V.
La fede cristiana e le nuove teologie
5.1 La fede e l’incredulità
Facendo un passo indietro è anche il caso
di ricordare che le istanze rinascimentali
di valorizzazione
dell’individualità, dell’aspirazione alla
felicità e di una nuova
considerazione del profano a scapito del
sacro, avevano subito un duro colpo
con la Controriforma. D’altra parte le teorie
metafisiche barocche poste in
essere da Descartes, Spinoza, Leibniz, e
dai loro seguaci erano già anch’esse corollari
di una nuova pulsione teologica, la quale,
come avevano fatto le antiche
metafisiche, pretendeva di sussumere la scienza
a puro accessorio della teologia
filosofale. Basti pensare che, dopo il Concilio
di Trento e con l’instaurazione
del corso controriformistico, l’Università
di Bologna, che aveva prima del 1550
aveva una sola cattedra di teologia, ne ha
tre nel 1580, sei nel 1600 e nove
nel 1650, in un crescendo del potere metafisico
nella cultura ufficiale che
solo nel Settecento comincerà a venire un
poco ridimensionato.
Posti alcuni punti fermi di correttezza
interpretativa possiamo ora passare a considerare
gli atteggiamenti del mondo
religioso nei confronti del fenomeno dell’incredulità,
la quale, sia detto a
scanso di equivoci, non è per nulla assimilabile
all’ateismo (perlomeno a
quello teorico) anche se un pregevole testo
quale la Storia dell’ateismo
di Georges Minois spesso tende a far coincidere
incredulità ed ateismo
“pratico”. Quest’autore ha svolto un’ampia
analisi testuale di testimonianze
relativa a sentimenti ed atteggiamenti anti-cristiani
(o almeno increduli) a
partire dal XV secolo, e ci ricorda che Jean
Bodin, a metà del ‘500, scriveva:
«poco a poco, il disprezzo della religione
ha prodotto un esecrabile setta di
ateisti […] dal che ne consegue un’infinità
di omicidi, parricidi e di
venefici» [1] Difficile credere che la criminalità
fosse tutta ateista, ma la dichiarazione
è significativa della percezione di un
diffuso allentamento dei legami fideistici
che nel XVI secolo cominciavano a
farsi evidenti; e ciò anche perché nuove istanze di tolleranza religiosa
cominciavano a farsi strada. Ce ne offre
un forte auspicio Raynal, quando
scrive: « Niente
religione dominante. Che ciascuno canti a
Dio l’inno che crede gli sia più
gradito. Che la morale prevalga sul globo.
È opera della tolleranza.» [2]
Il mondo cristiano nel XVIII secolo ha già
largamente assorbito gli effetti della Riforma,
il quadro dei diversi indirizzi
di fede è articolato e complesso e cominciano
a delinearsi nettamente gli
effetti sociali di due differenti etiche.
Quella cattolica, per la quale si deve
compiacere Dio con la preghiera, con la penitenza
e con l’esercizio della
compassione e della beneficenza, quella protestante
(specialmente quella
calvinista) che tende allo stesso fine attraverso
l’impegno personale e
l’operosità. In questo contesto era nata
un’”etica del lavoro” per cui diventare
ricchi onestamente era un merito dinanzi
a Dio, in quanto messa a frutto delle
doti di cui Egli ha dotato l’uomo. Un principio
totalmente estraneo al mondo
cattolico, dove sono i poveri e i diseredati
ad essere più vicini a Dio. Un
viaggiatore come Carlantonio Pilati, che
aveva conosciuto l’Europa del tempo in
lungo e in largo, scrive intorno al 1770
nel primo volume dei suoi Voyages:
«I cattolici sono poveri negli stessi luoghi
dove sono ricchi i protestanti […]
Nei paesi cattolici il popolino balla e beve
in ogni osteria, cosa che può
osservarsi soltanto di rado tra i protestanti.»
[3]
Considerazioni assai semplici ma piuttosto
importanti, che spiegano bene la
diversa dinamica sociale nel mondo nordico
rispetto a quello mediterraneo. Il
che sarà anche oggetto della nota tesi di
Max Weber circa lo spirito del
capitalismo, che è tipico del mondo protestante
e niente affatto di quello
cattolico. Un’altra considerazione importante
da fare è che nel mondo cattolico
l’istruzione, in gran parte in mano ai Gesuiti,
privilegia l’insegnamento delle
materie umanistiche, fino a atteggiamenti
di vera ostilità nei confronti di quelle
scientifiche, considerate pericolose per
la fede o quanto meno svianti da essa.
Nel modo protestante vi è invece una spiccata
tendenza alla conciliazione della
conoscenza scientifica con quella teologica
ed umanistica, il che porta ad un
interesse verso la scienza che risulta perlopiù
estranea al mondo cattolico.
A questo proposito è interessante il libro
Jobi Phisica Sacra (ovvero: la scienza naturale di Giobbe confrontata
con
quella odierna), opera corposa del naturalista
e teologo svizzero Jakob
Scheuchzer (1672-1733). Apparso nel 1721,
il libro parte dal terzo versetto del
capitolo 28 del biblico Libro di Giobbe e cerca di conciliare la ricerca
mineraria col riconoscimento dell’opera divina
anche nel buio delle viscere
della terra, dove, poco sotto, ha sede l’Inferno.
Se si pensa al predominio
teologico della metafisica della luce, che
percorre da cima a fondo la dottrina
ortodossa cristiana, risulta importante un’opera
che apre il Regno di Dio alla
tenebra. Scheuchzer oltre tutto rifiuta l’associazione
della tenebra col nulla
e vede in Giobbe un’allusione alle nuove
scoperte ed invenzioni fatte in nome
di Dio per portare all’evidenza della luce
ciò che la Creazione divina nasconde
[4]. Nel mondo cattolico prevale invece piuttosto
il tentativo di salvare la fede cercando
(o inventando) nuove prove riposte nei
Vangeli, nelle profezie e nei miracoli, come
il Vérité de la religion
chrétienne prouvée par les faits del 1722 dell’abate Houtteville [5]. In
generale la consapevolezza dei nuovi tempi
conduce molti cristiani alla ricerca
di nuove vie a Dio, come Marie Huber, che
scrive tra il 1738 e il 1758 una
serie di Lettres sur la religion nelle quali si elegge il primato della
coscienza personale rispetto alla dottrina.
Turretini e Vernet, che scrivono
pressappoco nello stesso periodo un Traité de la verité de la religion
chrétienne insistono su carattere razionale e morale
del messaggio del
Cristo, mentre l’abate Noël Antoine Pluche
licenzia nel 1732 il più famoso
trattato settecentesco conciliativo di fede
e scienza nello Spectacle de la
nature ou Entretiens sur l’histoire naturelle
et les sciences. La
coniugazione di un ideale equilibrio tra
scienza e morale è anche l’obiettivo
del Traité du vrai mérite, del moralista Charles-François-Nicolas
le
Maître de Claville del 1734 ed il Parallèle des moeurs de ce siècle et de la
morale de Jésus-Chist di Jean Croiset, apparso nel 1743. È in
special modo
l’anti-cristianesimo di Voltaire a stimolare
opere a lui oppositive ed
apologetiche della fede evangelica come le
Questions diverses sur
l’incrédulité e la Religion vengée de l’incrédulité elle même,
rispettivamente del 1751 e del 1772, scritte
dal vescovo di Le Puy,
Jean-Georges Lefranc de Pompignan, le Lettres de quelques juifs portugais,
allemands et polonais pubblicate dall’abate Guénèe nel 1769 e
gli Erreurs
de Voltaire di padre Nonnotte, uscito nel 1762, che
ebbe sei edizioni in
soli otto anni. Mentre un accordo tra principi
di vita naturalistici e morale
cristiana è proposto ne la Religion de l’honnête homme di Caraccioli del
1766 [6].
Sulla “scristianizzazione” del XVIII molto
è stato scritto e molto è stato equivocato,
non senza enfatizzazioni sul suo
impiantarsi nella coscienza comune e non
senza fraintendimenti sul suo essere o
non essere una sreligionizzazione. Noi riteniamo
che il fenomeno che ha colpito
il Cristianesimo del XVIII secolo sia abbastanza
simile a quello che riguarda
la seconda metà del XX, e che si tratti in
entrambi i casi in parte di una
“irritualizzazione” della fede ed in parte
di una “traslazione” o
“trasmigrazione” verso altri orizzonti teologici.
Se per quanto riguarda il
Settecento solo l’analisi storica ci consente
di entrare nella mentalità
dell’epoca, nel caso del passato più recente
siamo stati tutti più o meno
testimoni e partecipi di un processo per
cui il fedele ha allentato i propri
legami ritualistici, non frequentando più
i sacramenti della confessione e
della comunione ai ritmi delle generazioni
precedenti, senza che significhi un
indebolimento della fede. Significa semmai
soltanto una nuova visione
dell’etica religiosa, che può determinare
alcuni nuovi aspetti della
religiosità isolati o confluenti, del tipo:
una minor ipocrisia, una maggior
libertà di comportamento, un’attenuazione
della reverenza nei confronti dei
ministri del culto, una perdita di autorità
da parte di essi, ecc. e spesso un sincretismo
religioso “fai da te”. Per altro verso la
trasmigrazione odierna verso il
buddismo, il vedantismo e il taoismo, corrisponde
alla trasmigrazione del XVIII
secolo verso il deismo e lo spinozismo. La
differenza sta unicamente nel fatto
che queste due teologie nascevano nell’ambito
della cultura occidentale, mentre
ora si tende maggiormente allo spostamento
dell’orizzonte religioso verso le
fedi orientali.
In un contesto sociale in cui era ancora
molto diffuso l’analfabetismo le uniche persone
alfabetizzate e relativamente
acculturate con origine nelle classi basse
erano i preti e i monaci, più gli
abati che non sempre erano anche dei religiosi
in senso stretto. Da ciò
un’autorevolezza che li rendeva dei punti
di riferimento, soprattutto per il
popolo minuto da cui spesso derivavano, il
che si accompagnava ad
un’invidiabile opportunità di “scalata sociale”
e di aumento del livello di
censo. Tale autorità deputata condizionava
le letture sia degli alfabetizzandi
che degli alfabetizzati di recente, che venivano
esclusivamente indirizzati
sull’Antico e sul Nuovo Testamento e su opere
di devozione tipo salteri od
opere apologetiche o celebrative. Quando
si dice che nei lasciti testamentari
del ‘700 sempre più di frequente appaiono
anche i libri, bisognerebbe anche
precisare se esse sono opere religiose o
laiche per comprenderne il peso
culturale. E se, durante una malattia di
Luigi XV, nel 1744, si celebrano 6.000
messe e nel 1757 per un’altra malattia soltanto
600, siamo d’accordo col Mornet
[7] che
questa riduzione stia a significare il venir
meno sia dell’ancestrale rispetto
e sia dell’amore popolare per un sovrano
sempre più discusso. Ma ciò di per se
stesso non significa affatto una diminuzione
di religiosità; infatti si può
pensare che la perdita di “ritualità” religiosa
non escluda il fatto che molte
persone, anziché pagare i preti per messe
in chiesa, pregassero intimamente in
casa loro per la guarigione del loro re.
Nell’ambito della religiosità del XVIII secolo
non si può fare a meno di includere anche
il deismo (o teismo?) rousseauano, una
teologia ben definita che alimenta un movimento
assai ampio che si riconosce nella
fede del Vicario Savoiardo immortalato nell’Emilio. Rousseau, oltre che
anima critica della civilizzazione e della
scienza ha delineato una “religione
del sentimento” che molti romantici ereditano
da lui. La Profession de foi
du Vicarie savoyard, d’altra parte, suggerisce una vera e propria
religione
alternativa al Cristianesimo tradizionale,
ed in quanto tale piuttosto
pericolosa per la fede ortodossa. Molti seguaci
di Rousseau potevano essere
infatti apparire come dei post-cristiani,
ma molti volevano continuare ad essere
cristiani a pieno titolo, e per fare dovevano
solo modificare in qualche punto
la dottrina e la precettistica tradizionali.
