento della verità. Essa è ciò
che altrove ha chiamato “scienza
delle parole” al posto di quella delle ”cose”,
e contro la quale così si
esprime: «La scienza è concepita da
Aristotele come conoscenza certa ed evidente
che si acquista tramite
dimostrazione; essa consiste nel procedimento
sillogistico che muove dai primi
e universali principi (definizioni).» [218] Tale procedere è errato,
poiché:
La definizione non può far conoscere la natura
dell’oggetto perché definire implica il ricorso a concetti sempre più
generali, fino al generalissimo ens che non rimanda ad altro e del
quale, proprio per questo, non può darsi
definizione; e se l’ens resta
sconosciuto, non si avrà conoscenza neppure
dei generi inferiori. [219]
Col sillogismo vanno perdute tutte le
fondamentali «differenze specifiche» tra
enti particolari e individuali,
producendo un formalismo astratto privo di
alcuna utilità gnoseologica. Il
sillogismo non fa conoscere assolutamente
nulla e diventa una mera «petizione
di principio» [220]
priva di alcun fondamento nella realtà.
L’aspirazione a conoscere il mondo in cui
viviamo è profondamente
radicata nell’uomo, costituendosi come un
«naturale desiderio di sapere » che è così
spiegato:
Finché vogliono
conoscere molti oggetti per mezzo dell’esperienza
e in quanto essi appaiono,
gli uomini manifestano un desiderio che ha
per guida la natura; ma non appena
desiderano oltre a ciò conoscere le nature
intime e le cause necessarie,
attingono un genere di scienza che spetta
alla natura angelica, o anche a
quella divina, ma non a povere creature umane.
[221]
Gli angeli possono accedere allo spirituale
meta-fenomenico, ma noi dobbiamo accontentarci
del materiale, il
fenomenico. Abbiamo qui l’assunzione di una
posizione che anticipa quella
di Kant, ma mentre questi la vedeva come
una carenza Gassendi la pone a base del conoscere
stesso, che è sempre e solo conoscenza
di fenomeni. La sfera del meta-fenomenico,
sottintende Gassendi, è da cogliere
solo nei testi sacri e nelle verità delle
sante dottrine, del contenuto dei
quali si dà “credenza” e non “conoscenza”.
La consapevole auto-limitazione che
il teologo si dà non è patita qui come un
vulnus intellettuale, ma come
la corretta de-limitazione di un certo ambito
operativo, fuori del quale si può
dare solo un’“invenzione” logico-dialettica
arbitraria che non ha nulla a che
fare con la conoscenza. Con l’anima si
può entrare in rapporto con Dio, ma solo
con la ragione si entra in rapporto
col mondo. Ed allora: « Con il raziocinio
non è consentito di andare aldilà di
conoscenze, che a loro volta siano oggetto
di esperienza e delle quali si possa
mostrare qualche apparenza sensibile.» [222]
Gassendi pare radicalizzare ancor più di
Bacone l’indispensabile legame
conoscenza-esperienza, fuori del quale si
dà solo invenzione; ma tale radicalizzazione
(l’avevamo già vista nell’inglese) mette
un po’ in ombra la matematica, la
quale (come aveva ben visto Galilei) è indispensabile
elemento di ogni sapere
scientifico che oggettivi il sapere sottraendolo
alla soggettività del
discorso. La formula matematica, come aveva
reso evidente Huygens, è l’unico modo di fissare in maniera non
equivoca il modo con cui funzionano gli enti
dell’universo e le leggi che lo
governano.
Gassendi intende mettere in opera una nuova
scepsi, che passi in
rassegna ed analizzi ogni forma di dogmatismo
al fine di evidenziarne le
manchevolezze gnoseologiche e gli aspetti
aprioristici che l’infirmano. In
questo orizzonte si staglia anche l’Epistolica dissertatio in qua praecipua principia
philosophiae Fluddi deteguntur (1630) con la quale il Nostro affonda il suo bisturi
nella
famosa Utriusque cosmo […] historia (1618) di Robert Fludd, opera nella
quale il fantasioso medico-teologo esoterico
inglese esponeva la sua concezione
del mondo ispirata al neoplatonismo, ma anche
alle più recenti teologie
massonico-rosacrociane. La teoria di
Fludd poneva un mondo reale, definito “typicus”, fatto ad immagine di
Dio quale Mundus archetypus, in cui materia e vita erano un prodotto
emanativo di un Dio “origine e modello”.
Un Dio che trovava conciliazione con
la dottrina cristiana e l’approccio al quale
poteva avvenire attraverso una
rielaborazione delle dottrine cabalistiche,
con un cospicuo condimento di
pratiche magiche e alchemiche che attraverso
una dialettica luce/tenebre
e simpatia/antipatia conduceva alla conoscenza del divino. Contro
questa
pretesa Gassendi si era direttamente impegnato,
ma contemporaneamente egli
affrontava anche il De veritate, prout distinguitur a revelatione
[…]
del poeta-teologo Herbert di Cherbury (1583-1648)
col quale erano poste
premesse, su base platonica, per una conciliazione
tra la religione naturale e
la rivelazione ebraico-cristiana, sì da apparire
come il primo esempio di teologia
deista. Ciò che il Nostro trovava intollerabile
in Herbert era la pretesa di
fondare dogmaticamente una via alla conoscenza
del mondo prescindendo sia dalla
realtà di esso e sia dai limiti della mente
umana. La tesi di Gassendi e che
l’uomo, per sua natura, ha accesso conoscitivo
a ciò che in qualche modo gli
riesce di riprodurre, ovvero che la mente
che pensa e la mano che lavora sono
connesse. Ora, solo gli aspetti più materiali
e fenomenici del mondo possono
dar luogo ad imitazioni umana, mai le essenze,
la conoscenza delle quali è
propria dell’onniscienza di Dio la cui onnipotenza
è riuscita a produrle. Il
francese operava qui una distinzione che,
mutatis mutandis, sarà poi la
stessa di Kant.
Ma anche nei confronti del poco più giovane
Cartesio il Nostro non è meno duro, ma nelle
Obiectiones del 1641 (che
egli scrive su sollecitazione di Mersenne)
egli si rivolge a Descartes con
circospezione:
Io le propongo [le Obiezioni] dunque, ma senz’altro disegno che
quello di una semplice proposizione che io
faccio, non contro le cose che voi
trattate, e che vi siete accinto a dimostrare,
ma solo contro il metodo e gli
argomenti di cui fate uso per dimostrarle.
[223]
Ciò che il Nostro contesta è proprio “quel
metodo” famoso, apparentemente inconfutabile,
e non gli oggetti cui esso si
applica. E d’altra parte un punto di frizione
con Descartes sta nel fatto importante
che per Gassendi l’anima dell’uomo è
materiale ed ha la stessa sostanza di quella
delle bestie [224].
Egli giudica intollerabile il tono assertorio
delle conclusioni cartesiane, che
nelle Instantiae egli non esita a definire come una sorta
di ipse
dixit presuntuoso e arrogante [225]. Ancora nelle Obiectiones egli domanda
a Descartes:
Diteci, vi prego, quale distinta conoscenza
voi avete della vostra
natura; poiché, dicendo solamente che siete
una cosa che pensa, voi alludete a
un’operazione che tutti conoscevamo, ma non
ci fate conoscere qual è la
sostanza che agisce, di quale natura essa
è. [226]
Gassendi si limita a rilevare che
un’asserzione di quel genere non spiega un
bel nulla. Infatti:
Quel che a noi manca, e che desideriamo raggiungere,
è il conoscere e
il penetrare all’interno di quella sostanza
la cui prerogativa è il pensare.
Ecco perché, siccome è questo ciò che cerchiamo,
sarebbe più opportuno che voi
ci diceste non già che siete una cosa che
pensa, ma in che consiste questa cosa
che possiede la capacità di pensare. [227]
Sia guardando alla realtà dei fatti e sia
alla correttezza delle premesse, l’identificazione
della res cogitans
col cogito è inconsistente; e non già perché sia valido
il concetto
aristotelico della forme sostanziali, ma
perché, non esistendo nessuna
possibile “esperienza” oggettiva sia del
pensare come azione e sia del pensiero
come fatto, la “cosa pensante” è data illegittimamente
per conosciuta dal
“pensatore” sulla base della percezione dei
propri “pensati”. Gassendi smentisce
così Cartesio, il quale, con l’identificazione
di sostanza pensante e pensiero nella
res cogitans e di sostanza estesa
ed estensione nella res extensa, riteneva di aver superato le
aristoteliche forme sostanziali eliminando
la difficoltà teorica che esse
ponevano. In realtà, Descartes, facendo ciò,
era soltanto ritornato a Platone,
ripristinando quel rapporto diretto tra anima
umana e sfera del divino che
Aristotele riteneva troppo misticheggiante.
Ciò
che preme a Gassendi è ribadire che del pensiero
non si dà alcuna esperienza e
che la relazione autoreferenziale pensante-pensamento-pensato
non permette in
alcun modo di metterlo sullo stesso piano
concettuale dell’estensione. Egli
ritiene pertanto che Cartesio abbia assunto
acriticamente il dualismo
platonico, presupponendo (e non già dimostrando)
l’esistenza del pensiero e
teorizzando l’esistenza dell’estensione senza
alcuna indagine e senza alcun
elemento probatorio [228].
Tale dogmatismo astratto fa dire al Nostro:
«Mi stupisco come voi osiate dire
che, dopo aver spogliato la cera di tutte
le sue forme, né più né meno che
delle sue vesti, concepite più chiaramente
e più perfettamente quel che essa
sia.» [229] E circa un concetto di corpo esteso che
intende prescindere dalle modalità del suo
presentarsi attraverso i suoi
attributi Gassendi domanda:
Questa specie d’estensione non potendo essere
indefinita, ma avendo i
suoi confini e i suoi limiti, non la concepite
anche come in certo modo
figurata? Poi, concependola in tal modo che
vi sembri di vederla, non le
attribuite voi qualche sorta di colore, benché
oscurissimo e confuso? [230]
Per il Nostro è inaccettabile pretendere
di
porre ciò che nella realtà esiste solo col
corredo dei propri attributi come
ancora esistente dopo averlo spogliato di
essi. Ma rimane anche il problema di
come Descartes abbia potuto teorizzare che
l’anima stia nella ghiandola
pineale, poiché questa è sempre un corpo;
come può un corpo produrre pensiero, l’extensa
produrre cogitans [231]?
Qual è, domanda Gassendi, la relazione ontologica
tra la ghiandola pineale e
l’anima? [232]
Ma
vi sono altri arbitri teorici di Descartes
anche più gravi, come quello (III
Meditazione) per cui siccome Dio “deve” esistere, e
in quanto Dio non ci
può ingannare, questa è l’unica realtà “indubitabile”
e quindi “certa” da cui
partire. Gassendi rileva ancora nelle V Objectiones che tale certezza
non può legittimamente essere posta sullo
stesso piano di evidenza di una
qualsiasi dimostrazione della geometria:
«Poiché, in effetti, queste
dimostrazioni [le geometriche] sono di una
tale evidenza e certezza che senza
attendere la nostra deliberazione, ci strappano
da loro stesse il consenso ». Questo
tipo di dimostrazioni non sono possibili
per l’esistenza di Dio senza cadere in
un circolo vizioso, per cui ciò che deve
essere dimostrato diventa il dimostrante
[233].
Ciò che viene contestato è la pretesa di
dare per “dimostrate” quelle verità di
fede che sono doverosamente “credute”, e
che tali debbono rimanere nella loro
sacralità, senza essere portate sul piano
di una ragione che nel pretendersi
dimostrativa si rende automaticamente falsa.
E’ solo come soggetti pensanti
(nella nostra mente) e mai oggettivamente
che possiamo immagine qualcosa di Dio
e ancor meno della sua infinità, sicché:
«Colui che dice una cosa infinita
attribuisce ad una cosa che non comprende
un nome [Dio] che egualmente non
capisce.» E quindi:
Tutte quelle alte perfezioni che siamo soliti
attribuire a Dio sembrano
essere state tratte da ciò che ammiriamo
ordinariamente in noi, come la durata,
la potenza, la scienza, la bontà, la felicità
e così via, alle quali avendo
dato tutta l’estensione possibile la vediamo
in Dio dicendo che è eterno,
onnipotente, onnisciente, sovranamente buono,
perfettamente felice e così via. [234]
E ancora:
Tutti questi attributi che date a Dio non
sono altro che un ammasso di
certe perfezioni che voi notate in certi
uomini o in altre creature, che lo
spirito umano è capace di estendere, di unire,
e di amplificare come gli piace.
[235]
Gassendi vede con estrema chiarezza che
all’infuori di ciò che si deve credere di
Dio (perché rivelato nelle Sacre
Scritture) tutto il resto è frutto di fantasia,
e resta tale qualunque sia il
sofisma logico-dialettico che pretende di
ratificarlo razionalmente. La
conclusione: «Vi ingannate grandemente se
credete avere l’idea della sostanza
infinita, che non può essere in voi che di
nome solamente, e nella maniera in
cui gli uomini possono comprendere l’infinito,
che, di fatto, è non
comprenderlo.» Per un verso viene smascherata
la presunzione cartesiana di
assiomatizzare ciò che è problematico, e
per altro verso viene anticipato
persino Feuerbach, poiché il Nostro pare
aver compreso chiaramente che nel
concetto di Dio l’uomo estende e concentra
le facoltà che egli scopre in se
stesso, facendosene un “ideale” trascendente.
È
nella Disquisitio contro Cartesio che Gassendi ci rende la
migliore
testimonianza del suo atteggiamento religioso
a favore del finalismo divino,
marcando così il suo distacco sia dal determinismo
fisico aristotelico e
cartesiano e sia dall’indeterminismo dell’atomismo
epicureo e lucreziano:
Forse in un’altra occasione avresti potuto
giustamente respingere l’uso
delle cause finali dalla speculazione fisica;
ma trattandosi di Dio è senza
dubbio da temersi che tu [Cartesio] respinga
l’argomentazione principale secondo
la quale la divina sapienza, Provvidenza,
potenza e perfino l’esistenza possono
essere stabilite con il lume naturale. Lasciando
da parte l’universo e il cielo
e le sue altre parti principali, da dove
mai, o in che modo sapresti dimostrare
meglio che muovendo dal funzionamento delle
parti nelle piante, negli animali,
negli uomini, in te stesso (o nel tuo corpo),
le argomentazioni che adduci a
similitudine di Dio? […] Ma non potendo alcun
mortale comprendere, né ancora
esplicare quale agente formi e collochi,
nel modo in cui ci risulta, quelle
valvole disposte alle aperture dei vasi nella
concavità del cuore […] qual
motivo c’è per cui almeno non si ammiri quello
straordinario meccanismo e
l’ineffabile provvidenza che ha apprestato
in maniera così appropriata alla
loro funzione di valvole? Perché non è lodata,
poi subito dopo deve essere
necessariamente ammessa quella causa prima
che avrebbe disposto queste e tutte
le altre cose in maniera così sapiente e
consonante con i suoi fini? [236]
E tuttavia Dio avrebbe potuto anche operare
la sua Creazione attraverso gli atomi in
maniera differente, rendendo possibile
persino una certa libertà di essi che avrebbe
implicitamente negato sia il
determinismo e sia il finalismo:
Niente vieta certo di supporre che alcuni
atomi siano inerti e che non
tutti siano dotati dello stesso grado di
mobilità […] Si può quindi spiegare il
motivo per cui alcuni dei corpi composti
sono mobilissimi, come il fuoco; altri
lentissimi, come la pietra; altri si pongono
per così dire in gradi intermedi,
come i vari generi degli animali. Niente
però proibisce anche di supporre,
insieme con gli stessi atomisti, che tutti
gli atomi siano forniti di una
grandissima e pari mobilità tra di loro;
infatti, che i corpi composti mostrino
maggiore o minore mobilità o inerzia, può
dipendere dal fatto che gli atomi, a
causa della loro forma e dimensione, siano
più liberi e più indipendenti. [237]
Come si vede col «Niente però proibisce anche di supporre»
Gassendi sembra
lasciare una porta aperta all’epicureismo
autentico, poiché la parenklisis
era posta un poco ambiguamente sia come frutto
della casualità e sia come
libertà dell’atomo di muoversi in modo non
pre-determinato. Non caso il Nostro non riprenderà l’argomento,
rendendosi
probabilmente conto di quanto sarebbe devastante
per la fede procedere oltre.
Con
le giovanili Exercitationes e con i diversi lavori costituenti la Disquisitio
metaphysica seu dubitationes et instantiae
adversus Renati Cartesii
metaphysicam del 1644 Gassendi aveva voluto colpire le discutibili
autoritates di
Aristotele e di Cartesio. Nel contempo egli
operava quella riconsiderazione
dell’atomismo antico che doveva portarlo
inizialmente a scrivere e pubblicare
nel 1647 il De
vita, moribus et placitis Epicuri, cui seguono, sulla stessa linea di
ricerca, i già citati Animadversiones e Syntagma philosophiae
Epicurei del 1649. Segue un lungo periodo di riflessioni
e studi che
porteranno alla stesura del Syntagma philosophicum che lo terrà occupato
sino alla morte e in cui Gassendi riassume
il suo punto di vista gnoseologico
in una formulazione definitiva e coerente. Va comunque notato che il progetto di occuparsi
di
Epicuro, e di “riformarlo” in senso cristiano,
datava da molto prima, dal
momento che in una lettera dell’aprile del
1631 egli scriveva ad un amico:
«Devo ancora porre qualche nuovo ragionamento
e qualche addolcimento nei punti
che vanno a intaccare la nostra fede.» [238].
Il Syntagma è costruzione teorica che
trova nel pensiero epicureo il suo fondamento
e dal quale è desunta la
concezione sensistica ed empiristica della
conoscenza. Quarant’anni prima di
Locke, e sia pure in maniera meno profonda,
Gassendi pone l’origine delle idee
nella sensazione. L’idea nasce come “anticipazione”
di conoscenza
immediatamente derivante dall’impressione
sensoria o attraverso una successiva
elaborazione mentale di tipo astrattivo-combinatorio.
E tuttavia è quella
primaria “immagine” anticipatoria resta la
base irrinunciabile di ogni
conoscenza della realtà fenomenica, quale
“materia prima”, su cui il cervello
opera le sue astrazioni e le sue combinazioni
concettuali. L’idea che la
deduzione sillogistica abbia carattere veritativo
è decisamente contestato, ritenendo
che anche alla base della deduzione vi sia
sempre un’induzione, di cui la deduzione
è costruzione finalizzata e mero camuffamento
strumentale. Ciò che viene
gabellato per un a posteriori è in realtà null’altro che un a priori
espresso in premesse poste ad hoc per giungere alla deduzione voluta [239];
da ciò nasce un criterio veritativo profondamente mistificatorio
che si ammanta
di cogenza logica. Va detto tuttavia che
in quest’opera della maturità Gassendi
intende andare oltre le considerazioni giovanili
delle Exercitationes,
per distaccarsi da uno scetticismo fenomenistico
e nello stesso tempo da un
riduzionistico attaccamento al dato empirico.
Nasce così la teoria del “segno
indicativo”, che si basa sì sul fenomeno,
ma estende le sue induzioni alle
possibili condizioni strutturali che lo rendono
possibile. Ed è proprio in una
ridefinizione dell’induzione che Gassendi,
ponendosi sulla linea baconiana, può
teorizzare l’esistenza degli atomi sulla
base di un induzione logica di tipo
esperienziale quanto razionale.
Il
problema fondamentale resta comunque la conciliazione
dell’atomismo epicureo,
rivisitato e aggiustato, con la fede cristiana.
È ovvio come l’operazione
comporti una “manipolazione” dell’atomismo
tale da riuscire a trovare una zona
di conciliazione tra due posizioni teoricamente
inconciliabili. Si comprende allora
come, partendo da una posizione rigorosamente
materialistica, il riuscire a
“piegarla” ad ammettere l’esistenza di sostanze
immateriali e spirituali non è
impresa semplice. Gassendi però pensa alla
costruzione di una nuova concezione
del mondo che per quanto di tipo non dogmatico,
in quanto basata
sull’esperienza reale, non cancelli i concetti
della metafisica ma li “integri”
nella fisica, mettendo a fuoco:
[…] ciò che conviene a tutte le parti dell’universo,
come per esempio,
il luogo, il tempo, i princìpi materiali,
le cause efficienti, i movimenti,
i cambiamenti, le qualità, la nascita, la
morte, e le altre realtà di questo
tipo. [240]
Vengono tuttavia, in qualche maniera, ricalcati
gli argomenti che proprio Aristotele aveva
fatto oggetto di trattazione nella Metafisica; da ciò si può cogliere anche un certo intento
“sostitutivo” dell’autoritas che Gassendi vuol mettere in atto. Punti
cruciali del Syntagma diventano però proprio i concetti di spazio
e di
tempo, i quali, sganciati da un sistema di
relazioni di carattere metafisico,
sia in quanto non oggetto diretto di esperienza
sensibile e sia in quanto
esterni ai “corpi” reali, diventano difficilmente
definibili in termini
sensistico-empiristici. Ma il Nostro sostiene: «Anche se non esistono dei corpi, resterebbero
pur sempre lo spazio
che sussiste e il tempo che scorre. Risulta
pertanto che lo spazio e il tempo
non dipendono dai corpi e non sono di conseguenza
accidenti dei corpi.» [241] Gassendi si vede così
costretto ad introdurre un tipo di concetti
in qualche maniera aprioristici, ma
l’aspetto importante è che egli coglie la
stretta correlazione di immensità,
stabilità, immobilità ed incorporeità. Per
quanto essi siano in parte misurabili,
sono del tutto impercepibili in quanto tali,
poiché non sensisticamente ma solo
psicologicamente noi abbiano l’impressione
di ciò che possono essere
l’estensione e la durata. Così anche il vuoto e gli intermondi
epicurei non debbono essere considerati incompatibili
con le postulazione
dell’infinità di uno spazio immaginario-immaginabile.
E da ciò un’asserzione
piuttosto audace, dove si ipotizza che lo
spazio e il tempo non siano nati,
come sosteneva Sant’Agostino, al momento
della Creazione del mondo, ma che gli preesistevano
e gli sopravvivranno, infatti: « […] come esistevano prima che Dio creasse
il mondo, così
sussisterebbero se Dio lo distruggesse.»
[242]
Nel capitolo Sul principio materiale,
ovvero la materia prima delle cose Gassendi procede ad una definizione
della materia sulla base delle leggi galileiane.
Una materia i cui ultimi
termini sono ancora gli atomi di Epicuro,
ma non più esistenti dall’eternità, bensì
creati da Dio. Essi sono sì gli elementi
fondanti la realtà materiale, ma sono
stati creati non in numero infinito, ma finito
(per quanto in numero enorme)
secondo la volontà divina. Come si comprende
bene il fine di Gassendi è di
mantenere la struttura dell’universo materiale
atomistico, ma deprivandolo di
ogni elemento di originarietà, eternità ed
infinità degli atomi, in quanto
l’”origine” del tutto è solo Dio. Con Galileo
egli tiene anche un’amichevole corrispondenza
e gli si rivolge nei seguenti termini:
Non potendo l’umana perspicacia procedere
oltre, tale è in te il candore
dell’animo che sempre riconosci la debolezza
della nostra natura. Per quanto le
tue congetture siano assai verosimili, tuttavia
per te non sono più che
congetture; e tu, come sogliono invece i
filosofi comuni, non inganni, né lo
permetti. [243]
Il Nostro ha fatto
propria la meccanica galileiana, ma rimane
convinto della validità dell’ontologia
dinamica atomistica, poiché in natura tutto
è movimento e mutevolezza e la
materia non è per nulla un “inerte” rispetto
allo spirito, ma è “per se stessa”,
fondamentalmente e dinamicamente, attiva
ed operante (la definisce actuosa).
Riprendendo l’innovazione concettuale epicurea
rispetto all’atomismo di
Leucippo e di Democrito (per il primo il
moto è “proprio” dell’atomo, per il
secondo è causato dai vortici) gli atomi trovano nel peso o gravità
non più solo un mero fattore densimetrico
che li fa posizionare nel vuoto,
bensì la vera causa di un dinamismo nel quale
egli intende includere tutti i
vecchi concetti, compreso quello di impetus, sì da scrivere:
La gravità o peso non è altro che una facoltà
o forza naturale ed
intrinseca, per cui l’atomo può muoversi
da se stesso; o, se si preferisce, una
propensione al movimento ingenita, innata,
connaturata e ineliminabile, una
spinta che è dall’interno, e un impeto. [244]
Questa
realtà dinamica a base atomica si realizza
sul piano della percezione umana con
le “cose” visibili e tangibili, le composte
res concretae che gli atomi
formano per aggregazione. In esse lo stato
di quiete si connota come una sorta
di esito inerziale dell’aggregazione stessa.
