VII. L’incertezza dell’essere e la
certezza di Dio
7.1
Premessa
Quando in Necessità e libertà
mettevamo in evidenza il fatto che l’uomo
si trova immerso nella dimensione del
tragico e che essa comporti un’angoscia esistenziale che ha come correlati
dirette l’ignoranza e la sofferenza alludevamo a ciò che, in
qualche modo, riguarda anche il vero atteggiamento
scettico. Esso
nell’incertezza della conoscenza e nell’incapacità
di spiegare il senso del
vivere, conclude nell’indeterminazione, nello
stupore di fronte alla pluralità
e complessità del reale e nell’impossibilità
di giungere a qualsiasi tipo di
verità definitiva. Ciò anche perché l’orizzonte
della conoscenza si sposta
continuamente sia in profondità che in estensione
grazie a nuovi strumenti e all’affinamento
delle tecniche di approccio al reale. L’autentica
conoscenza, infatti, è una
progressivo, umile, paziente e faticoso processo
di avvicinamento alla realtà,
senza alcuna pretesa di raggiungerla mai
completamente e definitivamente. Com’è
noto la metafisica opera in direzione del
tutto opposta, fissando a priori
il “che cosa” è da conoscere, e in seconda
istanza costituendo una
gerarchizzazione del sapere con al vertice
lo “spirituale” e alla base il
“materiale”. Con essa viene meno il concetto
di “avvicinamento” al reale, sostituito
con la costruzione di un “vero” che espunge
come “falso, o almeno come
“inessenziale”, tutto ciò che concerne l’immanenza,
considerata pura
“apparenza”. Se il “vero” reale (come
origine e causa del tutto) è trascendente
o è “ragione soggiacente” dell’essere
il conoscere diventa un assoluto conoscere
per causas che svaluta la
conoscenza “per verifica”. Risulta evidente
che la concezione di un conoscere dell’immanenza,
che ritiene i propri confini non fissi ma
mobili e persino imprevedibili,
spostandoli in avanti via via che la conoscenza
progredisce, approfondendo e
ampliando il proprio orizzonte, sia l’esatto
contrario di ciò che fa la
metafisica. È in questo senso che la sképsis, il dubbio sistematico
sulla validità delle acquisizioni conoscitive,
è un fondamento del conoscere che
non può avere nulla in comune con la metafisica.
Lo scetticismo autentico è quello che trova
la propria ragion d’essere nella sképsis, nella ricerca dei
limiti del conoscere e nell’indagine del conoscibile; il che è in
qualche modo riconoscibile allo scetticismo
antico. Rammentiamone in breve la
nascita e il percorso di esso. Per Pirrone
di Elide tale atteggiamento
gnoseologico aveva un risvolto etico di grande
rilievo, quello di rifiutare
ogni dottrina dogmatica, di sospendere ogni
giudizio, ed in questo stato di
“indifferenza cognitiva” cercare di conseguire
l’atarassia, l’assenza di
turbamento mentale. Questo coerente atteggiamento
gnoseologico-etico si
conserva in Timone di Fliunte, che accentua
il valore dell’atarassia in senso
eudemonistico. Ma quando la Media Accademia
coniuga lo scetticismo col platonismo
la sképsis viene completamente snaturata in senso idealistico.
Sarà la
Nuova Accademia, con Carneade di Cirene,
a caratterizzarsi nuovamente con
proposte interessanti: innanzitutto con l’opposizione
al dogmatismo della scuola
stoica, e poi negando ogni determinismo ontologico
ed antropologico,
riconoscendo quindi la possibilità della
libera volontà umana. Carneade reintroduce
così la vera sképsis, espungendo in gran parte gli inconsistenti
criteri
di verità tipici della metafisica insinuati
dalla Media Accademia, e
teorizzando quello di credibilità. Caso a sé Sesto Empirico con cui si
chiude lo scetticismo antico; egli non solo
è fonte insostituibile di notizie
sul precedente pensiero scettico e grande
ricercatore logico, ma è anche
teorizzatore di un corpo di conoscenze “possibili”
e pragmaticamente utilizzabili
nella vita quotidiana.
Si capisce quindi come la sképsis
sia un elemento centrale del conoscere, e
come ogni autentica concezione
scettica si cali direttamente nella gnoseologia.
Non ripercorreremo qui la
storia del sapere teologico, che è sin dalle
sue origini strettamente connessa
alla religione (in senso identificativo,
conciliativo, astrattivo od
oppositivo) ma ci soffermeremo su quell’orizzonte
negazionista settecentesco di
cui, in forme e contenuti differenti,
Berkeley, Hume e Kant sono protagonisti.
La negazione del valore della
conoscenza si manifesta nel primo come negazione
del suo oggetto, nel secondo
come indimostrabilità della realtà causale,
nel terzo come limitazione del
conoscere alla sfera delle apparenze. In
realtà lo scopo di tutti e tre è
quello di togliere validità alla conoscenza
scientifica, per affidarsi
unicamente alla religione come fonte di una
“sapienza” autentica e
pre-cognitiva. Non basata quindi su possibilità
osservative e sperimentali ma
sull’intuizione del divino quale verifica
della verità già rivelata nelle Sacre
Scritture. Atteggiamento di retroguardia
che riporta indietro sia alla
distinzione platonica tra la realtà ideale
e le sue copie materiale e sia a
quella aristotelica di sostanza e accidente,
subordinando così ogni conoscenza alla
teologia in quanto scienza “prima”. Atteggiamento,
quindi, nei confronti del
quale ogni autentica scienza non può che
porsi come antagonista, il che non
significa il suo costituirsi come antireligiosa
e neppure come irreligiosa, ma
semplicemente la rivendicazione dell’indipendenza
del conoscere dal credere. È
questo l’atteggiamento di Galileo, di Bacone
e di Newton, tutti profondamente
credenti e tutti tesi a conciliare la fede
e la scienza, lasciandoli però sui
loro piani separati e totalmente differenti.
Nulla a che fare quindi con l’atteggiamento
di Hume, che passa indebitamente per uno
“scettico” (ciò che in qualche misura è
invece Kant), mentre si tratta unicamente
di un esponente del mentalismo,
un indirizzo di pensiero che tende a negare
realtà alla sfera fisica per
riconoscerla unicamente in quella metafisica
e sacrale del “pensato”. Quest’impropriamente
definito “scetticismo moderno” nasce con
l’immaterialismo di Berkeley, e
rappresenta quella propensione umana a dubitare
di ogni conoscenza per affidarsi
a una sola certezza: quella della fede. Ciò
diventa possibile e sostenibile con
artifici dialettici proprio a partire dalla
tematizzatine della
non-affidabilità” del conoscibile, per potersi
così rifugiare nel “rivelato”
come unico affidabile. La rinuncia a conoscere
la realtà è infatti
esistenzialmente possibile soltanto se si
crede in una sovra-realtà
trascendente con cui sintonizzarsi, ed il
criticismo di matrice kantiana non è
altro che l’atteggiamento fideistico di chi
ritiene che solo “il Dio che è in
noi” possa dar senso all’esistere. D’altra
parte, va detto chiaramente, nessun
ateo potrebbe ritenersi scettico in un senso
del genere; egli conta su una sképsis
radicale che lo tenga lontano da ogni “credenza”,
se non altro perché affidando
il senso del suo esistere alla scoperta del
mondo e alla conoscenza dei suoi
enti non può rinunciare all’oggetto delle
sue attenzioni per affidarsi a un “pensato”,
per quanto affascinate e gratificante esso
possa essere.
Se, in qualche modo, la conoscenza non si
auto-garantisce in quanto tale in rapporto
a un oggetto “reale” di conoscenza,
e se la si ritiene garantibile solo da un
qualcosa che le sia origine
non-fenomenica e che le stia sostanzialmente
“sotto” (come sub-stantia)
ed assiologicamente “sopra/oltre” (quale
oggetto della meta-physica) non
resta che la teologia. Essa può essere cultuale
(e basarsi quindi su una rivelazione)
oppure filosofale (basata sul processo metafisico
della dimostrazione); in
questo caso essa è come risorsa cognitiva
con l’accompagnamento di tutto il suo
corredo strumentale logico e dialettico.
Ma in molti casi l’una e l’altra si coniugano
in maniera più o meno esplicita per rafforzarsi
vicendevolmente sul terreno
della sostanza e della verità meta-fenomenica. La sub-stantia,
in quanto “garante” di un’origine non-fenomenica
del tutto, non solo si
pretende fondamento ontologico, ma diventa
anche porto sicuro per sfuggire alle
ansie e alle angosce esistenziali, in quanto
“crea” un sistema sapienziale che
non ha più bisogno della conoscenza, in quanto
“saputo” pre-cognitivo. Mutatis
mutandis, la fede in Dio e la mis-credenza nelle
nostre capacità di
conoscere il reale è il leit-motiv e la pulsione inconscia su base
omeostatica di ogni supposto o millantato
scetticismo moderno e futuro che si
fondi sulla teologia filosofale (e il cielo
sa quanto se ne dovrà ancora
vedere!).
Ribadiamo il distinguo. Lo
scetticismo antico, quello pirroniano per
intenderci, era nato in un contesto
ellenico caratterizzato da una religione
debolissima, più basata sulla poesia e
sul naturalismo che sulla trascendenza del
divino. Anzi, le divinità
naturalistiche greche erano “tutta immanenza”,
partecipanti della vicenda umana
e co-implicate nel bene e nel male, nel piacere
e nella sofferenza, nei vizi e
nelle virtù degli uomini. Col Dio/Uno/Trascendente
iranico-ebraico la
prospettiva muta totalmente, la credenza
in Lui diventa “affidamento” e
alienazione dal mondo in un anelito al sovra-mondo.
Conoscere questo mondo
diventa inutile e dannoso, poiché esso è
un
corpo generale dominato da uno spirito maligno
che “trascina verso il
basso”; almeno questa è la fortunata prospettiva
spiritualistica paolina che ha
“creato” il Cristianesimo e che gli ha fatto
conquistare tutto l’Occidente. Il millantato
“scetticismo moderno” è allora null’altro
che lo spiritualismo paolino
rivivificato e nasce con l’opera di quel
geniale teologo irlandese che è
Georges Berkeley (1685-1753), il quale, a
fini apologetici e per
controbilanciare una pericolosa tendenza
materialistica è riuscito a creare una
straordinaria teologia immaterialistica “empiristica”
abbastanza simile, negli
intenti, allo spiritualismo panenteistico
indiano. Per comprendere, quindi,
l’avviarsi di tale stagione pseudo-scettica
che ha in Berkeley l‘iniziatore, in
Hume il suo esponente più noto e in Kant
il più analitico, bisogna coglierne
l’intento apologetico e restaurativo dell
fede. Una fede che pareva a Berkeley
messa in forse dalle scorribande materialistiche
di Hobbes, dal deismo
tendenzialmente anti-cristiano di Toland
e Collins, e dalla critica di Bayle alla
pratica devozionale e alla superstizione
fideistica insieme con le sue
concessioni etiche al deismo stesso e allo
spinozismo.