Ne sono chiaro segno alcuni titoli
di opere ispirate da Rousseau, del tipo del
Chrétien par le sentiment
oppure de Les delices de la religion. Non va altresì dimenticato che è proprio
sulla scia del rousseauismo che si instaura
quello strisciante disprezzo per i philosophes
laicisti che sfocierà nella definizione dispregiativa
di Cacouacs.
Un disprezzo che alimenta pubblicazioni dai
titoli del tipo
Mémoire pour servire à l’histoire des Cacouacs, Càtechisme et
décisions de cas de conscience à l’usage
des Cacouacs, oppure Discours
du patriarch des Cacouacs pour la reception
d’un nouveau disciple [8].
L’evento
rivoluzionario porta a compimento un processo
di reazione alle strutture del
potere religioso talvolta eccessive e pilotate
o guidate direttamente (come
sempre avviene nei momenti di disordine sociale)
dai più scalmanati e dai più
ideologizzati. Le persecuzioni contro i religiosi
che non accettano l’avvento
della Repubblica e non intendono sottomettersi
al nuovo corso sono a volte
cruente ed eccessive, come eccessive sono
le distruzioni e le riutilizzazioni
blasfeme dei luoghi di culto. Se si pensa
però a ciò che era stato il binomio
dispotico stato-religione e ciò che fu la
munzione sistematica e parassitaria
delle risorse, in natura e pecuniarie, sulle
classi basse a favore del clero,
si può anche comprendere qualche eccesso
di violenza irrazionale. D’altra parte
la scristianizzazione era stato un processo
lento, cominciato già nel
Cinquecento e Seicento ma accelerato nel
Settecento. E tuttavia esso aveva
raramente assunto forme violente e senza
che venisse meno la deferenza comune e
generalizzata nei confronti dei ministri
di Dio. Ed anche il termine
scristianizzazione è abbastanza improprio,
dovendosi parlare semmai scattolicizzazione,
poiché il mondo protestante non soffre per
nulla una contestazione paragonabile
a quella che ha pervaso quello cattolico
francese. Ma ciò era dipeso anche dal
fatto che le violenze religiose storiche,
perpetrate in Francia dai cattolici
contro ogni dissidenza, avevano avuto esiti
sanguinosi e abominevoli come il
genocidio dei Catari e la cosiddetta Notte
di San Bartolomeo in cui si era
verificata una feroce strage di Ugonotti.
Il processo di scristianizzazione, per
continuare ad utilizzar questo termine improprio,
fu assai più spontaneo di
quanto si voglia far credere da parte di
certi storici cattolici, e va
ricordato che i governi rivoluzionari e in
special modo quello guidato da
Robespierre si erano espressi duramente contro
il vilipendio della religione. Ed
in fondo il deismo, la più coerente weltanschauung religiosa che
accompagna lo spirito dell’Illuminismo, si
proponeva unicamente il superamento
meliorativo del Cristianesimo e non già la
sua sostituzione. E d’altra parte l’Essere
Supremo del deismo, come era stato il Dio
spinoziano, è una nuova immagine
dottrinale del Dio cristiano tradizionale
e non l’annulla affatto. Nello
specifico l’atteggiamento anti-cristiano
rivoluzionario colpisce assai più i
cattolici che i protestanti, poiché è nel
clero cattolico che vede il
“parassita” secolare che si associa al potere
secolare per tiranneggiare il
popolo. Nelle aree dell’Alta Savoia ultra-cattolica
il ricordo della
Rivoluzione si è radicato come un trauma
profondo ed una cesura storica
gravissima ed irrimediabile, mentre nelle
Cévennes protestanti, i turbamenti
rivoluzionari sono visti persino con favore,
ed assimilati e relazionati, quale
fatto storico niente affatto negativo, alla
rivolta dei Camisard
ugonotti tra il 1685 e il 1702.[9] Per
comprendere in maniera adeguata l’azione
persecutoria post-rivoluzionaria nei
confronti dell’aristocrazia e del clero,
occorre tenere innanzitutto conto
dell’identificazione degli interessi di queste
due classi sociali viste come detentrici
di un potere proprio e specifico, indipendente
dal potere regio e nei suoi
confronti spesso ricattatorio. Mentre il
re è il padre di tutto un popolo e quindi
anche della plebe indigente, che molto spesso
lo invoca proprio contro il
sopruso di nobili e preti, le due classi
citate assumono il carattere di un
sotto-potere parassitario, intollerabile
per i privilegi di cui gode. E si
tenga anche conto che la chiesa francese
possedeva prima della Rivoluzione dal
6 al 10% di tutte le terre coltivabili, e
che in talune regioni, come la
Piccardìa e il Cambrésis, questa percentuale
raggiungeva il 30% [10].
Se il Settecento vede, in generale, una più
diffusa influenza del razionalismo sul piano
sociale, ciò è accompagnato da espressioni
religiose di gruppi più o meno grandi di
credenti alla ricerca di una nuova
sacralità, spesso più rigorosa. Il Giansenismo
costituiva in Francia un
problema non da poco, e quando nel 1730 le
autorità francesi cominciano a
stringere i loro lacci per bloccarne l’attivismo
il clero giansenista si mette
a predicare la vicina Apocalisse. Poco dopo
a Parigi la preghiera sulla tomba
di un giovane diacono giansenista nel cimitero
di Saint-Medard comincia a
“produrre miracoli”. Ne derivavano da parte
dei numerosi miracolati fenomeni di
trance profetici, convulsioni spettacolari e isterie
collettive, che
cessano solo in parte quando il cimitero
viene chiuso dalle autorità, poiché il
“convulsionismo” continua in altri luoghi
[11]. Ma
il movimento religioso più straordinario
fu sicuramente quello dei Fratelli
Moravi, fondato da Zinzendorf, basato su
un cieco affidamento alla Divina
Provvidenza. Esso si qualifica eminentemente
come un fede sentimentale, ovvero
una “religione del cuore” del tutto irrazionalistica
di grande fascino e
successo. In Inghilterra ne fu interprete
John Wesley, fondatore di quel
Metodismo che si svilupperà specialmente
oltre Atlantico e che negli USA conta
tuttora grande seguito. Wesley, predicando
l’amore “personale” del Cristo nei
confronti del singolo fedele, apriva le porte
ad un rapporto diretto con la
divinità assolutamente inedito ed estraneo
alla dottrina storica cristiana,
legata specialmente nel Cattolicesimo all’opera
dei ministri del culto quali intermediari
tra l’uomo e Dio.
La cosiddetta scristianizzazione è quindi
soltanto un processo culturale che pervade
il secolo e che tende ad
“aggiornare” la fede in maniera più o meno
profonda; se ad essa si accompagna una
certa laicizzazione ciò è la conseguenza
inevitabile di un aumento del livello
culturale generale. Nella classe nobiliare
e soprattutto nell’alta borghesia si
verifica infatti il graduale spostamento
dell’affidamento dell’educazione dei
minori dal precettore religioso a quello
laico, in quanto questo offriva un
orizzonte didattico più efficiente, più evoluto
e più completo. E ciò era anche
in parte la conseguenza dell’espulsione dei
Gesuiti dall’educazione pubblica,
della quale erano stati quasi monopolisti
per lungo tempo, ma anche di una vera
e propria voglia di laicismo che comincia
ad interessare strati sempre più ampi
dei ceti agiati. Ammoniva un ecclesiastico
francese nel 1753:
Chiunque tiene in casa maestri privati può
far
insegnare impunemente ai famigliari le opinioni
più pericolose, […] imbevendoli
fino in fondo del loro veleno, e producendo
non figli cristiani devoti alla
religione e sudditi sottomessi alla corona,
ma persone ribelli nel cuore e
nell’animo, che pensano e si comportano da
atei. [12]
In ogni caso anche la religione ha subìto
già nel secolo precedente gli effetti dell’ondata
del pensiero razionalistico;
ne era stato segnale significativo un’opera
come il Traité des superstitions
di Jean-Baptiste Thiers, comparsa nel 1679,
che è un tentativo di sradicare
dalla pratica religiosa i suoi aspetti più
arcaici. L’evidente intento di
Thiers è di mettere al riparo la fede dagli
attacchi di una montante
incredulità che tendeva a sfociare nella
miscredenza; egli sostiene che
credenze e pratiche superstiziose fanno perdere
di vista il vero insegnamento
della Chiesa. Ciò, oltre a spostare la devozione
religiosa verso la magia,
induce a comportamenti contrari alla ragione
di cui Dio ci ha dotati.
All’inizio del Settecento il problema si
fa ancora più serio, ed è ormai
evidente che il nuovo pensiero dei Lumi tende
a mettere in crisi i dogmi
cristiani a favore di un allargamento del
concetto di religiosità che si
ritiene nascosto sotto un concetto di “tolleranza”
visto come il “cavallo di
Troia” dell’ateismo. In realtà, come si è
visto, non è affatto l’ateismo il
nemico del Cristianesimo, bensì il Deismo,
e l’opposizione Cristianesimo/Deismo
ripropone il grande conflitto di quindici
secoli prima del primo col
Neoplatonismo. Ma il conflitto nasconde per
la fede un aspetto più subdolo, ed
è la perdita del senso della “comunità” ecclesiale,
ovvero l’avanzata
strisciante del concetto di individualità,
anzi di “coscienza individuale”, già
posto dalla Riforma ed ora nuovamente montante.
Di esso, come ci ricorda
Marie-Hélène Froeschlé-Chopard, se ne può
trovare traccia già in San Tommaso,
che aveva intravisto il problema della possibile
diversificazione tra una Lex
privata, scritta nel cuore di ogni individuo, e
di una Lex publica,
quale canone della Chiesa [13].
Abbiamo già visto come il Settecento veda
rafforzarsi l’interesse per la natura insieme
col desiderio di conoscerne a
fondo la struttura e i suoi componenti; si
comprende allora il successo,
insieme col deismo, di una più vaga ma profonda
“Religione Naturale”. Dizione
che suggerisce la relazione diretta tra la
natura e la sua divinizzazione, e
che non coincide del tutto con quella di
Deismo, che ne è ritenuto
impropriamente sinonimo. È più corretto ritenere
che, almeno in Francia, la religione
naturale rappresenti l’humus su cui cresce e di cui si alimenta la
pianta del deismo, il quale, qui, non è esattamente una copia
di quello
britannico. Se questo si distende soprattutto
tra una revisione
dell’interpretazione delle Sacre Scritture
in un senso più libero e
razionalistico, quello francese si manifesta
come un intuizionismo sentimentale
armonicistico e spesso irrazionalistico.
La religione naturale (dizione
molto utilizzata in Germania) e il deismo possono essere considerate due
religioni post-cristiane, o epi-cristiane. Entrambe sono nate in Gran
Bretagna ed entrambe non mettono affatto
in discussione la realtà del Dio della
Bibbia, bensì i termini della sua Rivelazione
insieme con un’applicazione
sclerotica del messaggio evangelico. Esse
compiono un’operazione molto simile a
quella compiuta da Spinoza col Tractatus theologico-politicus, ma dove
il percorso modificatorio implica un ruolo
importante del sentimento accanto a
quello della ragione. E ciò contro la pedantesca,
schematica e dogmatica
razionalizzazione more geometrico dell’olandese, resa nei primi due
capitoli dell’Ethica.