Per cui sussiste un livello
elementare (atomico) dell’essere materiale
caratterizzato da «conato perpetuo
ed agitazione continua», ed uno secondario
dove il movimento è provocato da un
unico genere di causalità, quella “efficiente”,
che determina il moto locale di
trasferimento del corpo da un punto ad un
altro dello spazio. Ma è il livello
elementare a determinare ogni mutamento fisico,
chimico e biologico sino al
livello sensoriale ed emotivo, con la sola
esclusione dell’anima e delle sue
facoltà (ragione e senso di Dio) che non
è originata dagli atomi ma dallo
spirito divino. Si comprende bene la sostanziale
incoerenza di questo sistema
gassendiano, che nel voler aggiornare l’atomismo
per conciliarlo con la fede ne
distrugge ogni coerenza. Ma è significativo
il fatto che il nostro teologo, che
già intorno alla metà degli anni ’30 ha avviato
tale rielaborazione, interrompa
per quattro anni il lavoro (dal ’37 al ’41)
per riordinare le sue idee al fine
di meglio “teologizzare” il proprio sistema,
ritenuto troppo fedele ad Epicuro
e perciò troppo materialistico.
Gassendi riesce, dopo l’interruzione, a trovare
la formula definitiva
soddisfacente, introducendo quegli elementi
finalistici che permettono all’atomismo
di assumere una struttura compatibile non
solo con la fede cristiana ma con
ogni altra teologia. Potrà così scrivere,
soddisfatto, di aver colpito le forme
volgari di religiosità, ma di averne conservato
l’essenza:
È vero che la
fisica e lo studio delle cause naturali liberano
la mente dai terrori provocati
dalla superstizione, ma ciò non impedisce
che dobbiamo religiosamente riconoscere
l’esistenza di una causa prima e suprema,
da cui dipenda la serie delle cause
che investighiamo in fisica. Chi non ne ammette
l’esistenza, non discaccia un
padrone superbo, ma avversa un ottimo padre.
[245]
È evidente qui l’abbinamento dell’elemento
ontologico con quello etico, ma con ciò gli
atomi divengono mere “cause
seconde”, che creano la realtà per conto
di Dio. Tenendo conto dei termini del
testo biblico in forza del quale il Nostro
ha aggiornato l’atomismo, resta
comunque la domanda senza risposta: perché
nel libro della Genesi non
vengano citati gli atomi come cause intermedie
nella produzione divina degli
enti mondani?
L’elemento etico ritorna nelle successive
parti del Syntagma dove più pressante diventa
l’elemento religioso, ma dove l’elemento
“intellettuale” (proprio dell’anima)
deve in qualche modo esser calato nel corpo
e connesso all’apparato nervoso per
dar conto dei vari toni e moventi della psiche
umana. Per risolvere il problema
Gassendi di vede costretto a porre due
piani differenti sui quali la mente umana
si trova ad operare. Uno “superiore”,
quello che si pone in rapporto diretto con
Dio e che opera su terreno della
razionalità, ed uno “inferiore” dove vengono
rimessi in gioco gli “spiriti animali”
della tradizione metafisica, gli occulti
agenti delle complesse funzione
organiche. In questo modo egli si vede costretto
a porre accanto all’anima
sensibile e corporea (fonte della vita ed
uguale per tutti gli animali) anche
un’anima razionale incorporea [246]
aprendo problemi di incoerenza non da poco.
Ciò segna anche il distacco netto
da un epicureismo diventato un fantasma ed
il ritorno nell’alveo di una
tradizione metafisica che gli fa rimettere
in gioco le distinzioni platoniche e
nel contempo lo porta vicino al poco più
anziano Hobbes. Nel descrivere « la
continua agitazione degli spiriti, che percorrono
tanto il corpo intero quanto
il cervello » il cervello appare ora come
una struttura nettamente corporea (e quindi
distinta da un’anima che torna “spirituale”)
quale sede di un vasto campo di
esperienze umane che si collocano al limite
superiore delle corporee ed a
quello inferiore delle intellettuali-spirituali.
Questa struttura opera in modo
associazionistico e può essere visto
come «una carta capace di ripresentare innumerevoli
pliche ben distinte, in
base al loro ordine e successione » [247]
Il fine di ogni operazione mentale è però
sempre quello di conciliare il nostro
pensiero con la realtà, e solo attraverso
l’esperienza il pensiero ottiene una “ratifica”
sulla base di un’”evidenza” sperimentale
che autorizza l’assunzione della
“certezza”, poiché: «Per la scienza si richiedono
soltanto due condizioni,
l’evidenza e la certezza.» [248]
Accanto al cervello e all’anima quali strutture di
elaborazione della sensazione, dell’emozione
e del pensiero ai vari livelli Gassendi rimette
anche in gioco il cuore,
quale sede dei fenomeni più strettamente
connessi alla sensibilità umana e alle
facoltà immaginative. Più precisamente
gli spiriti animali trovano tra cervello
e cuore un percorso diretto e la loro
azione genera in questo le varie forme del
desiderio. In tale machina
primaria pulsante, che si manifesta nella produzione
di sistole e diastole
come effetti attrattivi e repulsivi, Gassendi
vede determinarsi «una certa
espansione per l’immaginazione del bene,
o una contrazione per l’immaginazione
del male.» [249] A
questo punto il Nostro rimette in gioco l’etica
epicurea ponendo su base
psico-fisiologica il rapporto piacere/bene e quello dolore/male,
col quale l’aponìa diventa conseguibile attraverso il controllo
dei
diversi tipi di desiderio che si formano
nel cuore, ma essendo in relazione con
l’anima, quale caput divinum nell’uomo. A questo punto l’edoné
epicurea si eleva di livello ed il piacere
assume connotazioni morali
conciliabili con la fede cristiana coincidendo
con l’elevazione dell’anima,
mentre, al contrario la molestia (il dispiacere) diventa un
“avvilimento” di essa. Ma rientra anche dalla
finestra il Summun Bonum
aristotelico, l’aspirazione al quale si veste
delle specie delle gassendiane philedonia
(tendenza al piacere) e philautia (realizzazione di sé).
Sia
pure in riferimento all’anima, l’etica gassendiana
resta comunque un
eudemonismo, dove il comportamento virtuoso
non è fine ma mezzo, e dove la
saggezza si esprime in un saper valutare
piaceri e rinunce in funzione di una
felicità che intende conciliare le esigenze
del corpo e quelle dell’anima.
L’assenza di dolore, l’aponìa, e l’assenza di turbamento, l’atarassia,
poste dall’epicureismo, si collocano così
al vertice di un gerarchizzazione
degli stati d’animo nell’uomo che tuttavia
presuppongono la salute del corpo
come elemento sine qua non, e non quella dell’anima secondo gli usuali
parametri teologici. E tuttavia Gassendi
va anche oltre l’edonismo
eminentemente statico di Epicuro sostenendo
che il piacere vero si colloca in
una via di mezzo tra il piacere statico e
quello violento, assumendo la
caratteristica di un «placido movimento da
un bene già acquisito verso un altro
da ottenere » che si configura «come
l’acqua di un fiume che scorre placido e
senza rumore.» [250]
Restiamo qui sostanzialmente nella sfera
dell’etica edonistica epicurea, pur
rivedendole i termini in senso più dinamico,
ma mentre il greco sconsigliava la
vita pubblica ed associativa, limitandosi
a considerare il rapporto amicale
come l’unico modo positivo di realizzare
la socialità, il francese rivaluta i
rapporti umani in senso lato.
La
socialità per Gassendi è elemento ineliminabile
dell’umanità ed in ciò egli
aderisce all’opinione di Hobbes, che conosceva
bene ed apprezzava, nel ritenere
che «dal fatto di esistere l’uomo trae la
facoltà di difendersi e di
conservarsi, e pertanto di avvalersi di tutti
i mezzi che sono necessari,
idonei e utili a tale scopo.» [251]
Ma una differenza non di poco conto sta nel
fatto che mentre Hobbes guardava
solo alla totalità statuale e ignorava totalmente
la sfera del privato,
Gassendi guarda alla sfera pubblica ma sempre
tenendo presenti le esigenze
dell’individualità. In altre parole, mentre
a Hobbes preme l’utilità
“pubblica”, a Gassendi, in ciò fedele ad
Epicuro, interessa soprattutto
l’utilità “privata”. I diritti dell’individuo,
in termini di autoconservazione
e di benessere, devono sussistere anche qualora
il cittadino rinunci a una
parte del “mio” a favore del “nostro”, ma
qualsiasi forma collettiva dettata
dal «comune consenso» resta subordinata all’utilità
individuale di chi concede
il consenso stesso. Gassendi opera così sul
terreno giuridico-politico una
curiosa fusione di Epicuro, Grozio e Hobbes,
dove la mutualità e la
collaborazione non sono meno determinanti
dell’aggressività convertita al bene
comune. E tuttavia il Nostro si stacca nuovamente
da Epicuro (che non crede
nello stato) quando sostiene:
Essendo il fine della società l’utilità sopra
descritta, anche il
vantaggio individuale è compreso in quello
comune, a tal punto che il singolo non può ottenerlo
in
modo reale e sicuro se prima non sia stato
assicurato quello collettivo, ciò che
non può aversi se non in quanto ognuno, pago
del suo diritto, rinunci a
perseguire la propria utilità a danno del
diritto altrui. [252]
2.5 L’esperienza e la conoscenza in Locke
Lo scenario prodromico dell’Illuminismo nel
secolo XVII è dominato dalla figura di John
Locke, sicuramente colui che ha
posto in maniera più netta le basi del superamento
della metafisica barocca.
Nato nel 1632, fa ottimi studi classici,
ha rapporti di amicizia con Sydenham,
con cui studierà medicina, e col grande chimico
Boyle; essi lo aiuteranno ad
alimentare la sua cultura umanistica di base
con elementi importanti di quella
scientifica, mentre lo studio di Cartesio
e Gassendi gli consente di acquisire
una formazione filosofica più completa. Per
quanto i suoi studi di politica, di
etica e di pedagogia siano estremamente importanti,
ai fini della nostra
ricerca ci soffermeremo sul Saggio sull’intelletto umano (o sull’intelligenza
umana) in quanto è l’opera con cui il Nostro affronta
il problema
gnoseologico, confutando l’innatismo delle
idee e conducendo un’analisi
dell’esperienza quale fondamento della formazione
di esse. A questo proposito
va notato che, per quanto Locke non venga
considerato un sensista in senso
stretto, in realtà, egli sviluppa il suo
razionalismo proprio sulla base delle percezioni
sensoriali come fonti di ogni conoscenza.
Ma come si estrinseca il suo
razionalismo? Non certo con la fondazione
di un “sistema”, ma nell’avviarsi su
una strada di ricerca sulla realtà; i cui
svolgimenti, come tutte le ricerche
serie, possono anche registrare qualche incoerenza,
come la complessità della
realtà e un approccio non pregiudiziale e
programmatico possono sempre produrre. È questa la ragione per cui anche il suo
più
importante scritto, il Saggio appunto, rivelare delle incoerenza, ma ciò
proprio perché le diverse parti partono da
differenti punti di visuale, puntano
l’attenzione su differenti oggetti, svolgono
differenti percorsi. Locke,
d’altra parte, è un filosofo vero, un ricercatore
sul reale, non un
“fabbricante” logico-dialettico, un ragionatore
metafisico alla maniera di Cartesio,
Spinoza, Leibniz o Berkeley; e quindi, soprattutto,
un “asistematico”.
Veniamo ora al testo, che si apre con un’Epistola
al lettore dove si premette che il compito del Saggio è «vedere
quali oggetti siano alla portata della nostra
intelligenza, e quali invece
siano superiori alla nostra comprensione.».
Programma apparentemente
minimalista, che testimonia una grande modestia
intellettuale insieme con la
saggezza di riconoscere degli insuperabili
limiti alle nostre capacità
conoscitive. Ma nello stesso tempo si tratta
di operare una fondamentale
distinzione tra il conoscere, proprio di
un vera filosofia, e l’“inventare”
della metafisica. L’assunto è ripreso nell’Introduzione al Capitolo
primo nei seguenti termini:
Questo
dunque essendo il mio intento – di esaminare
l’origine, la certezza e
l’estensione della conoscenza umana, nonché
i fondamenti e i gradi della
credenza, dell’opinione e dell’assenso –
non mi confonderò qui a considerare la
natura dell’anima. [253]
Locke, sincero cristiano,
crede nell’anima, ma esclude subito che le
credenze religiose possano diventare
oggetti di conoscenza (la stessa posizione
già di Gassendi). E più oltre:
È dunque cosa ben degna
delle nostre cure, cercare i limiti che dividono
l’opinione dalla conoscenza,
ed esaminare in base a quali criteri, nelle
cose di cui non abbiamo una
conoscenza certa, dobbiamo regolare il nostro
assenso a determinare il grado
della nostra persuasione. [254]
Siamo qui di fronte all’esatto
opposto del dubbio sistematico cartesiano.
Locke ritiene che sia possibile una
conoscenza “certa” delle cose del mondo,
distinguendola dall’assenso e della
persuasione, e dopo aver demolito l’innatismo
nei quattro capitoli del Primo
libro passa nel Secondo all’analisi del formarsi
delle idee nella nostra mente.
Leggiamo al § 2:
Supponiamo
dunque che la mente sia quel che si chiama
un foglio bianco, privo di ogni
carattere, senza alcuna idea. In che modo
giungerà esso ricevere delle idee?
[…] Donde ha tratto questi materiali della
ragione e della conoscenza? Rispondo
con una sola parola: dall’esperienza. È questo
il fondamento di tutte le nostre
conoscenze; da qui esse traggono la loro
prima origine. Le osservazioni che
facciamo sia intorno agli oggetti esteriori
e sensibili, sia intorno alle
operazioni interiori della nostra mente,
che percepiamo e sulle quali noi
stessi riflettiamo, forniscono la nostra
intelligenza di tutti i materiali del
pensiero. Sono queste le due sorgenti da
cui discendono tutte le idee che
abbiamo o che possiamo avere naturalmente.
[255]
La materia prima che produce
le idee è l’esperienza; in essa vi è la loro
origine ed ogni loro sviluppo. Non
il ragionamento astratto, quindi, ma ciò
che si dà attraverso i sensi:
Dico
che i nostri sensi fanno entrare tutte queste
idee nella mente, intendendo con
ciò che, dagli oggetti esteriori, essi fanno
passare nella mente ciò che vi
produce queste percezioni E poiché questa
grande fonte della maggioranza delle
idee che abbiamo dipende interamente dai
nostri sensi, e si comunica
all’intelligenza per mezzo loro, io la chiamo
sensazione. [256]
Locke tuttavia aggiunge
subito che non tutte le idee sono frutto
della sensazione, poiché
altre si formano attraverso «le riflessioni
dell’anima», dando luogo ad
«un’altra specie di idee» che sono frutto
del «senso interno». Le nostre idee
hanno infatti una doppia fonte: una primaria
che è la “sensazione” ed una
secondaria che è la “riflessione” [257]. Il Nostro ci precisa di non essere un
sensista puro, ma di considerare in tutta
la sua estensione e profondità un
processo elaborativo della sensazione, proveniente
dall’esterno, con la
riflessione quale processo interno. Rimane
il fatto che «Domandare quando l’uomo
cominci ad aver qualche idea significa domandare
quando egli cominci a
percepire: poiché avere delle idee e percepire
sono una sola e medesima cosa.» [258] Il processo di formazione delle idee è descritto
come segue:
Non vedo dunque nessuna ragione di credere
che l’anima pensi prima che i sensi le abbiano
fornito delle idee a cui pensare
e, via via che il numero di queste idee cresce,
e che esse si conservano,
accade che l’anima, perfezionando con l’esercizio
la sua facoltà di pensare
nelle sue diverse parti, nonché combinando
poi queste idee, e riflettendo sulle
proprie operazioni, accresce il suo patrimonio,
nonché la sua facilità nel
ricordare, immaginare, ragionare, e negli
altri modi del pensiero. [259]
Come si evince
chiaramente, l’anima per Locke non è altro
che il cervello, si parla infatti
delle «sue diverse parti», e tale tipo di
considerazioni fa evidentemente
riferimento alle sue nozioni di medicina.
Ma le idee possono essere “semplici”
o “complesse”, sia se frutto della sensazione
sia se frutto della riflessione,
e le semplici possono derivare da un solo
senso o da più sensi [260] per
quanto vi siano anche idee semplici che derivano
dalla combinazione di
sensazione e riflessione [261]. Non ci addentreremo oltre in questa prima
classificazione e nelle sue articolazioni
per passare direttamente al punto in
cui Locke attribuisce alla “qualità” di un
oggetto o di un fatto la capacità di
produrre quella tal idea specifica nella
nostra mente, ribadendo anche la
differenziazione galileiana tra qualità primarie
e secondarie [262]
Un’ulteriore importante considerazione riguarda
il fatto che «le idee che ci
vengono per la via della sensazione sono
spesso alterate dal giudizio, negli
adulti, senza che essi se ne accorgano».
È un monito ad essere guardinghi sul
fatto che, data una percezione,
«immediatamente il giudizio» vi
si sovrappone, ed esso: «per inveterata abitudine,
trasforma le apparenze nelle
loro cause.»
Locke chiama la conservazione delle
sensazioni nella nostra mente ritenzione. Questa si verifica in due
modi: quello della contemplazione, se l’idea dell’oggetto percepito
mantiene un rapporto diretto con la sua percezione
stessa, e quello del ricordo,
quando la percezione ha subìto un’elaborazione
complessa ed è finita come idea
definita in qualche nicchia della memoria,
dalla quale il ricordo la “richiama”
alla coscienza:
È in questo senso che si può dire che le nostre
idee sono nella memoria; benché, in verità,
esse non si trovino in alcun luogo.
Tutto ciò che si può dire su questo punto,
è che la mente ha la capacità di far
rivivere ancora queste idee quando vuole,
e, per così dire, di ridipingerle a
se stessa: il che taluni fanno più
facilmente, altri più a fatica; alcuni più
vivacemente e altri in modo
più oscuro. E solo grazie a questa facoltà
si potrà dire che noi abbiamo
nell’intelligenza tutte le idee che possiamo
richiamare nella nostra mente, e
farne nuovamente oggetto dei nostri pensieri,
senza l’intervento delle qualità
sensibili che le hanno inizialmente suscitate
nella mente: sebbene quelle idee
non siano difetto da noi presentemente contemplate.
[263]
La riflessione è
importante perché chiarisce il rapporto che
noi intratteniamo con la fonte
delle idee, la sensazione; ciò avviene per
un tempo più o meno lungo attraverso
la memoria, senza che sia necessario ripetere
la contemplazione, poiché la
mente «ridipinge a se stessa» la sensazione
e ne riproduce le connotazioni.
Ora, se si ricorda che il giudizio ha già alterato, immediatamente, la
sensazione, con una sua elaborazione cognitiva,
viene sottintesa anche la
possibile discrasia tra una conoscenza sensoria,
potremmo dire di primo grado,
dall’acquisizione di tale conoscenza come
“nozione” attraverso il ricordo. Ciò
non significa affatto che la sensazione pura
sia foriera di un’idea più corretta
di quella elaborata nell’idea “che giudica”,
ma è implicita l’opportunità, ove
e quando possibile, di una ri-verifica esperienziale
“del reale”, per
confermare la validità di una certa idea.
Ed infatti è aggiunto subito che
«L’attenzione e la ripetizione servono molto
a fissare le idee nella memoria»,
e che ciò è molto importante perché «le impressioni
più profonde e durevoli,
sono quelle accompagnate da piacere o dolore»
[264]
Fin’ora Locke ha trattato di idee che si
formano nella mente attraverso la “passività”
di essa, si tratta ora di
esaminare quelle dove si ha “attività”, poiché
è da essa che derivano le idee
complesse, comprese quelle astratte. Da ciò:
Gli atti della
mente, nei quali essa esercita il proprio
potere sulle sue idee semplici, sono
principalmente queste tre: 1) Il combinare
varie idee semplici per formarne una
complessa; 2) Il mettere assieme due idee,
semplici o complesse, e giustapporle
l’una all’altra, così da poterle contemplare
assieme, senza unirle in una sola;
e per tal modo la mente ottiene tutte le
sue idee di relazioni. 3) Il terzo
tipo di atti consiste nel separare un’idea
da tutte le altre che la
accompagnano nella sua esistenza reale; è
ciò che si chiama astrazione, e in
tal modo si formano tutte le idee generali
della mente. [265]
Abbiamo qui un
quadro esauriente della funzionalità mentale
e delle sue complicate
elaborazioni, cui segue la classificazione
delle idee complesse in modi,
sostanze e relazioni [266] Ma
ciò che è più interessante è la pragmaticità
anti-dogmatica del Nostro, che
nell’affrontare il concetto di spazio afferma
ironicamente: «Se qualcuno mi
domanda che cosa sia questo spazio di cui
parlo, glielo dirò quando egli mi
dica, a sua volta, che cosa sia la sua estensione.»
La metafisica ci ha talmente
abituati a nutrirci delle sue tautologie
logiche che nasce la domanda:
Poiché, in che
senso mi troverò io meglio informato intorno
alla natura dell’estensione,
quando mi avranno detto che l’estensione
consiste nell’avere delle parti che
sono estese, esteriori ad altre parti che
sono estese; ossia, che l’estensione
consiste di parti estese? [267]
Da ciò la
conclusione: «Io cerco quando posso di liberarmi
da quelle illusioni che
andiamo soggetti a fare, scambiando delle
parole per delle cose.» [268] Se ci si domanda in che cosa Locke sia stato
una sorta di levatrice dell’Illuminismo la
risposta sta tutta in questo invito
a non “scambiare le parole per le cose”,
ciò che la metafisica fa da sempre a
cominciare da Platone, che Theodor Gomperz
ha definito giustamente colui che
per primo si è inventato “la concretizzazione
del concetto” [269].
Locke si sofferma sui concetti di piacere
e
di dolore nel capitolo XX del Secondo Libro:
essi sono idee semplici dei sensi
ed assumono un importanza fondamentale per
il nostro approccio alla conoscenza.
Poiché:
Chiamiamo bene ciò
che è atto a produrre piacere o accrescere
qualunque piacere, o a diminuire la
pena, oppure a procurarci o conservare per
noi il possesso di un qualunque
altro bene o l’assenza di qualunque male.
E, al contrario, chiamiamo male ciò
che è atto a produrre o accrescere qualunque
dolore, o a diminuire in noi il
piacere, oppure a procurarci un male o a
privarci di un bene. [270]
Si tratta della
prima volta, dopo almeno quindici secoli
di teologia cristiano-idealista, che
qualcuno afferma chiaramente che il concetto
di bene è strettamente collegato a
quello di piacere, cui si contrappone il
binomio male-dolore. E siccome
qualcuno potrebbe pensare che l’affermazione
riguardi solo il corpo, Locke
precisa subito:
Bisogna intendere
che parlo di piacere e dolore in rapporto
al corpo e alla mente, secondo che
essi vengano comunemente distinti; benché,
in verità, si tratti soltanto di
differenti stati della mente, talvolta causati
da un disordine del corpo, e
talvolta dai pensieri della mente. [271]
I concetti di bene
e di male sono effetti in cui la mente e
il corpo sono intercambiabili come
cause, ed anche «le nostre idee dell’amore
e dell’odio non sono che le
disposizioni della mente relative al piacere
e al dolore in generale, comunque
siano prodotti in noi.» [272]
Nel
capitolo ventunesimo Locke passa a trattare
della volontà e della libertà, con
un assunto: «Il potere di pensare non opera
sul potere di scegliere, né il
potere di scegliere su quello di pensare».
Ritenendo che «non sia appropriata
la domanda se la libertà sia libera, ma invece,
se l’uomo sia libero» [273], ne
deriva che: «un uomo non è libero di volere
o non volere una cosa qualunque che
sia in suo potere una volta che l’abbia considerata:
poiché la libertà consiste
nel potere di agire o di omettere l’azione,
e in questo soltanto.» [274]
Considerare più possibilità significa scegliere
di fare o non fare, ed è
nell’attuazione della scelta che si manifesta
l’esistenza o meno della libertà.
Ma la volontà, oltre che a un scelta razionale,
può ubbidire ad un desiderio
irrazionale, ed in entrambi i casi l’uomo
finisce per esser “determinato” a
fare una cosa e non un’altra indipendentemente
dalla possibilità di volere fare
il contrario [275].
Abbiamo qui l’ammissione di un certo determinismo
di un’azione quasi obbligata
nelle sue premesse, sì da escludere la volizione.