Berkeley è un buon “ragionatore” [1] oltre
che un illustre religioso (dottore in teologia
nel 1721, decano di Dromore e di
Derby dal ’22 e dal ’24, vescovo di Cloyne
dal ‘34), un ottimo
logico-dialettico-metafisico nella stessa
misura in cui si spaccia per
anti-metafisico in nome di un empirismo “tutto
metafisico”. Il suo pensiero si
estrinseca, in realtà, come una mera apologia
dello spiritualismo, simile a
quella che Melebranche aveva condotto in
Francia qualche decennio prima.
L’obiettivo: erigere un argine teologico
contro il materialismo, sconcertare i
razionalisti naturalisti, mettere in mora
la realtà della natura, spogliarla,
vanificarla, annullarla, attraverso un processo
logico-dialettico serrato. Uomo
molto ambizioso è importante per lui imporsi
all’attenzione, diventare noto,
far carriera nelle gerarchie ecclesiastiche.
Ma la sua fede è sincera e non
priva di generosi slanci proselitistici:
nel 1732 formula l’ambizioso disegno
di evangelizzare i selvaggi d’America. È
un abile dialettico che riduce
l’essere della materia a una mera percezione
prodotta dallo Spirito (e da ciò
l’analogia con la teologia indiana che considera
il mondo una pura apparenza
prodotta dalla Maya). Frutto solo di un’idea
astratta, la materia non esiste;
esistono solo singoli corpi, il cui unico
essere sta nel “venir percepiti” dai sensi
generando (lockianamente) altrettante idee.
L’unica esistenza certa è quella di
Dio e dello Spirito che da Lui emana e di
cui è fatta la nostra anima; questa è
l’unica entità attiva del nostro essere contro
la totale passività del corpo.
Ed è su questa dicotomia attivo/passivo,
ovvero corpo/spirito, che si gioca
tutta la metafisica empiristica
berkeleyana, dove, alla fine, realtà unica
è lo Spirito, mente tutto il
resto sarebbe illusione.
Con tali premesse il Nostro fa della
materia un mero fantasma, rivelandocelo attraverso
il realismo del suo
“pensato”, espresso in ectoplasmi dialettici
dettatigli da Dio. Un “pensato”
divino così ben evocato con le pirotecnìe
di un linguaggio dialettico che
prende forma che finisce per diventare reale,
quasi si “materializza”; alla
stessa maniera con cui Platone, come aveva
ben visto Theodor Gomperz, aveva
materializzato i “concetti”. L’idealismo
che permea Berkeley vede allora,
all’inizio del Settecento, un’operazione
di ottima culinaria alchemica,
utilizzando un capace pentolone “ragionatorio”
di grande efficacia inventiva.
Con ottimi ingredienti messi a cuocere e
con un empirismo tanto falso quanto furbo,
l’abile alchimista del pensiero filosofale
e dei meccanismi del linguaggio
pre-confeziona abilmente il suo sistema ragionatorio.
Hanno qualcosa a che fare
con l’empirismo filosofico tali ectoplasmi
spiritualistici? Assolutamente
nulla; e tuttavia qualsiasi manuale liceale
di filosofia vede il vescovo di
Cloyne non come un abile impostore a fini
apologetici ma come un grande
pensatore del Settecento!
Ci corre quindi l’obbligo di evidenziare
qualche tratto della fenomenologia inventiva
di Berkeley al fine di darne una
corretta interpretazione; ciò anche per evitare
confusioni nell’esaminare i
differenti indirizzi di pensiero del XVIII
secolo, molti dei quali decisamente
anti-illuministici. Il Settecento si rivela
fondamentale nella storia dell’uomo
occidentale, ed anche per le incongruenze
e gli equivoci storiografici a suo
carico, poiché è con esso che si dipartono
i vari rivoli sia del pensiero
filosofico e sia di quello teologico, i primi
uscendo dall’ambito della
tradizione metafisica per affidarsi alla
scienza, i secondi rimanendoci dentro
per trovare nuovi sbocchi e sviluppi alla
fede. Da un lato la ricerca
filosofica, dall’altro la ragionazione. Sotto
questo punto di vista, sia Hume
che Kant (buon ragionatore il primo e decisamente
ottimo il secondo) pur
partendo da presupposti totalmente differenti
(lo pseudo-empirismo berkeleyano
Hume e la teologia luterana Kant) approdano
a un identico risultato: il dubbio
sulle conclusioni della ricerca naturalistica
e il rigurgito dell’unica
certezza possibile: quella offerta dalla
teologia.
Abbiamo già detto che un sano scetticismo
non è solo opportuno, ma indispensabile per
la scienza e la filosofia, sia quale
atteggiamento metodico da assumere primariamente
e sia come presupposto
irrinunciabile per ogni ricerca sul “reale”.
Non c’è ricercatore, infatti, che
non abbia vissuto grandi delusioni ogni qual
volta un risultato apparente o
incompleto ha suscitato in lui grandi speranze
andate poi deluse “dai fatti”.
Lo scetticismo si giustifica quindi ampiamente
come “prassi” del procedere
scientifico; al contrario ogni scetticismo
“filosofale” è solo il camuffamento
di un’ostilità nei confronti della vera conoscenza
e di un’apologia della fede religiosa
o di quella metafisica. In definitiva, con
tale mistificazione e
indipendentemente dalle sfumature teoriche,
ritorna sempre la stessa posizione
cartesiana nota come quella del “dubbio metodico”,
che può essere espresso con
un assioma semplice e chiaro: “Di tutto si
deve dubitare, fuorché di Dio”.
Fatte queste osservazioni torniamo ad
occuparci più a fondo di Berkeley affinché
al lettore risulti chiaro di che cosa
stiamo parlando. Per noi leggere le sue opere
è un grande diletto, i suoi studi di ottica sono
esilaranti ed opere come l’Alcifrone (1734) e la Siris (1744) un
vero spasso. Ma non è di esse che ci occuperemo,
bensì di quella dove il Nostro
camuffa l’intento apologetico sotto quello
critico, e con grande abilità
confeziona quel Trattato sui principi della conoscenza umana che
pubblica nel 1710. Il testo di riferimento
(innumerevoli le puntuali riprese) è
il Saggio sull’intelligenza umana di Locke, che il Nostro ha letto
attentamente, mentre i più feroci riferimenti
sono alla fisica, e ovviamente a
Newton e ai suoi Principia. Al fine di evitare equivoci avvertiamo
anche
che per Berkeley “astratta” è ogni generalizzazione,
che lo “scetticismo” è una
forma di miscredenza e che “manicheismo”
per lui significa ammettere
l’esistenza della materia “contro” l’unicità
dello Spirito. Ci limiteremo a
considerare l’ultima parte dell’opera, quella
nella quale l’autore riafferma
con maggior forza e concisione il suo punto
di vista. Cominciamo col citare gli interessanti inizi
di due paragrafi:
§ 101. I due grandi domini della scienza
speculativa [quella
astratta e falsa] che riguardano le idee
ricevute dal senso ed i loro rapporti
sono la fisica e la matematica. Farò alcune osservazioni su
ambedue. E prima di tutto dirò qualcosa della
fisica. È su questo soggetto che
gli scettici [della Verità Divina] trionfano. Tutto l’insieme
di
argomenti che essi tirano in campo per deprezzare
le nostre facoltà e far
apparire ignorante e bassa l’umanità, è tratto
principalmente da questa tesi:
che noi siamo invincibilmente ciechi riguardo
alla natura vera e reale
delle cose. Essi ingrandiscono questo difetto
e su esso amano diffondersi. Noi
siamo miserabilmente giocati, dicono, dai
nostri sensi, e tratti in inganno
dalla sola apparenza esterna delle cose.
L’essenza reale, le qualità interne e
la costituzione anche del minimo oggetto
sono nascoste alla nostra vista. C’è
qualcosa in ogni goccia d’acqua, in ogni
grano di sabbia che va oltre il potere
di investigazione e di comprensione dell’umano
intelletto. È invece evidente,
per ciò che è stato dimostrato, che tutto
questo lamentìo non ha base. Son
principi falsi che influiscono su di noi
fino a farci diffidare dei nostri
sensi e a farci pensare che non conosciamo
nulla di quelle dose che invece conosciamo
perfettamente.
§ 102. […] l’opinione che ogni cosa includa
in se stessa la
causa delle sue proprietà […] in cause meccaniche,
cioè nella forma, nel
movimento, nel peso, ecc. di particelle insensibili:
mentre in realtà non v’è
altro agente o causa efficiente che lo spirito, poiché è evidente che il
movimento, come tutte le altre idee, è perfettamente inerte. [2]
Il movimento è inerte: quindi
una mera idea astratta. Ciò che il sensista
contesta ai fisici, «per ciò che è
stato dimostrato» (!), è che le cose materiali
nascondano una struttura sotto
le apparenze esteriori. Il “tutto” di una
cosa è la sua apparenza, poiché è
solo essa che si offre alla percezione dei
sensi; primaria fonte di conoscenza
per Locke e per Berkeley, invece, di mera
“illusione”. Vediamo ora il § 108,
poiché ci immerge immediatamente nella forma mentis berkeleyana, per la
quale le leggi della natura sono null’altro
che “linguaggio divino”:
Dai §§ 66, ecc. risulta che i metodi stabili
e coerenti della
natura possono essere chiamati, non senza
ragione, “linguaggio” dell’Autore
di essa. Con esso Egli svela alla nostra
vista i Suoi attributi e ci
indica come agire per la comodità e per la
felicità della vita. [3]
Cercare di capire come si
strutturi la natura e come funzionino le
leggi che la regolano è operazione
inutile per vivere e dannosa per la fede;
basta invece leggere la parola di Dio
in quel “suo linguaggio” che esse ci rivelano.
Si vedrà allora che esse sono Suoi
attributi e si sa anche subito « come agire per la comodità e per la felicità
della vita ». E
si aggiunge (§109): «credo che sia indegno
della nobiltà della mente pretendere
esattezza nel ridurre ogni fenomeno particolare
a regole generali.» [4]
Da ciò la rampogna:
Dovremmo proporci scopi più nobili, cioè
di ricreare ed
esaltare la mente con la visione della bellezza,
dell’ordine e della varietà
delle cose naturali, e di qui, con inferenze
appropriate, ampliare la nostra
conoscenza della grandezza, della saggezza
e della beneficenza del Creatore,
e infine rendere le diverse parti della creazione,
per quanto siamo capaci,
susservienti ai fini per i quali esse vennero
designate, a gloria di Dio e per
il mantenimento e la comodità di noi stessi
e dei nostri simili. [5]
Un’attenzione contemplativa agli enti di
natura non a scopo
conoscitivo, quindi, ma esclusivamente come
“mezzo” per una migliore conoscenza
di Dio. Si badi bene: noi non neghiamo affatto
legittimità a tale
atteggiamento, che anzi, da un più che legittimo
punto di vista fideistico si
pone quale encomiabile autorealizzazione
del credente. Ciò che ci preme
evidenziare è che con tali premesse nessuna
conoscenza è più possibile, e
siccome, per noi, la filosofia è “amore della
conoscenza”, vediamo qui negati i
più elementari principi del filosofare.