E tuttavia, ammesse alcune differenze
teoriche e di forma, sia il panenteismo spinoziano
e sia il deismo/teismo
possedevano un presupposto fisso, quello
dell’armonia dell’universo e della sua
teleologia, di cui si faceva carico una Provvidenza
benigna che aveva
progettato e realizzato un mondo perfetto
a dispetto di alcuni suoi aspetti
sconcertanti. In proposito si ricorda spesso
come il terremoto di Lisbona del
1755, coi suoi ventimila morti, avesse sferrato
un colpo ferale all’ottimismo
cosmico di cui la religione naturale era erede. Il teista Voltaire era
rimasto profondamente scosso nelle sue convinzioni,
ma si trattò di un
atteggiamento emozionale contingente che,
non intaccò troppo la religione
dell’armonia della natura “secondo ragione”
di François Marie Arouet. Questa
nuova religione anticipava, per molti versi,
sia i panteismi moderni e sia le
ambigue tesi dell’intelligent design, oscillanti tra determinismo e provvidenzialismo,
che all’epoca che stiamo considerando era
noto come argument for design.
Secondo essa la Bibbia si presentava come
inaffidabile e piena di errori solo
per le grossolane interpretazioni letterali
(era stata la stessa tesi di
Spinoza), mentre all’occhio perspicui del
deista-naturista essa appariva come
una pietra di base sicura, ma oscura, che
andava rivestita del “lume della
ragione” e portata a una chiarezza adeguata
ai tempi. L’intento, neppure troppo
nascosto, era in realtà proprio quello di
mettere al sicuro una fede
irrinunciabile dagli attacchi di uno scientismo
critico assai pericoloso e
foriero di demoniaci abissi ateistici che
si profilavano all’orizzonte.
Dunque, irrinunciabile la fede in Dio, ma
irrinunciabile anche una ragione che avrebbe
dovuto ratificarla e rimodellarne
opportunamente connotazioni e attributi,
più o meno nei termini con i quali un
predicatore tedesco nel 1788 dichiarava:
Non temiate di perdere la religione dei vostri
padri. La ragione non colpisce la religione
ma solo le sue escrescenze.
Perderete i pregiudizi ma della religione
conserverete l’essenza. E questa anzi
sarà in futuro tanto più salda quanto più
si avvicina al lume della ragione.
Una volta armonizzata con la ragione, non
dovrà più temerne gli attacchi. [14]
I
termini dell’esortazione sono piuttosto interessanti,
intanto perché vengono
definite “escrescenze” quegli aspetti dottrinali
che aveva costituito la base e
l’alimento del dibattito filosofale sviluppatosi
con la Patristica e la Scolastica
dal II al XV secolo. Poi perché ipotizza
il possibile addomesticamento della
ragione (ma di quale?) concedendole un primato
ermeneutico che la fede
cristiana ortodossa ci pare non abbia praticato,
se non in qualche
aggiustamento e in qualche bizantinismo dottrinario
degli Scolastici
domenicani.
Thomas
Paine liquidava la questione in modo lapidario
nel suo L’età della ragione
con queste parole: «Fra tutti i sistemi religiosi
mai inventati non ce n’è
alcuno più offensivo per l’Onnipotente, più
antieducativo per l’uomo, più
ripugnante alla ragione e più contraddittorio
in se stesso, di questa cosa
chiamata cristianesimo.» [15] Si
fa riferimento, dunque, all’Onnipotente e
lo si fa testimone
dell’antieducatività, dell’irrazionalità
e della contraddittorietà del
Cristianesimo allo scopo di salvare la “vera
religione”. Siamo
all’anti-cristianesimo più radicale, e nello
stesso tempo ad una petizione di
principio che rivendica un Dio razionale
che la ragione pura fa fatica ad
ammettere. In questo clima una delle opere
più pericolose per l’autorità
ecclesiale fu certamente l’opera Le Platonisme dévoilé di Souverain,
apparso proprio all’inizio del secolo (nel
1700), dove si sosteneva che il
Cristianesimo dottrinario si era largamente
ispirato al pensiero di Platone
(cosa non soltanto vera, ma facilmente dimostrabile
scorrendo appena l’opera
dei Padri e soprattutto di Agostino). Ma
l’opera di Souverain ha lo scopo
precipuo di mettere in dubbio la divinità
del Cristo, in quanto sarebbero stati
proprio i platonici convertiti al Cristianesimo
a divinizzare Gesù. Tra i vari
apologeti in azione, allo scopo di arginare
questi attacchi all’ortodossia, si
possono distinguere quelli che operano con
scritti di carattere tradizionale e
quelli che operano in modo innovativo. Questi,
efficacemente, rompendo gli
indugi e abbandonando gli strumenti teologici
tradizionali, si mettono ad
utilizzare abilmente le armi dell’avversario
stesso, ovvero il ragionamento
critico, attraverso un’operazione riformistica,
di cui Spinoza, un secolo
prima, era stato il maestro.
Tra le apologie di tipo tradizionale spicca
il già citato La verité de la religion chrétienne prouvée
par le faits,
del 1722, con la quale l’abate Houtteville,
mettendo in rapporto le profezie
bibliche, i testi evangelici e i “fatti”
miracolosi, dimostra le supreme verità
della fede. Sul versante innovativo di questa
grandiosa strategia “difensiva”
spicca, invece, Le spectacle de la Nature che il già ricordato abate
Noël Antoine Pluche (1688-1761) pubblica
nel 1732. Un interessante tentativo di
spiegare la fede alla luce delle scienze
della natura e di ratificarne la
verità usando i mezzi del nemico della fede,
ovvero il filosofo naturale
razionalista (e tendenzialmente deista).
Leggiamone un passo:
Tutto è legato, la terra intera è l’opera
semplice di una stessa intelligenza e il
bene dell’uomo ne è visibilmente il
fine […] [16]
Lasciamo ai grandi fisici la preoccupazione
di cercare nelle leggi del
movimento, e, nell’insieme dei corpi celesti,
le ragioni di quelle rivoluzioni
così costanti […] [17]
Di cento persone che faranno queste ricerche,
non ve ne saranno due che
converranno sulla stessa conclusione. L’incertezza
di tale lavoro è una ragione
sufficiente per risparmiarcelo. Invece di
voler spiegare quale sia il
meccanismo che opera così costantemente,
cerchiamo piuttosto a quale scopo
questa bella opera sia stata fatta. [18]
Ciò
che è importante capire è il “fine” della
Creazione e non “come” la natura sia
fatta e funzioni. L’enfatizzazione
teleologica di questo importante pedagogo
e divulgatore scientifico è
significativa del momento particolare che
abbiamo delineato. Due anni dopo
un’opera moralistica come il Traité du vrai mérite di Le Maître de
Claville cerca di trovare il giusto punto di equilibrio
tra un’etica
cristiana e un’etica naturalistica. Si tratta
di un’opera di grande successo e
ristampata più volte lungo tutto il secolo.
Ad essa fa eco il più tardo (1766) La
religione de l’honnête homme di
Caraccioli che ripropone la fusione tra una
morale cristiana e una naturalistica.
Nel 1768 la ricerca di una fusione tra
cristianesimo e naturalismo sarà ripercorsa
dall’abate Gauchat che con L’accord
du christianisme et de la raison cercherà di rafforzare la tesi del
perfetto accordo tra la razionalità della
scienza e la fede religiosa.
Norman Hampson a proposito della “scristianizzazione”
parla di
sgretolamento della verità biblica [19], e riteniamo che con ciò abbia colto
l’elemento di fondo del fenomeno, ma in modo
terminologicamente scorretto. È infatti il Vecchio Testamento più che il
Nuovo a venir messo in discussione, mentre
la figura di Gesù Cristo, citata o
taciuta, rimane sullo sfondo come il vero
fondamento della fede, ed in qualche
caso investito, secondo una reminiscenza
patristica, delle caratteristiche di
un lógos platonico-stoico che è diventato una ragione
fecondata dal
sentimento. Il processo di
scristianizzazione è tuttavia costante e
si manifesta in episodi che fanno
scalpore, turbando le coscienze comuni e
rispettose di usi e costumi. Il
principe di Conti, svizzero, in punto di
morte è visitato dall’arcivescovo di
Parigi per impartirgli l’estrema unzione;
il principe lo ringrazia e gli
riserva grande cortesia, ma quando questi
tenta di impartirgli i sacramenti li rifiuta
e lo induce al commiato. Quando l’arcivescovo
tenta di rivisitarlo, e ciò per
ben due volte, lo svizzero si rifiuta di
riceverlo gettando nello sconcerto il
mondo ecclesiastico parigino [20]. Tutto
ciò rivela un nuovo clima prima impensabile
e a cui si associano sempre più
spesso scritti di autori apertamente antireligiosi.
Tra tali scrittori molto
critici con il Cristianesimo vanno ricordati
J.L.Carra, che scrive il Système
de la raison, e Rouillé D’Orfenil col suo L’alambic des lois e
l’anonimo autore dei Dialogues sur l’âme, par les interlocuteurs
en ce
temps-là [21]
5.2
Vecchie e nuove teologie
La Grazia doveva essere ancora
perfettamente all’opera se un esimio cristiano
come l’elettore Massimiliano di
Baviera nel 1777 inghiottiva un’immagine
della Santa Vergine come cura contro
il vaiolo [22].
Ma la Grazia non è necessariamente quella
cristiana, tutte le religioni hanno
la loro grazia, ovvero un benevolenza divina,
una Provvidenza, cui fare
riferimento ed invocare all’occorrenza. Di
questa sostanziale corrispondenza
tra le varie fedi è del tutto consapevole
Montesquieu che nelle Lettres
persanes del 1721 ci dice che, in fondo, esse sono
tutte simili ed operano
un’antropomorfizzazione di Dio basata sulla
superstizione. Della stessa idea
era Philip Dormer Chesterfield (1694-1773)
che sosteneva:
L’oggetto
di tutte le pubbliche manifestazioni di culto,
nel mondo, è sempre lo stesso: è
il grande Essere eterno, che tutto ha creato.
Le diverse forme di culto non
sono in alcun senso soggette a ridicolo:
ogni setta ritiene migliore la
propria, ed io non conosco giudice infallibile,
a questo mondo, che possa
decidere quale sia veramente migliore. [23]
Quest’atteggiamento è alla
base della tolleranza religiosa che percorre
la società settecentesca
illuminata, e Chesterfield, un Pari d’Inghilterra,
andava oltre, nel dire dei
suoi servitori: «che io considero amici sfortunati,
miei pari per natura, e
miei inferiori solo per la differenza delle
nostre fortune.» Sul letto di morte
dispose che a quelli che lo avevano servito
da almeno cinque anni venissero
versati due anni di salario, una liquidazione
all’epoca del tutto inconsueta [24].
Egli era certamente un razionalista e un
illuminista, ma anch’egli non era
privo di qualche convinzione banale, come
considerare un valore fine a se
stesso il comportamento “raffinato” in società,
che ovviamente prevedeva
un’educazione che i poveri, suoi “pari in
natura”, non avrebbero mai potuto
conseguire. E tuttavia si colga la razionalità
venata di scetticismo critico di
queste parole: «Consulta in tempo la tua ragione: non dico
che essa
si mostrerà sempre una guida infallibile,
dato che la ragione umana non è
immune dall’errore; ma si mostrerà certamente
la miglior guida che tu possa
seguire.» [25]
E un
ammonimento circa la formazione del giudizio:
Consulta
sugli stessi fatti autori diversi e forma
la tua opinione secondo il maggiore o
minore grado di probabilità che ne risulta:
questo, a mio modo do vedere, è il
punto massimo che la veridicità storica può
raggiungere: alla certezza, temo,
non è mai dato di arrivare. [26]
Considerazioni forse ovvie,
ma non banali, e soprattutto espresse con
una concisione e una semplicità
esemplari. Ma lo scetticismo prudenziale
e razionale di Chesterfield rimane
un’eccezione, il Settecento si mostra ancora
largamente dominato dalla certezza
dell’esistenza di un ordine divino e che
un progetto di perfezione e un
Provvidenza sempre all’opera determinino
il migliore dei mondi possibili.