In realtà a Locke interessa
problematizzare la questione, ammettendo
l’esistenza di un determinismo delle
“motivazioni”, quali cogenze a fare o non
fare, e nello stesso tempo ad
assicurare la fondamentale possibilità dell’uomo
di esercitare, “in ogni caso”,
la propria libertà previa un’accurata valutazione
dei pro e dei contro. Perciò:
La libertà che ha
l’uomo sta in questo [nella riflessione sulle
varie possibilità di agire e
sulle probabilità di riuscire]: e dal non
usarla giustamente è tutta quella
massa di sbagli, errori e difetti nei quali
cadiamo nella condotta della nostra
vita e nei nostri sforzi verso la felicità:
ossia dal fatto che precipitiamo la
determinazione della nostra volontà, e ci
impegniamo troppo presto prima di
avere debitamente esaminato la cosa. [276]
I successivi capitolo del Secondo libro
(dal XXII al XXXIII) sviluppano i concetti
di relazione, di causa e di effetto,
di identità e diversità della fantasia e
delle associazioni di idee; analisi molto
acute, ma che ai fini della nostra ricerca
non rivestono un interesse
particolare Nel Terzo Libro Locke passa ad
occuparsi del linguaggio e del
discorso; al centro di tale analisi sta,
ovviamente, la parola. Egli opera,
anche in questo, una decisa messa in mora
dell’assolutizzazione del linguaggio
in rapporto all’essere, tanto cara ai logico-dialettici
che per mezzo dei
meccanismi del linguaggio “creano” l’essere
stesso in tutte le sue articolazioni
sacre e profane. Il Nostro sostanzialmente
ci dice che il linguaggio è uno
straordinario strumento di comunicazione,
ma privo di perfezione,
approssimativo e spesso equivoco. Il suo
scetticismo circa la capacità del
linguaggio di tradurre la realtà nel discorso
umano si coglie in questa
asserzione al § 22 del capitolo IX: «Di questo
son certo, che, in tutte le
lingue, il significato delle parole, dipendendo
in gran parte dai pensieri,
nozioni e idee di chi le usa, inevitabilmente
sarà incertissimo anche per gente
della stessa lingua e paese.» [277] Il
problema che Locke intravede è anche quello
per cui la parola, già di per se
stessa gravata da imperfezioni semantiche,
è spesso soggetta ad abusi di vario
genere, tra i quali, particolarmente grave,
quel parlare intellettualistico e
poco chiaro:
Un altro abuso del
linguaggio è l’affettazione dell’oscurità,
ottenuta, o applicando parole
vecchie a significati nuovi e inconsueti,
o introducendo termini nuovi e
ambigui, senza definirli, oppure mettendoli
assieme in tal modo da confondere
il loro significato ordinario. Sebbene, in
questo difetto, si sia fatta molto
notare la filosofia peripatetica, altre sette
non ne sono state però del tutto
monde. [278]
Va tenuto presente
che la “setta peripatetica”, ovvero gli esponenti
della falsa scienza
aristotelica, era la dominatrice incontrastata
delle università europee sino a
tutto il Seicento, ed in Francia e in altri
paesi meno progrediti sino alla
metà del Settecento. Un dominio che aveva
impedito per lungo tempo l’ingresso in
ambito accademico della scienza vera, che
era costretta a manifestarsi pertanto
soltanto in circoli ed accademie esclusivamente
privati e su base
volontaristica, senza l’apporto di alcuna
risorsa pubblica. Ma qui l’appunto di
Locke intende anche colpire il discorso intellettualistico
in generale, quello
che sceglie l’”oscurità” per darsi un tono
e creare uno stacco tra sé e
l’ascoltatore allo scopo di metterlo in soggezione.
Vizio peraltro antico,
tipico delle culture di retroguardia, che
nell’Illuminismo avanzato conosce una
relativamente breve fase di eclisse, per
ritornare in piena luce ed imperante
con l’idealismo tedesco dell’Ottocento. Ma
Locke intende anche colpire
«l’ammirata Arte del Disputare» poiché a
causa di essa «la vittoria non sarà
aggiudicata a chi abbia la verità dalla sua
parte, bensì a chi abbia l’ultima
parola nella disputa.» [279]
Nel Quarto libro, dal titolo Della
conoscenza e della probabilità, è messo a fuoco il problema gnoseologico
in
maniera più specifica. La proposizione 2.
del Primo Capitolo afferma:
La conoscenza,
dunque, altro non mi sembra essere che la
percezione del legame e concordanza,
o della discordanza e contrasto, tra idee
nostre quali che siano. Essa consiste
soltanto in questo. Dove c’è questa percezione,
là è conoscenza; dove non c’è,
sebbene possiamo fantasticare, indovinare
o credere, tuttavia non arriviamo mai
alla conoscenza. [280]
L’affermazione è
molto importante per comprendere l’atteggiamento
gnoseologico di Locke; essa
consta di due elementi. Il primo: il conoscere
è un rapporto tra idee e non tra
idee e cose o fatti reali. Il secondo: se
il confronto tra differenti idee
conduce a concordanza, ciò è percepito come
“vero”, se come discordanza, falso.
Percepire, vale qui per Locke riconoscere.
È il riconoscimento della
concordanza, della corrispondenza, del legame
logico, tra diverse idee che
“costruisce” la visione corretta della realtà.
Dove questo processo di
“percezione” della verifica e del riconoscimento
non è possibile, ciò significa
che ci troviamo di fronte a qualcosa che
si può anche “credere”, ma che è fuori
della conoscenza. Il Nostro passa poi a indicare
quattro specie di
concordanza/discordanza: I. Identità o diversità,
II. Relazione, III.
Coesistenza, o connessione necessaria, IV.
Esistenza reale, che esaminati
separatamente forniscono la cornice entro
la quale si dà il conoscere [281]. I
gradi del conoscere, in senso stretto, si
estrinsecano nell’intuizione e
nella dimostrazione, ma Locke associa loro anche la sensazione
come terzo grado di conoscenza; e tuttavia
essa, in quanto origine delle idee,
può essere considerata anche “primaria”
rispetto alle altre due [282]. Ne
esce una circolarità della conoscenza, dove
sensazione, intuizione e
dimostrazione convergono e collaborano per
la costituzione di un conoscere
possibile, che è legittimato a definirsi
come “certezza” nella misura in cui la
pluralità dei confronti e delle verifiche
lo rende attendibile, e non certo da
sillogismi logici, formali, meccanici e astratti.
La conoscenza è fatta di idee ma ciò non
significa che ciò di cui non abbiamo idee
non esista, infatti: «vi sono certe
cose, e non sono poche, che ignoriamo per
mancanza di idee» [283]
L’idea, quindi, non esaurisce la realtà del
cosmo in generale, ma è soltanto
una “realtà antropica” che testimonia il
nostro accesso conoscitivo ad esso,
senza che ciò porti, di per sé, alcuna certezza.
È semmai la quantità delle
idee su un determinato oggetto, la loro tipologia,
i loro intrecci, le loro
relazioni, a rendere probabile il
conseguimento della certezza [284] Il Capitolo IV pone il problema Della
realtà della nostra conoscenza ed affronta le obbiezioni possibili e i
pro
e i contro rispetto all’accertamento della
conoscenza, precisando:
In questo, dunque,
è fondata la realtà della nostra conoscenza
intorno alle sostanze: che le idee
complesse che ne abbiamo debbono essere quelle,
e quelle soltanto, che sono
costituite da idee semplici di cui si sia
scoperto che coesistono in natura. E
le nostre idee, in tal modo, essendo vere,
anche se non siano forse delle copie
esattissime, saranno tuttavia oggetti di
conoscenza reale (per quel tanto che
possiamo averne) di esse. [285]
Sono indispensabili
per il conseguimento del conoscere « quelle,
e quelle soltanto» idee «che
coesistono in natura », ovvero che escono
dalla natura e non da fantasie o da
pratiche umane (come la logica formale) che
da essa prescindano. La
“coesistenza” di idee e natura, e la loro
confrontabilità, è l’unica garanzia
per il conseguimento di una certezza. Solo
la natura è la realtà oggettiva dell’essere,
in quanto costituita da “cose”,
“fatti”, “dati”; la loro percezione, producendo
idee “sul reale”, è la “materia
prima” di ogni conoscere. La conclusione
è la seguente: «Dovunque percepiamo la
concordanza o discordanza fra le idee nostre
quali che siano, là è conoscenza
certa; è dovunque siamo certi che quelle
idee concordino con la realtà delle
cose, là è conoscenza reale certa.» [286]. Sulla
base di tali considerazioni Locke passa,
nel Capitolo Quinto, a definire la
verità “in generale”, quella che riguarda
la fenomenicità del cosmo, il
percepibile, e non la sostanzialità, il supposto non-percepibile. Noi
accediamo alla vera conoscenza esclusivamente
«quando le nostre idee siano tali
che noi sappiamo che possono avere un’esistenza
in natura.». Chiude questo capitolo
una precisazione sintetica circa verità sempre
“relative”, come quelle logiche,
metafisiche o morali; si tratta di verità
«non in senso stretto», che implicano
una «persuasione» o una «proposizione tacita».
Il Nostro aggiunge sbrigativamente:
«basterà qui averne fatto menzione.» [287] Finiamo con un cenno al Capitolo X, che ha
per
tema Dio e dove Locke conferma la sua fede
sincera, assumendo (prop.7) che: «le
cose invisibili di Dio appaiono chiaramente
fino dalla creazione del mondo,
essendo intese mediante le cose create» (San
Paolo, Romani, 20) ed
affermando alla proposizione 8.: «Non c’è
verità più evidente di questa, che
qualcosa deve esistere fin dall’eternità»;
tale “qualcosa” può essere solo Dio.
Nei confronti di coloro che esprimono dubbi
in relazione all’indimostrabilità
della sfera del Divino il Nostro ritiene
che: «non è ragionevole negare il
potere di un esser infinito per il solo fatto
che non ne possiamo comprendere
le operazioni.» [288]
Chiudiamo la nostra trattazione di Locke
relativa
al Saggio sull’intelligenza umana , il cui scopo era quello di
evidenziare non solo gli elementi che caratterizzano
la gnoseologia lockiana,
ma anche l’atteggiamento intellettuale che
la caratterizza. Siamo di fronte
all’abbandono della sicumera metafisica che
a partire da Aristotele “impone” la
dimostrazione attraverso i formalismi del
discorso. Il Nostro è essenzialmente
un problematico e non è assertivo se non
nella misura in cui circoscrive in
modo chiaro e inequivoco i termini della
conoscenza del “reale”, non negando
tuttavia la legittima di una “convinzione”
che egli stesso ammette a proposito
di Dio. Si tratta dell’onestà intellettuale
di un grande maestro di un nuovo
modo di “fare filosofia” che troverà nell’Illuminismo
compiuta realizzazione. Torneremo
da Locke nel § 9.1, allorché ci occuperemo
del suo pensiero etico, espresso nel
Saggio sulla tolleranza, scritto nel 1667, e con le quattro Lettere
sulla tolleranza, scritte tra il 1689 e la morte.
2.6 L’analitica euristica di Pierre Bayle
Se il Settecento avrebbe visto lo sviluppo
impetuoso della scienza sperimentale, il
Seicento aveva visto l’impeto dirompente
della dialettica sperimentale di Pierre Bayle,
uno straordinario vagabondo
della filosofia, sempre a caccia di controversie
da districare, da tutti i lati
e sotto tutti i punti di vista. Un giocoliere
che in modo ludico-serioso (ci si
passi l’ossimoro) conduce un’analisi non
già deduttiva ma “di ricerca” su una
pluralità di temi, la maggior parte concernenti
la teologia, per mettere alla
prova sia le proprie convinzioni filosofiche
e sia la propria fede cristiana,
in un caleidoscopio di immagini concettuali
critiche a proposito delle quali, a
nostro avviso impropriamente, si è parlato
di scetticismo. Egli tuttavia è sintonico
con esso nel suo rifuggire da ogni assioma
aprioristico (non a caso è
ferocemente anti-spinoziano), ed essendo,
ad eccezione di quelli concernenti la
religione (la sola legittimata a porne),
contro tutti i princìpi rigidi. È in
tale prospettiva che va colta l’ammissione
della possibilità di un “ateismo
virtuoso” nei Pensieri sulla cometa, che non è affatto simpatia per gli
atei, bensì semplicemente l’esito di un’analitica
euristica relativa ad uno dei
tanti aspetti della “complessità” antropica.
Infatti, il male e il bene non stanno da
una sola parte, ed i vizi e le virtù possono
convivere in un medesimo modo di
pensare, il che non si traduce per ciò stesso
in un incoerente modo di agire. La
ragione sta nel fatto che l’uomo è dominato
dalle passioni e dai sentimenti,
non dalla ragione e dai principi. Posizione
coraggiosa, imbarazzante per la
morale cristiana ed apertura di un nuovo
orizzonte filosofico. Koselleck
sostiene che Bayle col suo Dizionario storico e critico ha apprestato
«l’arsenale dal quale il secolo successivo
avrebbe tratto le proprie armi» [289];
sicuramente si tratta di un armamentario
dialettico eccezionale, che come un
inesauribile Pozzo di San Patrizio offre
strumenti e congegni per mettere in
discussione ogni cosa e mostrarne contemporaneamente
aspetti negativi e
positivi quanto convincenti o assurdi. Le
analisi di Bayle hanno rivoluzionato
sia il “modo” di giudicare la realtà sociale
e sia i “termini” in cui essa era
considerata da posizioni preconcette sino
a tutto il XVIII secolo. Soprattutto
egli è un anti-metafisico, che rifugge dalle
astrazioni e dai bizantinismi
concettuali. Il suo linguaggio diretto, oggettivo,
mai moralistico, ironico talvolta
sino al sarcasmo.
Nato nel 1647, egli fu insegnante di
filosofia all’università calvinista di Sedan,
poi chiamato ad insegnare a
Rotterdam, ed è qui che compone e pubblica
nel 1682 il saggio Pensieri
diversi sulla cometa, traendo spunto da un evento astronomico
del 1680 che
è solo nominalmente il tema del saggio. L’apparire
della cometa è il pretesto
per una lunga disquisizione sulla credenza,
sulla morale, sulla tolleranza del
diverso, sulla conoscenza della realtà e
sul modo di conciliare punti di vista
differenti in uno stesso contesto documentale.
Il filo del discorso bayleano
parte dalla considerazione oggettiva che
l’apparizione di una cometa è un puro
fatto astronomico, per cui considerarla un
presagio è non solo mera
superstizione ma anche grave offesa a Dio,
assai più contrariato da
comportamenti idolatrici che dall’ateismo.
Va rilevato che Bayle (da uomo del
‘600) usa il temine ateismo come sinonimo
di miscredenza nel Dio cristiano, e
da ciò sono nati non pochi equivoci in esegeti
posteriori che più o meno
volontariamente hanno cavalcato l’equivoco,
anche perché il vero ateismo in
Europa rimase sconosciuto sino alla metà
del Settecento. D’altra parte, nel
Seicento, era ancora in pieno vigore l’abitudine,
assai antica, di bollare di
ateismo la fede in un qualsiasi Dio “differente”
dal proprio.
I Pensieri sulla cometa nascono nel
1682, ma subiscono rimaneggiamenti sino al
1704, a determinare un opera che
vuole essere principalmente una rivisitazione
critica delle superstizioni e dei
pregiudizi religiosi, sia al fine di una
miglior definizione della fede e sia
quale stigmatizzazione di ogni fanatismo
religioso. Essa però, in quella
poliedricità analitica tipica di Bayle, mette
anche in discussione l’autorità
delle dottrine cattoliche e calviniste insieme
ad alcuni principi stessi di un
Cristianesimo troppo arroccato sui suoi dogmi.
Anche il Nostro incorre nel
sostanziale equivoco di considerare il panteismo
una forma di ateismo, sostenendo
la tesi che gli atei virtuosi possono esistere,
mentre è assai difficile
immaginare quale giudizio avrebbe potuto
dare di filosofie come quelle di La
Mettrie, di Helvétius, di d’Holbach e di
Diderot. L’ammissione che una società
di miscredenti possa esser virtuosa quanto
una di credenti, e che anzi la virtù
in un miscredente è più meritevole di quella
di un cristiano, è la conseguenza
logica dell’analisi da lui condotta sul “reale”
storico. Una società virtuosa
“di atei” (di non-credenti nella verità del
Vangelo) è virtualmente possibile
non solo in via teorica, ma anche perché
c’è già stata in passato, senza la
necessità che sia l’etica cristiana a determinarla.
Una presa di posizione che
faceva di Bayle un critico della religiosità
tradizionale e lo faceva passare
per un pericoloso simpatizzante dell’empietà.
In realtà il Nostro non faceva
altro che svolgere un’analisi storica serrata;
ma il suo carattere deciso,
libero, arguto e talvolta sarcastico, e per
tale ragione un libertino egli
stesso.
Veniamo ora ai Pensieri e a qualche
passaggio significativo. Dopo una lunga analisi
preliminare sulle comete e
sulle credenze ad esse correlate sin dai
tempi più remoti, il Nostro mette in
opera una lunga preparazione delle sue tesi
più ardite, cominciando con lo
stigmatizzare il politeismo quale rozza superstizione
ed esaltando il
Cristianesimo come fede nel vero Dio. Ma
le critiche vengono presto trasferite
sui Cristiani che fanno della superstizione
il loro credo, considerandoli assai
più colpevoli dei pagani, poiché essi peccavano
per ignoranza e i Cristiani per
colpa. Il pensiero 71 ha per titolo Dell’orrore che Dio ha per
l’idolatria, e prepara le stoccate più severe contro
i cristiani
superstiziosi, affermando al 75 che: «Sarebbe
un ragionamento falso e
imperdonabile anche quello di sostenere che
il fulmine è stato fatto
dichiaratamente ed espressamente per punire
i peccatori.» [290]
Ora, se si pensa che nel mondo rurale e montano,
non erano pochi i parroci (e
non solo) che ammonivano di guardarsi dal
peccato, poiché Dio col fulmine
avrebbe potuto incendiare il grano maturo,
decimare le greggi o addirittura
ammazzare il colpevole, si comprende come
un’affermazione del genere poteva
diventare critica per una religiosità non
ancora toccata dal razionalismo e
fortemente ancorata a modelli fideistici
ancora medievali. Non basta, nel pensiero
113 si afferma: che «probabilmente il demonio
trae maggior profitto
dall’idolatria che dall’ateismo.» [291] Porre la negazione di Dio (o almeno del Dio
“vero”) quale colpa minore di quella di attribuirgli
fatti e fenomeni indebiti costituiva
un grave stravolgimento del giudizio convenzionale.
E Bayle non solo rincara
ulteriormente la dose, ma arriva ad affermazioni
devastanti per quanto rese “in
nome della fede”, ponendosi quindi nella
posizione del moralista cristiano e
non certo dell’agnostico o dello scettico.
Abbiamo già rilevato come il Nostro sia un
acuto filosofo della storia e come si tenga
lontano da considerazioni
ideologiche se non nella sua adesione alla
fede. Se ne ha conferma in quel suo smontaggio
degli argomenti inconsistenti e basati su
false convinzioni del “Dottore della
Sorbona”, che così ammonisce (pensiero 133): «la convinzione che
l’ateismo sia la condizione più abominevole
che si possa immaginare dipende
soltanto da un falso pregiudizio riguardante
i lumi della nostra coscienza» [292],
ed alla convinzione che un ateo dovrebbe
essere «il più grande e incorreggibile
scellerato dell’universo» replica: «Tutto
questo è bello e buono a dirsi,
quando si considerino le cose nella loro
idea e si facciano astrazioni
metafisiche. Peccato però che non sia conforme
all’esperienza.» [293] Si rileva, in pratica, come sia facile crearsi
schemi mentali in base ai quali giudicare
il “diverso”, e come ciò possa
semplificare e rendere più solida la nostra
credenza (che diventa così qualcosa
di «bello e buono»), ma che ciò non corrisponda
alla situazione reale. Il
giudizio corretto deve fondarsi sui “fatti”
e non sulle “idee”, ed allora si
constaterà che i cristiani perlopiù non si
comportano affatto in base ai loro
principi, Perché c’è tanta differenza fra quello in
cui si crede e quello
che si fa recita il titolo del pensiero 135, che spiega:
Stando
infatti all’idea generale, un uomo che crede
in Dio, in un paradiso, in un
inferno, dovrebbe fare tutto ciò che egli
sa essere gradito a Dio e nulla di quanto sa essergli sgradito,
mentre la sua vita ci mostra che egli compie
tutto l’opposto. Volete sapere la
causa di questa incongruenza? Eccola: l’uomo
si determina a una certa azione
piuttosto che a un'altra non già seguendo
le conoscenze generali che ha di ciò
che deve fare, bensì uniformandosi al giudizio
particolare che egli forma di
ciascuna cosa quando è sul punto di agire.
[294]
È dunque la decisione
dell’azione “particolare”e non il principio
astratto e “generale” a determinare
i comportamenti umani. È la “situazione”
e il “temperamento”, o se si vuole
l’oggetto contingente dell’azione e il soggetto
agente, che stabiliscono il
rapporto consequenziale nell’azione; non
è uno schema generale ed astratto dell’agire,
o di princìpi dell’agire stesso, a determinare
i comportamenti reali. Difficile
dire quanto Bayle giochi sul filo del rasoio
nell’enunciare qui un criterio
antropologico che depotenzia il valore della
fede (o quantomeno della dottrina
e della precettistica), fondando “il modo
d’essere” di ogni singolo uomo come
ciò che lo concerne strutturalmente in maniera
più profonda (potremmo dire
filogenetica) di quanto “il modo di pensare”
lo possa determinare. Un criterio
abbastanza devastante per una religione,
come quella cristiana, che si basa
sulla predicazione, sul proselitismo, sull’indottrinamento
e sull’esempio
edificante. Il seguito ce ne dà conferma:
Ora,
questo giudizio particolare può benissimo
essere, in certi casi, conforme alle
idee generali di ciò che si deve fare, ma
il più delle volte non lo è, e quasi
sempre si segue la passione dominante del
cuore, l’inclinazione del
temperamento, la forza delle abitudini contratte,
il gusto e la sensibilità che
si hanno per certi oggetti. [295]
È quindi, tutt’al più, la
forza delle abitudini contratte, ovvero l’imprinting infantile e i
meccanismi istintivi radicati e abitudinari,
che coniugandosi col temperamento
personale concorrono a determinare l’azione,
ma in ogni caso non «idee
generali» che possano venir assunte a criterio
di vita. In sintesi:
143.
Possiamo dunque stabilire come principi:
1) che gli uomini, per quanto
sregolati nei loro costumi, possono essere
contemporaneamente convinti, nel
profondo, della verità della religione cristiana;
2) che le conoscenze
dell’anima non sono in alcun modo la causa
delle nostre azioni; 3) che,
generalmente parlando (faccio infatti sempre
eccezione per coloro che sono
guidati dallo spirito di Dio), la fede in
una religione non è la regola che
guida la condotta umana […] [296]
Se non si è « guidati dallo
spirito di Dio», ovvero se non si ha la Grazia
(o la fortuna?) di “essere così
e non altrimenti” la nostra condotta non
è il frutto delle nostre convinzioni,
ma l’effetto semplice di cause complesse.
La stessa devozione significa ben
poco di fronte al vizio e alla corruzione
presenti nella comunità cristiana:
«[…] mai si sono viste tante confessioni
e comunioni, che intorno ai
confessionali si fa ressa, che gli altari
sono circondati dai comunicandi e che
le parrocchie, ma soprattutto i monasteri,
ne sono pieni.» [297] Si attacca così uno dei cardini fideistici
cristiani, quello secondo il quale il peccato
è frutto di poca fede o di poca
preghiera; in realtà, dice Bayle, la fede
c’entra poco o nulla con i
comportamenti virtuosi o viziosi. La conclusione
del pensiero 159 è la
seguente:
Se
in morale è possibile dimostrare qualche
cosa, non dubito di aver dimostrato la
falsità di quell’opinione che vuole i cristiani
immersi in ogni genere di
peccati perché privi della fede nella verità
della loro religione. Ne concludo
che l’origine del traviamento dei costumi
non è l’incredulità. Si tratta di ben
altro. [298]
Per un insieme di
considerazioni ne deriva che non è il “non
credere” la causa dell’iniquità e
che il non-credente ha le stesse possibilità
del credente di essere virtuoso. Sicché:
172.
A questo punto è ormai evidente che una società
di atei potrebbe svolgere ogni
attività civile morale come qualsiasi altra
società, ammesso che in essa si
puniscano severamente i delitti e si connettano
a certe determinate azioni i
sentimenti dell’onore e dell’infamia. [299]
Non la fede, quindi, ma
leggi giuste o ingiuste, e costumi virtuosi
oppure no, sono i fattori
determinanti della virtù o dell’iniquità.
Bayle riprende inoltre il principio
classico (e pagano) dell’encomio e della
gloria quale “premio morale”,
gratificazione che può spingere l’uomo sulla
via del bene ed abbandonare quella
del male quanto il desiderio del Paradiso
o la paura dell’Inferno. Questa
secolarizzazione della vera “spinta” all’azione,
che trasferisce dal sacro al
profano le motivazioni etiche, mette sullo
stesso piano credenza e miscredenza
nella possibilità di accesso alla virtù.