Riconoscendo il
“linguaggio di Dio” nel “tutto dì Dio” si
raggiunge uno stato quasi edenico di
massima semplificazione della vita terrena
nell’attesa di quella celeste. E
poiché spirito è la nostra anima e spirito
è Dio, possiamo accedere a lui
direttamente e senza alcun sforzo, e solo
in seconda istanza “alla sua
Creazione”:
§ 147. È quindi evidente che Dio vien conosciuto
così
certamente e immediatamente come qualunque
altra mente o spirito diverso da noi
stessi. Possiamo anzi asserire che l’esistenza
di Dio è percepita con molto
maggior evidenza che non sia l’esistenza
degli uomini. […] Il Creatore stesso
«sostenendo tutte le cose con la parola del
Suo potere » [Paolo, Ebrei,
I, 3] mantiene quel commercio tra gli spiriti
per il quale ciascuno di essi è
capace di percepire l’esistenza degli altri.
[6]
Non è quindi il rapporto sensorio tra le
persone (tatto,
vista, udito) a fondare il reciproco riconoscimento
del rispettivo esistere, ma
si tratta di un rapporto tra anime spirituali
“pilotato” personalmente da Dio.
A partire da ciò:
§ 149. È dunque chiaro
che per chiunque sia capace della minima
riflessione, nulla può esser
più evidente dell’esistenza di Dio, ossia
di uno spirito che è intimamente
presente alle nostre menti e produce in esse
tutte le varie idee o sensazioni
che continuamente ci impressionano, e dal
quale noi dipendiamo assolutamente e
interamente: « nel quale » (in breve) « noi
viviamo e ci muoviamo ed abbiamo il
nostro essere.» [7]
Tutto è Dio e tutto è in Dio (siamo qui tangenti
allo
spinozismo!) e la natura non esiste se non
come
percezioni e idee “delle cose” che Dio ci
manda:
Ma se per « natura » si intende un qualche
essere distinto da
Dio e distinto anche dalle leggi di natura
e dalle cose percepite col senso,
devo confessare che per me questa parola
è un suono vuoto al quale non è
connesso alcun significato intelligibile.
La natura secondo questa accezione è
una vana chimera, introdotta da quei pagani che non avevano
nozioni
esatte della onnipresenza e della infinita
perfezione di Dio. [8]
Per convincersi basta attenersi alla Scrittura,
che però è
poco letta:
Ma è meno spiegabile che essa [la realtà
della natura] venga
accettata da cristiani i quali professano di credere nelle Sacre
Scritture, mentre queste attribuiscono sempre
all’immediato volere di Dio
quegli effetti che i filosofi pagani sono
soliti attribuire alla natura. «Il
Signore. Egli fa sì che i vapori salgano;
egli fa i lampi con la pioggia; egli
trae i venti dal suo tesoro.» (Geremia, cap.10, v.13). «Egli allontana
l’ombra della morte col mattino e oscura
il giorno con la notte.» (Amos,
cap.5, v.8). «Egli visita la terra e la rende
molle di pioggia: Egli benedice
il fiorire di essa e corona l’anno con la
sua bontà, cosicché i pascoli sono
rivestiti di greggi e le vallate sono coperte
di grano.» (Salmo 65). [9]
La Scrittura è la base sicura di ogni “scienza”:
è Dio che
“vuole” che i gas siano più leggeri dei liquidi,
se cambiasse idea potrebbe
avvenire il contrario; così è la pioggia
che cade “a fare i lampi” e l’energia prodotta
dalle nuvole che si scontrano. E noi sulla
Terra abbiamo il buio o la luce non
perché la Terra giri intorno alla fonte della
luce, il Sole, ma per ricordare
all’uomo l’alternanza della morte e della
vita; e così via.
Al § 151 Berkeley
si rende conto che qualcuno potrebbe obiettare
che gli accadimenti naturali si
manifestano con lentezza, attraverso prodromi,
processi, sviluppi e conclusioni
scanditi nel tempo, difficilmente riferibili
all’« immediato volere di un agente
onnipotente » [10],
però questo è solo frutto della nostra ignoranza:
Ma la risposta a questa obiezione risulta in gran
parte evidente dal § 62: è chiaro che quei
metodi della natura sono
assolutamente necessari perché essa provveda
secondo le regole più semplici e
generali, e in modo stabile e coerente. E
questo prova tanto la saggezza
che la bontà di Dio, anzitutto perché in questo modo
il dito di Dio non
si rivela subito al peccatore deciso e indifferente,
e così permette che questi
si indurisca nella sua empietà e maturi per
la divina vendetta (vedi § 57). [11]
Le sublimi verità rivelateci da Berkeley
illuminano come in
un fiat! le tenebre della nostra ignoranza, facendoci
vedere che le
ricerche dei Boyle, degli Harwey e dei Newton
sono fatiche del tutto inutili,
poiché la conoscenza si acquisisce dai testi
sacri e non dal testo profano della
natura. E tuttavia Dio lascia che la natura
faccia finta di produrre i fenomeni
senza rivelare chiaramente il suo « dito
», affinché il peccatore incallito che
non vuol credere affondi nella propria empietà,
per dar poi l’occasione alla «
divina vendetta » di scatenarsi. La lezione
di San Paolo è divenuta invisibile
ai nostri occhi accecati e non è memento per le nostre orecchie divenute
sorde alla verità. La dicotomia tra l’uomo
“carnale” e quello “spirituale”
è evidente. E così: « la Mano che fa
funzionare il tutto è in se stessa impercettibile
per uomini di carne e di
sangue » [12]
Non così è per lo spirituale:
Ma benché il Signore nasconda se stesso agli
occhi dell’uomo sensuale
e del pigro che non vuol prendersi la minima fatica
di pensare, tuttavia
per una mente non preconcetta ed attenta
non esiste nulla di più chiaramente
leggibile che l’intima presenza di uno Spirito onnisciente che modella,
regola e sostiene l’intero sistema degli
esseri. [13]
Per Berkeley l’anima non reca traccia di
Dio, ma è fatta
della medesima sostanza del suo Spirito.
Ritorna qui il concetto platonico
dell’anima individuale come parte dell’Anima
del Mondo e quello plotiniano di
parte staccata dell’Uno-Tutto ma in esso
ri-confluente con l’ascesi. Ma il
Nostro intuisce anche che non tutto in natura
marcia come un orologio e che alcune
irregolarità e casualità sono troppo evidenti.
Ma anche a ciò ha la sua pronta
risposta:
§152. Ma dobbiamo poi considerare che le
macchie e i difetti
stessi della natura non sono senza una loro
utilità, perché producono una
varietà piacevole e rendono più bello il
resto della creazione, come le ombre
in un quadro servono a far risaltare le parti
più brillanti e illuminate. [14]
Siamo alla
conclusione: Dio ha voluto che la natura
non fosse perfetta perché così essa
appare più bella e piacevole. L’asserzione
evidenzia come la preoccupazione
principale del Nostro sia l’annullamento
preventivo di ogni possibile obiezione,
“spiegando” preliminarmente e coprendo a
priori ogni possibile smagliatura nel
tessuto compatto del suo sistema. Ma subito
dopo (§ 153) si contraddice
nell’affermare che siccome « abbiamo una
visuale troppo ristretta » vediamo il
male dove non c’è; « quelle cose particolari
che appaiono un male […]
hanno la natura del bene […] » [15].
Conclusione:
Per quanto è stato detto, sarà evidente a
chiunque rifletta
che è soltanto per mancanza d’attenzione
e di larghezza di vedute che esistono
partigiani dell’ateismo o dell’eresia manichea. Infatti anime
piccole e irriflessive porranno in ridicolo
le opere della Provvidenza perché
non sono capaci di comprendere, o non vogliono
affaticarsi per comprendere la
bellezza e l’ordine di esse. [16]
Le « macchie e i difetti » posti al § 152
qui sono scomparse;
tutto è bello e ordinato, come è bella e
ordinata la mente del devoto, nella
quale “tutto è a posto”, perché (§156): «
Dopo tutto. Ciò che merita il primo
posto nei nostri studi è la considerazione
di Dio e del nostro dovere.» Credere e agire secondo il Dio “in noi” è
la divina
lezione di Berkeley.
7.2 David Hume
I Dialoghi sulla
religione naturale sono indubbiamente lo scritto più interessante
di Hume,
quello in cui, in modo euristico-critico
e quasi alla maniera di Bayle, tre
punti di vista si confrontano sul fondamentale
problema della fede. Nella Parte Quinta il Nostro fa dire a Filone:
Può
darsi che molti mondi siano stati rabberciati
ed impastati nel corso di
un’eternità, prima che questo nostro sistema
sia stato messo in luce; molto
lavoro perduto, molti tentativi infruttuosi,
ed un progresso lento, ma
continuo, compiuto durante età infinite nell’arte
di fare i mondi. [17]
Ed ancora:
Questo
mondo, per quel tanto che chi segue la vostra
ipotesi lo conosce, è molto
difettoso ed imperfetto paragonato ad un
modello superiore; non fu che il primo
ed informe saggio di qualche divinità bambina
che poi l’abbandonò vergognosa
della sua opera così manchevole; non è che
l’opera di qualche divinità
dipendente ed inferiore, oggetto di derisione
per le divinità di più alto
rango; è la produzione della vecchiezza e
del vaneggiamento di qualche divinità
carica d’anni, produzione che, dopo la sua
morte, è andata perpetuamente in
giro alla ventura per effetto del primo impulso
e della forza attiva che ne
aveva ricevuto. [18]
Hume gioca col personaggio Filone per spingere
alle estreme
conseguenze uno scetticismo immaginativo
senza freni (ma strumentale) in attesa
della “catarsi finale” (come vedremo), dando
così modo a Cleante non solo di
temperarlo ma anche di coglierne le contraddizioni
interne con calma e
padronanza della situazione:
Io sconfesso assolutamente queste supposizioni,
esse non mi
colpiscono tuttavia di alcun orrore [come
succede invece a Demea, il teologo
tradizionalista] soprattutto quando sono
proposte in questa forma sconnessa in
cui voi le avete espresse. Al contrario esse
mi fanno piacere quando vedo che
abbandonandovi con la massima libertà alla
vostra immaginazione, anziché liberarvi
dall’ipotesi di una provvidenza nell’universo,
siete continuamente costretto a
farvi ricorso. A questa concessione aderisco
fermamente e la considero come un
fondamento sufficiente per la religione.
[19]
Lasciar estremizzare per poter restaurare
i giusti limiti
entro i quali va considerata la religione.
Quindi: condiscendenza verso la
spregiudicatezza di Filone e meno verso l’intransigenza
dottrinaria di Demea.