Eppure queste posizioni teologiche
“ragionevoli”, abbastanza comuni correnti
sin dalla metà del Seicento, risultavano intollerabili per il grande
apologista cattolico Jacques-Bénigne Bossuet
(1627-1704), latore di un retaggio
ideologico rigorosamente conservatore e massimalista.
Personaggio
anti-illuminista per eccellenza è colui che
combatte tutta la vita conto ogni
concezione laica del mondo e dell’esistenza
umana, aderendo strettamente ai
concetti agostiniani del Civitate Dei. Uomo tanto geniale nell’utilizzazione
degli strumenti quanto inflessibile nel perseguimento
dei fini, sarà allievo di
San Vincenzo dé Paoli, prete nel 1652, quindi
canonico a Metz, precettore del
futuro Luigi XV e poi vescovo di Meaux. Fine
scrittore e predicatore
infaticabile è nella regione di Metz, con
una forte presenza di protestanti ed
ebrei, che il combattivo Bossuet si fa le
ossa lottando, a vasto raggio, con
una predicazione appassionata e faconda.
La regina madre, Anna d’Austria, e la
potente Compagnie du Saint-Sacrement, comprendono subito di avere il lui
l’uomo di punta giusto per combattere la
miscredenza e le deviazioni
dottrinarie. Attraverso una vasta produzione
letteraria, ma soprattutto
attraverso i suoi sermoni, Bossuet diventa
il grande “paladino della fede” (ma
non meno il difensore del Re Sole nei suoi
contrasti giurisdizionali col
papato).
Tra il 1670 e il 1690 Bossuet si spende
prevalentemente nella lotta alle libere interpretazioni
della Bibbia,
componendo nel 1679 quel Discours sur l’Histoire universelle in cui,
riprendendo una vecchia concezione teologica,
divide la storia umana in sette
età del mondo. Per lui, ligio alla narrazione del Pentateuco,
l’unica “vera” storia è quella della Bibbia:
ciò che ne prescinde è «soltanto
favola» [27] La storia sacra è l’”asse portante” di ogni
verità, poiché rivela il divino “piano provvidenziale”
che la governa, quindi
le fasi della storia profana non sono che
“momenti” della storia sacra.
Infatti: «gli imperi del mondo sono serviti
alla religione e alla conservazione
del popolo di Dio; perciò questo stesso Dio,
che ha fatto predire ai suoi
profeti le diverse condizioni del suo popolo,
ha fatto loro predire anche la
successione degli imperi.» [28].
Tutto è determinato della Provvidenza, e
il susseguirsi degli «imperi profani»
è il deterministico esito di ciò che essa
ha disposto e prodotto «nei secoli
precedenti » [29].
Ne deriva che, siccome sono le “disposizioni”
del disegno provvidenziale
a generare la storia, il compito della «vera
scienza storica » è quello di:
«osservare in ogni tempo queste disposizioni
segrete che hanno preparato i
grandi mutamenti, e le congiunture importanti
che li hanno fatti accadere.» [30]
Sulla base di tali premesse appare in
filigrana, oltre un millennio dopo (come
ha ben visto Pietro Rossi [31])
la trama agostiniana della concezione della
storia. La logica conclusione
bossuetana è che:
Dio
regna su tutti i popoli […] ciò che è caso
agli occhi nostri dei nostri incerti
consigli è invece un disegno concertato in
un consiglio più alto, cioè in quel
consiglio eterno che racchiude tutte le cause
e tutti gli effetti in uno stesso
ordine. Così tutto concorre a un medesimo
fine; e soltanto per l’incapacità di
comprendere il tutto noi troviamo il caso
o l’irregolarità nelle vicende
particolari. [32]
Si vede bene come siamo di
fronte all’enunciazione più perfetta del
determinismo più rigoroso, un’enunciazione che Laplace avrebbe
dovuto condividere incondizionatamente per
quanto ateo. Vi è di più, Bossuet
combatte aspramente spinozisti e deisti in
nome di quello stesso “Ordine
Divino” che essi pongono a base della loro
teologia, e ciò mostra come
sostenitori dell’indeterminismo, come La
Mettrie e Diderot, risultassero
totalmente isolati in un contesto culturale
estremamente frazionato sul piano
ideologico quanto unito su quello ontologico.
Ma se la predicazione di Bossuet continuava
a porsi come una “Bibbia dell’anti-Illuminismo”
nelle mani degli integralisti
cattolici vi è anche un forte anti-Illuminismo in molti di coloro che
passano per “illuministi”. Come osserva acutamente
Hampson: «la “reazione”
contro l’Illuminismo precedette le principali
opere dell’Illuminismo stesso.»
e Rousseau era stato infatti il primo a dare
fuoco alle polveri sin dal 1749
col suo saggio sulla morale scritto per l’Accademia
di Digione e com’è noto il
poco coerente Jean-Jacques oscillerà sempre
tra ipocriti appelli alla ragione e
apologie del sentimento in un improbabile
coniugazione che ha il solo sbocco
coerente nella Professione di fede del vicario savoiardo. Un moralista
come Chamfort, sulla scia di Rousseau, afferma:
Nell’attuale
stato della società, l’uomo mi sembra più
corrotto dalla ragione che non dalle
passioni. Le sue passioni (quelle intendo
che appartengono all’uomo primitivo)
hanno salvato, nell’ordine sociale, tutti
quei frammenti di natura che ancora
sopravvivono. [33]
E Johann Georg Hamann, il mistico
pietista, sostiene in tono enfatico:
Il
pensiero, il sentimento e l’intelletto, dipendono
tutti dal cuore, e un po’ di
entusiasmo e di superstizione non soltanto
meritano una certa indulgenza, ma
sono il lievito necessario perché l’anima
risollevi all’eroismo della
filosofia. [34]
Il proto-comunista Morelly ha un ottimismo
assoluto e pensa che Dio possa essere concepito
unicamente sotto le specie
della “benevolenza”, al punto di vedere l’idea
di benevolenza divina precedere
addirittura quella del suo possessore. Scrive
in Code de la nature del
1755:
Nell’ordine
naturale, l’idea della benevolenza attiva
e passiva precede ogni altra idea,
perfino quella della divinità. Questa sola
idea eleva gli uomini alla
concezione di un Dio, prima ancora, e con
maggiore certezza, di quanto non
potrebbe farlo lo spettacolo dell’universo.
La benevolenza ci dà un’idea della
divinità, veramente degna della maestà del
suo disegno. Essa sola, in generale,
reca a perfezione tutte le facoltà della
ragione e indica il loro vero uso. La
concezione che l’uomo ha di Dio si corrompe
solo per quel tanto che la sua idea
di benevolenza si inaridisce. L’idea primitiva
d’un Dio benefico non è
idolatria: si può definire idolatria solo
la fede in n Dio che si prodighi
egualmente nell’azione nociva e in quella
benefica. Ogni sistema morale che
fondi la propria dottrina su questa concezione
della divinità è del tutto
vizioso. [35]
Non molto diversamente la
pensava Condorcet, sostituendo però Dio con
la Natura, quando (in Esquisse
d’un tableau historique des progrès de l’esprit
humain) sosteneva che essa
aveva dotato tutti gli uomini di: «[…] rigorosi
e puri principi di giustizia
[…], di abituali impulsi alla benevolenza,
di una sensibilità delicata e
generosa.» [36]
La benevolenza della divinità, dunque, un
Dio-Essere Supremo-Natura, era
invocato in quell’empito di ottimismo che
sembra percorrere il pensiero
settecentesco trasversalmente e unanimemente
tra teologie concorrenti e spesso
ideologicamente nemiche. Da parte sua il
buon Pluche senza ambiguità chiamava
le cose buone col loro nome collettivo: la
Provvidenza; la benevolenza divina
che era l’attributo primario di Dio:
Chi
percepisce l’armonia della natura e della
società con la religione rivelata
riconoscerà che gli uomini non sono quali
dovrebbero essere, che la diversità
della loro condizione risulta dall’interesse
della Provvidenza a ridurre le
cattive conseguenze della malvagità nei cuori
umani e a costringere gli uomini
a fare per interesse personale quello che
dovrebbero fare per virtù. [37]
La lezione di Leibniz pare veramente
dominare queste pagine e nello stesso tempo
preludere alla splendida teologia
provvidenzialistica di Hegel. Che tutto “fosse
per il meglio” sembrava opinione
diffusa e inattaccabile, al punto che Soame
Jenyns poteva affermare
candidamente nel suo Free Enquiry into the Nature and Origin of
Evil del
1757 che l’ignoranza nei poveri non era un
male bensì: «un cordiale somministrato della graziosa
mano della Provvidenza» e che di tale “cordiale
somministrato” essi non
dovevano essere privati in alcun modo da:
«una malintesa e inappropriata
educazione.» [38]
Ottusità? No! Soltanto la franchezza un po’
ingenua di dichiarare ciò che molti
pensavano senza dirlo. D’altra parte gli
innumerevoli fans della Grazia
divina, ora riciclati come provvidenzialisti-deterministi,
non pensavano forse
che il Dio-Volontà-Necessità dispensasse
inegualmente, secondo un ordine
provvidenziale a noi celato, pregi e difetti,
disgrazie e fortune? E siamo
sicuri che un “illuminato”, ma non ingenuo,
come Montesquieu, non la pensasse
dal più al meno allo stesso modo? E tuttavia,
qualche voce dissonante nel gaudioso
coro determininista-provvidenzialista c’era;
un certo Johnson, all’opposto di
Pluche e di Jenyns, riteneva che i comportamenti
morali non fossero affatto
“naturali”, bensì “acquisiti”, quali frutti
delle conquiste etiche della
civiltà della ragione. Da ciò l’affermazione:
«La pietà non è naturale all’uomo.
I bambini sono sempre crudeli. I selvaggi
sono sempre crudeli. La pietà si
acquista e si accresce coltivando la ragione.»
[39]
Il problema è ancora sempre quello del determinismo,
questa super-fede più forte di ogni altra
fede, e che tutte le fedi supporta
con la sua cogenza psichica. Dal fato della religione greca, a quello
della teologia stoica, alla necessità ciclica
emanativa-inclusiva dell’Uno
plotiniano, allo Spirito infinito di Bruno,
alla Necessità di Spinoza, alla
provvidenza di Leibniz, all’Intelligenza
di Laplace, all’Assoluto degli
idealisti, in questa gloriosa galleria di
deterministi-provvidenzialisti vi è
il meglio della teologia filosofale di tutti
i tempi. La “ciclicità”
provvidenziale di stoica memoria è anche
l’idea fissa di Morelly, il quale, da
uomo del Settecento, vuole sì il progresso
sociale, ma non un progresso verso
l’ignoto dei nuovi orizzonti, bensì per il
“ripristino” di uno stato ideale arcaico
precedente di “integrità” umana che fa il
paio col perduto stato di
“naturalità” sognato da Rousseau. Un’integrità
che è l’insieme dei valori”
naturali perduti (e da recuperare), un’integrità
perduta per la cecità e
l’ignoranza di un homo sapiens corrotto, che ha perduto il senso del
bene e deve riscoprirlo un’altra volta. Un
homo degno erede negativo dei
genitori edenici Adamo ed Eva, che non hanno
saputo apprezzare il loro stato
felice e hanno corso l’avventura di un conoscere
“innaturale”.