E, poiché anche «il sentimento
d’onore», che è «direttamente contrario allo
spirito del Vangelo» può essere
causa di virtù presso gli stessi Cristiani,
diventa giocoforza concludere che:
«Dunque le idee di onestà correnti fra i
cristiani non devono dipendere dai
principi della religione che professano»,
poiché si tratta «un’idea che è impressa
nel cuore degli uomini da che mondo è mondo»
[300]
ed assai prima di Mosè:
Ammettiamo
dunque che in tutti gli uomini esistano idee
d’onore, che sono una pura opera
della natura […] Ma allora come potremo dubitare
che la natura non riesca a
compiere fra gli atei, che non hanno un Vangelo
che le si opponga, ciò che essa
riesce a compiere fra i cristiani? [301]
Troviamo qui sottinteso quel
«ben altro » adombrato nel pensiero 159,
ovvero la natura. Una natura che Bayle
tiene ai margini del discorso ma che irrompe
spesso a confondere le acque di un
pacato stagno fideistico che Bayle evoca
continuamente. Ciò accade perché egli
(da cristiano) ricerca, errando tra i concetti,
una verità “dei fatti” che
spesso lo porta in “sentieri” fuori della
strada maestra del Cristianesimo, per
quanto egli (dopo la peregrinazione dialettica)
vi faccia sempre puntualmente
ritorno. Il suo errare filosofico gli fa
condurre il discorso attraverso un
analitico e sistematico scardinamento di
quegli schemi mentali e di quei
principi che dominano la cultura cristiana,
facendogli ammettere che nella
cultura pagana il voler «rendere immortale
il proprio nome» produceva effetti
simili. Quell’aspirazione, sicuramente profana,
era in grado infatti di
produrre gli stessi risultati etici di chi
crede nel “vero” Dio e lo vuole
compiacere o per amore oppure temendone il
giudizio. L’agire per la gloria,
quindi, ai fini morali conduce a comportamenti
simili a quelli di chi agisce secondo i principi
della vera fede, dei suoi comandamenti o
precetti. I “giusti”, i “probi”, gli
“uomini di buona volontà”, non sono necessariamente
coloro che credono si
richiamano alla sacralità della Parola di
Dio, così come si può invocarla e nel
contempo agire contro di essa abbandonandosi
al vizio e alla disonestà.
Bayle aggiunge che atei come Diagora o
Teodoro di Cirene (in tal caso atei veri)
non hanno mai dato scandalo per i
loro costumi, cioè non hanno mai dato adito
ad accuse di «dissolutezze della
loro vita», ma unicamente ad esecrazione
«per gli spaventosi traviamenti della
loro ragione.» [302]
L’ateismo è infatti un terribile traviamento
della ragione, e come tale va
condannato, ma non si può affatto dedurne
che esso sia foriero di immoralità.
Ed anche relativamente agli epicurei è sicuro
che tra essi «numerosissime
furono le persone probe ed oneste» e che
se vi sono stati epicurei viziosi:
«Non erano divenuti dissoluti perché avevano
abbracciato la dottrina di
Epicuro, ma avevano abbracciato e frainteso
la dottrina di Epicuro perché erano
dissoluti.» secondo le parole di Seneca (De vita beata, XII) [303] Ma non è tutto, se il Cristianesimo ha avuto
i suoi martiri anche l’ateismo ha avuto martiri
(182), e Giulio Cesare Vanini
(salito al rogo nel 1619), ne è un esempio.
Egli non ha voluto rinnegare le sue
convinzioni, mentre «Se avesse ricercato
esclusivamente il proprio particolare
interesse, avrebbe dovuto contentarsi di
gioire tranquillamente di una perfetta
sicurezza di coscienza, senza curarsi di
avere dei discepoli.» [304]
Dunque, per Bayle, il martire si qualifica
per “come” si gioca la vita per
testimoniare i princìpi in cui crede, e non
per il “che cosa crede”.
Il discorso sulle comete offre a Bayle
anche l’occasione di una precisazione ontologica
non di poco conto nel pensiero
209, quando afferma:
La
vera ragione di tutto ciò [i fatti astronomici
che non determinano ciò che
accade sulla terra] è che le leggi generali
del movimento, per quanto uniformi
e semplici le si supponga, si realizzano
tuttavia con il concorso di
innumerevoli cause occasionali, la cui infinita
varietà divide in qualche modo
la causa generale in un’infinità di cause
particolari, che non sembrano
dipendere le une dalle altre. [305]
Bayle ci dice qui che la
Causa Prima, Dio, può ben aver voluto una
causalità generale deterministica in
ragione dell’ordine generale del cosmo che
la Creazione prevede, ma che
«innumerevoli cause occasionali», le ”vere”
cause dell’accadere fisico, non
sembrano essere connesse in una causalità
generale che le includa. Esse ne
paiono indipendenti, quindi rispondenti ad
un
indeterminismo che esclude il provvidenzialismo.
Ed infatti «questa
legge [generale e divina] per quanto semplice
ed uniforme possa essere, si
cambierà nell’esecuzione in un’infinità di
principi particolari, che
produrranno qui un effetto e là un altro
completamente diverso.» [306]
Vengono qui battuti in breccia Cartesio,
Spinoza e Leibniz, con una sottaciuta
adesione a criteri indeterministici che Bayle
non poteva che desumere da
Epicuro e Lucrezio, e, quindi, dall’ammissione
del caso come causalità
ontica coesistente con la necessità. Non altrimenti, infatti, si può
intendere l’”occasionalità” di una causa,
qual’è ribadita subito dopo:
Non
voglio certo affermare che la causa del movimento,
considerata in se stessa,
perda la propria semplicità, voglio semplicemente
dire che, unendosi in un
luogo con una certa causa occasionale e in
un altro luogo con un’altra, i suoi
effetti devono esser tanto differenti e tanto
indipendenti gli uni dagli altri
quanto potrebbe esserlo se fossero prodotti
da due differenti principi. [307]
È dunque solo «in se stessa»
che la causa generale è deterministica, e
quindi necessaria, poiché sono le
innumerevoli cause occasionali a determinare,
nella congiunzione con essa, gli
effetti innumerevoli e differenti che si
verificano nella realtà. Né,
relativamente ai fatti umani, si può parlare
di un destino ineluttabile, poiché
ci si trova di fronte a una «contingenza
delle azioni umane» (pensiero
213) che sfugge a qualsiasi inquadramento
di tipo deterministico. Il pensiero
214 si apre col titolo La più piccola cosa può cambiare i più grandi
avvenimenti storici, e con esso Bayle intende alludere sia alla
casualità
delle piccole cose e sia alla complessità
dei grandi avvenimenti. Infatti:
«Tutto mi spinge a dire che i grandi avvenimenti
che sconvolgono il genere
umano sono legati a circostanze talmente
casuali, che di essi il corso della
natura non può fornire alcun presagio sicuro.»
[308] Non i movimenti delle comete, quindi, ma
neppure ogni altro evento della natura, che
si muove secondo cause proprie come
l’uomo ha le sue, sono “determinati,”non
esistendo alcuna
armonizzazione-connessione di cause operanti
in ambiti differenti, ma semmai
rispondenti, ognuna, ad una propria “occasionalità”.
Dopo una lunga analisi a proposito delle
comete in rapporto ai fatti storici, ribadendo
che esse nell’accadere di questi
non c’entrano nulla (236), se ne deduce che
«certe famose imprese guerresche,
che tengono in sospeso una parte del mondo
e che cambiano il destino di molti
popoli, non sono a volte, nella loro prima
causa, altro che un’inezia.» [309]
Dopo di che Bayle ci regala uno spregiudicato
e impietoso panorama delle
monarchie del tempo:
248.
Consideriamo dunque lo stato nel quale si
trova attualmente l’Europa, governata
da una miriade di sovrani o sedicenti tali.
Vedremo che taluni, non avendo
neppure i mezzi necessari per sostenere la
propria sovranità, non possono
impegnarsi a fondo in nessuna azione, pena
la perdita della pensione di cui
godono; altri invece sono immersi nei piaceri
e ripongono ogni loro gloria nel
riposare mollemente nel seno della voluttà;
ce ne sono poi di quelli che
vendono una parte dei loro Stati per potere
passare il carnevale a Venezia, e
non pensano a nulla di grande, incapaci come
sono di lavorare per la gloria;
altri sono rimasti prigionieri di una bassa
superstizione, interamente schiavi
di qualche monaco, senza contare quelli che
sono trattenuti dal timore di
venire travolti per primi, se osassero muoversi.
[310]
Nel prosieguo dell’opera, e
verso la sua conclusione, si coglie bene
il fatto che l’argomento delle comete
offre all’autore anche il pretesto per una
ricognizione storica sulla
situazione dell’Europa e sulle sue prospettive.
Bayle mostra anche in ciò una
visione ampia, quasi cosmopolita, e indica
una via d’uscita dai problemi del
continente che nasce (pensiero 257) dalla domanda: «E poi chi ha detto
che l’Europa resterà sempre nel profondo
letargo in cui versa?» [311]
Egli vede nell’immobilismo, nei piccoli interessi
di bottega e nell’incapacità
di cogliere i segni dei tempi, un’arretratezza
mentale dei sovrani europei in
generale, che non vedono i fermenti che attraversano
le menti dei loro sudditi
più avveduti e più colti. Egli vede nel disegno
di una grande coalizione tra
gli stati europei, in funzione della realizzazione
di una «Monarchia
Universale», l’unica strada maestra per uscire
dal letargo politico, tenendo
conto che: «I popoli sono come un mare
che si agita terribilmente dopo la calma
più profonda. Spesso può bastare un
sol uomo per dare cuore a metà della terra,
e per far passare la fortuna da
un’altra parte.» [312]
Considerazione quasi profetica, se si pensa
che il XVIII, sino al 1789, era
stato forse il secolo più tranquillo degli
ultimi dieci, e che, forse, il 14
luglio del 1789, era stato un piccolo merciaio
un po’ esagitato a dare inizio
alla Presa della Bastiglia.
Lasciamo ora i Pensieri sulla cometa
per considerare un’importante opera del 1685,
nota come le Nouvelle lettres
de l’auteur de la Critique général de l’histoire
du Calvinisme de M.Maimbourg,
dove Bayle delinea la sua gnoseologia:
Se
consideriamo la verità e la menzogna in una
prospettiva assolutamente astratta,
soltanto la verità ha il diritto di domandarci
ascolto e di farsi obbedire. Ma
le cose stanno ben diversamente quando si
lasciano queste considerazioni
astratte e queste precisazioni logiche, in
cui la verità e l’errore sono presi
di per sé, per passare dal piano delle prospettive
generali alla considerazione
particolare della verità e dell’errore, in
rapporto ad ogni persona. [313]
Come avevamo già visto nei Pensieri,
dove il Nostro spostava costantemente l’asse
dell’attenzione dalla generalità
alla singolarità dei fatti, qui egli compie
la stessa operazione relativamente
all’uomo e al suo rapporto con la verità
e l’errore. Per Bayle è la “persona”,
nella sua pluralità e differenziazione, a
costituirsi come oggetto primario
delle considerazioni filosofiche, e non un’astratta
umanità alla quale fare
riferimento con considerazioni che possono
risultare logicamente corrette, ma
astratte. Ponendo in senso ironico l’aggettivo
“barbaro” a proposito del
linguaggio “filosofico” (inteso come “logico-metafisico”),
si afferma:
Quasi
sempre si passa dal bianco al nero. La falsità
assoluta si trasforma in verità
relativa, e la falsità relativa si manifesta
come verità assoluta. Ciò vuol
dire, dato che non tutti sono obbligati a
capire i termini tratti dal barbaro
linguaggio delle scuole filosofiche, che
ciò che è vero di per sé non è vero
relativamente a certe persone, e ciò che
è falso di per sé non è falso per
molti. [314]
La radicalizzazione
dell’antinomia “vero/falso” non è solo inutile
secondo Bayle, ma ha come
conseguenza la relativizzazione dei contrari,
e ciò perché il linguaggio della
logica astratta “di per sé” ha una sua validità
“logica”, ma non la possiede in
rapporto alla realtà ed in rapporto alla
sua comprensibilità. In altre parole,
il linguaggio logico-metafisico è “chiaro”
in funzione della logica e della
metafisica, ma è “confuso” in rapporto alla
realtà, che è multiforme e complessa,
sia dal punto di vista fisico che da quello
antropologico. Ciò che infatti
sfugge totalmente alla logica e alla metafisica
è la complessità del reale.
Ma il discorso sulla logica diventa
pretesto per analizzare il problema teologico.
Ed è sulle diverse fedi
all’interno della cristianità e alle rispettive
dottrine religiose che a Bayle
interessa portare il discorso. In quanto
calvinista, egli rileva:
Occorre
necessariamente che essi [i cattolici] si
sbaglino, oppure che ci sbagliamo
noi. Occorre necessariamente che le idee
divine, le quali costituiscono la
regola della verità assoluta, siano contrarie
a ciò che crediamo noi o a ciò
che essi credono; di conseguenza c’è un errore
assoluto che è una verità
relativa per essi oppure per noi, e c’è una
verità assoluta che è un errore
relativo per essi oppure per noi. [315]
Proprio le idee divine, pur
“verità assoluta”, sono le prime a prestarsi
alla confusione e alla
relativizzazione. Ora, se il Sacro Testo,
luogo dell’eterna verità divina, e
per ciò stessa “assoluta”, può prestarsi
al relativismo, ne deriva che
qualsiasi altra conoscenza, che si fondi
sulla precarietà e sull’imperfezione
della ragione umana, dovrà essere ancor più
relativa, e ciò quand’anche sia
assolutizzabile sul piano di una “formalità”
della logica (che divina non
è). Ed allora:
Che
cosa avviene quando la verità si riveste
nei nostri riguardi delle apparenze
della menzogna, e la menzogna assume l’apparenza
della verità? Accade in questo
caso un rovesciamento di situazione in virtù
del quale la verità non ha più
giurisdizione su di noi, e l’errore acquista
tutti i diritti di cui è spogliata
la verità. Questo non è un empio paradosso:
occorre accettarlo, oppure
procedere verso scogli ancor più pericolosi.
Affinché i diritti appartenenti alla
verità siano posti in esecuzione, bisogna
infatti che siano notificati a coloro
che sono obbligati a riconoscerli, nello
stesso modo in cui una persona è
tenuta a mostrare i suoi titoli, qualora
voglia prendere possesso di un bene
che sostiene essergli stato sottratto. Non
è possibile negare che, per ricevere
gli omaggi ad essa dovuti, la verità deve
necessariamente venire riconosciuta
per ciò che è. Da ciò deriva che, se essa
rimane nascosta, i suoi diritti sono
sospesi, e cessano di obbligarci all’obbedienza.
E se durante questa
sospensione la falsità si ricopre dell’apparenza
della verità, assumendone
ingenuamente l’aspetto e le maniere, ed è
scambiata per la verità, è chiaro che
coloro che essa inganna sono tenuti a rispettarla
nello stesso modo della verità.
Di conseguenza, quando l’errore diventa per
noi una verità, esso entra in
possesso di tutti i diritti della verità
nei nostri confronti; e quando la
verità ci appare sotto forma di menzogna,
essa perde tutta l’autorità che aveva
su di noi. [316]
Forse un po’ troppo ribadito
il semplice principio esposto, ma forse proprio
perché Bayle vuole che sia
compreso sino in fondo e con assoluta chiarezza.
L’assioma è semplice: « la
verità deve necessariamente venire riconosciuta
per ciò che è ». Se la verità non
ha i caratteri della verità, in quanto, o
è oscura e incompleta o si presta a
più interpretazioni, non soltanto perde lo
status di verità, ma lascia
spazio alla menzogna; e qualora questa riesca
ad assumerne i connotati
corretti, diventa la verità stessa. Qui non
siamo più soltanto di fronte ad un
problema gnoseologico o logico, bensì teologico,
che pone una domanda terribile
per un credente: «Per quale ragione Dio avrebbe
dovuto donarci una verità che
può lasciar posto alla menzogna?».
La risposta a quella domanda Bayle ce la
dà, indirettamente, nove anni dopo, al capitolo
V di l’Addition aux pensée
diverses sur la comète, quando precisa in cinque punti la questione,
e
nello stesso tempo pone il concetto di “coscienza
errante”:
1)
Un uomo non può mai agire contro i lumi della
sua coscienza errante, senza
commettere un delitto. 2) Egli è perciò obbligato
a seguire il dettame di
questa coscienza, quando si determina ad
agire. 3) Da ciò non deriva che la sua
azione sia esente da peccato; infatti, se
il suo errore non costituisce
ignoranza invincibile, egli è responsabile
davanti a Dio di tutte le cattive
azioni che compie seguendo il dettame della
coscienza. 4) Un uomo che non
faccia, per la religione che egli crede vera,
ciò che sa esser voluto da Dio per
la vera religione, incorre di fronte a Dio
nel delitto di aver disprezzato la
verità. 5) Pertanto, quando un eretico è
persuaso che la sua religione sia
quella che Dio ci ha rivelato, deve insegnarla
ai suoi figli, lavorando a
diffonderla con tutti i mezzi legittimi di
cui Dio ci ordina di servirci per la
propagazione della fede. [317]
Dunque, il credente che “in
coscienza” prende per verità ciò che non
lo è, non solo non è responsabile
dell’errore, ma è tenuto, paradossalmente,
a insegnarlo ed a promuoverlo per
testimoniare la sua fede. Il paradosso bayleano
è evidente, ma adombra anche
l’uscita da esso, là dove si precisa che:
«se il suo errore non costituisce
ignoranza invincibile, egli è responsabile
davanti a Dio.» Quindi, “pecca” se
usa solo la fede, mentre potrebbe “non peccare”
se usasse un altro criterio di
discernimento (la ragione). Il problema dell’erramento,
quindi, non si pone a
partire dalla fede, che c’è ed è sicura,
poiché il problema fuoriesce dai
limiti della fede stessa. Epperò, fuori della
fede (che è fondata sulla
coscienza religiosa o direttamente nell’anima),
qual è il tribunale che potrà
emettere un verdetto? Quello della ragione
o quello dei fatti? Se il credente
trasforma la propria idea di verità in azione,
sarà soltanto l’”esito” a sancire
se essa è buona o cattiva, ma con ciò è negata
la validità veritativa della
fede stessa, poiché Dio giudica dall’intenzione
e non dall’esito. Se il
credente compie un certo atto “per compiacere
Dio”, egli è pre-assolto di ogni
colpa (anche se l’esito fosse disastroso)?
Ma come si fa a stabilire se il suo
errore costituisce “ignoranza invincibile
o invece vincibile” per mezzo della
ragione?
La devastazione che con la sua analitica
Bayle porta negli schemi mentali della religiosità
del tempo è profonda. Si
potrebbe però anche obbiettare che in fondo
egli vada a cercare “il pelo
nell’uovo” perdendo di vista l’essenziale.
Può darsi che da un punto di vista
strettamente religioso si possa pensare ciò,
ma non va neppure dimenticato che
Bayle, nella sua pervicace “ricerca della
verità”, non aveva esitato ad
abbandonare (ed in perfetta in buona fede)
il Calvinismo, la religione dei suoi
padri, a favore del Cristianesimo, quando
la sua coscienza e la sua ragione lo
avevano indotto a farlo; salvo poi ritornare
al Calvinismo quando un ulteriore
giudizio lo aveva riportato sui suoi passi.
Ora, se ci si domanda perché l’uomo
Bayle abbia fatto questo, la risposta è una
sola: in un suo sincero “itinerario
verso la verità”. Ma se la verità raggiungibile
è solo la “sua”, individuale,
ogni altra verità individuale si legittima,
parimenti, in quanto “ascesa alla
verità” individuale. Ma allora ogni autorità
istituzionale è delegittimata a
stabilire “che cosa” sia la verità di Dio
e che cosa non lo sia.
La fede non è soltanto fede, privilegio
divino, quindi, ma è profonda contraddizione
tra una legittimazione
dell’irrazionalità (che giustifica l’errore
in buona fede) e una chiamata in
causa della razionalità (che non giustifica
l’errore se è causa di ignoranza
“vincibile”). Poiché la ragione ci è da Dio,
in quanto la nostra mente è “ad
immagine” della sua onniscienza, il porre
il problema in termini analitici
conduce ad una schizofrenia fideistica dalla
quale non è facile uscire.
Sappiamo bene come l’unica uscita plausibile
sia l’apofaticità, la teologia
negativa, che non afferma la verità, ma ci
rinuncia. E facendo ciò ripone in
Dio il suo cuore, cercando “con” e “nel”
sentimento, attraverso il pascaliano esprit
de finesse e non con la ragione, una possibile l’uscita
dal dilemma. Ma
allora Bayle sta dalla parte di Pascal? Sì
per un verso e non per un altro,
egli sembra riproporci il criterio della
“doppia verità”, e tuttavia, se così
fosse, non si comprenderebbe neppure il dispendio
di tempo ed energie per
condurre avanti la sua analitica euristica.
Restano infatti sempre due
problemi: A.: se la verità della parola di
Dio resa dalle Sacre Scritture è
indiscutibile, per quale ragione non possiede
lo status di chiarezza e
incontrovertibilità della verità “inequivocabile”? B.: se Dio ha dotato l’uomo della ragione
per
farne uso, perché questa “non serve” per
comprendere adeguatamente la verità? E
ancora: qual è il confine tra la colpa e
la non-colpa in relazione alla
vincibilità o all’invincibilità dell’errore?
A questo punto (aggiungiamo noi) pare che
i casi non possano essere che
due: 1.: o non si tratta della verità, oppure
2.: la responsabilità dell’errore
ricade su chi la porge (ma chi la porge è
Dio stesso!). Bayle, naturalmente, si
ferma prima (ma ad un solo passo!) dal dilemma,
poiché, come cristiano, non può
spingersi oltre, ed in virtù della sua fede
sincera (che non vi sono ragioni di
mettere in dubbio) e per i rischi enormi
(ed inutili!) che correrebbe non può
spingere oltre la sua audacia euristica.
Il Nostro è giunto qui ad un pessimismo
gnoseologico profondo riguardo alla fede
e ad uno scetticismo che appare prodromico
dell’Illuminismo ed anticipatore dei turbamenti
profondi (e della ricerca di
nuove vie) di molto pensiero del Settecento.
Ne abbiamo ulteriore prova in un
lungo passaggio di un’opera pubblicata appena
due anni prima della sua morte,
nel 1704, intitolata Continuazione dei pensieri diversi sulla
cometa,
dove a proposito del problema dell’infinito scrive:
Si
ponga il problema che il continuo è divisibile
all’infinito. Come tesi si
stabilisca che sia effettivamente indivisibile;
indi procedete con tutte le
vostre prove [dimostrazioni]. Queste colpiranno
il vostro scolaro e lo
disporranno a non dare molto peso alle obiezioni
che formano solo la retroguardia.
Mi fondo, dirà lo scolaro, su prove evidenti
e non le abbandonerò, quantunque
non possa risolvere perfettamente le difficoltà
che derivano dalla divisibilità
all’infinito. Se invece si fosse posto come
tesi che il continuo è formato da
un certo numero di atomi e fin da principio
si fossero sciorinate tutte le
prove atte a dimostrare questo assunto, il
vosto discepolo, ricevendo questa
impressione, l’avrebbe poi opposta alle obiezioni
come una diga e non si
sarebbe certo lasciato trascinare dalla loro
spinta impetuosa. Di lui avreste
fatto un atomista. [318]
Sia partendo dalla divisione
del continuo in parti e sia partendo dalla
formazione del continuo per
addizione di parti si offre una spiegazione
del continuo, ma con la prima si fa
uno spiritualista e con la seconda un materialista.
Sono state esposte due
tesi, che si pretendono entrambe veritative
in base alle loro premesse, ma che
si escludono vicendevolmente in base alle
loro conclusioni. Sono quindi le
premesse che determinano le deduzione. Ma,
allora, le dimostrazioni
relativistiche che ne possono derivare non
possono che condurre in un profondo
scetticismo gnoseologico.
E tuttavia, è difficile definire Bayle uno
scettico in senso stretto, egli è piuttosto
un viandante che “accetta il possibile
errore in un erramento alla ricerca del vero”.
La sua ricerca gnoseologica assume infatti
il carattere del vagare verso
il vero (o verso il reale?) essendo il suo un viaggio mentale
ininterrotto e senza l’uso di mappe e la
presenza di confini. Il “viaggio
euristico” prosegue nel Dizionario storico e critico, composto tra 1692
e il 1697, trovando il proprio compimento
ed insieme i tormenti della ragione e
della fede. Il Dizionario è, come è stato più volte affermato,
quell’”arsenale” di analisi e riflessioni
a cui, dal più al meno, tutti gli
Illuministi del Settecento hanno fatto in
qualche misura ricorso o fatto riferimento.