Dice infatti il narratore Panfilo ad Ermippo
nell’introduzione al dialogo:
Il contrasto notevole dei loro caratteri
eccitava ancor più
la vostra aspettativa, tanto che voi mettevate
a raffronto la rigorosa movenza
filosofica di Cleante con lo scetticismo
spregiudicato di Filone, oppure
paragonavate l’uno o l’altro dei loro atteggiamenti
con l’ortodossia
inflessibile di Demea. [20]
E così conclude: «Confesso che, riconsiderando
seriamente
tutto l’insieme, non posso che pensare che
i principi di Filone sono più
probabili di quelli di Demea, ma che quelli
di Cleante si avvicinano ancor di
più alla verità.» [21]
Moderazione scettica come via d’uscita tra
posizioni religiose retrograde e
posizioni troppo ipotetiche al fine di definire
la giusta via di mezzo, sì da
salvaguardare la fede e nel contempo la libertà
d’opinione. Ma non è questo il
punto critico della riflessione humiana,
che riguarda non il “sapere”
religioso, basato sulla Rivelazione, quanto
il “conoscere” scientifico, basato
sull’improbabile ricerca di una casualità
materiale. Un punto di vista che Hume
desume da Berkeley, che già aveva negato
ogni “causa seconda” (materiale),
riaffermando l’unica “Causa Prima” (spirituale).
È in ciò che lo scetticismo
humiano mina alla base ogni conoscenza scientifica,
negandole legittimità circa
la “definizione” di una realtà oggettiva
resa impossibile dall’assoluta
soggettività della conoscenza. Dunque, secondo
Hume, nessuna certezza è
possibile circa le cose del mondo, ma del
tutto certa resta, indiscutibile e
sicura, la realtà di Dio e la verità del
messaggio insito nelle Sacre
Scritture. La conclusione è che Hume è riuscito
a distruggere tutte e le
certezze, salvo una: quella dell’esistenza
di Dio.
Siamo partiti da un’opera postuma
(pubblicata nel 1779) ma redatta negli anni
’49 -’51 e dobbiamo ora fare un
passo indietro all’opera fondamentale e che
sta alla base anche di quelle
successive, il Trattato sulla natura umana, che appare nel 1739 con i
primi due libri (Sull’intelletto e Sulle passioni) e si completa
nel ’40, con il terzo (Sulla morale). Prima però ci corre l’obbligo di
qualche dato biografico: Hume nasce nel 1711
in una famiglia scozzese
appartenente alla piccola nobiltà, fa buoni
studi ad Edimburgo, legge Locke,
Clarke, Shaftesbury, Toland, Montaigne e
anche un po’ di Newton; ma è lo studio
di Berkeley a colpirlo particolarmente e
ad indirizzare la sua opera. Legge
anche Bacone, ma il metodo sperimentale gli
resta totalmente estraneo, mentre
molto importanti sono i suoi rapporti col
platonico Francis Hutcheson,
prestigioso docente di filosofia morale a
Glasgow. Soggiorna a Parigi dal 1734
al 1737, avendo modo di approfondire Cartesio,
Malebranche e la logica di Port
Royal; e proprio Malebranche (che è un pre-Berkeley
francese) lascia il suo
segno. È segretario di importanti personaggi
e per un certo tempo fa il
bibliotecario. Nell’ultimo decennio della
sua vita si ritira ad Edimburgo
attendendo agli studi sino alla morte, nel
1776.
Concentriamoci ora sul Trattato sulla
natura umana e vediamo qualche punto dell’Introduzione,
dove avremo modo di
cogliere subito i contorni del progetto humiano
di riforma del “modo di
ragionare”. Dopo un monito circa «lo stato
d’imperfezione delle scienze
attuali» ed un lamento abbastanza retorico
circa il fatto che l’eloquenza abbia
spesso la meglio sul ragionamento Hume ci
dice: «Da ciò nasce, secondo me, il comune
pregiudizio contro ogni forma di ragionamento
metafisico, anche tra coloro che
si professano uomini di studio, e che apprezzano
adeguatamente ogni altro ramo
della cultura.» [22], ed aggiunge: «Ed invero,
soltanto il più deliberato scetticismo, unito
a una grande indolenza, può
giustificare quest’avversione alla metafisica.»
[23] Si
vede bene come il Nostro neghi di essere
uno scettico (come già aveva fatto con
forza Berkeley), manifestando invece il suo
intento “restaurativo” e come
intenda agire contro uno “scetticismo antimetafisico”
usando come l’antidoto un
para-scetticismo anti-scientifico; ricalcando
quindi, anche se in modo meno pirotecnico,
la strada già percorsa da Berkeley.
Il passo successivo rende esplicite le
premesse, indicando nella “scienza dell’uomo”,
cioè nella conoscenza della
psiche umana, la fonte di ogni altra conoscenza,
in quanto “specchio” della
sola realtà conoscibile:
È
evidente che tutte le scienze hanno una relazione
più o meno grande con la
natura umana, e anche quelle che sembrano
più indipendenti, in un modo o
nell’altro, vi si riallacciano. Perfino la
matematica, la filosofia naturale e
la religione naturale dipendono in certo
qual modo dalla scienza dell’uomo,
poiché rientrano nella conoscenza degli uomini,
i quali giudicano con le loro
forze e facoltà mentali. [24]
La prima frase ci rivela
con chiarezza che per Hume il “fare scienza”
è un puro “ragionare
metafisico-psicologico”, e che quindi l’osservazione
strumentale e la ricerca
sperimentale contano poco o nulla. La seconda
frase ci dice invece che la
“religione naturale” va soggetta agli stessi
limiti intellettuali del conoscere
umano, sottintendendo però che ciò non vale
per la “religione vera”, che, in
quanto rivelata, ne prescinde, collocandosi
“oltre”. Ma proseguiamo:
È
impossibile prevedere quali mutamenti e progressi
noi potremmo fare in queste
scienze se conoscessimo a fondo la portata
e la forza dell’intelletto umano, e
se potessimo spiegare la natura delle idee
di cui ci serviamo e delle
operazioni che compiamo coi nostri ragionamenti.
[25]
Si continua a pensare
soltanto in termini di «portata e forza dell’intelletto
umano» in quanto
soggetto conoscente, prescindendo totalmente
dalla realtà dell’oggetto di
conoscenza. Esso è lasciato “tra parentesi”,
quasi come “inessenziale” al
conoscere: atteggiamento tipico di Platone
e di ogni idealista, con il suo
culmine in Berkeley. Per Hume l’importanza
sta nelle “idee” che l’uomo si fa
della realtà, non di essa; e ovviamente,
da buon metafisico, pensa che sia la
“meccanica ragionatoria” la fonte della certezza.
Così ammonisce: «L’unico
scopo della logica è di spiegare i principi
e le operazioni delle nostre
facoltà di ragionare e la natura delle nostre
idee.» Ma idee afferenti a che
cosa? La logica in primis, quale scienza fondamentale, e poi la morale,
la critica al pensiero “materialista” e la
politica. Da buon idealista Hume pone quattro “vere”
scienze (non certo la fisica o la biologia!):
la logica, la morale, la critica
e la politica; e poi, assoluta ed imperscrutabile
“scienza divina”, la teologia
cristiana riposta nelle Sacre Scritture!
Fede a parte: «In queste quattro
scienze, e cioè la logica, la morale, la
critica e la politica, è compreso
quasi tutto ciò che può importarci di conoscere,
e che può contribuire al perfezionamento
e all’ornamento della mente umana.» [26]
Con tali premesse (di conseguimento del
«perfezionamento » e dell’ «ornamento » della
mente umana) potremmo anche
fermarci qui perché il resto è quasi scontato.
Ma Hume è pensatore troppo acuto
ed intelligente per non dargli lo spazio
che merita come ragionatore.
Poiché per lui non sono le scienze “basse”,
quelle sperimentali, ma l’unica
“alta”, quella ragionatoria, ad essere la
vera capitale del sapere,
contrapposta a sperduti ed insignificanti
villaggi:
Il
solo mezzo, quindi, per ottenere dalle nostre
ricerche filosofiche l’esito che
ne speriamo, è di abbandonare il tedioso,
estenuante metodo seguito sino ad
oggi; invece d’impadronirci, di tanto in
tanto, d’un castello o d‘un villaggio
alla frontiera, muovere direttamente alla
capitale, al centro di queste
scienze, ossia alla stessa natura umana.
Padroni di esso, potremo sperare di
ottenere ovunque una facile vittoria. [27]
Ma Hume è, come Berkeley,
anche un empirista-sensista, perciò l’aggiunta:
«la solida base per la scienza
dell’uomo deve essere l’esperienza e l’osservazione.»
[28]. Di
che cosa? Esclusivamente di ciò che ci rivelano
i nostri sensi (!).
Entriamo nella Parte Prima: «Tutte le
percezioni della mente umana si possono dividere
in due classi, che chiamerò impressioni
e idee.» Le impressioni sono «tutte le sensazioni,
passioni ed emozioni
quando fanno la loro apparizione nella nostra
anima»; le idee sono invece «le
immagini illanguidite delle impressioni.»
[29]
Due livelli, quindi, di conoscenza: immediata
e forte l’impressione, differita
e debole l’idea (come aveva già affermato
Locke); in realtà sia le impressioni
che le idee sono per Hume delle “percezioni”,
ed esse si dividono in semplici e
complesse [30]
ed inoltre in «di sensazione » e « di riflessione»
[31];
le prime nascono nell’anima «da cause ignote»
e le seconde «dalle idee». La
percezione di un oggetto determina un’impressione
e quando questa si
ri-presenta assume la forma di un’idea. Se
il richiamo ha ancora la vivacità
della primitiva impressione si tratta di
memoria, se essa è invece
attenuata si ha immaginazione, nella quale «la percezione è fiacca
e languida » [32] Hume passa poi ad
occuparsi dell’associazione delle idee, una
dottrina di antica origine
platonico-aristotelica, ripresa poi da Hobbes
e Locke e rilanciata qui in forma
semplificata, con tre soli fattori di associazionismo: la
rassomiglianza, la contiguità spazio-temporale
e il rapporto di causa/effetto [33]. Si sarà già notato come Hume riprenda
numerosi concetti e criteri lockiani, ma
letti attraverso Berkeley, che li
aveva criticati e semplificati alla luce
della fede. Per questo egli ne riduce
la complessità e nel contempo li spoglia
di ogni problematicità critica. Ciò
vale, ad esempio, per le relazioni tra idee, ritenute da Locke “idee
complesse” derivanti dal confronto problematico
di un’idea con un’altra (Saggio
sull’intelligenza, II, 12, 7), da Hume invece definite e classificate
in
sette tipi, relativi a: somiglianza, identità,
distanza, quantità, grado,
contrarietà e distinzione di causa/effetto
[34].
Importante il fatto che Hume demolisca,
come già aveva fatto Locke, il concetto di
sostanza, uno dei fondamenti
della metafisica aristotelica. Per il Nostro:
«L’idea di sostanza, se realmente
esiste, deve, quindi, derivare da un’”impressione
di riflessione”; le
impressioni di riflessione si riducono a
nostre passioni o emozioni, nessuna
delle quali è possibile che rappresenti una
sostanza.» [35].