Facendo seguito a precedenti anticipazioni
entriamo
ora nel dettaglio di quelle che genericamente
definiamo nuove teologie,
distinguendo in esse quelle cultuali e devozionistiche,
quelle misteriche e
quelle filosofali; queste ultime indubbiamente
le più interessanti. Su tutte
domina comunque l’incombenza del “sentimento”,
proprio in contrapposizione a un
nascente scientismo che privilegiare in modo
talvolta acritico e rozzo il
primato della ragione. Il sentimentalismo
è precipuo della teologia germanica
ed in questo ambito emerge la figura di Johann
Georg Hamann, il cosiddetto Mago
del Nord, capace di una prosa fascinosa e
immaginifica. Un amico di Kant,
Herder e Jacobi che fu al centro del dibattito
anti-illuministico dell’epoca,
esaltando la fede e vedendo nel linguaggio
un immediato e diretto elemento divino
donato agli uomini. Il suo influsso si ritrova
in Goethe, in Kierkegaard e in
generale nel pensiero idealistico ed il suo
anti-razionalismo si evidenzia in
frasi come quella più sopra citata del «
lievito necessario perché l’anima si
sollevi all’eroismo della filosofia.» [40]
Il deismo britannico (di cui parleremo al
§
5.3) domina la scena teologica del XVIII
secolo, ma non i tratta di una
metafisica univoca, poiché assume nei suoi
proponenti forme abbastanza
differenziate. Queste, passando sul continente,
verranno percepite in modo
abbastanza sintetico, e più che venire assunte
tal quali vengono adattate al
contesto e perlopiù personalizzate. Vi è
però la possibilità di affiancare al
deismo un’altra teologia filosofale più specificamente
religiosa, che è il teismo,
e tentarne una definizione, dal momento che
qualche differenza tra le due
sussiste, ancorché spesso si presentino affiancate,
interconnesse e spesso
sovrapposte [41]. E poi anche perché sia
Rousseau che Voltaire, due grandi protagonisti
della cultura del Settecento,
devono esser considerati teisti piuttosto
che deisti. In termini semplificati
diremo quindi che sia il deismo e sia il
teismo pongono Dio non nelle forme canoniche
dalle Sacre Scritture e soprattutto senza
specificazioni dottrinarie posteriori
(tipo la Trinità) palesemente frutto di aggiustamenti
e di elucubrazioni
teologiche posteriori. Entrambe sono tendenzialmente
teologie negative, che
ritengono Dio inconoscibile, per quanto il
teismo ne tenti talvolta una
definizione. Relativamente all’immortalità
dell’anima il deismo spesso
la nega, mentre il teismo l’ammette sempre. Entrambi divinizzano in
qualche maniera la natura, ma il deismo presenta una più spiccata
tendenza panteistica ed in esso risulta più
accentuata la razionalità, sì da
ritenere che non solo nella mente umana ci
sia un certo innatismo religioso, ma
anche che per mezzo della ragione sia possibile,
in qualche modo accedere alla
divinità. Nel teismo si accentua la volontà personale di Dio
in senso
anti-panteistico, se ne vede la sua azione
continua nel mondo, enfatizzando quindi
l’azione della Provvidenza.
Tra le forme di teismo iniziamo col considerare
quella di Rousseau, presente in vari luoghi
della sua opera ma esposta in
maniera esaustiva nella Professione di fede del vicario savoiardo, all’interno
dell’Emilio, dove il personaggio, un alter ego di Jean-Jacques,
espone
la sua fede personale. Di questa professione di fede, che viene
esposta
in un lunghissimo paragrafo di oltre settanta
pagine, daremo conto soltanto di alcuni
passaggi significativi. Il tono discorsivo
è modesto e prudente, con la
consapevolezza di toccare un argomento essenziale
e scottante che deve fare i
conti con la religione istituzionale. Ma
il risultato mediatico per il
Cristianesimo può essere considerato assai
più devastante delle invettive di un
Voltaire, poiché attraverso essa si va ad
intaccare nettamene il suo impianto
dottrinario, proponendo una vera e propria
religione alternativa. Fin dai primi
passi viene messa in campo la coscienza nei
seguenti termini: «Dicono che la
coscienza sia il prodotto dei pregiudizi;
io però, per diretta esperienza, so
che essa si ostina a seguire l’ordine della
natura contro tutte le leggi degli
uomini.» [42] Ecco una prima dichiarazione di grande
importanza, che potrebbe essere sottoscritta
da tutti i teologi filosofali e in
primis da Kant. Nel profondo del nostro cuore,
nella coscienza, la
divinità, sia essa il Dio-Volontà, il Dio-Necessità,
il Dio-Natura o altro sta
impresso, indelebilmente, il senso del bene
e del male, del giusto e dell’ingiusto,
del vero e del falso. In questo senso la
religione del vicario si allinea
totalmente al punto di vista innatistico,
che da Platone ai metafisici barocchi
percorre tutta la storia teologica dell’Occidente.
Più avanti il Nostro
comincia a delineare l’obiettivo della sua
critica: gli scienziati e i
cosiddetti philosophes materialisti:
Immaginate che tutti i vostri filosofi antichi
e
moderni avessero già esaurito i loro bizzarri
sistemi aventi a fondamento la
forza, la probabilità, la fatalità, la necessità,
gli atomi, il mondo animato,
la materia vivente, ogni sorta di materialismo,
e che dopo tutti costoro
l’illustre Clarke [43]
illuminasse l’umanità annunciando infine
l’Essere degli esseri e il
dispensatore delle cose: con che universale
ammirazione, con che unanime
applauso sarebbe stato accolto questo nuovo
sistema, così grande, consolante,
sublime, così atto ad innalzare l’animo,
a dare una base alla virtù., e al
tempo stesso così convincente, luminoso,
semplice [...] [44]
Evidente
la “folgorazione” cui è andato soggetto il
Vicario savoiardo, che dopo
l’incombenza dei “bizzarri sistemi” materialistici
vede finalmente comparire un
“sistema” grande, consolante, sublime” convincente
e confortante. Ma ecco come
nelle sue parole la “legge del cuore” si
coniuga con la “legge della
Necessità”:
Portando dunque in me per tutta filosofia
l’amore della verità e come solo metodo una
regola facile e semplice che mi
dispensa dalla vana sottigliezza degli argomenti,
riprendo alla luce di questa
regola l’esame delle conoscenze che m’interessano,
deciso a riconoscere come
evidenti tutte quelle a cui, nella sincerità
del mio cuore, non potrò rifiutare
il mio assenso, come vere tutte quelle che
mi appariranno legate alle prime da
un legame necessario, lasciando tutte le
altre nell’incertezza, senza
respingerle né accettarle, e senza tormentarmi
a spiegarle, dal momento che a
nulla conducono che abbia pratica utilità.
[45]
Vediamo
il passaggio con attenzione. Intanto va osservato
che il “criterio di utilità”
che lo conchiude mal si concilia con l’”amore
della verità” che lo inizia, né
il criterio delle conoscenze “che interessano”
è molto corretto, poiché se la
validità di una conoscenza fosse dettata
dall’interesse sarebbe piuttosto mal
fondata. Ma se ci si chiede che cosa stia
alla base dell’assenso che forma la credenza
la risposta è, com’era prevedibile: nella
“sincerità del mio cuore”. Il
cerchio si chiude così tra le esigenze del
cuore (diremmo noi della psiche),
che determina una supposto innato “amore
della verità”, e le esigenze del
vivere, ovvero dell’utilità o meno di una
certa weltanschauung. Sarebbe
fin troppo facile osservare che il nostro
concetto di omeostasi risulta
qui non solo sostenuto e legittimato, ma
strettamente connesso alla necessità
psichica di immaginare un Dio puro spirito
quale causa prima e ultima della
materia. Infatti:
Quanto più osservo l’azione e reazione delle
forze della natura che agiscono le une sulle
altre, tanto più trovo che, di
effetto in effetto, bisogna sempre risalire
a qualche volontà come causa prima:
infatti, supporre una serie infinita di cause,
equivale a non supporne alcuna. [46]
Curioso
atteggiamento quello di respingere le “sottigliezze”
della filosofia, ma di
assumere in pieno quelle della metafisica
in nome delle fede. La quale così si
fonda: «Ecco il mio primo principio. Io credo
che una volontà muova l’universo
e animi la natura. Questo è il mio primo
dogma, il mio primo articolo di fede.»
[47]
Rousseau respinge il Cristianesimo come dogmatico,
in nome di una religione
“naturale” dettata dal cuore e dalla coscienza,
ma non trova altro modo di
formularla e proporla se non fissando altri
dogmi. Ed ecco il secondo dogma,
che riprende l’eterno disegno intelligente di tutte le teologie:
Se la materia in quanto mossa mi rivela una
volontà, la materia mossa secondo precise
leggi mi rivela un’intelligenza: è il
mio secondo articolo di fede. […] Sono come
un uomo che vedesse per la prima
volta l’interno di un orologio e non si stancasse
di ammirarne il funzionamento
[…] ammiro l’artefice nei particolari dell’opera
e sono pienamente convinto che
tutti questi ingranaggi non si muovono con
tanta sincronia se non per un fine
che mi è impossibile di scorgere. [48]
Il
“divino orologiaio” ritorna qui più o meno
nei termini relativi a una delle Cabales
(X, 182) di Voltaire, che recita: «L’universo
mi turba e proprio non so vedere
/ che tale oriolo esista senza l’orologiaio».
Ed ecco un “classico” contro il
materialismo: «È al di sopra delle mie capacità
credere che la materia passiva e
morta abbia potuto produrre esseri vivi e
sensibili, che una cieca fatalità
abbia potuto produrre esseri intelligenti,
che ciò che non pensa abbia potuto
produrre esseri pensanti.» [49]
Anche se Rousseau è deista e non panteista
non si può dimenticare l’assioma che
Spinoza pone all’inizio dell’Etica: «Dio è una cosa pensante ».
Veniamo ora ad un punto importante
dell’opinione del Vicario anche in rapporto
al panteismo, allorché si chiede:
«Ma questo stesso mondo è eterno o creato?
Vi è un principio unico delle cose,
ve ne sono due, o ve ne sono parecchi? E
qual è la loro natura?»» [50] Ed
ecco la pronta risposta: «Non ne so niente
e neppure m’importa saperlo». Bisogna
cogliere qui il meglio del pragmatismo del
nostro, che nell’impossibilità di
dirimere la questione opta per una sospensione
del giudizio. Un atteggiamento
peraltro assimilabile a quello di Descartes,
per il quale di tutto si deve
dubitare salvo che dell’esistenza di Dio.
Da ciò il “credo”:
Eterna o creata che sia la materia, esista
o non
esista un principio attivo, è pur sempre
vero che il tutto è uno e perciò
attesta un’intelligenza unica, poiché nulla
vedo che non sia ordinato nello
stesso sistema che non concorra allo stesso
fine, cioè la conservazione del
tutto nell’ordine stabilito. Questo essere
che vuole e che può, questo essere
attivo di per se stesso, questo essere infine,
qualunque esso sia, che muove
l’universo e ordina tutte le cose, io lo
chiamo Dio. [51]
Fin
qui il discorso, basato sull’”ordine necessario”
parrebbe riferirsi al panteistico
Dio-Necessità, ma poi il tono muta:
Associo a questo nome le idee di intelligenza,
di potenza di volontà, che io stesso ho collegate,
e quella di bontà, che ne
costituisce un necessario complemento; ma
non per questo conosco meglio
l’essere che ho così nominato; egli si sottrae
egualmente ai miei sensi e al
mio intelletto; più ci penso, più mi confondo;
io so con assoluta certezza che
esiste, e che esiste per se stesso: so che
la mia esistenza è subordinata alla
sua e che tutte le cose a me note si trovano
esattamente nella stessa
condizione. Dappertutto scorgo Iddio nelle
sue opere: lo sento in me, lo vedo
intorno a me; ma non appena voglio contemplarlo
in se stesso, cercare dove sia,
che cosa sia, coglierne la sostanza, egli
mi sfugge e il mio spirito turbato
non coglie più nulla. [52]
La
sensazione di trovarsi di fronte al Dio-Volontà
ebraico o cristiano è netta, ma
vi è una nota misticheggiante che lo fa tendere
verso la “teologia negativa”. Analogamente
al Vicario un certo Brissot è tra i “folgorati”
dal teismo rousseauano.