Il Dizionario è opera troppo vasta (ben 2.038 articoli!)
per poterne
tentare qui un’analisi complessiva; ne prenderemo
pertanto in esame pochi punti,
traendoli da un repertorio già ristretto
curato da Gianfranco Cantelli. Questi
rileva come il metodo storico-critico di
Bayle consti in una scelta multiforme
ed ampia delle più disparate materie della
storia, della morale e della religione.
E ciò al fine di disegnare un panorama di
questioni che vengono affrontate in
maniera spregiudicata e analitico-critica,
in uno spirito di tolleranza per
ogni posizione ideologica, e dove emergono
tre elementi principali: «1.
l’accertamento minuzioso del dato storico
positivo (la precisa determinazione
della questione di fatto); 2. il confronto
dialettico delle tesi contrapposte
(la definizione della questione di diritto);
3. l’integrazione nell’errore e
non nella verità dei vari sistemi filosofici
e teologici posti in discussione.»
[319]
Come avevamo già visto Bayle crede poco
nella verità logica, bensì nella realtà dei fatti quale autentica
fonte di conoscenza; perciò quella straordinaria
summa della
controversia che è il Dizionario trova spesso nei fatti della storia la
sua materia prima. Nelle immaginarie dispute
bayleane tutto, anche le verità
apparentemente più inattaccabili, si rivelano
controvertibili o quantomeno
entrano nella sfera del probabile. E negli
sviluppi della ricerca, in una forma
letteraria brillante e spiritosa, è dispensata
una saggezza quasi popolaresca,
rivestita spesso di ironia, con la quale
è sdrammatizzato ogni senso di
frustrazione e di confusione per la profonda
insufficienza conoscitiva della
ragione. La sostanziale debolezza di questa,
ma a cui si appaia quasi sempre
l’insufficienza dottrinaria e morale della
fede, si ingarbuglia attraverso la
contrapposizione di tesi inconciliabili,
che finiscono molto spesso per fornire
gli stessi elementi di validità. Dal punto
di vista compositivo, il Dizionario
è costituito da più o meno lunghi articoli
che recano per titolo il nome di un
personaggio storico o di un gruppo quali
basi di partenza della controversia.
Da ciò è tratto il pretesto per gli sviluppi
del dibattimento che sono preceduti
da una breve presentazione del titolo, sviluppando poi l’analisi attraverso
una serie di note indicate con lettere maiuscole.
Nel ribadire che la vastità dell’opera ci
costringe a limitare le nostre citazioni
ad una scelta minima di temi iniziamo
col breve articolo Manichei, nel quale l’autore si occupa del problema
dell’esistenza di un solo principio divino,
il Dio-Bene-Luce, cui si
contrappone che pensa che gli si debba opporre
ontologicamente un secondo
principio Demone-Male-Tenebra. All’inizio
della nota “D” Bayle avanza una
considerazione che in qualche modo anticipa
la conclusione, affermando che
nella contrapposizione tra il dualismo ontologico
e il monismo (ma in questo
caso pagano): «Le ragioni a priori avrebbero ben presto costretto alla
fuga i manichei, le ragioni a posteriori costituivano invece la loro
roccaforte» [320]
Egli spiega poco più avanti che sono le esigenze
dell’”ordine” universale
(concetto a priori) a validare la tesi «che un essere esistente
di per
se stesso, necessario ed eterno, deve anche
essere unico, infinito, onnipotente
e dotato di ogni sorta di perfezioni.» E
tuttavia:
Se
per determinare la validità di un sistema
fosse necessario solo questo, il
processo si sarebbe concluso con la completa
disfatta di Zoroastro [321] e di
tutti i suoi seguaci; ma non c’è sistema
che, per essere valido, non abbia
bisogno delle due seguenti cose: la prima
che le idee siano distinte, l’altra
che esso possa render ragione delle esperienze.
Si deve dunque vedere se i
fenomeni della natura si possano comodamente
spiegare con l’ipotesi di un unico
principio. [322]
Non si può affrontare un
problema senza considerare tutti i fattori
che lo concernono, e soprattutto
confondendo o sovrapponendo livelli d’analisi
che vanno tenuti rigorosamente
separati. Non si possono considerare alla
stessa maniera il comportamento
dell’universo e quello dell’uomo, poiché:
I
cieli e tutto il resto dell’universo proclamano
la gloria, la potenza, l’unità
di Dio: solo l’uomo, questo capolavoro del
suo creatore, fra tutte le cose
visibili, l’uomo solo, dico, fornisce alcune
gravi obiezioni contro l’unità di
Dio. [323]
L’uomo, infatti, non ha
nulla dell’armonia cosmica, egli è «cattivo
e infelice», a dimostrazione di
essere soggetto ad un male profondo, che
lo concerne e lo attanaglia. Bayle
immagina una disputa tra Melisso (monista)
e Zoroastro (dualista), dove questi,
sulla base della constatazione precedente,
chiede al primo:
Spiegatemi
un po’, con la vostra ipotesi, per quale
ragione l’uomo è cattivo e in così
grande misura sottoposto al dolore e agli
affanni. Vi sfido a trovare nei
vostri principi la spiegazione di questo
fenomeno, come invece la trovo nei
miei; ho riacquistato così il vantaggio:
voi mi superate nella bellezza delle
idee e nelle ragioni a priori, invece io vi supero nella spiegazione dei
fenomeni e nelle ragioni a posteriori. E poiché il principale carattere
della validità di un sistema è di essere
in grado di fornire una spiegazione
delle esperienze, mentre il non poterle spiegare
è di per se stesso una prova
dell’inconsistenza di un’ipotesi, per quanto
essa possa, per altri rispetti,
apparire bella, dovete pur ammettere che
io, supponendo due principi, arrivo al
traguardo, voi, ammettendone uno solo, mancate
al vostro scopo. [324]
Il monista pagano è qui
messo alle corde dalla motivata e convincente
arringa di Zoroastro: la tesi
dualista si basa infatti sulla realtà, mentre
quella monista è soltanto
“bella”. Bayle non esita a dare un vantaggio
al dualista, facendone la
controparte razionalistica del dogmatismo
monista pagano, che, in quanto
“falso”, è abbandonato alla sua sconfitta.
Ma il Nostro precisa:
La
ragione umana è troppo debole per una simile
impresa; essa è un principio di
distruzione e non di edificazione; essa è
atta soltanto a sollevare dubbi e a
volgersi a destra e a sinistra per prolungare
all’infinito una disputa, e non
credo di ingannarmi se dico della rivelazione
naturale, cioè dei lumi della
ragione, ciò che i teologi dicono dell’economia
mosaica. Dicono soltanto che
serviva a far conoscere all’uomo la sua impotenza
e la necessità di un
redentore e di una legge misericordiosa.
[325]
La ragione distrugge, la
fede edifica. I lumi della ragione, nella
misura in cui sono capaci solo di
sollevare dubbi e di «prolungare all’infinito
una disputa», rivelano la
necessità di una rivelazione “divina” che
si contrapponga ed annulli « la
rivelazione naturale ». Ed ancora:
Essa
[la ragione] non serve ad altro cha a far
conoscer all’uomo le sue tenebre e la
sua impotenza, e la necessità di un’altra
rivelazione, cioè quella della
Scrittura. […] Ci si venga pure a dire con
un grande apparato di ragionamenti
che non è possibile che il male morale si
introduca nel mondo per l’opera di un
principio buono e santo, noi risponderemo
che ciò si è pur verificato e che, di
conseguenza è ben possibile. Niente è più
insensato del voler ragionare contro
i fatti: l’assioma, ab actu ad potentiam valet consequentia è
altrettanto chiaro della proposizione due
e due fanno quattro. [326]
Traduciamo liberamente
l’espressione latina: ciò che veramente conta
sono solo i “fatti”. Si vede bene
come Bayle reciti qui la parte dell’irrazionalista,
ma senza rinunciare alla
razionalità discorsiva al fine di dipanare
la matassa in maniera conveniente.
L’articolo
Pauliciani (i manichei armeni) è estremamente più complesso
e lungo; in
esso si affronta il problema del male, col
quale i dualisti tornano
protagonisti, ed a poco a poco è fuori che
l’irrazionalista (per fede) Bayle
non può esimersi dal mettere in evidenza
le debolezze dalla dottrina cristiana
i tutte le sue varie forme. In ultima analisi
il problema cruciale rimane un
nodo gordiano del tutto irrisolto, col rischio
incombente che una volta
eliminato il secondo principio ontologico
posto dai Manichei si rischia di
dovere concludere che “Dio è la causa
del male”(!). Pauliciani ha svolgimento ampio quanto complesso e
lo
assumeremo come paradigma del procedere bayleano
del Dizionario:
pertanto daremo ad esso molto più spazio
citazionale che ai pochi altri su cui
ci soffermeremo. Pazienza e dovizia di dettagli
concettuali guidano Bayle in
un’analisi che non lascia in ombra pressoché
alcun elemento concernente la
questione. Alla nota “E” egli rileva:
Il
Padri della Chiesa, così abili nel confutare
i marcioniti, i manichei e in
generale tutti coloro che ammettevano due
princìpi, non hanno invece saputo
rispondere quasi nulla alle obiezioni relative
all’origine del male. Essi
avrebbero dovuto scartare tutte le ragioni
a priori, riconoscendo che
per la loro inadeguatezza offrivano il fianco
allo scherno. Bisognava
accontentarsi di ragioni a posteriori e raccoglier
tutte le proprie forze
dietro questa trincea. [327]
Se sotto l’aspetto
ontologico l’utilizzazione del dogma dottrinario
era sufficiente per mettere a
tacere il dualista, non così quando ci si
deve occupare di un male la cui
presenza è troppo ingombrante per lasciarsi
liquidare facilmente dall’asserto
dogmatico. Se le ragioni a priori funzionano egregiamente nel sostenere,
sul terreno ontologico, l’unicità del principio
divino, non funzionano affatto
nei confronti del problema antropologico
posto dall’esistenza del male. Ma dal
momento che, secondo la Scrittura, vi è soltanto
un principio “buono”, se, a
dispetto di ciò, quello “maligno” è presente
nel genere umano, se ne dovrebbe dedurre
che esso non possa essere “contro” il
principio buono e unico. Ma allora il male
morale non si sarebbe introdotto
nell’uomo dall’esterno, sarebbe invece roba
sua: e allora va punito da Dio se
lo compie. Questo punto, sostiene Bayle,
è un «bastione inespugnabile» della
fede e un a posteriori a cui bisogna attenersi rigorosamente, poiché
le
sole ragioni a priori potrebbero venir confutate. Una possibilità
di
confutazione può trasformarsi in effettualità
confutativa? Ecco la risposta:
Sì,
rispondo io, perché non solo è inesplicabile,
ma addirittura incomprensibile
come, sotto il dominio di un essere supremo,
infinitamente buono, infinitamente
santo, infinitamente potente, abbia potuto
introdursi il male; e tutto ciò che
si oppone alle ragioni per le quali questo
essere ha permesso il male, è più
conforme ai lumi naturali e alle idee dell’ordine,
di quanto non lo siano tali
ragioni. [328]
La confutabilità della
ragione aprioristica si conferma esaminando
una risposta di Lattanzio (De
ira Dei, cap. XIII, p.m. 548) a una virtuale obiezione
di Epicuro. Il
cristiano asserisce che non tocca a noi giudicare
la Provvidenza divina perché
«Dio può ciò che vuole», perché « se prima
non conoscessimo il male, non
potremmo neppure conoscere il bene», e perché
«se si tolgono i mali si toglie
pure la sapienza» [329]
Bayle definisce la risposta di Lattanzio
«penosa», poiché « non solo è debole,
ma ricolma di errori e persino di eresie.»
[330] E ciò poiché «in buona filosofia non è
affatto necessario che la nostra anima abbia
sofferto qualche male per poter
gustare il bene». Tuttavia:
È
vero che l’esperienza ci insegna sin troppo
bene che le gioie di questa vita
sono avvertibili solo in proporzione al fatto
che ci liberiamo da uno stato
spiacevole, e che, per quanto poco durino,
portano con sé il disgusto; ma i
manichei sosterrebbero allora che questo
fenomeno può trovare la sua
spiegazione solo se si fa ricorso alla loro
ipotesi di due princìpi. Direbbero
infatti: se noi dipendessimo da un’unica
causa onnipotente, infinitamente buona,
infinitamente libera e padrona di disporre
universalmente di tutti gli esseri
secondo il beneplacito della sua volontà,
non dovremmo provare alcun male,
tutti i nostri beni dovrebbero essere puri
e non dovrebbero mai procurarci il
minimo disgusto. L’autore del nostro essere,
se fosse infinitamente benefico,
dovrebbe procurarci un piacere continuo,
rendendoci felici e prevenendo tutto
ciò che potrebbe turbare o diminuire la nostra
gioia. [331]
Siamo entrati nel cuore del
problema. Si noti però anche un dettaglio
di carattere antropologico non di
poco conto, là dove si sottolinea l’insorgenza
del “disgusto” per un piacere
troppo prolungato, mentre i “beni” di cui
un Dio onnipotente dovrebbe
gratificarci non potrebbero che essere “puri”,
senza alcuna possibile scoria di
un qualche disgusto. Bayle ci avverte così
che il piacere umano è sempre
“sporco”, e che ciò può lasciarci pensare
ad una certa impotenza di Dio, che in
quanto sommamente buono dovrebbe poterci
donare il bene che possiede in maniera
totale ed incondizionata. Il manicheo prende
le redini della discussione e
prosegue:
Non
potete dunque spiegare le nostre esperienze,
se non accettando l’ipotesi dei
due princìpi. Se noi proviamo del piacere,
è il principio buono a procurarcelo;
ma se non lo sentiamo in tutta la sua purezza
e se ne siamo presto disgustati,
è perché il cattivo principio si sostituisce
a quello buono. E il buon
principio, a sua volta, gli rende la pariglia,
facendo in modo che il dolore
divenga meno sensibile con l’abitudine e
che ci rimanga sempre qualche risorsa
anche nei mali più grandi. [332]
Bayle fa qui propria una
convinzione diffusa, ovvero che il dolore
diminuisca facendoci l’abitudine, e
che il manicheo interpreterebbe come una
“post-reazione” del principio buono dopo
essere stato scalzato dal cattivo. Nasce
l’ipotesi circa una possibile
“transazione” e reciproca legittimazione
dei principi contrapposti:
Sono
cose che ci inducono a supporre che i due
principi sono venuti a una
transazione, che limita reciprocamente le
loro operazioni. Il principio buono
non può procurarci tutto il bene che desidererebbe;
per procurarcene molto è
stato costretto a consentire che il suo avversario
ci procurasse altrettanto
male, perché, se non avesse dato questo consenso
il caos sarebbe rimasto sempre
caos e nessuna creazione avrebbe mai conosciuto
il bene. [333]
Se il mondo ha un suo ordine
e non puro caos ciò è in virtù di un compromesso.
Perché il bene abbia potesse
calarsi nel mondo è stato necessario che
accettasse di convivere col male:
Così
la somma bontà, rinvenendo per il proprio
soddisfacimento un mezzo migliore nel
vedere il mondo alternativamente felice e
infelice, anziché nel non vederlo mai
felice, ha stipulato un accordo che ha dato
luogo a quel miscuglio di bene e di
male che noi osserviamo nel genere umano.
[334]
E poi un’accusa ai
Cristiani:
Voi
avete attribuito al vostro principio l’onnipotenza
di godere da solo
dell’eternità, ma proprio per questo gli
avete tolto l’attributo di tutti:
infatti nello stile delle nazioni più civili,
quando si parla di Dio, l’optimus
precede sempre il maximus, voi invece supponete che, pur non essendoci
nulla capace di impedire a Dio di colmare
di bene le proprie creature, le
opprime tuttavia di mali, oppure se gliene
toglie qualcuno lo faccia perché la
loro caduta sia più rovinosa. [335]
Un dio malvagio, allora? Una
terribile “bestemmia cristiana”? Ed il monito:
«Noi invece lo liberiamo da ogni
colpa e spieghiamo, senza che ne sia diminuita
la sua bontà, tutto quello che
si può dire sull’incostanza della fortuna,
sulla gelosia, sulla nemesi.»
L’incomprensibilità del mondo e dell’accadere
del male trova nel dualismo
manicheo una spiegazione logica, che elimina
tutte le incongruenza di un Dio
buono che produce il male (o che quantomeno,
incomprensibilmente, lo tollera).
Il «Dio può ciò che vuole» di Lattanzio suona
assurdo di fronte al discorso
analitico-critico dell’”infedele”. Da ciò
il rammarico del cristiano Bayle, che
deve riconoscere la difficoltà:
Chi
non troverà strano e chi non lamenterà il
destino riserbato alla nostra
ragione? Vediamo infatti che i manichei,
partendo da un’ipotesi completamente
assurda e contraddittoria, spiegano i fatti
dell’esperienza cento volte meglio
di quanto non riescano a farlo gli ortodossi,
che partono invece dalla supposizione
così giusta, così necessaria, così unicamente
vera, di un principio
infinitamente buono e onnipotente. [336]
La
«supposizione così giusta» sembra soccombere
al ragionamento
logico-razionale dell’« ipotesi completamente
assurda » e la millenaria teologia
cristiana farsi insufficiente. La critica
arriva a colpire anche un grande
maestro di teologia, San Basilio, il quale
(Exameron, cap. IX) aveva
sentenziato: «Il male non è un essere
vivente e animato, ma una disposizione dell’anima
contraria alla virtù, che
nasce nei pigri e negli accidiosi […] ciascuno
riconosca in se stesso l’autore
della propria malizia.» [337]
Si osserva:
San
Basilio immagina di potersi trarre dall’imbarazzo
e discolpare la provvidenza
se gli riesce di dimostrare che i vizi hanno
la loro origine nell’anima
dell’uomo. Come faceva però a non accorgersi
che in tal modo fuggiva davanti
alla difficoltà o dava come soluzione la
cosa stessa in cui consiste la
principale difficoltà? [338]
Ma la parola torna al
manicheo, che prosegue la sua arringa:
Voi
rispondete che si è introdotto con l’uomo;
ma come è potuto avvenire ciò dal
momento che, secondo voi, l’uomo è opera
di un essere infinitamente potente?
L’opera di una simile causa non deve essere
anch’essa buona? Può essere qualche
cosa d’altro se non buona? Non è più impossibile
che le tenebre sorgano dalla
luce di quanto sia impossibile che i prodotti
di un simile principio siano
cattivi? [339]
Il discorso è corretto:
perché mai un essere infinitamente buono
e nello stesso tempo infinitamente potente
non dovrebbe imporre alla sua creazione il
bene che lo costituisce quale suo
fondamentale “modo d’essere”? Siamo a punto
morto. La razionalità
dell’avversario può essere controbilanciata
solamente da un enfatico quanto
debole afflato fideistico “di principio”.
Abbiamo visto ancora una volta il modo
tipico del procedere analitico-euristico
bayleano, che fa una “parte del
diavolo” imposta dal tema, ma nel contempo
la combatte alla ricerca di una
vittoria finale della “vera” fede, che però
tarda ad arrivare (o proprio non
arriva!). Si staglia così sullo sfondo un’ambigua
“doppia verità”, che
nell’affermare e riaffermare la fede si trova
costretta a lasciar sussistere la
forza della ragione. La riscossa del Bayle-cristiano
sembra però possibile cominciando
col rilevare che per vincere le tesi dell’infedele
bisogna lasciar perdere le petizioni
di principio e che, dovendo tener conto nella disputa
del “tipo di
avversario” che si ha di fronte, occorre
evitare di “dare una risposta che sia
nei termini della propria tesi”. Così aveva
fatto San Basilio, che si era
rinchiuso «dentro la propria fortezza »;
ma così facendo la fede non può
vincere sulla ragione. A «questi settari»
di manichei, che vivono nell’errore
«si deve opporre la massima ab actu ad potentiam valet consequentia e
che questo modesto entimema: ciò è avvenuto, dunque non ripugna affatto
alla
santità e alla bontà di Dio non è destituito di ragione, osservo che
non ci
si può avventurare nella discussione partendo
da un’altra base, senza incorrerete
in qualche svantaggio.» [340] Se il fedele vuole avere qualche “vantaggio”
deve stare ai semplici fatti, poiché:
Le
ragioni della permissione del peccato, che
non siano rivelate dai misteri
rivelati nella Scrittura, presentano, per
quanto buone possano essere, questo
difetto: che le si può combattere con altre
ragioni più speciose e più conformi
alle idee che si hanno dell’ordine. Se voi
dite, per esempio, che Dio ha
permesso il male per manifestare la propria
saggezza […] vi si risponderà che,
così facendo, si paragona la divinità a un
padre di famiglia che lascerebbe
rompere le gambe ai propri figli per far
poi vedere la sua abilità nel
ricongiungere le ossa rotte. [341]
L’unica obiezione utile ed efficace a tutto
ciò è: «Le vie di Dio non sono le nostre
vie [Isaia, LV, v.8] » [342]
e Bayle conferma: «Tenetevi allora fermi a
questa risposta, è un testo della Scrittura
e non ritornateci più sopra a farvi
elucubrazioni.» [343]
Il
discorso è chiaro: le “elucubrazioni” razionalistiche
sono roba degli infedeli,
occorre rimanere abbracciati alla Scrittura.
E tuttavia la questione rimane
aperta, poiché anche «un semplice villano
riconosce chiaramente che è meglio
impedire a un uomo di cadere in un fosso,
anziché farvelo cadere dentro, per
poi tirarlo fuori.». Ma nello stesso tempo
non bisogna cadere nel gioco
razionalistico: «Tutto ciò sta a dimostrare
che non ci si deve compromettere
con i manichei senza aver stabilito, prima
di ogni altra cosa, il dogma dell’elevazione
della fede e dell’umiliazione della ragione.» [344]
poiché: «è sufficiente il lume naturale per
riconoscere che è proprio
dell’essenza di un benefattore non elargire
grazie, quando sa che di esse sarà
fatto un uso così cattivo che procureranno
soltanto la rovina di colui al quale
saranno date.» [345]
Il discorso è chiaro: perché mai Dio avrebbe
dovuto dare all’uomo più “grazie”
del necessario, quando sapeva che esso ne
avrebbe fatto cattivo uso? Proprio in
ciò si dimostra la bontà di Dio. Infatti:
Non ci sarebbe
nemico tanto implacabile che in tal caso
non colmerebbe di grazie il proprio
avversario. È proprio dell’essenza di un
benefattore non lasciar nulla di
intentato perché i suoi benefici rendano
felice colui al quale egli li
dispensa. [346]
Dunque l’Onnipotente non ha lasciato «nulla
di intentato» nella sua onnisciente opera
creatrice (ma non è riuscito a
“rendere felice colui al quale Egli li dispensa”!).
E d’altra parte: « Si
tratta di idee ovvie, che il popolo conosce
altrettanto bene dei filosofi ». Ma
Bayle non può esimersi dall’aggiungere:
Certo se non fosse
possibile prevenire il cattivo uso di un
favore altrimenti che fracassando le
gambe e le braccia ai propri beneficiati,
oppure incatenandoli nel fondo di una
prigione, riconosco che non si sarebbe obbligati
a prevenirlo: ma se si dovesse
prevenire questo cattivo uso, cambiando il
loro cuore, dando ad essi
un’inclinazione per le buone azioni, allora
è proprio questo che bisognerebbe
fare. [347]
E la considerazione ha come coda: «Non c’è
buona madre che, pur avendo permesso alle
figlie di andare a ballare, non
ritirerebbe il suo permesso se nel frattempo
si fosse accorta che le figlie non
sono capaci di resistere alla corte degli
uomini.» Come dire: se “i figli di
Dio” non sanno resistere alla corte del Diavolo
bisognerebbe pure che il buon
Padre prendesse qualche provvedimento!
Le
posizioni dell’ortodossia cristiana restano
deboli anche nelle considerazioni
che completano la nota “E”. Arriviamo alla
nota “F”, che vede il ritorno in
campo dei Manichei, che insistono malevolmente
“a ragionare” portando due prime
obiezioni:
1. Non si
concepisce come il primo uomo abbia potuto
ricevere da un principio buono la
facoltà di fare il male. […] 2. È impossibile
capire come Dio abbia potuto
limitarsi semplicemente a permettere il male,
giacché una semplice permissione
di peccare non aggiungeva nulla al libero
arbitrio e neppure lasciava prevedere
se Adamo avrebbe perseverato nel suo stato
di innocenza oppure se ne sarebbe
allontanato. [348]
Ed una terza più fastidiosa:
3. Ciò si dimostra
con un’altra ragione ancora: non si può cioè
capire come una semplice
permissione sia in grado di trarre dal numero
delle cose puramente possibili
gli avvenimenti contingenti, né come possa
porre la divinità in condizione di
essere assolutamente sicura che la creatura
peccherà. Una semplice permissione
è insufficiente a fondare la prescienza divina.