Sicché: «Non abbiamo nessuna idea di sostanza
che sia distinta da quella di una
collezione di qualità particolari » e quindi:
«L’idea di sostanza, come pure
quella di modo, non è altro che una collezione
d’idee semplici unite
dall’immaginazione.» Come si vede la metafisica
di Hume assume i caratteri di
uno psicologismo su base empiristica e naturalmente
l’”eroe” di Hume non può
essere che Berkeley: «Un grande filosofo
che ha contestato l’opinione invalsa a
questo proposito [della generalità delle
idee astratte] e ha affermato che le
tutte le idee generali non sono altro
che idee particolari congiunte a una certa
parola che dà loro un significato
più esteso» [36]
Se Aristotele aveva visto nell’”abitudine”
un mero meccanismo comportamentale (Retorica, I, 10-11, 1369-1370) e
Pascal un elemento inconscio di rafforzamento
della “credenza” (Pensieri,
252) in Hume essa assume l’importantissimo
ruolo di evocatrice dell’idea di
“causa”. Ma, più in generale, l’abitudine
è una meccanica mentale che «arriva a
essere così perfetta che la stessa idea può
esser annessa a molte parole
differenti ed entrare in ragionamenti diversi,
senza pericolo di sbagliare » [37] E siccome, relativamente alle idee generali
ed astratte, Hume dichiara, berkeleyanamente:
«Io conto più di tutto sulla dimostrata impossibilità
di ammettere idee
generali, nel senso in cui comunemente vengono
spiegate.» [38], la
sua tesi è: «se le idee sono particolari
per loro natura e nello stesso tempo
limitate per numero, soltanto con l’abitudine
possono diventare generali per
ciò che rappresentano, e comprendere sotto
di sé un infinito numero di idee.» [39]
L’abitudine è quindi anche quella facoltà
che permette di determinare il
“contenitore” (l’idea generale ed astratta)
di innumerevoli idee particolari. E
in ogni caso le idee sono meno importanti
per la conoscenza di quanto lo siano
le impressioni; per due ragioni, la prima
è che derivano da queste in una
rapporto di consequenzialità, la seconda
che mentre le impressioni sono sempre
«chiare ed evidenti » le idee sono perlopiù
«oscure» [40].
Risulta evidente che il pensiero di Hume
si
configura come una medaglia che da una faccia
si presenta come un chiaro
antinaturalismo idealistico e dall’altra
come un sensismo empiristico. Da ciò
la rivendicazione di un’indagine empirica
(ma invece dichiarata «metafisica»)
sulla mente umana quale “macchina sensorio-cogitativa”;
quindi molto differente
e quasi antitetica alla metafisica idealistica
tradizionale (quella della
Scolastica) che è rifiutata. E ciò coerentemente
con l’atteggiamento già
berkeleyano di netta opposizione ad ogni
“astrattezza” che si opponga alla
“concretezza” dei Testi Sacri. Relativamente
alle idee di spazio e di tempo
(che il vescovo di Cloyne aveva
ridicolizzato) Hume afferma: «Come l’idea
di spazio la riceviamo dalla
disposizione degli oggetti visibili e tangibili,
così dal succedersi delle idee
e impressioni ci formiamo l’idea di tempo,
la quale, senza di essa, non fa mai
la sua apparizione nella mente, né sarebbe
da questa avvertita.» [41] Opinione manifestamente di matrice
agostiniana, che lega l’idea di estensione
alla vista e al tatto,
delegittimandone l’esistenza fuori della
corporeità visibile e tangibile: «una
cosa non appare mai estesa, che non sia visibile
e tangibile.» [42]
Qualcuno ha sostenuto che Hume avrebbe assunto
la fisica di Newton come modello
per la definizione di un principio gnoseologico
con funzione simile
all’attrazione gravitazionale [43]
(anch’essa ridicolizzata da Berkeley), ma
basta leggere il passo seguente per
capire quanto lontano egli fosse dal grande
Isaac:
Le
idee di spazio e di tempo non hanno, quindi,
un’esistenza separata o distinta,
ma sono semplicemente le idee della maniera
o dell’ordine con cui esistono gli
oggetti. In altri termini, è impossibile
concepire un vuoto o un’estensione
senza materia, né un tempo senza successione
o mutamento in qualcosa che esista
realmente. [44]
Non si tratta di
discutere la legittimità dell’affermazione
in sé, poiché può essere anche
corretto affermare che non si dà né spazio
né tempo fuori del reale, ma è il
ridurre la conoscenza ai sensi che è anti-scientifico
e che conduce la
speculazione su un piano pericoloso. Nella
misura in cui si pretenda di
procedere con iper-concretezza si finisce
poi sempre nella più totale
astrazione “sensistica”. Non è casuale che
Hume neghi il vuoto, poiché è tipico
dell’atteggiamento ossimorico degli spiritualisti-empiristi
negare esistenza a
ciò che non sia percepibile come “corporeo”,
salvo essere del tutto convinti,
ovviamente, dell’esistenza dell’”impercepibile”
Spirito divino.
D’altra parte, Hume afferma anche che la
geometria «prende le dimensioni e proporzioni
giuste delle figure, ma
all’ingrosso, e con qualche libertà » [45] e
che « manca di evidenza » [46]. Il
punto è che, secondo lui, solo “di ciò che
possiamo percepire” coi nostri sensi
possiamo dire che sia reale. Quindi, « poiché
non possiamo aver alcuna idea del
vuoto » in quanto «Ogni idea è possibile,
se è conseguenza necessaria e
infallibile di idee possibili.» ne deriva
la chiara inesistenza del vuoto. Ma,
siccome Dio può tutto, si può immaginare
che, quantunque « il mondo sia presentemente
pieno », Egli potrebbe “privarlo del movimento”:
« E sarà ammesso come
possibile anche immaginare l’annientamento
di una parte della materia, per
opera dell’onnipotenza divina, mentre le
altre parti rimangono ferme.» [47]
Opinione che egli desume direttamente da
Berkeley per il quale le cose vanno
“così”, ma ipso facto andrebbero “cosa” se appena Dio cambiasse
idea.
Giacché (§ 61 del Trattato):
Si
può sempre domandare a che fine Dio scelga
quei modi ritorti e indiretti per
ottenere certi effetti per mezzo di macchine
e di strumenti, mentre nessuno può
negare che essi avrebbero potuto venir ottenuti
col solo comando della Sua
volontà senza tutti questi complicati apparecchi.
[…] [48]
E ancora (§
62):
Così,
ad esempio, non si può negare che Dio o l’intelligenza
che sostiene e regola il
corso ordinario delle cose, se intendesse
compiere un miracolo, potrebbe
causare tutti i movimenti sul quadrante di
un orologio anche se nessuno avesse
mai fatto i meccanismi […] [49]
Ed infine (§ 63):
Può
esser necessario d’altra parte, in qualche
caso, che l’Autore della natura
manifesti il Suo potere regolatore producendo
qualche fenomeno fuori
dall’ordine solito delle cose. Tali eccezioni
alle regole generali della natura
sono atte a sorprendere e ad ispirare reverenza
agli uomini in modo che essi
riconoscano la Divinità. [50]
Tutto ciò
che avviene in natura, di ordinario o di
straordinario, è il frutto della
Volontà di Dio. Se Dio lo volesse, ammaestra
il vescovo di Cloyne, tutto
potrebbe restare uguale senza alcun elemento
causale, oppure essere rifatto in
modo totalmente differente.
Abbiamo già rilevato come importante
elemento berkeleyano in Hume sia la negazione
del vuoto. Quando ormai anche in Francia si sta
abbandonando per la sua inconsistenza la
fantasia cartesiana del “pieno”
cosmico a favore del “vuoto” newtoniano,
Hume fa esattamente il contrario, non
tradendo il «grande» Berkeley. Allo stesso
modo per Hume la luce e il buio non
esistono, bensì soltanto oggetti luminosi
ed altri scuri. Ma tornano anche gli
“spiriti” animali di San Tommaso (Sent., IV, 49, 3; Summa, I,
q.76) riveduti da Cartesio (Le passioni dell’anima, I, 10):
Ci
voleva poco a fare una dissezione immaginaria
del cervello, e mostrare come,
concepita un’idea, gli spiriti animali si
precipitino in tutti i solchi
contigui a risvegliare le idee che cono in
relazione con quella. […] Osserverò
quindi, che, essendo la mente dotata del
potere di risvegliare ogni idea che le
piaccia, ogni volta ch’essa manda gli spiriti
in quella regione del cervello in
cui l’idea è posta, questi la risvegliano
sempre quando entrano esattamente in
quel solco e rovistano quella cellula che
le appartiene. Ma poiché il loro
movimento è raramente diritto, e sbanda naturalmente
un po’ di qua e di là,
così gli spiriti animali, cadendo in solchi
contigui, risvegliano altre idee,
al posto di quella e in relazione con quella
che la mente desiderava dapprima
esaminare. [51]
Si capisce bene come per
Hume la mente (cioè l’anima) che fa «quel
che le piace», « manda » gli spiriti
di qua e di là a seconda di ciò che « desiderava
esaminare »; si tratta di una
perfetta anima-motrice che muove gli spiriti
in quanto non solo essa stessa è
spirito, bensì “spirito degli spiriti”. Ora,
mentre gli spiriti nella nostra
testa sono cosa certa, il ritenere che esista
qualcosa “fuori di noi” è assai
dubbio, infatti sono solo i nostri sensi
a dirci se qualcosa è possibile. Ed
allora: «Fissiamo pure, per quant’è possibile,
la nostra attenzione fuori di
noi; spingiamo la nostra immaginazione sino
al cielo e agli estremi limiti
dell’universo. Non avanzeremo d’un passo
di là da noi stessi.». Il cielo e
l’universo li possiamo solo immaginare, senza
che essi posseggano alcuna realtà
al di fuori della nostra mente (invece, il
Creatore che ci abita e che li ha
fatti, è del tutto reale!) Nulla di certo,
quindi: salvo Dio!
La conoscenza per Hume consta di sette
specie di relazioni, ma riducibili a quattro: rassomiglianza,
contrarietà, qualità e quantità [52] e
l’idea di causa non è altro che un « rapporto
di contiguità », «di successione
nel tempo » e di «connessione necessaria».
Contiguità, successione e necessità
connotano quindi tutto ciò che si può pensare
e dire dell’esistenza delle cause
[53].
Vediamo che cosa diceva Berkeley (§ 65 del
Trattato): « A tutto questo
[la supposizione della causalità], rispondo che, in primo luogo, la
connessione di idee non implica la relazione
da causa a effetto,
ma solo quella relazione che ha un marchio
o segno rispetto alla cosa
con esso indicata.» [54] Per
renderci conto di che cosa Berkeley e Hume
sostengano si deve pensare, ad
esempio, che se un aumento di temperatura
trasforma l’acqua in vapore, ciò non
sia causa del passaggio di fase, ma semplicemente
un “fatto percettivo” del
prima/dopo, ovvero di contiguità-successione-necessità
tra la fase liquida e
quella gassosa. Ed infatti Hume osserva che
«è massima generale in filosofia
che tutto ciò che comincia ad esistere deve
avere una causa della sua
esistenza» Pretesa filosofico-scientifica
che Hume contesta:
Lo si ammette in tutti i ragionamenti senza
dare né richiedere alcuna prova. Si suppone
che la verità di questa massima sia
intuitiva, e che sia una di quelle, di cui,
anche negate a parole, nessuno può
realmente dubitare nel suo cuore. Ma, se
esaminiamo questa massima alla luce
dell’idea della conoscenza su esposta [contiguità
+ successione + necessità],
non vi vedremo nessun segno di tale certezza
intuitiva: al contrario, troveremo
ch’essa è di una natura affatto estranea
a questo tipo di convinzione. [55]
E perché? Sostiene Hume:
Ogni
certezza, infatti, nasce dal confronto tra
idee e dalla scoperta di relazioni
inalterabili fin che le idee continuano ad
essere le stesse. Tali relazioni
sono quelle di rassomiglianza, di proporzione
quantitativa o numerica, di grado
di una qualità e di contrarietà, nessuna
delle quali è implicita nella
proposizione: Tutto ciò che ha un principio ha anche una
causa della sua
esistenza. Questa proposizione non
è, quindi, intuitivamente certa. [56]
Una logica conoscitiva,
la “sua”, basata sul « confronto tra idee
» e formalizzata nelle relazioni di
rassomiglianza, contrarietà, qualità e quantità.