Personaggio problematico e volubile confessa:
Errai di sistema in
sistema. Andai a letto materialista e mi
risvegliai deista; il giorno dopo
ancora ero pirronista. Quando mi animava
la fierezza dello spirito forte,
l’ateismo mi piaceva di più. Più mi allontanavo
dai preti, più mi credevo
vicino alla verità. Quando la voce interiore
si faceva sentire, quando
l’ascoltavo, allora mi convincevo dell’esistenza
dell’Essere Supremo e lo
pregavo fervorosamente. [53]
Era uscito dai suoi dubbi santificandosi
con
Jean-Jacques, abbracciando la cui teologia
aveva subito tutti i suoi problemi fideistica
ed esistenziali.
Occupiamoci ora brevemente della teologia
massonica, poiché la Massoneria, ai suoi
inizi, si qualifica proprio come società
di uomini legati dalla fede e il patrono
protettore scelto è San Giovanni
Evangelista fin dalla fondazione della Grande
Loggia d’Inghilterra nel 1717.
Gli incontri dei framassoni si estrinsecano
in un pasto conviviale comunitario
che avviene almeno una volta all’anno il
giorno di San Giovanni. Gli adepti,
talvolta anche alcune centinaia, si ritrovano
a tavola attorno al Gran Maestro,
in una riunione conviviale che ricorda l’agàpe cristiana; segue un
sermone e una colletta a favore dei bisognosi.
Prima di iniziare il pasto il
Gran Maestro in persona (che però può delegare
un confratello prete a farlo)
recita la preghiera di ringraziamento a Dio
[54]. Non
va sottovalutato il profondo senso soteriologico
e messianico di
un’associazione che intende porsi alla testa
di una movimento per la rigenerazione
dell’umanità; dove, alla base, stanno spinte
mistiche molto evidenti ed
entusiastici intenti di proselitismo. È sicuramente
vero che la Massoneria in
seguito ad un travolgente successo ed incremento
sia di logge che di adepti
diventerà anche molte altre cose oltre a
ciò che è al suo nascere, ma
certamente mantiene a lungo i caratteri di
una società con intenti
fondamentalmente cultuali, impastati di mistero
e di sacralità, il cui scopo
primario è di costruire il Regno di Dio sulla
Terra come “Tempio Salomonico” (secondo
il linguaggio massonico). Venne però accentuandosi
presto l’aspetto
solidaristico e di mutuo soccorso, che toglie
in parte sacralità alle Logge,
mentre i rituali si irrigidirono in seguito
in formule sclerotizzate e talvolta
prive di religiosità. E tuttavia molti massoni
continuano a coltivare un ideale
religioso profondo e messianico intriso di
ottimismo sia cosmico che antropico.
Personaggio famoso della Massoneria in ambito
artistico è stato il grande
Mozart, che diede musica alla Piccola cantata massonica, su versi di
Schikaneder (autore anche del testo del Flauto magico), tra i quali
compaiono espressione del tipo seguente:
Sfuggiamo a ciò che è terreno […] Lode e
grazie
al Signore dell’universo. Che i cuori e gli
spiriti creò per un’eterna azione!
Creare luce, giustizia e virtù, con le armi
sacre della verità sia il nostro
compito divino. […] Cercare la verità, esercitare
la virtù, amare di cuore
Iddio egli uomini: sia questo il nostro motto!
[55]
Risulta difficile immaginare espressioni
più tipicamente religiose di
queste in un inno che doveva risultare una
sintesi del pensiero massonico.
5.3 Il deismo britannico
La
linea di ricerca che ci siamo proposti esclude
una descrizione approfondita di
quest’importantissimo movimento teologico,
anche per il fatto che esso è poco
problematico ed abbastanza chiaro nelle sue
premesse di fondo, con la sola eccezione
di Toland, di cui tratteremo a parte. Ciò
che è comunemente definito deismo, come abbiamo già osservato, non risponde ad una teologia
univoca, sia le forme e sia gli elementi
concettuali differiscono notevolmente.
Esso è piuttosto un movimento intellettuale
con intenti revisionistici della
dottrina cristiana di tipo razionalistico
e naturalistico, con un fondamento
teorico unico,ma complesso ed articolato
nei suoi sviluppi. Sull’esempio di ciò
che già aveva fatto Spinoza (e con indubbie
assonanze con la sua teologia) è
rivendicata dal deismo, come prima istanza,
la libertà interpretativa delle
Sacre Scritture, spesso negata dalle gerarchie
ecclesiastiche anche in ambito
non-cattolico. Ciò che però sta alla base
del movimento, e in ciò la sua grande
importanza per la formazione di molto pensiero
teologico illuministico, è
l’assunzione della ragione come guida interpretativa
delle Scritture in
contrapposizione alla dogmatica tradizionale,
la quale si legittimava
attraverso la “rivelazione” del testo sacro
in sé o attraverso una tradizione
interpretativa consolidata. Non solo, anche
il ricorso a riferimenti a fonti
classiche come Cicerone (e persino Lucrezio)
fa del deismo una tendenza
culturale “libera”, sì da far definire i
deisti anche come freethinkers. Fenomeno teologico eterogeneo il deismo
richiede da parte dei suoi studiosi l’utilizzo
di una serie di riferimenti a
movimenti paralleli, tangenti o confluenti,
e tra questi, in primo luogo, con
la Massoneria, assai evidenti in Toland.
[56].
L’inizio del pensiero deista può essere individuato
in Edward Herbert di
Cherbury (1583-1647), un aristocratico imbevuto
di cultura classica e di
tendenze platoniche e stoiche, che ha anche
rapporti con Grozio e nei suoi
ultimi anni con Gassendi, ma in termini conflittuali
sul piano teorico. Pubblica
nel 1624 un De veritate, col quale propone un cristianesimo
riformato, individuando un nucleo religioso
originario e pre-cristiano come
fondamento “inconsapevole ed istintivo” di
tutte le forme religiose presenti
sul pianeta. Presupposti poi ripresi da Charles
Blunt con i suoi L’anima del mondo (1676) e Grande è Diana degli Efesini, o le origini
dell’idolatria (1680). Tutte pubblicazioni che risultano
possibili in un
clima di relativo “liberalismo” concesso
dalla Chiesa Anglicana, e che si
accentueranno con la “Gloriosa Rivoluzione”
del 1688. Il primo ad individuare chiaramente
il notevole rischio per la fede di questa
teologia riformata è il vescovo
Edward Stillingfleet, che scrive la Lettera
a un deista, del 1677, allo scopo di mettere in guardia
il mondo cristiano,
stigmatizzando la pericolosa devianza presente
nel pensiero di Herbert e
cogliendo anche l’occasione per evidenziare
le derive scettiche e persino potenzialmente
ateistiche del razionalismo di Locke, che
vede come il maggior responsabile
dell’indebolimento della fede.
Il più anziano dei deisti del Seicento è
Mattew Tindal (1657-1733), la cui vita si
svolge quasi interamente nell’ambiente universitario
di Oxford. Autore di numerose opere, è nella
sua ultima, Christianity as old as the Creation, dove si trovano le idee più interessanti.
Immaginario dialogo tra due personaggi, il
teologo ortodosso e il libero pensatore,
è di questi l’affermazione: «Ne segue che
la religione cristiana è esistita sin dal
principio, e che Dio, allora e sempre, ha
continuato a dare all’uomo mezzi sufficienti
per conoscerla » [861] Si dichiara, in pratica, che la venuta del
Cristo e il suo martirio avrebbero potuto
esser evitati, poiché “già” nel cuore dell’uomo
il messaggio evangelico era presente sin
dalla sua Creazione. Oscillante tra anglicanesimo
e cattolicesimo, nonché simpatizzante del
giusnaturalismo, Tindal pubblica nel 1730
una prima parte del Cristianesimo antico quanto la creazione, rimasto incompiuto, proponendo di ricondurre
la Rivelazione entro i limiti della ragione,
liberandola quindi di ogni scoria di superstizione
ed idolatria. Tradotta in tedesco l’opera
sarà in Germania il testo di riferimento
della cultura filo-deistica di quell’area
culturale. Anche in lui vi un forte riferimento
ad un originaria religione naturale che solo
la ragione è in grado di estrarre dai testi
sacri, sostenendo:
Ammettere che nella rivelazione sia contenuto
qualcosa che contrasta con la ragione, e
pretendere al tempo stesso che essa sia la
volontà di Dio, significa non solo distruggere la prova in base alla quale concludiamo
che si tratti della volontà di Dio, ma anche
la prova dell’esistenza di un Dio. [862]
La sua posizione teologica, quanto mai problematica
in rapporto all’ortodossia, è più oltre ribadita
in questi termini:
Per spingere più oltre le questione, lasciate
che vi domandi se non esiste già una luce
chiara e distinta che illumina tutti gli
uomini, e che, nel momento in cui si lasciano
guidare da questa, possono comprendere quelle
verità eterne che costituiscono il fondamento
di ogni nostra conoscenza. [863]
La « luce chiara e distinta » è ovviamente
la ragione; ma, se essa può accedere direttamente
alla verità divina, la rivelazione diventa
inutile. Non basta, siccome la ragione è
uguale in tutti gli uomini, ognuno, a qualsiasi
cultura appartenga, può accedere alla verità.
Ma ciò significa anche che questa è implicita in ogni religione e non solo
nel Cristianesimo. Da ciò l’affermazione:
Tuttavia esse [le religioni] sono tutte d’accordo
nel riconoscere una legge di natura, e nel
considerarsi necessariamente obbligate a
obbedire ai suoi dettami: così tale lume
naturale, come quello del sole, è universale.
[864]
Il lume naturale è la ragione e la religione
universale è quindi naturale ed in nome della
natura l’approccio alla fede si universalizza
e si razionalizza sciogliendo i vincoli che
la legano al magistero della dottrina.
Lasciando da parte per ora l’irlandese John Toland (1670-1722), di cui, date le sue tendenze materialistiche, tratteremo singolarmente nel § 11.4, passiamo ad occuparci dell’inglese Samuel Clarke (1675-1729), colui che realizza compiutamente una metafisica razionalistica su base “newtoniana”.
Voltaire, che era stato da giovane grande
estimatore
di Clarke (ma più tardi si era avvicinato
a Collins) dice di lui nella prima
edizione delle Lettres philosophique: «tutto assorto in calcoli e
dimostrazioni: una vera macchina da ragionamenti.»,
ma nelle successive la
frase diventa: «tutto assorto in calcoli
e dimostrazioni, cieco e sordo a tutto
il resto.» [61] Clarke aderisce alla
dottrina ariana (di cui erano simpatizzanti
Newton stesso e la sua cerchia) e
si oppone a quella atanasiana ufficializzata
e dominante. Questo atteggiamento
anti-trinitario è un presupposto della sua
teologia, che però pare sostanzialmente essere una esposizione delle
sottaciute convinzioni religiose newtoniane,
sicché Voltaire era convinto che
egli fosse il legittimo interprete teologico
della scienza di Newton, suo
indiscusso referente scientifico. Clarke,
che polemizza con Leibniz, si butta
con instancabile energia a contrastare le
tendenze potenzialmente ateistiche
nascoste nelle teologie di Hobbes e Spinoza,
e lo fa, come si è detto,
“costruendo” una nuova teologia cristiana
basata sulla fisica. Il suo A demostration of the Being and Attributes
of God del 1705 suona come sfida sia agli pseudo-materialisti
e sia alle
istituzioni ecclesiastiche riconosciute,
intendendo egli “riformare” le vecchie
prove dell’esistenza di Dio, sostituendole
con un Argument for design i cui presupposti si ritrovano anche nelle
recentissime tesi dell’Intelligent design,
punta di diamante dell’odierna lotta al darwinismo.
La sua tesi probatoria può
esser così sintetizzata: 1. Sin dall’eternità
qualcosa esiste; 2. Questo
qualcosa è un essere immutabile e causa
sui; 3. Esso deve esistere “necessariamente”. Gli strumenti dialettici usati da Clarke
sono
procedimenti teologici classici, come la
reductio
ad absurdum di un universo come “effetto privo di causa”
e di una regressio ad infinitum nella catena
delle cause, conditi però di forti elementi
armonicistici.