4. Se poi voi dite,
d’accordo con coloro che più di tutti hanno
cercato di escogitare un metodo
capace di discolpare la provvidenza, che
Dio non ha affatto previsto la caduta
di Adamo, otterrete un ben misero vantaggio;
Dio infatti ha per lo meno saputo,
in modo certissimo, che il primo uomo correva
il rischio di perdere la propria
innocenza […] [349]
Il razionalista manicheo continua ad
imperversare in maniera sempre più precisa,
ma noi non lo seguiremo oltre e ci avvieremo alla
conclusione della nota “N”, dove Bayle si
defila e si mette in un angolo come
l’attore principale che si fa osservatore
nell’ombra del fuori-scena. La parola
passa a un dotto della generazione precedente
(l’olandese Daniel Heinsius) di
cui riporta un interessante disquisizione
sul bene e sul male, in cui vengono
coinvolti Plutarco, Giamblico, Ippodamante,
Massimo di Tiro, Platone,
Parmenide. Ma Heinsius dà poi la parola a
Simplicio e al suo Commentario al
Manuale di Epitteto, di cui Bayle riporta un passo, notando:
«Le parole di
questo commentatore mi sono sembrate
talmente interessanti che ho pensato di riportarle
ad ornamento di questa parte
del mio Dizionario.» [350]
Egli: «Confuta con forza e solidità ammirevoli
l’ipotesi dei manichei», ma alla
fine deve concludere che: «Si serve dello
stesso metodo usato dagli antichi
Padri. […] È l’unico che poteva prendere.»
Tutto torna al punto di partenza e
Bayle conclude:
È necessario
passare per quel punto; dopodiché ci si trova
nel bel mezzodì un quadrivio,
come diceva non molto tempo fa, a Parigi,
un dotto abate: «Ho di fronte a me
quattro strade: quella dei calvinisti, quella
dei giansenisti, quella dei
tomisti e quella dei molinisti; so bene quella
che non si deve prendere, ma non
già quella che si deve seguire, quem fugiam habeo, quem sequar non habeo:
la prima strada è contraria al Concilio di
Trento, la seconda alle costituzioni
dei Papi, la terza alla ragione e la quarta
a San Paolo.» Quelli che non sono
cattolici possono più facilmente trarsi dall’imbarazzo,
e preferire l’autorità
di San Paolo a quella dei Papi e dei Concili.
[351]
La disputa è finita, ma la conclusione è
interlocutoria. Il manicheo è sconfitto?
C’è da dubitarne. Bayle ha messo in
opera una potente macchina dialettica che,
a differenza di quella dialogica
platonica, non porta la vittoria a nessuno.
Il fasullo gioco di Platone è
gettato alle spalle dal filosofo pre-illuminista,
che non vuole dare facili (e
preconfezionate) risposte, quanto porre domande
e insinuare dubbi su cui
riflettere.
L’articolo Rorario pone il tema dell’anima nell’uomo e nelle
bestie. La discussione, che bordeggia evidentemente
il cartesianesimo, è un
poco noiosa in tutta la prima parte, ma vi
è una considerazione assai
interessante alla nota “G”, là dove Bayle
nota tra l’ironico e l’amareggiato:
È questo, forse, il
lato più debole di tutta la loro [dei cartesiani]
posizione, e ciò, a quanto
pare, conferma una riflessione assai giudiziosa
che si può fare sulla natura
della conoscenza umana: sembra che Dio, che
ne è il distributore, agisca nei
confronti di tutte le scuole filosofiche
come un buon padre comune, perché non
permette che una possa trionfare completamente
sulle altre distruggendole senza
rimedio. Una posizione filosofica messa con
le spalle al muro, sconfitta,
stremata, trova sempre i mezzi per risollevarsi,
quando, abbandonando la
difensiva, passa all’attacco con diversioni
e ritorsioni. [352]
Il
Buon Dio, “distributore” della sapienza,
ha fatto bene i suoi conti. Non scontenta
nessuno, lascia ognuno nei dubbi, e così,
per sapere qualcosa di certo, bisogna
sempre ricorrere alla verità eterna della
Scrittura (!). Bayle ci ricorda che
le dispute tra i pensatori, siano essi filosofi
o teologi, si configurano come
delle vere e proprie guerre, con morti e
feriti. È una brutta cosa, e
soprattutto assai poco filosofica (ma quanto
c’è di autentica filosofia in tali
guerre?). Nel prosieguo dell’articolo Bayle
oscilla tra Cartesio e Leibniz,
dando l’impressione di essere abbastanza
vicino a quest’ultimo, ma quando,
verso la conclusione, decide di prender posizione
nei confronti dell’”armonia
prestabilita” e della deterministica unità
anima-corpo, ne prende le distanze:
«I cartesiani sostengono che Dio ne è l’esecutore
[delle leggi dell’agire
dell’uomo], Leibniz vuole invece che sia
la stessa anima a eseguirle. Ma è
proprio quest’ultima cosa che mi sembra impossibile,
perché l’anima non ha gli
strumenti adatti per compiere una simile
esecuzione.» [353]
L’articolo Sennnert si occupa di biologia e di genetica in
rapporto all’anima. Daniel Sennert (1572-1637)
era stato un illustre medico e
biologo tedesco di origine polacca alla cui
opera Bayle si era interessato e la
cui teoria genetica egli stesso sintetizza
nei seguenti termini: «Credeva che
la semenza di tutti gli esseri viventi fosse
animata e che l’anima di questa
semenza fosse la causa della loro organizzazione.
Su di lui grava l’accusa di
blasfemia e di empietà per aver
sostenuto la tesi che l’anima delle bestie
non è materiale. Si affermava
infatti che ciò equivaleva a sostenere che
essa era immortale come l’anima
dell’uomo.» [354]
Posizione ovviamente intollerabile per la
fede e che anticipava le correnti
vitalistiche che avrebbero caratterizzato
la genetica settecentesca. Bayle
sembra aderire a questa tesi che si opponeva
sia ad Avicenna e sia agli
Scolastici, ma anche alle tesi meccanicistiche
dei cosiddetti iatromeccanici,
tra i quali spiccava l’olandese Boerhaave,
il maestro di La Mettrie. Sul
problema di come un feto si formi e diventi
per accrescimento un adulto vediamo
quanto Bayle scrive alla nota “C”:
Mi si concederà, ne
sono sicuro, che vedere nelle leggi del movimento
l’unica causa della
costruzione di una piccola casa, è altrettanto
inconcepibile quanto pensare che
tali leggi la trasformino in un grande palazzo,
dove ciascuna camera, ciascuna
porta, ciascuna finestra eccetera mantenga
le stesse proporzioni stabilite
dall’architetto della piccola casa. Se queste
due cose sono ugualmente
difficili, perché dovremmo credere che le
leggi del movimento, incapaci di
organizzare un punto di materia, abbiano
la virtù, se lo trovassero già
organizzato, di trasformarlo in un animale
mille volte più grosso, mantenendo
tutte le proporzioni in un numero quasi infinito
di organi di diversa natura,
gli uni molli, gli altri fluidi, gli altri
ancora duri eccetera? Troverei
pertanto assai verosimile che l’accrescimento
del foetus, organizzato,
se si vuole, fin dall’inizio del mondo, sia
diretto da una causa particolare,
che abbia l’idea di questa opera e di mezzi
necessari per ingrandirla, quando
esegue un piano che trova già bello e fatto
e completamente dispiegato. [355]
Abbiamo qui l’adesione di Bayle alla teoria
biogenetica del preformismo (si veda § 8.7), ancora molto forte alla
fine del ‘600 prima di venire soppiantata
dalla tesi epigenetica. Ciò che qui è
importante rilevare è come Bayle assuma un
atteggiamento nettamente
antimeccanicistico ed a favore del vitalismo,
prendendo posizione su un disputa
che avrebbe caratterizzato buona parte del
Settecento, e che avrebbe visto una
radicalizzazione meccanicistica in senso
ateo ne l’L’uomo macchina di La
Mettrie. La posizione critica assunta da
Sennert riguardava il fatto che nel
suo De generatione viventium aveva sostenuto che l’anima delle bestie
era immateriale come quella dell’uomo, ma
che solo a questi il Creatore aveva
concesso la grazia dell’immortalità.
Bayle conclude l’articolo con la nota “F”
dove si sofferma sulla tesi
sennertiana secondo la quale anche la formazione
di minerali e metalli avrebbero
potuto essere causata da “intelligenze” o
“spiriti”. Vediamo come il Nostro si
esprime sull’argomento:
Tutto ciò sembra
assurdo, ma se si pensa: 1) che nella buona
filosofia bisogna assegnare ai
fenomeni una causa diversa dalla volontà
di Dio; 2) che né la terra né le
qualità elementari dei fossili né le loro
forme sostanziali sembrano capaci di
alcun effetto che richieda un particolare
arrangiamento delle parti, una scelta
o un discernimento di ciò che è loro proprio;
se, dico, si riflette su ciò,
senza d’altra parte riuscire a concepire
come le leggi del movimento possano
distribuire le particelle della materia esattamente
nel modo in cui devono
essere per formare l’oro, un diamante, uno
smeraldo eccetera, e neppure
scegliere quelle che sono adatte a tale scopo,
si deve ammettere che questa
opinione di Sennert non è del tutto inverosimile.
[356]
Abbiamo qui un ulteriore esempio di come
Bayle, pur respingendo una tesi, in una valutazione
dei pro e dei contro
che la riguardano, cerchi di valutarla nei
termini in cui si pone come tesi in
se stessa e non per i principi acquisti e
aprioristici che implicitamente nega.
Con
l’articolo Senofane è affrontato il tema della conoscenza in
rapporto
alle testimonianze dei sensi e all’uso della
ragione nella prospettiva di
un’assoluta unicità di Dio. Bayle considera
di pensiero di Senofane
un’anticipazione di quello di Spinoza, ed
il rimprovero che gli muove è di aver
voluto costruire su basi razionali una tesi
ontologica che finisce per negare
la ragione stessa diventando pura astrazione.
Tuttavia, dopo aver affermato che
l’opinione di Senofane è di «un’empietà abominevole»,
egli cerca di penetrarne
meglio la sostanza giungendo alla conclusione
che: «Senofane ragionava con
maggiore consequenzialità di Aristotele che,
non ammettendo alcuna forma di
Creazione, riconosceva una materia eterna
suscettibile di un’infinità di forme
successive. » [357]
L’obbiettivo di Bayle, infatti, è di vedere
in Senofane un radicalismo monista
più comprensibile del trinitarismo cristiano,
sì da fargli dire, citando le
parole del giansenista (e anticartesiano)
Pierre Nicole (Perpetuité de la
foi) a proposito del mistero della Trinità:
«Se la ragione umana presta
ascolto alla propria voce, sentirà nascere
in sé la più completa ribellione contro
verità per lei inconcepibili.» [358]
sino al punto che «Per credere in esse deve
accecare se stessa, deve far tacere
tutti i propri ragionamenti e tutti i propri
punti di vista, per umiliarsi e
annullarsi davanti al peso dell’autorità
divina» In realtà Bayle cita Nicole
con un atteggiamento problematico, nel senso
che se il portroyalista affermava
il primato della fede sulla ragione, egli
ne fa un problema gnoseologico.
Veniamo ora a Simonide, la voce del Dizionario dove si
affronta il concetto di Dio e dei suoi attributi.
La leggenda narra che
Simonide, richiesto da Gerone di definire
il concetto di dio, rimanda
continuamente la risposta, ammettendo alla
fine di non poterla dare perché più
ci riflette e più le idee gli diventano confuse.
Analoga risposta avrebbe
finito per dare Talete a Creso. Bayle parafrasa
le perplessità dei due greci in
senso cristiano, e i loro dubbi diventano
quelli di definire il Dio della
Bibbia e dei Vangeli. Nel rilevare che anche
il più umile cristiano è in grado
di dire che cosa sia Dio in base al catechismo,
viene giustificato il silenzio
dei due pagani con l’ipotesi che abbiano
temuto di improvvisare una risposta
semplicistica e generica:
Ma poiché volevano che tutti i termini della
definizione richiesta fossero così evidenti
da non poter essere rimessi in
discussione, e nello stesso tempo si accorgevano
che era impossibile contestare
tutto ciò che avrebbero potuto proporre,
chiesero un rinvio dietro l’altro, e
infine non seppero più che cosa rispondere.
[359]
Si prova ad immaginare le perplessità di
Simonide:
Se rispondo che Dio
è distinto da tutti i corpi dell’universo,
mi chiederanno: l’universo è sempre
esistito, almeno per quanto riguarda la materia?
Questa materia ha una causa
efficiente? Se rispondo che ne ha una, mi
impegno a sostenere che è stata fatta
dal nulla; ma questo è un principio che non
solo riuscirò mai a far capire […]
Se dico che la materia dell’universo non
ha causa efficiente, mi chiederanno
allora da dove proviene il potere che Dio
ha su di essa. Sarà allora mio dovere
dimostrare con solide ragioni come, dati
due esseri che esistono
indipendentemente l’uno dall’altro ed ugualmente
necessari ed eterni, uno possa
sull’altro tutto, senza dover subire reciprocamente
l’azione dell’altro. Non
basta dire che Dio è distinto dai corpi che
compongono l’universo, si vorrà
sapere anche se rassomiglia loro per quanto
riguarda l’estensione, cioè se Dio
è esteso. Se rispondo che è esteso, si giungerà
alla conclusione che è corporeo
e materiale […] Se dico invece che Dio non
è esteso, si concluderà che non è in
nessun luogo e non può aver alcune legame
con il mondo. Come riuscirà allora a
muovere i corpi? Come farà ad agire là dove
non è ? […] Ma se anche mi si
concedesse che Dio è una sostanza immateriale
e in estesa, uno spirito infinito
e onnipotente, quante nuove difficoltà mi
resteranno ancora da risolvere? [360]
Bayle
può essere considerato il primo filosofo
moderno “della complessità
problematizzata”, colui che troverà in Diderot
l’erede che ne completa l’opera.
Sono qui posti, in successione, tutti i termini
di un problema abbastanza
ozioso e che non ci interessa seguire nei
suoi sviluppi. L’importante è
cogliere, ancora una volta, la specificità
del “metodo” analitico bayleano. Egli
ha passato in rassegna le più note ipotesi
su Dio, concludendo con la tesi
cristiana dello «spirito infinito e onnipotente»,
in cui il greco intravede
difficoltà forse ancora maggiori, per mettere
in evidenza come il vantaggio
straordinario del Cristianesimo stia nel
fatto che, essendo religione
“storica”, non è tenuta a problematizzare
il concetto di Dio. I cristiani
«devono tutta la loro superiorità esclusivamente
alla fortuna di essere stati
educati in una chiesa dove hanno acquistato
la fede storica e talvolta anche la
fede giustificante delle verità rivelate.
Tutto ciò li porta a convincersi di
certe verità delle quali non capiscono niente.»
[361]
L’ironia del cristiano Bayle scappa in
un’affermazione dirompente: i cristiani si
convincono di verità «delle quali
non capiscono niente». Che ne è allora di
secoli e secoli di discussioni
teologiche per capire e “far capire” il Vangelo?
Proseguiamo:
I nostri più grandi
teologi, se si comportassero come Simonide,
se cioè volessero affermare sulla
natura di Dio soltanto quello che sembrasse
loro incontestabile, evidente, e a
prova di qualsiasi difficoltà in base ai
lumi della ragione, chiederebbero
incessantemente nuove proroghe a tutti gli
Ieroni di questo mondo. Aggiungete
che se anche Simonide consultasse ed esaminasse
le Sacre Scritture, non potrebbe
uscire dal labirinto in cui si involve né
porre termine al proprio silenzio. [362]
Siamo
ancora sempre in bilico tra le due opzioni
contrapposte della fede, come verità
regalata, e della razionalità come verità
da conquistare, ma dubbia, e soprattutto
a rischio di blasfemia. Eppure, sia la rivelazione,
come epifania della suprema
verità divina, e sia la ragione, come pallida
copia dell’onniscienza divina, sono entrambe doni
di Dio all’uomo e di Lui figlie. Ma, questo
è il senso della posizione bayleana
(o un falso senso?), figlia la prima e figliastra
la seconda; sicura la fede,
incerta la ragione. E tuttavia il Nostro
propone una legittimazione della
ragione che ne salvi le prerogative conoscitive
proprio grazie alla fede:
La forze della ragione
e dell’esame filosofico valgono soltanto
a tenerci in forse e a farci temere di
sbagliare, sia che affermiamo sia che neghiamo.
Alla ragione deve aggiungersi o
la grazia di Dio o l’educazione dell’infanzia.
E fate bene attenzione che
nessuna ipotesi come quella evangelica, offre
il fianco alle obiezioni della
ragione. [363]
Sia la Grazia che l’indottrinamento possono
salvare la ragione dalla sua perniciosità
per la salute spirituale dell’uomo.
Ma il razionalista Bayle è veramente convinto,
nella sua coscienza, della bontà
di questo asserto?
L’articolo Spinoza è quello in cui Bayle manifesta la sua decisa
opposizione al panenteismo, poiché la tesi
panpsichistica di un mondo-mente
identificato con un Dio-Necessità non lo
convince per nulla. Per stigmatizzarlo
usa il termine che da sempre caratterizza
l’opposizione teologica, ovvero: ateismo.
La a-cultualità della teologia spinoziana
diventa tanto ir-religione quanto
astrazione ed in-comprensibilità sul terreno
filosofico. Si afferma:
Ben poche sono le persone
sospettate di abbracciare la sua dottrina,
e fra i sospetti sono pochissimi
quelli che l’hanno studiata; e meno ancora
fra questi sono coloro che, avendola
capita, non sono stati respinti dalle difficoltà
e dalle impenetrabili
astrazioni che vi si incontrano. Le cose
in verità stanno così: si chiamano
comunemente spinozisti tutti quelli che non
hanno religione […] [364]
Il Nostro ci precisa qui due fatti
importanti: il primo è che ai suoi tempi
(esattamente come oggi!) molti si
proclamano spinozisti senza aver mai letto
Spinoza, basandosi sul “sentito
dire” o su convenzionali sintesi manualistiche.
Il secondo: il termine
“spinozista” è assunto, sia da chi vuol darsi
un’etichetta di “anti-cristiano”
e sia dai cristiani che intendono squalificare
la teologia spinoziana, come
“ateo”. In conclusione: sono numerosi coloro
che si proclamano atei essendo dei
panteisti e altrettanti i teologi che voglio
farci credere che il termine
“teologia” competa solo al Cristianesimo
o, quanto meno, al monoteismo.
Bayle
riprende poi l’opinione del viaggiatore-pensatore
François Bernier, il quale
pensa che «lo spinozismo non sia altro che
una maniera particolare di
interpretare una dottrina largamente diffusa
nelle Indie.» Naturalmente Bernier
ha torto a pensare che Spinoza abbia fatto
riferimento al panenteismo indiano,
assai poco conosciuto nel ‘600 in Europa,
ma è indubitabile l’assonanza dello
spinozismo col vedantismo. In realtà, la
fonte prima di Spinoza è Giordano
Bruno riletto alla luce del razionalismo
stoico, del quale egli rifiuta
l’assunto di “Dio nel cosmo”, per sostenere,
all’opposto, “il cosmo in Dio”, ma
ne assume integralmente l’aspetto etico come
“serena e razionale introiezione
della necessità dell’Uno-Tutto”. Hegel definirà giustamente
“acosmismo”
la teologia di Spinoza, nel senso che l’universo
in Spinoza è deprivato di ogni
realtà, poiché tutto è diventato Natura,
l’Unità necessaria di un Tutto
divinizzato.
Vediamo ora le obiezioni che Bayle muove
allo spinozismo, contenute nella nota ”N”
di Spinoza, dove egli mostra però di aver capito poco
Spinoza, forse perché
non ha messo sufficientemente in relazione
il Tractatus theologico-politicus
con l’Ethica. Un errore frequente, e che conduce ad innumerevoli
fraintendimenti, perché solo cogliendo la
stretta relazione tra le due opere
(scritte quasi contemporaneamente) è possibile
capire il senso del panenteismo
di un Baruch che è tanto grande come etico
quanto modesto come ontologo.
Ci
limiteremo a citare una parte minima delle
corpose obiezioni del Nostro, quella
che ci pare più significativa, che accompagneremo
con commenti sintetici e
semplificati. Partiamo da una sorta di “premessa
di inaccettabilità” che Bayle
pone, rilevando, tra altre cose, una prima
incongruenza spinoziana: « […] per cui Dio, l’essere
necessario e infinitamente perfetto, è sì
la causa di tutte le cose che
esistono, ma non differisce affatto da esse.»
Noteremo soltanto che Spinoza,
alla Preposizione XXIV della Parte Prima dell’Etica, (che
ha per titolo Dio), afferma chiaramente: «L’essenza delle
cose prodotte
da Dio non implica l’esistenza.» [365]
e inoltre che, alla Proposizione I della Parte Seconda (Della
Natura e dell’Origine della Mente) è precisato: «Il pensiero è un attributo
di Dio, ossia Dio è una cosa pensante.» [366].
Quindi, Dio, come cosa pensante, è Mente,
puro spirito; il fatto che Egli si
manifesti “anche” come materia, e che questa
ammetta delle modificazioni, non
significa affatto che queste modificazioni
”esistano”, come peraltro è
precisato. E sin dalla prima obiezione risulta
chiaro il sostanziale fraintendimento di
Bayle, che afferma:
È impossibile che l’universo sia una sostanza
unica, perché tutto ciò
che è esteso ha necessariamente delle parti
e tutto ciò che ha delle parti è
composto; e poiché le parti dell’estensione
non sussistono una nell’altra,
è assolutamente necessario o che
l’estensione non sia una sostanza o che ciascuna
parte dell’estensione sia una
sostanza particolare e distinta da tutte
le altre. [367]
Poco oltre, il Nostro, a cui sfugge non solo
la non-sostanza delle “modificazioni” ma
il fatto che esse non sono affatto
“parti”, insiste: « Sarete
forse sorpresi pensando che egli si sia arrabattato
per tanti anni a forgiare
un nuovo sistema che trovava uno dei suoi
principali pilastri nella presunta
differenza fra la parola “parte” e la parola
“modificazione”». [368] Risulta qui evidente che il
cristiano Bayle non solo non riesce a porsi
in sintonia con un pensiero
panpsichistico (che concepisce come unica
realtà il pensiero), ma, negando ciò
che non capisce, si arroca su categorie della
dicotomia ebraico-cristiana di
spirito/materia che Spinoza ha abbandonato.
Il
fraintendimento prosegue nella seconda obiezione,
dove Bayle intende contestare
a Spinoza il fatto che Dio possa identificarsi
con la Natura, notando:
Se è assurdo concepire Dio esteso, perché
significa togliergli la sua
semplicità e ritenerlo composto di un numero
infinito di parti, che cosa
diremmo se pensassimo che ciò significa anche
ridurlo alla condizione della
materia, il più vile di tutti gli esseri,
quello che quasi tutti gli antichi
filosofi hanno posto immediatamente al disopra
del nulla? [369]
Il fatto è che: 1°: Dio per Spinoza (in
quanto “cosa pensante”) è incomposto, e
2°: quello del “nulla” è per lui concetto
privo di senso, esistendo solo
il Tutto. Veniamo alla terza obiezione:
Egli si prendeva senza dubbio gioco del mistero
della Trinità, e si
meravigliava che tante persone osassero parlare
di una natura conchiusa in tre
ipostasi, lui che, se vogliamo esprimerci
propriamente, dava alla natura divina
tante persone quante ce ne sono sulla terra.
[370]
Spinoza non si prendeva gioco della Trinità;
semplicemente, in quanto ebreo, non poteva
prenderla in considerazione. Vedeva
tuttavia in Gesù un importante profeta, sì
da scrivere:
Per cui se Mosè parlò con Dio faccia a
faccia, come un uomo suole parlare con un
suo simile (cioè come due uomini
parlano tra loro), il Cristo invece comunicò
con Dio mente a mente. È chiaro
pertanto che, tranne il Cristo, nessuno ricevette
la rivelazione se non per
opera dell’immaginazione, cioè per mezzo
di parole ed immagini; che, per
profetizzare, non è necessaria una mente
particolarmente perfetta, ma una più
viva immaginazione, come con più chiarezza,
ampiamente dimostrerò nel capitolo
che segue. [371]
Proseguiamo
con la quarta obiezione, dove Bayle considera
il Dio-Uno-Tutto in rapporto al
problema di esser inclusivo anche del male.
Ciò che il Nostro trova
inammissibile è che il male possa essere
“di Dio”:
Ed ecco un filosofo che trova giusto che
Dio
sia, lui stesso, l’agente e il paziente di
tutti i crimini e di tutte le
miserie dell’uomo. […] Così nel sistema di
Spinoza tutti quelli che dicono «I
Tedeschi hanno ucciso diecimila Turchi» non
si
esprimono correttamente, ma falsamente, a
meno che non vogliano dire
«Dio modificato in Tedeschi ha ucciso Dio
modificato in diecimila Turchi.» [372]
Il punto di vista bayleano ancora una volta
si chiarisce come profondo fraintendimento
dell’olandese, poiché il bene o il
male, i morti o i vivi, rientrano per Spinoza
nella Divina Necessità e non
hanno alcuna realtà al di fuori di essa.