Perciò, essa non può
riconoscere che ciò che esiste “così” lo
sia a causa di “qualcosa”, ma soltanto
che “segue a qualcosa in un rapporto di contiguità-successione-necessità”
e che
“il certo”, è ottenibile soltanto mediante
idee “inconfutabili”, e non “nelle
cose” e nel loro modificarsi. Fissate, quindi,
quattro “idee” delle specie di
relazioni, più tre di rapporti diretti (spazialità,
temporalità e necessità) il
concetto di causa è cassato da Hume (secondo il suo criterio
“logico”)
come “privo di certezza”. Ora, noi siamo
d’accordo nel ritenere che l’origine non
debba coincidere con una causa, ma non
che ciò si possa determinare su base “discorsiva”,
bensì esclusivamente su base
“sperimentale”. Con questo tipo di procedimenti
pseudo-logici appare chiaro
come Hume, che si pretende “empirico”, operi
in realtà per mezzo dei soliti
ectoplasmi logico-dialettici, che con l’empirìa
non c’entrano assolutamente
nulla.
Secondo Hume la “credenza” non è quella in
Dio, nella Trinità, nel Paradiso e nell’Inferno
(che è “già” nell’anima), ma
nella realtà di un oggetto di cui mi sono
fatto un idea “relativa”. Egli
sostiene: «Quando penso Dio, quando lo penso
come esistente, e quando credo
alla sua esistenza, la mia idea di lui non
si accresce né diminuisce.» [57]
L’idea di Dio, essendo “assoluta”, non é
soggetta né a rafforzamento né ad
indebolimento su base ragionativa; ciò significa
che essa è sempre certa, e che
la “certezza” non si “crede” ma già la “si
sa”. Sapere dell’esistenza di Dio,
quale Verità Suprema, ci esime dal cercare
di conoscere le motivazioni per
“crederla”, mentre ogni altro tipo di conoscenza
è il frutto di un lavoro sulle
idee al fine di costituire “una credenza”,
mera opinione. Infatti la credenza è
il nostro modo di pensare o negare le realtà
delle cose del mondo. All’infuori
di ciò che è divino tutto è mutevole, precario
inconsistente:
Le
nostre idee son copie delle nostre impressioni
e le rappresentano in tutte le
loro parti. Se volete variare in qualche
modo l’idea di un particolare oggetto,
non avete da far altro che accrescerne o
diminuirne la forza e la vivacità. Se
le apportate un mutamento diverso, esso rappresenterà
una cosa o impressione
diversa. Avviene come per i colori: una particolare
sfumatura può dare a
un colore un grado maggiore o minore
di vivacità o chiarezza, senz’alcuna variazione;
ma, se apportate un variazione
diversa, non sarà più lo stesso colore. Similmente,
non facendo altro la
credenza che variare la maniera di concepire
un oggetto, può dare alle nostre
idee soltanto ulteriore forza e vivacità.
Un’opinione, quindi, o la credenza
può essere definita esattamente come un’idea vivace, relativa, o associata a
un’impressione presente. [58]
Il riferimento ai colori
è estremamente significativo di che cosa
Hume intenda per “conoscere”. Secondo
lui o il conoscere, in senso proprio, non
esiste, oppure si tratta soltanto di
gradi di «maggiore o minore vivacità o chiarezza
» della nostra immaginazione.
Che il sale da cucina sia un composto di
sodio e di cloro e che ogni volta che
io faccio reagire il cloro con la soda si
formi il cloruro di sodio è una mera
“credenza”, che mi è più solida o debole
a seconda della configurazione delle
mie idee.
Secondo Hume, i nostri ragionamenti sono
spesso “distrutti” dall’« universale trascuratezza
e stupidità » degli uomini
in genere circa il loro futuro ultraterreno:
«per il quale mostrano
un’incredulità tanto ostinata quanto è cieca
la loro credulità in altre
circostanze.» [59]. E perciò:
Non
c’è ragione di meraviglia più grande per
lo studioso, e di rammarico per l’uomo
pio, che quella di osservare la negligenza
della gente riguardo alla sua
condizione futura; ed è giustamente che molti
eminenti teologi non si fanno
scrupolo di affermare che il volgo, benché
non abbia principi formali di
incredulità, tuttavia è realmente incredulo
nel cuore e non ha niente di quella
che possiamo chiamare la credenza nella durata
eterna dell’anima. [60]
La fede nell’aldilà nel
“volgo” o non c’è o è troppo debole a causa
della sua « trascuratezza e
stupidità » e ciò si manifesta, secondo Hume,
nell’incapacità di immaginare
l’aldilà perché esso rimane troppo legato
all’aldiquà: «poiché osservo che
tutti gli uomini s’interessano di quello
che può accadere dopo la loro morte,
purché ciò riguardi questo mondo.» [61] Imperdonabile stupidità di un’umanità troppo
“materiale” e assai poco “spirituale”, come
già aveva sostenuto San Paolo e
come anche Hume qui ribadisce con forza:
«sono rari coloro che credono
all’immortalità dell’anima con quel vero
e fermo assenso che danno alle
testimonianze di viaggiatori e di storici.»
[62]
Invece di credere all’immortalità dell’anima
e al suo futuro viaggio
nell’aldilà, gli uomini sono così stupidi
da credere ai resoconti su luoghi
visitati da parte di viaggiatori che “raccontano
ciò che hanno visto”.
E tuttavia Hume si rivela a volte di un
empirismo così radicale da rasentare la rozzezza.
Dopo averci detto come «non
ci voglia molto ad accorgersi dei difetti
di ogni ipotesi popolare» e al fatto
«della poca luce che la filosofia ci dà in
speculazioni così sottili e sublimi
» si legga attentamente questo passo:
Ma
fate che gli uomini si persuadano pienamente
di questi due principi: che un
oggetto, considerato in se stesso, non contiene
niente che ci autorizzi a
trarne una conclusione che vada al di là
di esso; e che, anche dopo aver
osservato il frequente e costante congiungimento
degli oggetti, noi non abbiano
nessuna ragione di trarne un’inferenza riguardante
un oggetto che è al di là di
quelli di cui abbiamo avuto esperienza. [63]
Ecco i due princìpi
“sottili e sublimi”: 1. ogni oggetto va considerato
in se stesso (come fatto
contingente e percettivo) e astratto dal
contesto di cui è parte. 2. il
congiungimento degli oggetti (forse “immaginario”?)
non autorizza inferenze su
altri oggetti appartenenti allo stesso contesto
(!) Ma, se non si fa questo,
quando mai sarebbe possibile la ricerca scientifica?
Domanda fuori luogo, ben
altri sono gli interessi del Nostro: «il
medesimo corso di ragionamento ci
porterà a concludere che c’è una sola specie
di necessità [quella della
Provvidenza], così come c’è una sola specie
di causa [Dio], e che la
distinzione comune fra necessità morale e
necessitò fisica non ha nessun
fondamento in natura.» [64]
Veramente difficile capire, a questo punto,
che cosa Hume intenda per “natura”!
L’unica cosa chiara è che la moralità e la
fisicità sono indistinguibili!
Distinzioni inconsistenti e pure operazioni
dell’immaginazione, sicché: «È
l’unione costante degli oggetti, unitamente
alla determinazione della mente,
che costituisce la necessità fisica: e la
soppressione di queste condizioni dà
il caso.» Siamo al puro “mentalismo” teorico, nella
più totale negazione
di ogni realtà fisica e nell’adesione altrettanto
totale all’immaterialismo
berkeleyano.
Va poi aggiunto che lo stesso Hume, pur
avendo mutuato dallo scetticismo il principio
dell’”inaffidabilità” del
conoscere, si preoccupa di prendere le distanze
da quello che chiama
«scetticismo totale» [65],
convinto com’è che, relativamente alle “cose
del mondo”: « la credenza è
propriamente più un atto sensitivo che un
atto cogitativo della nostra natura.
» [66] L’esistenza di ciò che sta fuori di noi è
“assunta” ma “indimostrabile”, poiché solo
i sensi ce ne offrono testimonianza [67]
attraverso figura, volume, movimento, solidità,
colori, sapori, odori, suoni,
calore, dolore e piacere [68]. Né
la ragione è in grado di aggiungere molto
all’impressione sensoria: « In
conclusione, la nostra ragione non può, né
è possibile possa mai in alcun modo,
darci la certezza della continuata e distinta
esistenza di corpi.
Quest’opinione è dovuta esclusivamente all’immaginazione.» [69] Il
prosieguo di questa sezione del Libro Primo
(la quarta) del Trattato
concernente i sensi, riguarda specificazioni
come: continuità, distinzione,
coerenza, costanza, individuazione, invariabilità,
in interruzione,
invariabilità, ecc., che nulla di rilevante
aggiungono alla tesi di fondo
humiana. E mentre il “mentale” domina incontrastato
ogni riflessione del
Nostro, la mente, ovvero la facoltà di intuire e ragionare:
«non è altro
che un fascio o collezione di percezioni
differenti unite da certe relazioni, e
che si suppongono, sebbene erroneamente,
dotate di una perfetta semplicità e
identità.» [70]. È così presupposto che
sia l’anima immortale a possedere, essa sola, la verità; a “sapere”
che
Dio esiste, che c’è un Aldilà, che noi accederemo
al Paradiso o finiremo
all’Inferno.
Nulla si può sapere all’infuori di ciò che
concerne Dio e tutte le conoscenze profane
sono solo opinioni erronee e false.
Sicché: «Che cosa possiamo, dunque, aspettarci
da questa confusione di
paradossali e infondate opinioni, se non
errori e menzogna? E come possiamo
giustificare una qualsiasi credenza in esse?»
Siccome il dubbio scettico è un
“male incurabile” vi è un’unica soluzione:
«Non curarsene, non badarci: ecco
l’unico rimedio. Al quale mi affido interamente.»
[71]
E tuttavia è
interessante notare come il mentalista Hume,
con una certa incoerenza
concettuale, ma giustificata dalla sua ortodossia
cristiana, si opponga al
panenteismo di Spinoza per il fatto che «la
teoria dell’immaterialità,
semplicità e indivisibilità di una sostanza
pensante è un vero ateismo.» [72] Un
ateismo che non può nascere da una negazione
del Dio ebraico-cristiano dal
momento che Spinoza vi crede fermamente,
ma dalla sua posizione eterodossa nei
confronti della dottrina tradizionale, pretendendo
di dirimere con la ragione
una questione di fede, poiché, sostiene Hume:
«la sostanza dell’anima è
assolutamente inintelligibile » [73].