Anthony Collins (1676-1729) è colui che
tematizza la legittimità del “libero pensiero”,
che così definisce:
Per libero pensiero intendo l’uso dell’intelletto nella ricerca
del
significato di qualsiasi proposizione, nella
considerazione dell’evidenza a
favore o contro di essa, e nella formulazione
di un giudizio su di essa in base
alla forza o alla debolezza dell’evidenza
che manifesta. [62]
Un’asettica e fredda
premessa cui si aggiunge: «Contro questa
definizione, io penso, non possono
obiettarmi nulla i nemici del libero pensiero»,
ma per giungere presto al tema
teologico:
Se la conoscenza di alcune
verità ci è richiesta da Dio; se la conoscenza
di altre è utile alla società;
se la conoscenza di nessuna verità ci è proibita
da Dio o è dannosa per noi;
allora abbiamo il diritto di conoscere, cioè
possiamo legittimamente conoscere
ogni verità. E abbiamo diritto di conoscere
ogni verità, abbiamo quindi il
diritto alla libertà di pensiero, o all’uso
del nostro intelletto nella ricerca
del significato di qualsiasi proposizione,
nella considerazione dell’evidenza a
favore o contro di essa e nella formulazione
di un giudizio su di essa in base
alla forza e alla debolezza dell’evidenza
che manifesta. [63]
Per «qualsiasi proposizione»
si deve intendere “qualsiasi passo delle
Sacre Scritture. L’espediente
dialettico della ripetizione finale della
premessa vuol esser rafforzativa
della tesi per cui la libertà di pensiero
non può esser fermata sulla soglia
del testo sacro. Quindi, siccome siamo dotati
di ragione e Dio ce l’ha data per
usarla, ogni interpretazione in buona fede
della sua parola dev’esser
considerata legittima.
Un cenno merita anche Anthony Ashley
Cooper, terzo conte di Shaftesbury [64]
(1671-1713), di cui abbiamo già parlato a
proposito dell’estetica. Egli è
sostanzialmente un deista di ispirazione
platonica, ma non un teorico del
deismo. Si tratta piuttosto di un intelligente
estensore dei nuovi principi teologici
della teologia deistica, fusi con quelli
di Platone ed applicati ai campi
dell’etica e dell’estetica. Il suo atteggiamento
è nettamente anti-hobbesiano
nel proporre una visione del mondo
ottimistica e armonicistica, ma caratterizzata
anche da una libertà
interpretativa venata di ironia, nonché basata
sulla simpatia umana e sulla
socialità. Ma tutto il suo pensiero è anche
percorso da un razionalismo metafisico
che si coniuga con un sentimentalismo moralizzante
ed estetizzante, basato
sull’assunto che: «La contemplazione dell’universo,
delle sue leggi e della sua
struttura, è l’unica e solida base della
fede in Dio.» Ed inoltre, in ciò
decisamente ligio all’innatismo platonico,
aggiunge: «Ogni creatura, prima di
possedere una chiara e precisa nozione di
Dio, può possedere una concezione o
un senso del giusto e dell’ingiusto e vari
gradi di vizi e virtù.» [65]
5.4
L’universo-orologio
Questo capitolo
consta di un solo paragrafo, poiché l’argomento
che qui intendiamo brevemente
trattare è univoco, rappresentando uno dei
temi principali della cultura
teologica settecentesca e nel contempo quella
linfa, tutta metafisica, che
alimenta molta della scienza dell’epoca,
convinta della realtà di una
“macchina-universo” meccanicistica e deterministica.
L’argomento in realtà
l’abbiamo già trattato sia nel § 2.7, relativo
a Newton, e sia nel § 3.5,
dedicato a Meccanizzazione e meccanicismo,
per cui questo paragrafo è solo una breve
coda o un corollario teologico che
poco ha da aggiungere a quanto già scritto.
Sottolineata l’importanza di questo
tema, non ci resta che precisare che si sottraggono
ad esso unicamente quelle
posizioni atomistiche che, coerentemente
col senso più profondo della fisica di
Epicuro, ammettendo il caso, evitano di cadere
nella trappola metafisica
dell’universo-orologio. L’argomento è però
anche introduttivo della seconda
parte della nostra ricerca, poiché, anche
alla luce delle considerazioni
precedenti, è di aiuto per una miglior comprensione
delle teologie filosofali
che ci apprestiamo a trattare. L’adesione
a questo concetto metafisico o il
sottrarvisi costituisce infatti il discrimine
tra la teologia e la filosofia; e
ciò perché esso è stato, col suo sostanziale
determinismo, così onnipervadente
da assumere, in numerosi casi, il carattere
della cogenza psichica. Se
cerchiamo di comprendere la ragione di questo
fenomeno psico-intellettuale non
possiamo che individuarlo in due aspetti
principali del concetto di
universo-orologio: il primo è il suo fascino,
tutto teologico, di mostrare un
contesto ontico generale che assicura la
coesione dei particolari con la
generalità che li presuppone e li sussume;
il secondo è la sua capacità di
risultare il più semplice possibile modello
unitario e globale di qualsiasi
concezione fisica dell’essere, rendendola
coerente a sé e risultando con essa
coerente. Si tratta, alla fine, della stessa
teoria di quel perfetto Uno-Tutto
che la psiche dell’uomo, bisognosa di riferimenti
certi ed appaganti per
esorcizzare la paura del caos e del caso,
sogna pervicacemente da sempre,
soffrendo (o godendo?) di quella che si
rivela una pressoché inguaribile malattia monistico-deterministica.
Il newtoniano George Cheyne (1671- ),
singolare personaggio dai molteplici interessi
scientifici, ma non meno di
quelli religiosi [66],
scrive nel 1705:
Per
natura intendo questa vasta, se non infinita,
macchina dell’universo, perfetto
e saggio prodotto di Dio onnipotente, composta
di un infinito numero di
macchine minori, ciascuna delle quali è calcolata
per via di peso e di misura.
Per leggi della natura, intendo quelle leggi
del moto dalle quali i corpi
naturali sono governati in tutte le loro
azioni reciproche, e che
inviolabilmente osservano in tutti i mutamenti
che accadono nello stato
naturale delle cose. [67]
E
ancora:
Questa
grande macchina dell’universo può in qualche
modo esser paragonata ad un
compiuto strumento d’orologeria, costruito
in base a principi geometrici che
naturalmente e da se stesso (finché le sue
parti rimangono connesse insieme)
conserva il suo ritmo costante di moto,
a meno che non sia disturbato da qualche
forza esterna. I moti di questo
strumento di orologeria dipendono da regole
generali, secondo le quali una
parte comunica il suo moto alle altre, e
sono particolarmente determinati dalla
configurazione dei singoli pezzi che lo compongono.
[68]
Queste
parole, che sono un’ottima esposizione del
concetto di universo-orologio,
compaiono nel Philosophical Principles, un’opera che segna il momento
della sua massima adesione alla fisica newtoniana,
prima che le sue pulsioni
mistiche lo portino, dopo il 1710, verso
Boehme e verso derive
irrazionalistiche ed occultistiche. Come
osserva giustamente Paolo Rossi nel
suo ottimo saggio L’universo-macchina, Origini della filosofia
newtoniana,
Cheyne, per quanto esito religioso estremo
del newtonismo, non rappresenta un
caso isolato:
I
suoi libri aiutano a comprendere quanto fosse
bifronte e ambigua, anche nei
suoi risultati più prossimi, l’eredità di
Newton. Che, se nutrì tanta parte del
pensiero laico e stimolò potentemente la
filosofia dei lumi, fu anche pascolo
di maghi e guaritori settecenteschi, tra
i quali figurano anche i nomi di
illustri filosofi. E si tratta di una corrente
di pensiero tutt’altro che
trascurabile, anche per i suoi più lontani
esiti idealistici e romantici. [69]
Il problema della plasticità del newtonismo
e del suo offrirsi a interpretazioni contrapposte
richiede un chiarimento,
poiché nel § 2.7, occupandoci là quasi solo
di fisica, abbiamo lasciato in
ombra la teologia dell’universo-orologio,
di cui, come abbiamo visto, Newton era convinto solo in parte. E tuttavia
Isaac, per quanto grande uomo di scienza
e paladino del metodo sperimentale, non
era esente da interessi extra-scientifici
in funzione di una fede cristiana per
lui incrollabile e irrinunciabile. Una fede,
tuttavia, abbastanza eretica, di
tendenza ariana e sociniana, tendente a non
riconoscere la divinità di Gesù né
la Trinità; un orientamento abbastanza comune
in Gran Bretagna fin dal XVII
secolo e non certo estraneo alla nascita
del deismo, nella quale Newton
stesso un’involontaria parte l’ha certo avuta.
Va detto però che egli fu sempre
persona molto prudente; venerato e seguito
da molti allievi ed epigoni
ricambiati dal suo affetto, ma anche pronto
ad abbandonarli al loro destino (è
il caso di Whiston) appena essi assumessero
atteggiamenti troppo estremistici.
Un “uomo di sistema” dunque? Certo, ma anche
un uomo che voleva tenere distinti
(almeno ufficialmente) la fede e la scienza
(in omaggio all’atteggiamento di
Galileo), senza mettere in gioco questa per
utilizzi impropri, fossero essi in
senso materialistico o, all’opposto, in senso
spiritualistico. Non a caso egli
si rifiutò sempre di andare oltre l’enunciazione
dell’attrazione gravitazionale
come fenomeno fisico sì rigorosamente matematizzabile
ma sconosciuto nelle sue
cause. Atteggiamento che, ovviamente, lasciava
spazio ad interpretazioni
metafisiche e persino mistiche di cui egli
doveva pur essere consapevole.
D’altra parte, non si può ignorare che
Newton aveva veramente paura che la sua fisica
potesse prestarsi ad
interpretazioni materialistiche e potenzialmente
atee, il che lo indusse sempre
a condizionare le sue formulazioni con una
buona dose di apriori teologici, ma
scelti in maniera da non alterare le acquisizioni
fisiche e con esse
accordarsi. A ben vedere, sul piano osservativo
e sperimentale fu maggiore
l’apporto di altri scienziati, meno teorici
ma più osservatori-ricercatori,
come Halley ed Herschel, il primo avendo
nel 1718 misurato gli spostamenti di
alcune stelle ritenute prima “fisse” e il
secondo per aver scoperto la vera
natura delle nebulose extra-galattiche. Sorge
allora la domanda: come
scienziato Newton è stato sopravvalutato?
Riteniamo di no, ma occorre
contestualizzare l’opera in una temperie
storica in cui il concetto di scienza
in senso moderno era ancora assai vago, e
fortemente intriso di teologia. In
ogni caso gli va riconosciuto, sulla scia
di Bacone, di Galileo e di Gassendi,
di aver posto la ricerca scientifica, sia
pure solo in linea di massima, al riparo dalla religione, e di aver avanzato alcuni
principi-base per ogni ulteriore sviluppo
della fisica. Ci si può rammaricare
che il modello newtoniano di spazio e tempo
assoluti abbia potuto così a lungo
condizionare gli sviluppi della fisica? Forse,
ma occorre riconoscere che i
criteri newtoniani, non più utilizzabili
per una fisica avanzata e scientificamente
appropriata, mantengono una loro
validità nelle considerazioni del quotidiano
rispetto ad un’assai poco
intuibile relatività generale. Einstein stesso aveva molta stima di
Newton e affermava:
Se
si desidera dare un esatto significato al
principio classico di inerzia (e con
ciò alla classica legge del moto) si deve
introdurre lo spazio come la causa
indipendente del comportamento inerziale
dei corpi. Avere capito ciò pienamente
e chiaramente è, a mio avviso, una delle
massime conquiste di Newton. [70]
E
ancora: «Newton stesso era più consapevole
delle debolezze inerenti nel suo
edificio intellettuale che non la generazione
dei suoi dotti seguaci. Questo
fatto ha sempre suscitato la mia profonda
ammirazione.» [71] Quel
che Einstein ha ben colto è che Newton, con
tutti i suoi limiti metodologici,
aveva mantenuto un atteggiamento sufficientemente
scientifico da non spingere
mai le sue teorizzazione oltre il “certo”
acquisito scientificamente. Inoltre,
se pure egli si proponeva di operare ad maiorem Dei gloriam, gli si può
riconoscere di non essere mai troppo oltre
i limite dei fatti acquisiti in
strumentalizzazioni fideistiche. Ma ciò non
significa che egli non abbia
coltivato interessi del tutto extrascientifici,
come l’alchimia e l’esoterismo,
senza che essi abbiano influito negativamente
sulle sue indagini fisiche.