Tutto ciò che è ed accade è perché
così deve essere e accadere. Il senso morale
più alto, nel panenteismo
spinoziano, sta nell’accettazione della necessità e nell’integrazione
ontologica e morale con essa, nei termini
già posti dagli Stoici. Nella quinta
obiezione l’argomento è molto simile, ed
ben sintetizzato nella frase: «Come si è potuto
immaginare che una natura indipendente, che
esiste di per se stessa e che
possiede infinite perfezioni, sia soggetta
a tutte le sventure del genere
umano?» [373]
che riteniamo superfluo commentare.
La
sesta obiezione conferma quanto abbiamo già
osservato, poiché Bayle si domanda:
«Vuole insegnare delle verità? Vuole confutare
degli errori? Ma ha il diritto
di dire che vi sono degli errori? […] Non
emanano forse anch’essi dalla causa
necessaria?» e la conclusione è: «Nulla dunque
di più inutile delle lezioni di
questo filosofo: proprio lui, che non è altro
che una modificazione della
sostanza, doveva prescrivere all’essere infinito
ciò che doveva fare!». [374] Ciò che Spinoza vuol
correggere non è certamente l’essere=divenire del
Dio-Necessità-Uno-Tutto, ma semplicemente
l’atteggiamento dell’uomo, il quale,
succube della superstizione tradizionale,
lo pensa erroneamente (cioè
antropocentricamente e materialisticamente)
come un sovrano terreno, che
giudica, premia e punisce. Dio, per Spinoza,
va pensato come una Sostanza
impersonale, come pura Intelligenza infinita
per la quale tutte le categorie
umane di giudizio sono del tutto inadeguate. Alla nota “DD” è Bayle stesso a dirci che
gli spinozisti del tempo
affermavano che egli non aveva compreso Spinoza
[375]; cosa che egli contesta
recisamente affermando: «le mie obiezioni
sono senza dubbio giuste e io l’ho
attaccato direttamente secondo il vero significato
delle sue parole » [376].
Se
abbiamo chiuso la disamina del pensiero di
Bayle dovendo rilevare il limite
interpretativo del cristiano che non comprende
il panenteista, non per questo abbiamo
sminuito l’enorme portata della speculazione
bayleana. Abbiamo esaminato per
ultimo l’articolo Spinoza perché nell’ordine alfabetico la sua iniziale
segue quella degli altri che abbiamo considerato,
ma speriamo che il lettore
consideri l’opera di Bayle nel suo insieme.
Si tratta inoltre di un caso
particolare di fraintendimento, ma che ci
correva l’obbligo di evidenziare,
dove il equivoca perché si arroca inconsapevolmente
su concetti come quello di libero
arbitrio e di volontà che gli precludono ogni possibilità di
comprensione. Assunto Spinoza come un’eccezione, vogliamo concludere sottolineando
che, in generale, il Dizionario si configura come uno straordinario
repertorio di problemi posti
a partire da un certo tema, con una riflessione
articolata e complessa, e, nei
casi migliori, con l’apertura di importanti
orizzonti filosofici per l’epoca.
Va però aggiunto, che Bayle, capace di sottoporre
al dubbio e alla critica una
massa cospicua di punti di vista che gli
appartengono ma non lo legano, pare
incapace di sottoporre al dubbio e alla critica
alcuni elementi base della sua
fede cristiana che ritiene irrinunciabili,
e che quindi, in qualche caso, inceppano
le sue analisi.
2.7 La fisica di Newton
All’inizio del ‘700 lo scenario della fisica
è dominato dall’opera di
tre grandi personaggi, e tutti e tre grandi
matematici, che sono Descartes,
Huygens e Newton. In una visione semplificata
del quadro di riferimento forse
si potrebbe dire che il primo è un metafisico
che vuol fare il fisico, il
secondo un fisico distratto dalla metafisica
ed il terzo un fisico che fa solo
il suo mestiere. È significativo il fatto
che Newton, uomo di grande fede,
abbia sempre ritenuto che il suo lavoro potesse
andare a maggior gloria di Dio,
ma non ha mai inteso fare un passo oltre
le conclusioni della fisica per trarne
conclusioni che fisiche non fossero e che
non rispondessero rigorosamente alle
conclusioni sperimentali. Naturalmente con
ciò non sono messi in discussione
gli enormi meriti di Cartesio per aver inventato
la geometria analitica e per
averci dato la regola dei segni in algebra,
né a Huygens per aver fornito
grandi contributi e a vasto raggio in tutti
i campi della fisica, ma se il
francese aveva preso una grossa cantonata
con “la fisica dei vortici”,
l’olandese, con il suo tardo Cosmotheoros aveva purtroppo voluto
tenergli dietro. Ciò che i cartesiani non
riuscivano a capire era la realtà
dell’azione fisica “a distanza”, così pensavano
di esser più concreti
nell’ammettere solo quella “per contatto”,
al punto di accusare Newton di aver
posto una sorta di “forza occulta” [377]
in quanto “immateriale”, tanto da farlo passare
quasi per uno stregone [378].
L’inglese, senza farsi trascinare nelle polemiche,
seppe stare zitto quel tanto
che bastava per non farsi coinvolgere in
ciò che lo avrebbe distratto dal suo
lavoro ( e che lavoro!). Si è anche detto
che Newton, dal 1703 in poi, come
presidente della Royal Society, avesse esercitato
una sorta di dittatura
culturale sulla scena britannica; in realtà
il grande prestigio acquisito era
quanto mai meritato. Esso nasceva, in realtà,
solo dall’aver evidenziato le
fantasie fisiche di Cartesio e dei suoi seguaci
come di altri metafisici che si
pretendevano fisici, di aver fatto capire
la differenza tra la scienza e la pseudo-scienza,
dall’aver aperto la strada alla nuova fisica
del cosmo reale.
Naturalmente con la relatività einsteniana
il modello fisico newtoniano
è andato giustamente in soffitta, ma per
due secoli è stata la base irrinunciabile
su cui si è potuto costruire una conoscenza
di cui esso era stato valida
premessa. Né si deve ritenere che tutti i
punti di vista di Newton fossero
impeccabili, al contrario, essi risultano
non di rado contraddittori, e, se uno
dei maggiori pregi di Newton è di aver sfondato
gli orizzonti conoscitivi con
nuove intuizioni e relativi calcoli e dati,
non di rado le lasciò spesso a
mezza strada, senza dar loro seguito o producendo
sviluppi inadeguati.
Significative sono poi le oscillazioni relative
al tema dell’esistenza dell’etere;
preso in considerazione nel 1704, negato
nel 1706 ma poi ripreso nel 1717. E
neppure i suoi comportamenti possono essere
considerati ineccepibili. Poco
propenso a confronti e dibattiti in pubblico
aveva affidato (o lasciato assumere)
a suoi collaboratori o estimatori il compito
di diffondere e commentare le sue
idee, salvo ritirarne poi l’appoggio al primo
elemento di insoddisfazione.
Nel
nostro studio non potremo dare più di qualche
cenno esemplificativo di ciò che il
grande Isaac aveva esposto, ed è naturalmente
il Philosophiae naturalis
principia matematica, del 1687 (seconda edizione nel 1713 e terza
nel 1726)
, che dobbiamo incominciare a considerare.
Per quanto assai note, vogliamo qui
ricordare le definizioni con cui si apre l’opera:
1. La quantità di materia è la misura della
medesima
ricavata dal prodotto della sua densità per
il volume.
2. La quantità di moto è la misura del medesimo
ricavata
dal prodotto della velocità per la quantità
di materia.
3. La forza insita della materia è la sua disposizione
a
resistere; per cui ciascun corpo, per quanto
sta in esso, persevera nel suo
stato di quiete e di moto rettilineo uniforme.
4. Una forza impressa è un’azione esercitata
sul corpo al
fine di mutare il suo stato di quiete e di
moto rettilineo uniforme.
5. La forza centripeta è la forza per effetto
della quale
i corpi sono attratti, o sono spinti, o comunque
tendono verso un qualche punto
come verso un centro.
6. La quantità assoluta di una forza centripeta
è la
misura della medesima, ed è maggiore o
minore a seconda della potenza della causa
che la diffonde dal centro
attraverso gli spazi circostanti.
7. La quantità acceleratrice di una forza centripeta
è la
misura della medesima ed è proporzionale
alla velocità che, in un dato tempo,
essa genera.
8. La quantità motrice di una forza centripeta
è la
misura della medesima ed è proporzionale
al moto che, in un dato tempo, essa
genera. [379]
Se ci
siamo soffermati su queste otto espressioni
non è per informare sul noto, ma
per far comprendere come con Newton la fisica
cominci a porsi in quel modo
sintetico e chiaro che sarà la base evolutiva
di essa. Naturalmente ogni
definizione è corredata da un’adeguata esplicazione
sulla quale sorvoliamo. A
commento di esse diremo solo che la 1. pone
come “quantità di materia” quel
concetto di massa che è il fondamento della costituzione atomica
della
materia stessa, e che la 5. contempla la
gravità e il magnetismo quali forme
della forza centripeta, alludendo a quel
rapporto tra forme differenti di forza
che le sottraeva alle vecchie distinzioni
qualitative.
Alle definizioni segue lo scolio, in cui il Nostro, ai primi due
punti, pone quei concetti di tempo e di spazio assoluti che
costituiscono il fondamento della sua fisica.
Non ci soffermeremo oltre
sull’esposizione scientifica, ma vorremmo
cogliere soltanto alcuni punti che
riteniamo significativi dal punto di vista
filosofico. Nello scolio
conclusivo alla Sezione XI del Libro primo
si legge:
Nello stesso senso generale assumo la parola
impulso, in quanto
in questo trattato esamino, come ho spiegato
nelle definizioni, non le specie
delle forze e le qualità fisiche, ma le quantità
e le proporzioni matematiche.
In matematica vanno investigate quelle quantità
e quei rapporti delle forze che
discendono dalle qualsiasi condizioni poste;
ma quando si passa alla fisica,
questi rapporti si devono confrontare con
i fenomeni, affinché si sappia quali
condizioni delle forze convengano ai diversi
genere di corpi attrattivi. Allora
soltanto sarà lecito discutere più sicuramente
intorno alle specie, alle cause
e alle ragioni fisiche delle forze. [380]
Abbiamo
qui una rigorosa distinzione tra fisica e
matematica che vede la seconda come
fondamentale per le assunzione della prima
sotto il profilo computazionale, ma le
sue enunciazioni, sul piano della fisica,
valgono soltanto allorché vengono « confrontate con i fenomeni ». Poiché sono solo i
fenomeni, e il loro rilevamento “sperimentale”,
che conferiscono all’astrazione
matematica un significato reale. Nello stesso
tempo vengono sottintese due
altre cose: 1. che ogni definizione matematica
non va utilizzata indebitamente
per dedurne teorie fisiche, e 2. che la fisica
riguarda, in ogni caso, il “come” della realtà materiale
e
mai il “che cosa”.
Per
quanto mai esplicitato, sappiamo come Newton
abbia probabilmente sempre pensato che solo
una struttura elementare di
tipo atomico potesse rendere ragione della
sua fisica, senza peraltro (fedele
al principio hypotheses non fingo) andare oltre. Sappiamo peraltro della
sua buona conoscenza di Lucrezio da quella
parte degli Scolii classici
relativa al I Libro del De rerum natura [381],
per quanto i suoi giudizi sull’atomismo siano
sempre molto vaghi. Già nel suo
affrontare la fisica dei fluidi (Sezione
V del Secondo Libro), ci rendiamo
conto che l’insistenza sul considerare le
“particelle” costituenti un fluido e
non la sua massa è il segno di una chiara
intuizione della struttura intima
della materia in senso corpuscolare. La Proposizione
XXIII e il Teorema XVIII (col
loro scolio) è tutto un ribadire che sono
le particelle del fluido e non
il fluido in se stesso le protagoniste dei
fenomeni fisici. La conclusione è la
seguente:
Ma il quesito se i
fluidi elastici constino di particelle che
si respingono mutuamente è un
problema fisico. Noi abbiamo dimostrato matematicamente
la proprietà dei
fluidi che constano di particelle di
questo tipo, al fine di fornire ai filosofi
la opportunità di trattare tale
problema. [382]
Newton, che qui ci rende un’anticipazione
del
moto browniano, ribadisce non solo la distinzione tra il
dato matematico
e quello fisico, ma si ferma sul confine
che esulerebbe dai dati in suo
possesso, rinviando ai “filosofi” ogni eventuale
sviluppo concettuale. Sarà
nell’Ottica del 1704, e lo vedremo
più avanti, che la sua posizione “atomistica”
si farà più esplicita
Il
Libro Terzo dei Principia (che ha per titolo Sistema del mondo) è
soprattutto di argomento astronomico ed ha
per oggetto principale il moto
celeste. Esso si apre con le quattro Regole del filosofare, sulle quali
sarà utile soffermarci, poiché è con esse
che Newton indica i punti fermi di un
metodo operativo basato sulla sperimentazione e sull’induzione. E
sarà il caso di ricordare che questa, a dispetto
di tutte le acrobazie
negazionistiche di un Popper, rimane lo strumento
principale della ricerca
scientifica e dell’adeguamento delle nostre
conoscenze al reale. Le regole
sono:
1.
Delle cose naturali non devono essere ammesse
cause più numerose di quelle che sono vere
e bastano a spiegare i fenomeni.
2.
Perciò, finché può esser fatto, le medesime
cause vanno attribuite ad effetti naturali
dello stesso genere.
3.
Le qualità dei corpi che non possono essere
aumentate e diminuite, e quelle che appartengono
a tutti i corpi sui quali è
possibile impiantare esperimenti, devono
essere ritenute qualità di tutti i
corpi.
4. Nella
filosofia sperimentale, le proposizioni ricavate
per induzione dai fenomeni,
devono, nonostante le ipotesi contrarie,
essere considerate vere o
rigorosamente o quanto più possibile, finché
non interverranno altri fenomeni,
mediante i quali o sono rese più esatte o
vengono assoggettate ad eccezioni. [383]
Relativamente alla 1. si noterà come venga
assunto il criterio del vecchio Rasoio di Ockham, ma anche quello
(implicito) che nelle scienze fisiche va
escluso ogni elemento di carattere
metafisico. Nella 2. è enunciato una sorta
di “criterio di contiguità”, in base
al quale: a) prima di porre nuove cause bisogna
sempre vedere se quelle note
siano applicabili ad effetti analoghi; ma
anche b): sono gli effetti che
pilotano la ricerca scientifica e non le
cause. In quanto alla 3.: ribadito il
criterio di contiguità viene sottolineato
che solo l’esperimento (nei termini
del metodo baconiano) legittima e conferma
una tesi e nient’altro. Se si
considera che Newton opera perlopiù su un
terreno matematico si comprende
l’importanza di questa precisazione. La matematica,
di cui è implicito il ruolo
fondamentale in fisica, non deve venire utilizzata
per conclusioni
logico-deduttive scorrette, poiché è solo
l’esperimento a confermare la
legittimità di una tesi scientifica. Criterio
riconfermato nella 4., dove viene
ribadito il rapporto tra induzione e sperimentazione
come l’asse teorico che
fonda ogni acquisizione scientifica.
Il
Terzo Libro si sviluppa attraverso la trattazione
dei fenomeni astronomici, cui
seguono proposizioni e teoremi, cui seguono
precisazioni sui moti della luna. A
noi interessa soprattutto lo Scolio Generale,
un’aggiunta alla seconda edizione
(1713) che ha lo scopo di precisare la posizione
dell’autore, mettendolo per un
verso al riparo dalle accuse di implicito
ateismo (mossegli soprattutto da
Leibniz) e dall’altro allo scopo di precisare
la rigorosa adesione al “fenomeno
reale” come base irrinunciabile di ogni formulazione
scientifica e quindi
l’utilizzazione dell’esperimento come unico
fattore probatorio. Lo scolio apre
con la contestazione della “teoria dei vortici”,
quella fortunata quanto falsa
teoria cartesiana che costituiva la bandiera
dietro cui si schieravano gli
anti-newtoniani, ma presto passa a trattare
di Dio in termini da subito
inequivoci: « Egli regge tutte le cose non
come anima del mondo, ma come
signore dell’universo.» [384] Già con questa prima frase vengono prese
nettamente le distanze dagli utilizzatori
del newtonismo a scopi teologici
eterodossi, come i deisti, e ribadita la
validità della fede cristiana. Una
fede capace di accettare il mistero («Come
il cieco non ha idea dei colori,
così noi non abbiamo idea dei modi con i
quali Dio sapientissimo sente e
capisce tutte le cose.» [385],
[…], « e molto meno abbiamo un’idea della
sostanza di Dio » [386])
. E poi uno dei punti fondamentali sul concetto
di attrazione gravitazionale:
Fin qui ho spiegato
i fenomeni del cielo e del nostro mare mediante
la forza di gravità, ma
non ho mai fissato la causa della
gravità. Questa forza nasce interamente da
qualche causa, che penetra fino al
centro del Sole e dei pianeti, senza diminuzione
della capacità, e opera non in
relazione alla quantità delle superfici delle particelle sulle quali
agisce (come sogliono le cause meccaniche)
ma in relazione alla quantità di
materia solida. La sua azione si estende per ogni dove
ad immense
distanze. La gravità verso il Sole è composta
della gravità verso le singole
particelle del sole, e allontanandosi dal
sole decresce costantemente in
ragione inversa del quadrato delle distanze
fino all’orbita di Saturno, come è
manifesto dalla quiete degli afelii dei pianeti,
e fino agli ultimi afelii
delle comete, posto che questi afelii siano
in quiete. [387]
Si tratta dell’esposizione abbastanza incerta
di un fenomeno dall’esistenza certa a desumere
da un dato sperimentale
altrettanto certo, la proporzionalità inversa
al quadrato della distanza. È
l’unico modo con cui uno scienziato consapevole,
ed intellettualmente onesto, può
esporre l’esistenza di un fenomeno di cui
non conosce assolutamente nulla, al
di fuori del nudo “dato sperimentale”. È
una maniera nuova di parlare della
realtà, dichiarando un “non so” che la “sapienza”
metafisica non avrebbe mai
potuto dire. Una sapienza metafisica abituata
ad inventare teologicamente delle
connotazioni della realtà e poi “dimostrarle”
con qualche giochetto logico
dialettico. Lo scienziato è di altra razza,
e precisa:
In verità non sono
ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la
ragione di queste proprietà della
gravità, e non invento ipotesi. Qualunque
cosa, infatti, non deducibile dai
fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano
posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche,
sia delle qualità occulte, sia meccaniche. In
questa filosofia le proposizioni vengono
dedotte dai fenomeni, e sono rese
generali per induzione. In tal modo divennero
note l’impenetrabilità, la
mobilità e l’impulso dei corpi, le leggi
del moto e la gravità. Ed è
sufficiente che la gravità esista di fatto,
agisca secondo le leggi da noi
esposte, e spieghi tutti i movimenti dei
corpi celesti e del nostro mare. [388]
Un’importante lezione di modestia e di
correttezza scientifica, che sarebbe bene
tenessero presente le folte schiere
di fisici-teologi che contestano la meccanica
quantistica per il solo fatto che
è indeterministica. Rimane un ultimo punto
da considerare: quello delle
“qualità occulte” imputate alla fisica newtoniana
sulla base di quel
“massificante” meccanicismo cartesiano ormai
obsoleto e diventato ultimo
baluardo dialettico dei metafisici. Newton
risponde alle accuse in maniera
semplice ed esemplare nel suo Optiks
del 1704:
Io considero questi principi [la forza di
gravità e l’elettro-magnetismo] non come
qualità occulte che si immaginano
sorgere dalle forme specifiche delle cose,
ma come leggi generali della natura,
dalle quali le stesse cose sono formate.
La realtà di questi principi ci si manifesta
attraverso i fenomeni, quantunque
non ne siano ancora state scoperte le cause.
Queste qualità sono palesi,
infatti, e soltanto le loro cause sono occulte.
[389]
Straordinario come questo gigante
dell’intelletto umano riesca ad essere semplice
e chiaro quanto modesto e realistico
nelle sue enunciazioni, senza dire nulla
più del necessario e nulla meno del dovuto.
Sono queste le prerogative fondamentali della
scienza vera, che si staglia
contro tutte le cianfrusaglie logico-dialettiche
della metafisica e dei suoi
affascinanti quanto fatui orpelli.
Entrati nel campo dell’ottica, forse quello
in cui Newton ha fornito un
contributo più rivoluzionario per
l’epoca, vediamo qualche esito teorico delle
sue ricerche. Dalle Lezioni di ottica tenute a Cambridge
negli anni 1669-1671 si può cogliere un primo
punto assai importante laddove viene
ribadito che non basta descrivere i colori
ma indagarne la causa:
Pertanto, se la luce viene definita la
qualità o la forma dell’essere luminoso non
dobbiamo aspettarci che ci si dica
qualcosa delle sue cause o in che modo subisca
dei mutamenti per produrre i
vari colori […] ciò non basta a spiegare
come si producono, sia perché nessun
colore è costituito dalla sola fusione […]
sia perché la quantità di luce non
può modificare la specie del colore. [390]
Enunciazioni per noi ovvie, ma non per la
più
parte dei naturalisti del Settecento, ancora
legati all’aristotelismo e ai suoi
miseri sviluppi secenteschi. Newton è colui
che coglie in maniera chiara e definitiva
il rapporto stretto tra il pluralismo strutturale
della luce e i colori dei
corpi. Ancora nelle Lezioni:
I mutamenti della luce, donde traggono
origine i colori, sono connaturati alla luce
stessa, e non nascono né dalla
riflessione né dalla rifrazione […] a raggi
che hanno diverso potere di
rifrazione corrispondono colori diversi […]
Ogni tipo di raggio conserva sempre
e soltanto quell’unico colore che è suo per
natura, purché non si mescoli a
raggi di altri tipo […] i colori sono dovuti
semplicemente a mescolanza di
raggi di tipo diverso o separazione dei singoli
tipi di raggi dagli altri coi
quali sono mescolati. [391]
I differenti raggi luminosi (oggi diremmo frequenze)
sono a fondamento dell’ottica newtoniana,
che ha finalmente chiarito il perché
del colore dei corpi opachi:
Trovo infine che i colori di tutti i corpi
sono generati da una certa predisposizione
per cui sono adatti a riflettere
alcuni raggi e ad assorbirne altri. Così
un corpo rosso è tale perché riflette
soprattutto i raggi tendenti al rosso e assorbe
tutti gli altri quasi
completamente; uno color viola è tale perché
riflette i raggi che generano
questo colore e assorbe invece gli altri,
un corpo è bianco perché riflette
quasi tutti raggi, viceversa un altro è nero
perché li assorbe tutti, di tutti
riflettendo solo una piccola quantità. [392]
In queste poche conclusioni è enunciato come
si manifestano i raggi luminosi e come agiscono.
Che ne è allora di quella
“mistica della luce” che ha invaso e impregnato
millenni di cultura teologica? Più
nulla! La luce, quella bianca, non è altro
che il raggio-somma di tutti gli
altri tipi di raggio. Sono essi che la “fanno
essere”, essa non crea un bel
nulla, ma è piuttosto creata dai suoi componenti.
Neppure Yahvè avrebbe potuto
dire «fiat lux!», perché la lux è un
assemblaggio di tante luces che si
sono messe insieme. La luce come una delle
forme dell’elettromagnetismo è sì
una vera e grande creatrice, ma di nulla
di sacro quanto di due cose
eminentemente profane: la vita e la bellezza!
Ma
se Newton ha compreso come funzioni la luce
attraverso una serie ininstancabile
di ricerche sperimentali ammonisce anche
che la sperimentazione da sola non è
sufficiente per una scienza esaustiva. La
raccolta delle Lezioni si chiude con un elogio della matematica:
Ma perché non sembri che io nel trattare
della natura dei colori abbia superato i
limiti di quello che mi sono
prefissato (che potrebbero sembrare estranei
alla matematica), non sarà fuori
luogo ricordare ancora i motivi della mia
ricerca: e questo perché esiste tale
affinità tra le proprietà della rifrazione
e quelle dei colori, che le une non
possono esser spiegate indipendentemente
dalle altre. […] la generazione dei
colori stessi investe così da vicino la geometria
e la loro conoscenza è
convalidata da tale evidenza che di essi
potrei occuparmi considerandoli in sé
e per sé, ampliando così il campo della matematica.