Non ci soffermeremo sulla Prima e sulla
Seconda Parte del Libro Secondo (Sulle passioni), poiché si tratta di un
elencazione in chiave psicologistica di moventi
e di momenti dell’orgoglio e
dell’umiltà, dell’amore e dell’odio, che
poco hanno a che fare con la
filosofia. La Parte Terza è invece interessante,
poiché ci fa capire come Hume
sia in un convinto determinista, anzi un
“provvidenzialista”. Ma vediamo come,
in un modo un po’ contorto, si manifesti
questo atteggiamento:
Dobbiamo
ora dimostrare che così come l’unione tra motivi e azioni presenta la
stessa costanza che sussiste in tutti gli
eventi naturali, questa unione ha
altresì la medesima influenza sull’intelletto
determinandoci a inferire
l’esistenza di una cosa dall’esistenza di
un’altra. Se riusciremo a dimostrarlo, allora non esiste nessuna
circostanza nota, presente nella connessione
tra le azioni materiali e nella
loro produzione, che non possa essere rintracciata
in tutte le operazioni della
mente; per cui non potremo, senza evidente
assurdità, attribuire la necessità
alle prime e negarla alle seconde. [74]
Come si vede è un legame
logico-necessaristico quello che fa sì che
si debbano ritenere “necessitati” sia
i nostri comportamenti e sia i nostri pensieri.
L’idea della libertà di agire e
pensare è per il Nostro una mera “fantasia,
mentre sicura “realtà” è il senso
morale in noi, tanto evidente quanto forte:
Non
c’è nessun filosofo la cui posizione sia
tanto legata alla fantasiosa teoria
della libertà da non riconoscere la forza
dell’evidenza morale, e quindi
da non basarsi su di essa come su dì un fondamento
ragionevole tanto sul piano
speculativo quanto su quello pratico. Ora
l’evidenza morale non è altro che una
conclusione relativa alle azioni degli uomini
derivata dall’esame dei loro
motivi, caratteri e situazioni. [75]
Come Kant (ma già
Berkeley) egli assume l’evidenza morale come guida etica, ma mentre il
tedesco ne fa in prima istanza una questione
di “ragion pratica” e in seconda
una conferma dell’esistenza della legge di
Dio “in noi”, per Hume essa conferma
le nostre cogenze comportamentali. Sicché
conclude: «Affermo, ora, che chiunque
ragioni a questo modo [il mio] ipso facto crede che le azioni della
volontà nascano dalla necessità, e non sa
ciò che dice quando nega questa
necessità.» [76] Comprendiamo adesso bene
perché Hume riduca i concetti di “cause seconde”
alla percezione di una
contiguità e di una successione tra oggetti
e come sia il terzo elemento, la
necessità, la vera “causa prima”. Egli pensa
anche che, se è stata preferita
l’idea della libertà comportamentale dell’uomo
e non quella della necessità,
ciò dipenda da un modo errato di intendere
la religione: «che senza alcuna
necessità si è intromessa in questo problema.»
[77],
aderendo con ciò implicitamente all’assolutizzazione
del concetto di Grazia.
Veniamo ora ad occuparci del Libro Terzo,
che sviluppa e approfondisce il tema della
morale. Ancor più di quanto avesse
fatto in precedenza qui Hume limita ulteriormente
la funzione della ragione,
che è considerata un principio “inattivo”,
del tutto in subordine ad un
principio “attivo”, qual’è il senso morale (proprio dell’anima).
Infatti:
Un
principio attivo non può mai fondarsi su
un principio inattivo, e se la ragione
è di per se stessa inattiva, tale deve rimanere
in tutte le sue forme e in
tutti i suoi aspetti […] Sarebbe noioso ripetere
tutti gli argomenti con cui ho
già dimostrato [Libro II, parte III, sez.3]
che la ragione è del tutto inerte,
e che non può mai produrre né impedire un’azione
o un’affezione. [78]
Se non interviene il
senso morale sono solo le sensazioni di piacere
e dolore a dirigere le nostre
azioni, in ogni caso mai la ragione [79]. Ma
per quanto noi, in base al senso morale,
siamo “naturalmente” spinti a fare il
bene, non tutte le virtù sono “naturali”,
ve ne sono anche di “artificiali”, e tra queste la giustizia.
Essa è legata al concetto dell’”utile” ed
è creata dagli uomini su basi
contingenti e convenzionali. Idea che era
già di Hobbes, come quella per cui
«Un atto isolato di giustizia è spesso contrario
all’interesse pubblico,
e se restasse isolato, senza essere seguito
da altri atti, potrebbe di per sé
risultare molto dannoso per la società.»
[80]
L’utilità generale si riverbera sul singolo
facendo coincidere l’interesse
privato e quello pubblico, ed anche la simpatia (fatto eminentemente
privato) finisce per operare in senso collettivistico.
La conclusione è: «Così
l’interesse egoistico rappresenta il motivo
originario che fa sorgere la giustizia;
mentre una simpatia con l’interesse pubblico costituisce la
fonte
dell’approvazione morale che accompagna questa
virtù.» [81] Ma
Hume si differenzia da Hobbes nel ritenere
che le leggi sulla proprietà (e
relative modalità di trasferimento) e il
rispetto degli impegni assunti sia un
obbligo morale che preceda l’istituzione
della legge e la sua applicazione [82].
In ogni caso, la distinzione tra il bene
e
il male morale ha la propria origine nel
sentimento e gli altri ci ritengono
virtuosi in quando risultiamo loro gradevoli [83]. E
siccome gradevolezza e sgradevolezza si legano
alle sensazioni di piacere o
dispiacere «ogni qualità della mente che
dia piacere al solo vederla è
denominata virtuosa, mentre è chiamata viziosa
ogni qualità che produca dolore.»
[84] La
cosiddetta “grandezza d’animo” è percepita
e riconosciuta come atteggiamento di
simpatia nei confronti di chi la possiede
e come confronto col suo opposto che
cogliamo nei personaggi sgradevoli. Simpatia,
distinzioni morali, tendenza al
bene pubblico, sono tutti fattori di virtù
che vedono naturalezza e
artificialità coniugarsi in questa conclusione:
«Sebbene la giustizia sia
artificiale, il senso della sua moralità
è naturale.» [85]
Passiamo ora ad occuparci della Storia
naturale della religione, pubblicata nel 1757, con la quale Hume
torna a
ribadire alcuni concetti già espressi nel
Trattato (e che il clero anglicano
più conservatore non vede affatto di buon
occhio!). Il Nostro sin dall’inizio
ribadisce che: « L’intera costituzione della
natura rivela un autore
intelligente » [86] e sviluppa poi ampiamente
la storia del politeismo pagano, quale «religione
primitiva del genere umano
ancora ignorante.» [87],
soffermandosi poi sull’origine, sulle divinità,
sulle forme, allegorie, culti,
ecc. Sottolinea in seguito che: «In origine
il volgo [sta parlando di Omero ed
Esiodo!] si rappresenta la divinità come
un essere limitato, e la considera
soltanto la causa specifica della salute
e dei malanni, dell’abbondanza o del
bisogno, della prosperità o dell’avversità.»
Tale “umanità ignorante” mantiene
la credenza in «queste creature capricciose,
vendicative, passionali, e
voluttuose » [88] fino a quando non appare
il “vero” Dio, quello della Bibbia, unico
e indubitabile: «Ma quando il teismo
costituisce il principio fondamentale della
religione popolare, siccome questa
credenza è conforme alla sana ragione, la
filosofia si fonde bene con il
sistema teologico » [89] «E
se i dogmi di questo sistema son contenuti
in un libro come il Corano, o
fissati da un’autorità visibile come il romano
pontefice, i filosofi
speculativi hanno la tendenza spontanea a
conformarsi a una teoria installata
in loro fin dalla prima infanzia, dotata
di un certo grado di consistenza e di
uniformità.» [90] Appare chiaro come per
Hume il politeismo non fosse “naturale” quanto
lo è invece il monoteismo, ma
come questo abbia derogato dalla naturalità
a causa di una cattiva filosofia,
la Scolastica, che così descrive:
Per
di più si deve conciliare e accomodare le
inevitabili incoerenze; si può ben
dire che tutte le teologie popolari, e specialmente
la scolastica, siano
proprio affamate di assurdità e di contraddizioni.
Se questa teologia non
oltrepassasse la ragione ed il senso comune,
la sua dottrina apparirebbe troppo
facile e famigliare. Bisogna suscitar meraviglia,
simulare misteri, avvolgersi
in tenebrose brume; bisogna far credere ai
devoti, i quali agognano di domare
la propria ragione ribelle, che aver fede
nei sofismi incomprensibili
significhi acquistare merito. [91]
Si può supporre da
queste parole che nell’intervallo tra la
stesura del Trattato e la Storia
il rapporto di Hume con le la chiesa protestante
si sia ulteriormente
deteriorato. In realtà si tratta forse soltanto
di una maggior fiducia in se
stesso, di una maggior spregiudicatezza o
forse di una certa propensione al
deismo. D’altra parte avevamo già capito
che il suo concetto di “metafisica”
fosse comunque molto differente sia da quello
classico e sia da quello
scolastico. Ma non va trascurato l’utilizzo
da parte di Hume dell’aggettivo «popolare»,
che ricorre spesso e che evidenzia un atteggiamento
di superiorità culturale e
revisionista che ricorda quello di Spinoza.
Per quanto Hume passi per un illuminista
abbiamo già rilevato i suoi enormi debiti
nei confronti di un anti-illuminista come
Berkeley, da cui certamente si stacca nel
tono e nell’assenza di smaccate intenzioni
apologetiche, ma che dal punto di vista teorico
ricalca in modo abbastanza
puntuale. Ed allora, se da un punto di vista
teorico Hume è un teologo che si
rifà alla religione tradizionale, che nega
la possibilità della conoscenza, che
assume le Sacre Scritture come fonte di ogni
vero sapere, non vediamo come si
possa legittimare l’appellativo di “illuminista”.
E tuttavia, per quanto nulla lo
accomuni ai deisti in maniera esplicita (a
parte l’amicizia con Rousseau) la
sua teologia si colloca sulla loro linea
di contestazione della dottrina
ortodossa, a favore di un più libero modo
di intendere la fede. Ne è
testimonianza il periodo di apertura del
Capitolo XV, l’ultimo della Storia
ed anche il più interessante, dove si afferma:
Sebbene
l’imbecillità degli uomini, barbari e ignoranti,
sia tale da renderli incapaci
di riconoscere un autore sovrano nelle comuni
opere della natura cui sono più
avvezzi, tuttavia non sembra possibile che
una persona di retto intendimento
possa respingerne l’idea, se le è suggerita.