Abbiamo già rilevato come, comunque, gli
vada riconosciuto il grande merito di
avere messo in evidenza tutta l’inconsistenza
teorica dell’impianto
pseudo-fisico cartesiano, sostituendo ad
un metafisico plenum di materia
cosmica un vacuum in cui potevano fluttuare i corpi materiali,
insieme
con la corpuscolarità della materia elementare
che egli desumeva dall’atomismo originario
(o più probabilmente da quello “riformato”
di Gassendi).
Uno dei punti più importanti di tutto il
dibattito fisico-cosmologico tra fine Seicento
e inizio Settecento concerne la
forza di gravità, il suo estrinsecarsi e
le possibili cause. Aspetto assai
rilevante il graduale abbandono nella fisica
di ogni concetto qualitativo, per
attestarsi su una considerazione puramente
quantitativa, e quindi esprimibile
matematicamente. Principio d’inerzia e attrazione
gravitazionale diventano i
due pilastri su cui si va costruendo la fisica
moderna, e da un punto di vista
metodologico il metodo osservativo-sperimentale
utilizzato da Galilei e
teorizzato da Bacone tracciano la linea su
cui si muovono i nuovi ricercatori
tra cui giganteggia Newton È però interessante
notare come questi intenda anche
prendere le distanze da chi, come Keplero
e Cartesio, aveva inteso cogliere,
aldilà del puro elemento sperimentale e computazionale
del fenomeno il “che
cosa” potesse costituire la gravità, ovvero
la sua causa. A tal proposito è
interessante cogliere di Newton (Mechanica, in Opera mathem.,
Oxford 1695, I, p.576) una presa di posizione
netta:
Mi
servo indifferentemente e promiscuamente
delle voci attrazione, impulso,
o propensione di qualche cosa verso il suo centro; e non
considero
queste forze in senso fisico, ma soltanto
in senso matematico. Sicché stia bene
attento il lettore a non pensare che con
queste voci io intenda mai definire
una specie o modo d’azione, o una causa o
ragione fisica; o che attribuisca ai centri
(che sono punti matematici) forze in senso
reale e fisico se mi capiterà di
dire che i centri attraggono o che le forze
risiedono nei centri. [72]
Atteggiamento
ovviamente deludente e persino ritenuto ambiguo
da gran parte degli interessati
in una fase storica in cui la spiegazione
per causas continuava a
dominare il campo malgrado le importanti
prese di posizione già prese da
Gassendi contro di essa. Una spiegazione
puramente “matematica” e priva di
elementi metafisici che poteva tradire o
insicurezza o materialismo, ma Newton
non era affetto né dall’una né dall’altro.
E tuttavia per gli ultimi cartesiani
convinti era una ghiotta occasione di polemica
che non si lasciano scappare,
sparando le ultime cartucce di una arma ormai
incapace di ferire la realtà in
nome della verità metafisica.
La preoccupazione principale di Newton era
di non offrire sponde al materialismo e all’ateismo.
Era consapevole che, da un
lato, l’ammissione del vuoto implicava la
corpuscolarità della materia
elementare, col rischio di avvalorare la
fisica epicurea; dall’altro,
l’indeterminazione dell’attrazione gravitazionale
lasciava spiragli per tesi
magicistiche incompatibili col Cristianesimo.
Sarebbe stato facile per Newton
definire la gravità una sorta di spirito
divino, ma avrebbe tradito la sua
onestà intellettuale di scienziato. Bentley,
un suo allievo, gli scrive una
lettera esprimendo i suoi dubbi teorici e
teologici sulla gravitazione che così
conclude: «Ancora, è inconcepibile che
l’inanimata bruta materia (senza un impulso
divino) operi e agisca su altra
materia senza mutuo contatto: come deve accadere
se la gravitazione è
essenziale e inerente ad essa.» [73] Così
gli risponde Newton il 25 febbraio 1693:
È
inconcepibile che l’inanimata bruta materia
(senza la mediazione di qualcosa
che non è materiale) operi e agisca su altra
materia senza mutuo contatto; come
deve accadere se la gravitazione nel senso
di Epicuro è essenziale e
inerente ad essa. Ed è questo uno dei
motivi per cui desideravo che non mi attribuiste
la gravità innata. Che la
gravità sia innata, inerente ed essenziale
alla materia, cosicché un corpo
possa agire su un altro, a distanza, attraverso
un vacuum e senza la
mediazione di alcunché, onde la loro azione
o forza possa comunicarsi dall’uno
all’altro, è per me un’assurdità così grande
che, ritengo, nessun uomo dotato
di un’appropriata capacità di riflettere
su argomenti filosofici può mai
cadervi. La gravità dev’esser causata da
un agente che opera costantemente
secondo certe leggi, ma se questo agente
sia materiale o immateriale è
questione che ho lasciato alla considerazione
dei miei lettori. [74]
Ancora una volta Isaac sfugge. Porre ”un’agente che opera costantemente secondo certe leggi” e poi lasciar decidere a piacere (o a fede) se esso possa essere materiale o immateriale è quasi provocatorio; e tuttavia, con l’esclusione della tesi epicurea, pare chiaro che Newton alluda a una causa immateriale. E così la intende Bently, che in un suo sermone di poco posteriore, la definisce come una forza impressa «da un potere divino e immateriale » [75], e così sarà intesa dalla maggior parte dei newtoniani, senza che il maestro uscisse dal suo riserbo per approvare o disapprovare.
[1] G.Minois, Storia dell’ateismo, Roma, Editori Riuniti 2000, p.186.
[2] G.-F.-T. Raynal, Histoire philosophique et politique sure
les établissements et les
commerces des Européens dans les deux Indes, Genève, Pellet, 1780, in: http://www.univ.trieste.it/~humdiv/CORSO/Antologia_Raynal.doc, p.5.
[3] U. Im Hof, cit., p.199.
[4] Ivi, pp.205-206.
[5] M.-H. Froeschlé-Chopard, Religione, in: L’Illuminismo, Dizionario storico, a cura di V.Ferrone e D.Roche, Roma-Bari, Laterza 1997, p.237.
[6] M.-H. Froeschlé-Chopard, cit., pp.237-238.
[7] D.Mornet, cit., p.156.
[8] Ivi, p.221.
[9] M.Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Roma-Bari, Laterza 1987, pp.10-11.
[10] A.Forrest, La rivoluzione francese, Bologna, Il Mulino, p.91.
[11] W.Doyle, cit., p.209.
[12] Ivi, p.212.
[13] M.H. Froeschlé-Chopard, cit, p.235-236.
[14] Citato in: W.Doyle, op.cit., p.263.
[15] Ivi, p.265.
[16] N.A Pluche, Le spectacle de la nature,
Paris 1736, vol.III, pp.63.
[17] Ivi, p.174.
[18] Ivi, p.188.
[19] N.Hampson, cit, pp.235-252.
[20] Ivi, op.cit., p.284.
[21] Ivi, p.254.
[22] Ivi, , pp.162-163.
[23] Ivi, p.163.
[24] Ivi, p.166.
[25] Ivi, p.170.
[26] Ivi, 171.
[27] J.-B. Bossuet, Oevres, Liegi 1766-1768, vol. IX, p.102.
[28] Ivi, vol.III, p.284.
[29] Ivi, p.287.
[30] Ibidem.
[31] P.Rossi, Storia sacra e storia profana, in: Storia della filosofia, cit, vol.IV, Roma-Bari, Laterza 1996, pp.109-131
[32] Ivi, p.364.
[33] Ivi, p.207.
[34] Ivi, p.208
[35] Ivi, p.104.
[36] Ivi, p.104.
[37] Ivi, p.105.
[38] Ivi, p.116.
[39] Ivi, p.171.
[40] N.Hampson, cit., p.208.
[41] Kant fu uno dei primi a rimarcare la distinzione. Hegel, da parte sua, non parla di deismo relativamente ai pensatori britannici ai quali perlopiù lo si attribuisce. Egli ignora sia Toland, sia Tindall e sia Collins; sottolinea invece il teismo di Rousseau, che considera precorritore del più tardo teismo tedesco (cfr. Lezioni sulla storia della filosofia, 3,II, Roma-Bari, Laterza 1981, p.246.
[42] J.-J.Rousseau, Emilio, o dell’educazione, Milano, Mondadori 2003, p.360.
[43] Samuel Clarke (1675-1729), fu il propugnatore di una teologia filosofale che venne definita anche “Razionalismo etico”. In essa si pone a priori la necessità dell’esistenza di un Essere divino eterno, di cui si dà una dimostrazione razionalistica utilizzando i concetti newtoniani di spazio e tempo infiniti, considerati attributi primari di Dio. Clarke fu in corrispondenza con Leibniz, di cui contestava il concetto di armonia cosmica fissata da Dio dalla Creazione, proponendo, in sostituzione, il concetto di una Provvidenza “sempre all’opera”, come già proposto da Newton.
[44] J.-J.Rousseau, cit., p.363-364.
[45] Ivi, p.364.
[46] Ivi, p.370.
[47] Ibidem.
[48] Ivi, p.372.
[49] Ivi, p.374.
[50] Ibidem.
[51] Ivi, p.375.
[52] Ibidem.
[53] Ivi, p.418.
[54] U. Im Hof, cit., p.149.
[55] Ivi, p.154
[56] Sull’argomento si veda: M.C.Jacob, L’illuminismo radicale, Bologna, Il Mulino 1983.
[57] C.Giuntini, Toland e i liberi pensatori del ’700, Firenze, Sansoni 1974, p.96.
[58] Ivi, pp.96-97.
[59] Ivi, p.97.
[60] M.Tindal, Il cristianesimo antico quanto la creazione, cit in: S.Moravia, I testi, Filosofia, vol.II, Firenze, Le Monnier 1991, p.129.,
[61] Cit.in: P.Rossi, L’universo-macchina, Bari, Laterza 1969, p.109.
[62] C.Giuntini, Toland e i liberi pensatori del ’700, pp.81-82.
[63] Ivi, p.82.
[64] Da non confondere col nonno, l’omonimo “primo conte” (1621-1683), che gli impartì un’educazione umanistica classicheggiante e lo allevò alla tolleranza nello spirito di Locke.
[65] Inquiry concerning virtue (1699), I, II,
4.
[66] Cheyne dal 1710 in poi, sotto l’incalzare di molti freethinkers che si erano appropriati delle tesi newtoniane in senso anti-cristiano, assunse posizioni più fortemente apologetiche della fede, sino a diventare un mistico irrazionalista seguace di Boehme.
[67] G.Cheyne, Philosophical Principles, I, § II, p.2 .
[68] Ivi, I, § IV, p.5 (Ibidem).
[69] P.Rossi, L’universo-macchina, Bari, Laterza 1969, p.203.
[70] P.Rossi, L’universo-macchina, cit., pp.22-23.
[71] A.Einstein, Ideas and opinions, p.257
(cit.in: P.Rossi, id, p.24n)
[72] P.Rossi, L’universo-macchina, cit., p.66.
[73] Ivi, p.68.
[74] Ivi, p.69.
[75] Ivi, p.70.