[393]
La scienza è “esperimento + calcolo”, e da
ciò la conclusione:
Dirò di più: poiché lo studiare a fondo i
colori è uno dei problemi più difficili che
il filosofo possa porsi, spero di
poter fornire un saggio di quanto la matematica
sia importante nella filosofia
naturale. E con ciò vorrei esortare gli studiosi
di geometria a un più
approfondito esame della natura e i cultori
delle scienze naturali ad uno
studio preliminare della geometria. [394]
Ed
ora un brevissimo cenno alla Nuova teoria
sulla luce e sui colori, del 1672, una sorta di memoria scientifica
che
Newton invia come ringraziamento per l’ammissione
alla Royal Society al
segretario di essa Henry Oldemburg. Qui il
Nostro spiega come è arrivato a
costruire il telescopio a riflessione e nel
contempo descrive la serie dei
lunghi esperimenti che lo hanno condotto
a definire le nuove leggi della
rifrazione. Nel ricordare il suo complesso
lavoro il Nostro definisce la luce
bianca « il composto più sorprendente e meraviglioso
» [395]
quale oggetto principale delle sue indagini,
a testimonianza della sensibilità
anche estetica che si può accompagnare al
rigore scientifico. D’altra parte la
luce bianca rende possibile la percezione
della bellezza e i suoi componenti la
creano dividendosi il compito di rivelare
i colori del mondo. È possibile
studiare la luce e i colori senza innamorarsene?
Tra
Nuova teoria e l’Ottica, il trattato che conclude le ricerche sulla
luce e che appare
nel 1704 si collocano altre memorie, nelle
quali sempre più Newton insiste
sulla corpuscolarità della luce. Ora tale
“materializzazione” di quest’essenza
spesso divinizzata sconcerta non solo i teologi,
ma anche scienziati come Hooke
e Huygens. D’altra parte uno dei problemi
della fisica dell’inizio del XVIII
secolo è anche di capire perché le parti
di materia stiano assieme. Newton non
può che attribuire ciò all’attrazione gravitazionale,
ma deve anche fare i
conti con chi pensava invece ad “atomi uncinati”
o una specie di colla cosmica
chiamata “quiete”, così conclude molto semplicemente:
«Io invece dalla coesione
dei corpi desumerei che le particelle si
attraggono l’un l’altra.» [396]
Già, le particelle fondamentali della materia!
Come può il cristianissimo Isaac
fare ricorso a un concetto ontologico così
maledettamente blasfemo come quello
di quegli atei ed empi di atomisti? Molto
semplice: il fatto di essere un vero
uomo di scienza. Ma la Creazione divina è
fuori discussione, ed allora, come
già aveva fatto Gassendi, anche il Nostro
sostiene che è stato Dio a fare gli
atomi:
Considerate tutte queste cose, mi sembra
probabile che Dio al principio del mondo
abbia formato la materia di particelle
solide, compatte, dure, impermeabili e mobili,
dotate di date proprietà e di
date proporzioni rispetto allo spazio, affinché
meglio tendessero al fine per il quale egli le aveva formate. [397]
Problema risolto, quindi, e la Genesi biblica.è ancora una volta salva.
E più oltre.
Ora, con l’aiuto di questi principi [inerzia,
gravità, coesione e disgiunzione degli atomi],
tutte le cose materiali sembrano
essere state composte delle suddette particelle
dure e solide, variamente
associate durante la prima creazione dalla
volontà di un Agente dotato di
intelligenza. [398]
Si noti bene l’espressione “prima creazione”.
Newton contro Cartesio e Leibniz ritienine
che la creazione sia un processo che
continua (lo aveva già supposto anche Gassendi)
e che Dio continui a gestirla
dall’alto dei cieli:
E poiché lo spazio è divisibile all’infinito,
mentre la materia non si trova necessariamente
in tutti i luoghi, si può anche
ammettere che Dio possa creare particelle
di materia di varie grandezze e
figure, e in varie proporzioni rispetto allo
spazio, e , forse, di diversa
densità e di differenti forze, e perciò stesso
possa variare le leggi della
natura e creare mondi di diverse specie in
diverse parti dell’universo. Per
concludere, in tutto questo non vedo niente
di contraddittorio. [399]
L’universo non è “pieno”, ma in gran parte
“vuoto”, poiché la materia non è dappertutto,
e quindi Dio “può” (e non “ha
potuto” o “poteva”) creare nuove particelle.
Newton ha compreso che l’universo
non è statico e definito dalla Creazione,
ma dinamico e in evoluzione; e quindi
Dio potrebbe addirittura continuare a “variare”
le leggi fisiche a suo piacere
per creare mondi nuovi e differenti. Pare
di trovarsi di fronte
all’immaginazione di un poeta piuttosto che
di uno scienziato, e invece è solo
la consapevolezza del fisico che la realtà
è talmente complessa e mutevole che
è da ottusi immaginarla definita una volta
per tutte.
Abbiamo già rilevato come Newton si collochi
sulla line di Bacone e di
Gassendi per quanto riguarda l’operare della
scienza. Ebbene, è proprio in
chiusura dell’Ottica che egli ci dà
una compiuta testimonianza del “metodo” nei
seguenti termini:
Come in matematica, così nella filosofia
naturale lo studio delle cose difficili,
mediante il metodo analitico, dovrebbe
sempre precedere il metodo sintetico. Quest’analisi
consiste nel fare
esperimenti e osservazioni e trarre da questi,
mediante l’induzione,
conclusioni generali, non ammettendo contro
di esse obiezioni, salvo che siano
derivate da esperimenti o da altre verità
certe. Perché nella filosofia
sperimentale non bisogna tener conto delle
ipotesi. E sebbene il trarre per
induzione principi generali dagli esperimenti
e dalle osservazioni non
equivalga a dimostrarli, tuttavia è questo
il miglior modo di ragionare che la
natura consenta, e può considerarsi tanto
più saldo quanto più l’induzione è
generale. [400]
NOTE
[1] N.Hampson, Storia e cultura dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1969, p.21.
[2] A.Rupert Hall, La rivoluzione scientifica 1500/1800, Milano, Feltrinelli 1976, p.172.
[3] Ivi, p.80.
[4] F.Bacone, Discorso in elogio della conoscenza, in: Opere filosofiche, a cura di E.De Mas, vol.I, Bari, Laterza 1965, p.3
[5] Orazio Flacco, Odi, I, 11, 8.
[6] Bacone, Meditazioni sacre, in: Opere filosofiche, vol.I, cit., p.13.
[7] Bacone, La Grande Instaurazione, Prefazione, in: Opere filosofiche, vol.I, cit., p.219.
[8] Ivi, p.220.
[9] Ivi, p.221.
[10] Ivi, p.122.
[11] Ivi, p.224.
[12] Ibidem.
[13] Ivi, p.233.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, pp.233-234.
[17] Ivi, p.234.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, p.235.
[21] Ivi, p.236.
[22] Bacone, Nuovo Organo, in: Opere filosofiche, vol.I, cit., p.257.
[23] Ivi, p.259.
[24] Ivi, p.260.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem
[27] Ivi, p.262.
[28] Ivi, p.264
[29] Ivi, p.266.
[30] Ibidem.
[31] Ivi, p.267.
[32] Ivi, p.268.
[33] Ivi, p.269.
[34] Ivi, p.270.
[35] Ibidem.
[36] Ibidem.
[37] Ivi, p.272.
[38] Ibidem.
[39] Ivi, p.274.
[40] Ibidem.
[41] Ivi, p.276.
[42] Ivi, p.277.
[43] Ibidem.
[44] Ibidem
[45] Ivi, pp.285-286.
[46] Ivi, p.286.
[48] F.Bacone, Meditazioni sacre, in: Opere filosofiche, vol.I, pp.20-21.
[49] F.Bacone, Nuovo Organo, in: Opere filosofiche, vol.I, p.307.
[50] Ivi, pp.333-334.
[51] Ivi, p.321.
[52] Ivi, p.344.
[53] Ibidem.
[54] Ivi, p.345
[55] Ibidem.
[56] Ibidem.
[57] Ivi, p.347.
[58] Ivi, p.349.
[59] Ibidem.
[60] Ivi, p.353.
[61] Ivi, p.387.
[62] Ivi, pp.393-394.
[63] Ivi, p.482.
[64] Ivi, p.500.
[65] F.Bacone, Disegno di storia naturale e sperimentale, in: Opere filosofiche, cit., vol.I, p.509
[66] Ibidem.
[67] Ivi, p.512.
[68] F.Bacone, Della dignità e del progresso delle scienze, in: Opere filosofiche, cit., vol.II, p.41.
[69] Ibidem.
[70] Ivi, p.49
[71] Ivi, p.50.
[72] Ivi, p.147.
[73] Ivi, p.153.
[74] Th.Hobbes, Leviatano, a cura di R.Santi, Milano, Bompiani 2001, p.15.
[75] Ivi, p.51.
[76] Ivi, pp.67-69.
[77] Ivi, p.77
[78] Ivi, p.83.
[79] Ivi, p.101.
[80] Ivi, p.107.
[81] Ivi, p.111.
[82] Ivi, p.113.
[83] Ibidem.
[84] Ivi, p.137.
[85] Ivi, p.141.
[86] Ibidem.
[87] Ivi, p.143.
[88] Ivi, pp.143-145.
[89] Ivi, p.145.
[90] Ivi, p.161.
[91] Ivi, p.193.
[92] Ivi, p.205.
[93] Ibidem.
[94] Ivi, p.207.
[95] Ivi, p.211.
[96] Ivi, p.215.
[97] Ibidem.
[98] Ivi, p.219.
[99] Ivi, p.229.
[100] Ivi, p.235
[101] Ivi, p.237
[102] Ibidem
[103] Ivi, pp.249-257.
[104] Ivi, p.271.
[105] Ivi, p.275.
[106] Ivi, p.283.
[107] Ivi, p.285.
[108] Ivi, p.287.
[109] ivi, pp.319-321.
[110] Ivi, pp.325-327.
[111] Ivi, p.331.
[112] Ivi, pp.335-339.
[113] Ivi, pp.343-349.
[114] Ivi, p.361.
[115] Ivi, pp.433-435.
[116] Ivi, pp.471-175.
[117] Ivi, pp.529-543.
[118] Ivi, p.553.
[119] Ivi, pp.553-557.
[120] Ivi, pp.601-603.
[121] Ivi, p.631.
[122] Ivi, p.645.
[123] Ivi, p.667.
[124] Ivi, p.669
[125] Ivi, p.671.
[126] Ivi, p.755
[127] Ivi, pp.1029-1035
[128] Ivi, pp.1039-1041.
[129] Ivi, p.1079.
[130] Ivi, p.1119
[131] Th.Hobbes, Il corpo, in: Elementi di filosofia, a cura di A.Negri, Torino UTET 1972, pp.61-62..
[132] Ivi, p.62.
[133] Ibidem.
[134] Ibidem.
[135] Ivi, p.64.
[136] Ivi, p.67.
[137] Ivi, p.71.
[138] Hobbes, De motu, loco et tempore (Ms.Fonds Latin 6566 A), Cap. XIV, p.127) Citato in : A.Pacchi, Introduzione a Hobbes, Roma-Bari, Laterza 1990, p.68.
[139] Elementi di filosofia, Il corpo, cit., p.71-72.
[140] Ivi, p.73.
[141] Ivi, p.74
[142] Ivi, p.74.
[143] Ivi, p.75
[144] Ivi, pp.80-81
[145] Ivi, p.82.
[146] Ivi, pp.85-89.
[147] Ivi, pp.89-92.
[148] Ivi, p.115.
[149] Ivi, p.123.
[150] Ivi, p.125
[151] Ivi, p.127.
[152] Ivi, p.131.
[153] Ivi, p.136.
[154] Ivi, p.139.
[155] Ivi, pp.139-140.
[156] Ivi, pp.140-141.
[157] Ivi, p.141.
[158] Ivi, p.147.
[159] Ivi, p.148.
[160] Ivi, p.149.
[161] Ivi, pp.149-150.
[162] Ivi, p.136.
[163] Ivi, p.137
[164] Ivi, pp.160-161.
[165] Ivi, p.168.
[166] Ivi, p.171.
[167] Ibidem.
[168] Ivi, p.172.
[169] Ivi, pp.172-173.
[170] Ivi, p.173.
[171] Ivi, p.176.
[172] Ivi, p.240.
[173] Ivi, pp.241-242.
[174] Hobbes, Leviatano, a cura di R.Santi, Milano, Bompiani 2001, p.
[175] Hobbes, Elementi di filosofia, Il corpo, cit., p.378.
[176] Ivi, p.383
[177] Ivi, p.390
[178] Ivi, pp.438-439.
[179] Ivi, p.473.
[180] Hobbes, Elementi di filosofia, L’uomo, cit., p., p.493.
[181] Ivi, p.585.
[182] ivi, p.586
[183] Ivi, pp.586-587.
[184] Ivi, p.587.
[185] Ibidem.
[186] Ivi, p.590.
[187] Ivi, p.591.
[188] Ibidem.
[189] Ivi, p.593
[190] Ivi, p.594.
[191] Ivi, p.595.
[192] Th.Hobbes, Libertà e necessità, , a cura di A.Longega, Milano, Bompiani 2000, p.57.
[193] Ivi, pp.85-87
[194] Ivi, p.87
[195] Ivi, p.203.
[196] Ivi, p.233.
[197] Ivi, p.235
[198] Ivi, p.237
[199] Numerose nostre citazioni di frammenti gassendiani sono tratte da quest’opera, che utilizzeremo anche come traccia tematica, mentre altre sono desunte dall’ottimo saggio di Tullio Gregory Scetticismo e empirismo, Studio su Gassendi (Laterza 1961).
[200] P.Gassendi, Syntagma, in Opera omnia, Libro I, Lione 1658, p.62
[201] P.Gassendi, Exercitationes, in Opera omnia, Libro III, p.103.
[202] Ivi, p.111 a.
[203] Ivi, p.111 b.
[204] Ivi, p.115 a.
[205] Va tenuto presente che, per quanto si riferisse ad Epicuro, in realtà Gassendi aveva studiato più che altro Lucrezio, soprattutto per la maggior disponibilità del De rerum natura. Quest’opera aveva avuto tre edizioni in latino tra il 1600 e il 1700 e tre in francese tra il 1650 e fine secolo. L’opera lucreziana offriva così a Gassendi maggiori spunti polemici nei confronti del suo ateismo, più chiaro e radicale di quello di Epicuro. Ma il maggior motivo di dissenso con Lucrezio era costituito dal suo indeterminismo e dal suo pessimismo. Gassendi era convinto dell’ordine e dell’armonia dell’universo; e ciò, insieme alla predisposizione umana a concepirlo, una delle migliori prove dell’esistenza di Dio.
[206] P.Gassendi, Exercitationes, in Opera omnia, Libro III, p.152
[207] Ibidem.
[208] Ivi, p.106 a.
[209] La stessa operazione farà Robert Boyle trent’anni circa dopo, prima con The sceptical chemist (1661) e cinque anni dopo con On the origin of forms and qualities according to the corpuscolar philosophy. Data la sua convinzione della validità della tesi atomistica, ma consapevole della sua inconciliabilità con la dottrina cristiana, anche Boyle tenta una forzosa quanto improbabile conciliazione, tale da togliere di mezzo ogni elemento potenzialmente ateo.
[210] P.Gassendi, Exercitationes, cit.,
p.108 b.
[211] Ivi, p.123 a-b.
[212] Ivi, Syntagma,
pp.230 b – 231 a.
[213] Ivi, p.280 b.
[214] Si veda sull’argomento l’interessante saggio di A.Alberti, Sensazione e realtà, Epicuro e Gassendi, Firenze, Olschki 1988, Capitolo II, pp.61-89.
[215] Ivi, p.152 a-b.
[216] Ivi, p.169 b.
[217] Ivi, p.206 a.
[218] Ivi, p.182 a.
[219] Ivi, pp. 183 b – 184 a.
[220] Ivi, p.190 a.
[221] Ivi, p.207 a.
[222] Ivi, p.207 b.
[223] Ivi, p.273 b.
[224] Ivi, p.284 b.
[225] Ivi, p.295 b.
[226] Ivi, p.300 b.
[227] Ivi, p.311 a.
[228] Ivi, p.314 a-b.
[229] Ivi, p.308 a.
[230] Ivi, p.323 b.
[231] Ivi, p.400 b.
[232] Ivi, p.405 b.
[233] Ivi, p.316 a.
[234] Ivi, p.323 b.
[235] Ivi, pp.335 b – 336 a.
[236] Ivi, pp.358-359..
[237] P.Gassendi, Opera omnia, cit., Libro I, p.343.
[238] P.Gassendi, Lettres de Peiresc, vol.IV, pp.249-250. Cit in: T.Gregory, Scetticismo ed empirismo, Studio su Gassendi, Bari, Laterza 1961, p.135n.
[239] P.Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera omnia, cit, I, p.116 b.
[240] p. 130 b.
[241] Ivi, p.182 a.
[242] Ivi, p.182 b.
[243] P.Gassendi, Opera omnia, cit., Libro VI, p.53.
[244] P.Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera omnia, cit, Libro I, p.273 b.
[245] Ivi, p.326 a.
[246] Ivi, p.440 b.
[247] Ivi, II, p.406 b.
[248] Ivi, p.461 b.
[249] Ivi, p.473 a.
[250] Ivi, p.695 a.
[251] Ivi, pp. 794 b-795 b.
[252] Ivi, p.803 a-b.
[253] J.Locke, Saggio sull’intelligenza umana, vol.I, Roma-Bari, Laterza 2006, p.21.
[254] Ivi, p.22.
[255] Ivi, pp.95-96.
[256] Ivi, p.96.
[257] Ibidem.
[258] Ivi, p99.
[259] Ivi, p.109.
[260] Ivi, pp.113-124.
[261] Ivi, pp.126-130.
[262] Ivi, pp.133-141
[263] Ivi, pp.152-153.
[264] Ivi, p.153.
[265] Ivi, p.169.
[266] Ivi, p.170
[267] Ivi, pp.180-181.
[268] Ivi, p.181.
[269] Cfr. C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Firenze, Clinamen 2007, p.84-85.
[270] J.Locke, cit, p.246.
[271] Ibidem..
[272] Ivi, p.247.
[273] Ivi, p.263
[274] Ivi, p.265.
[275] Ivi, pp.266-270.
[276] Ivi, p.283.
[277] J.Locke, cit., vol. II, p.549.
[278] Ivi, p.554.
[279] Ivi, p.555.
[280] Ivi, p.594.
[281] Ivi, p.594-598.
[282] Ivi, p.607
[283] Ivi, p.625.
[284] Ivi, pp.626-.
[285] Ivi, p..642.
[286] Ivi, p.647.
[287] Ivi, p.653.
[288] ivi, p.714.
[289] R.Koselleck, cit., p.122.
[290] P.Bayle, Pensieri sulla cometa, a cura di G.Cantelli, Bari-Roma, Laterza 1995, p.138.
[291] Ivi, p.216
[292] Ivi, p.249
[293] Ivi, pp.251-252.
[294] Ivi, pp.252-253.
[295] Ivi, p.253.
[296] Ivi, p.269.
[297] Ivi, p.297.
[298] Ivi, p.299.
[299] Ivi, p.322.
[300] Ivi, p.323
[301] Ivi, pp.323-324.
[302] Ivi, p.325.
[303] Ivi, p.327
[304] Ivi, p.345.
[305] Ivi, p.389.
[306] Ivi, p.390.
[307] Ibidem.
[308] Ivi, p.397.
[309] Ivi, p.427.
[310] Ivi, p.449.
[311] Ivi, p.469.
[312] Ivi, p.470.
[313] Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, p.16.
[314] Ibidem.
[315] Ivi, p.17.
[316] Ivi, pp.17-18.
[317] Ivi, pp.18-19.
[318] Bayle, da Continuation aux pensées diverses sur la comète, in Dizionario storico-critico, a cura di G.Cantelli, Roma-Bari, Laterza 1976, p. XI, nota 7.
[319] P.Bayle, Dizionario storico-critico, a cura di G.Cantelli, Roma-Bari,Laterza 1976, p.XII.
[320] Ivi, p.15.
[321] Qui Bayle commette un errore storiografico grave, confondendo il reale dualismo di Mani col monismo zoroastriano (o mazdeista) che ha elementi di dualità bene/male non meno di quanto li abbiano l’Ebraismo il Cristianesimo. È anzi assai probabile che l’Ebraismo derivi dal Mazdeismo. Dario Sabbatucci nel suo Monoteismo (Roma, Bulzoni 2001, p.25) rileva sinteticamente: «Certo è che Isaia parla di Dario, ma Dario non parla di Isaia. Cero è che nella sacra scrittura ebraica si parla dei Persiani, ma nel libro sacro persiano, l’Avesta, non si parla degli Ebrei.»
[322] Bayle, cit., p.16.
[323] Ivi, p.17.
[324] Ivi, pp.19-20.
[325] Ivi, pp.23-24.
[326] Ivi, p.24.
[327] Ivi, p.37.
[328] Ivi, p.38.
[329] Ibidem.
[330] Iviu, p.39.
[331] Ivi, pp.41-42.
[332] Ivi, p.42.
[333] Ivi, pp.42-43.
[334] Ivi, p.43.
[335] Ibidem.
[336] Ibidem
[337] ivi, p.44.
[338] Ivi, p.45.
[339] Ibidem.
[340] Ivi, p.46.
[341] Ivi, p.46.
[342] Ivi, p.47. Il passo completo di Isaia, col versetto precedente e il susseguente, è: « (7) L’empio abbandoni la sua via, ritorni al Signore, che ne avrà misericordia, al nostro Dio che largheggia nel perdono, (8) poiché i miei pensieri non sono i vostri, e le vostre vie non sono le mie, dice il Signore, (9) Quanto il cielo è più elevato della terra, altrettanto i miei disegni superano i vostri progetti e i miei pensieri sono al di sopra dei vostri.» (La Sacra Bibbia, Paoline 1965).
[343] Ibidem.
[344] Ivi, p.48.
[345] Ibidem.
[346] Ivi, p.49.
[347] Ibidem.
[348] Ivi, p.53.
[349] Ivi, p.54.
[350] Ivi, p.98
[351] Ivi, pp.98-99.
[352] Ivi, pp.180-181.
[353] Ivi, p.212.
[354] Ivi, p.218.
[355] Ivi, pp223-224.
[356] Ivi, p.236.
[357] Ivi, p.290.
[358] Ivi, p.192.
[359] Ivi, pp.307-308.
[360] Ivi, pp.308-309.
[361] Ivi, p.313.
[362] Ibidem.
[363] Ibidem.
[364] Ivi, p.359.
[365] B.Spinoza, Etica, Roma, Editori Riuniti 2004, p.107.
[366] P.Bayle, Dizionario storico-critico, cit., p.124.
[367] Ivi, p.401.
[368] Ivi, p.402.
[369] Ivi, p.404.
[370] Ivi, p.407.
[371] Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico, Firenze, La Nuova Italia 1985, pp.24-25..
[372] P.Bayle, Dizionario storico-critico,cit., pp.410-411.
[373] Ivi, p.413.
[374] Ivi, p.414.
[375] Ivi, p.447.
[376] Ivi, p.450.
[377] Tra tali detrattori spiccava Leibniz, che nella sua Teodicea del 1710 faceva dell’attrazione gravitazionale una “causa occulta”.
[378] Va ricordato che fu il suo prezioso collaboratore Roger Cotes (correttore e revisore dei Principia) a consigliargli in una lettera del febbraio 1713 (prima della pubblicazione della terza edizione) di inserire nel libro «qualcosa mediante cui possa essere sottratto a certe prevenzioni che gli sono state accanitamente accumulate contro. Come quelle per cui abbandona le cause meccaniche, è costruito su miracoli e ricorre a qualità occulte.» (cit. nell’Introduzione ai Principi, cura di A.Pala, Torino, UTET 1977,cit, p.24).
[379] I.Newton. Principi matematici della filosofia naturale, a cura di A.Pala, Torino, UTET 1977, pp.91-100.
[380] Ivi, p.339.
[381] Si veda: Scolii classici, in: I.Newton, Il sistema del mondo e gli Scolii classici, a cura di P.Casini, Roma, Theoria 1983, pp.138-141.
[382] Principi matematici, cit. p.480.
[383] Ivi, pp.603-607.
[384] Ivi, p.793.
[385] Ivi, p.794.
[386] Ivi, p.795.
[387] Ibidem.
[388] Ivi, pp.795-796.
[389] I.Newton, Ottica, Libro III, I. In: Scritti di ottica, a cura di A.Pala, Torino, UTET 1978, p.601.
[390]
I.Newton, Lezioni di ottica, in: Scritti di ottica, cit., pp.192-193.
[391] Ivi, pp.194-195
[392] Ivi, p.195.
[393] Ivi, p.196.
[394] Ibidem.
[395] I.Newton, Nuova teoria sulla luce e sui colori, in: Scritti di ottica, cit., p.210.
[396] I.Newton, Ottica, in: Scritti di ottica, cit., p.591.
[397] Ivi, p.600.
[398] Ivi, p.602
[399] Ivi, p.603.
[400] Ivi, pp.603-604.