Una finalità, un piano, un
disegno, sono evidenti in tutte le cose;
e quando la nostra mente si leva a
contemplare la prima origine del sistema,
dobbiamo accogliere con salda
convinzione l’idea di un suo autore o di
una sua causa intelligente. [92]
Non a caso poco oltre
ritorna la velata ma pesante accusa alla
religione ufficiale:
Poiché
soltanto nei principi genuini del teismo
si trova tutto ciò che è buono,
grande, sublime, esaltante, per analogia
con quanto avviene in natura dobbiamo
attenderci di scoprire nelle finzioni e chimere
religiose ciò che è volgare,
assurdo, puerile, orrido. [93]
Aggettivi sprezzanti e
quasi feroci di un teologo che nel sottolineare
il termine «teismo» pare
volersi distinguere dal deismo, per quanto
lo evochi con i richiami alla
natura, esattamente come facevano i deisti
(a meno che potesse fare riferimento
a Voltaire che preferiva definirsi teista).
Appena dopo, senza parlare
espressamente di anima, egli quasi teorizza il “segno” lasciato
da Dio
in noi, affinché noi lo riconosciamo come
“sue” creature:
La
tendenza universale a credere in un potere
invisibile ed intelligente, se non è
un istinto originario, è almeno qualcosa
di generalmente connesso alla natura
umana, e lo si può considerare una sorta
di marchio con cui l’artefice ha
contrassegnato la propria opera. [94]
Ma il “marchio” di Dio
nell’uomo, come creatura privilegiata e nel
contempo “testimone” di Lui,
impegna l’uomo ad onorarlo. Ciò non fanno
i sedicenti suoi ministri, gestori
della degenerazione “popolare” della religione:
Ma
osservate come tale immagine si presenta
nelle religioni popolari di tutto il
mondo: come è sfigurata la divinità nelle
nostre rappresentazioni! Quanti
capricci, quante assurdità e immoralità le
vengono attribuite! Come è
degradata, anche al disotto dell’indole degli
uomini ai quali di solito, nella
vita comune, attribuiamo buon senso e virtù!
[95]
“Sfiguramento” di Dio,
capricci, assurdità e immoralità a Lui attribuiti!
Un paio di secoli prima ce
ne sarebbe stato abbastanza per un’accusa
di ateismo! Ma siamo nel Settecento,
e in Gran Bretagna, la più liberale delle
nazioni europee, dove queste
contestazioni sono ormai abituali nelle classi
colte. In un’alternanza di
reprimende e di proclami fideistici leggiamo
ancora: « Quale nobile privilegio
della specie umana è quello di poter attingere
la conoscenza dell’essere
supremo e di inferire dalle opere visibili
della natura la sublime idea della
creazione!»
I Dialoghi sulla religione naturale,
appaiono dopo la Storia, ma sono stati scritti vent’anni prima.
Ne
abbiamo già trattato all’inizio e ci torniamo
per delineare meglio la fede
humiana. In un intervento nella Parte
Seconda dei dialoghi Cleante afferma:
Volgete
gli occhi intorno a voi sul mondo; contemplate
l’insieme e ogni singola parte;
troverete che esso non altro che una grande
macchina suddivisa in un numero
infinito di macchine più piccole le quali,
a loro volta, ammettono ulteriori
suddivisioni fino ad un grado che supera
ciò che i sensi possono scoprire e
spiegare. Tutte queste diverse macchine e
anche le loro più piccole parti sono
accomodate le une alle altre con un’esattezza
che rapisce in ammirazione
chiunque le abbia contemplate. La singolare
corrispondenza dei mezzi ai fini in
tutta la natura rassomiglia esattamente,
pur sorpassandole di molto, alle
produzioni dell’artificio umano, di propositi,
del pensiero, della saggezza e
dell’intelligenza umana. Poiché dunque gli
effetti si rassomigliano tra loro,
siamo condotti ad inferire, secondo tutte
le regole dell’analogia, che le cause
si rassomiglino egualmente e che l’autore
della natura è in qualche modo simile
alla mente dell’uomo, per quanto dotato di
facoltà ben più ampie e
proporzionate alla grandezza dell’opera che
ha eseguito. Mediante questi
argomenti a posteriori, e mediante quest’argomento solo, noi proviamo
ad
un tempo l’esistenza di una Divinità e la
sua somiglianza con la mente e
l’intelligenza dell’uomo. [96]
Sappiamo che Cleante,
dei tre dialoganti, è quello con cui l’autore
più si identifica, ed il passo ci
induce ad alcune importanti considerazioni.
La prima: abbiamo qui il momento
più “newtoniano” di Hume e nel contempo una
chiara adesione alla concezione
meccanicistica dell’”universo orologio”,
ricorrente tra i deisti. Però si noti,
non una parola sull’universo in sé, testimoniando
la più totale estraneità ad
ogni considerazione di carattere naturalistico,
ovvero di interesse diretto
alla natura in quanto tale; un naturalista
non si permetterebbe mai di pensare
la natura come una “macchina”. La seconda:
il deciso antropomorfismo fideistico
di Hume, nel ritenere che l’intelligenza
umana sia modellata su quella divina
da cui deriva e con la quale condivide la
« corrispondenza di mezzi ai fini ».
Quest’immagine dell’universo modellato sui
prodotti dell’operare umano ci
consente di constatare ancora una volta come
l’ancestrale modello esplicativo
del macrocosmo/macrocosmo torni in ogni epoca, in sintonia con una
teologia del lógos che parrebbe insospettabile nel Nostro.
Ciò rivela
come la fantasia umana non riesca a fare
a meno di crearsi l’immagine di un
Dio-Uomo analogo all’uomo-dio che ritiene
d’essere, ripiegandosi ancora una
volta su se stesso, in una narcisistica presunzione
che corrisponde alla più
totale ignoranza di che cosa sia l’universo.
In realtà, l’abbiamo detto, in
Hume questo modello è sicuramente qui delineato,
ma in riferimento ad un
rapporto dialettico tra le posizioni estreme
di Demea e di Filone, rispetto
alle quali si pone il Cleante-Hume come intermedio.
E tuttavia nei Dialoghi, ne avevamo
già accennato all’inizio, troviamo nel personaggio
dell’immaginifico Filone,
che Hume usa come provocatore, una ripresa
dell’atomismo in termini abbastanza
coerenti con ciò che sarebbe diventato l’universo
nella visione scientifica
contemporanea: ovvero quella di un caos iniziale
e di un processo con impulsi
casuali e sviluppi necessitati che a poco
a poco si organizza ed assume una
struttura relativamente ordinata “per esistere”. All’inizio della Parte Ottava “butta lì”
Filone:
Ad
esempio, se ridessi vita alla vecchia ipotesi
dell’epicureismo? La si considera
si solito e, credo, a buon diritto, il sistema
più assurdo che sia fin qui
stato proposto; tuttavia, non so se, con
poche modificazioni, non si possa
condurlo a presentare una debole apparenza
di probabilità. Anziché supporre la
materia infinita, come faceva Epicuro, supponiamo
che sia finita. Un numero
finito di particelle non è suscettibile che
di un numero finito di trasposizioni;
ed in una durata eterna deve per forza accadere
che ogni ordine ed ogni
posizione possibili si verifichino un numero
infinito di volte. [97]
Al che obbietta
l’ortodosso Demea: «Ma questo suppone che
la materia possa mettersi in
movimento senza alcun agente volontario o
primo motore.» [98]
Risponde Filone: «E dov’è la difficoltà di
questa supposizione? Ogni evento,
prima dell’esperienza, è egualmente difficile
ed incomprensibile; ed ogni
evento, dopo l’esperienza, è egualmente facile
ed intelligibile.» [99]
Asserzione di straordinaria acutezza, che
è precisamente quella che il buon
senso, anche oggi, oppone al dogma deterministico
del Disegno Intelligente.
In realtà Filone persegue però un’altra linea
di ragionamento; egli afferma che
da un punto di vista strettamente logico
sia che la materia sia auto-movente e
sia che riceva il movimento da un’intelligenza
da essa distinta si tratta di
tesi che «a priori si può concepire», aggiungendone però una
terza, che
sembra accordarsi sia con Cartesio che con
Leibniz:
Inoltre,
perché non potrebbe il movimento esser stato
prorogato per impulso da tutta
l’eternità in modo che la stessa quantità
d’impulso, o pressappoco la stessa,
si mantenga ancora nell’universo? Quanto
impulso si perde con la composizione
del movimento, tanto se ne guadagna con la
sua risoluzione. E quali che siano
le cause. Il fatto certo è che la materia
è ed è sempre stata, per quanto
possono attestare l’esperienza o la tradizione
degli uomini, in continua
agitazione. [100]
Considerazioni un poco
ovvie, ma alle quali segue un’altra provocazione
non da poco, l’ipotesi di una
materia “priva di forma”:
Se
non v’è una simile forma preparata ad accogliere
la materia, e se c’è
nell’universo una grande quantità di tale
materia senza forma, lo stesso
universo si trova in balìa di un completo
disordine, sia che quello che è così
distrutto sia il debole embrione di un mondo
ai suoi primi inizi, o la carcassa
in dissoluzione di un mondo languente di
vecchiezza e di infermità. In entrambi
i casi, ne segue un caos, fino a che
delle rivoluzioni, in numero finito per quanto
innumerevoli, producano infine
alcune forme, le cui parti ed organi risultino
adatti a conservare le forme
stesse nel continuo succedersi della materia. [101]
Il che è, dal più al
meno, ciò che sosterrà Monod ne Il caso e la necessità a proposito della
materia vivente, che si forma casualmente
e si perpetua necessariamente per
mezzo di invarianza e teleonomia.
Ma Filone intende legare la sua ipotesi cosmogonica
a un ”impulso”
extra-materiale :
Ma cercheremo di esprimerci in termini diversi:
supponete che la
materia sia gettata da una forza cieca e
senza guida in una posizione
qualunque; è evidente che questa prima posizione
dev’esser con tutta
probabilità la più confusa e disordinata
che si possa immaginare, senza
somiglianza alcuna con quelle opere d’arte
umana che manifestano, oltre che
simmetria nelle parti, una corrispondenza
dei mezzi ai fini e una tendenza
all’autoconservazione. [102]
Siamo ad uno primitivo stadio caotico, che rimarrebbe tale solo se la forza generativa cessasse di agire:
Ma supponiamo che la forza quale che essa
sia, che ha dato luogo a
questa condizione della materia, continui
ancora ad operare in essa; allora la
prima posizione della materia farà immediatamente
posto ad una seconda
posizione che sarà, con tutta probabilità,
tanto priva di ordine quanto la
prima; e così di seguito, attraverso molte
successioni di mutamenti e
rivoluzioni […] Così l’universo attraversa
molte età in una continua
successione di caos e disordine. Ma non è
forse possibile che alla fine si
assesti in modo da non perdere il movimento
e la forza attiva (infatti li
abbiamo supposti inerenti ad esso) pur conservando
un’uniformità in mezzo al
continuo moto ed alla fluttuazione delle
parti? Tale è, lo vediamo, il caso
dell’universo al presente. Ogni individuo
è
perpetuamente sul punto di mutare e così
ogni parte di ogni individuo; e
tuttavia il tutto rimane, nel suo apparire,
lo stesso. Non potremmo sperare in
una posizione simile? O non potremmo piuttosto
ritenerci sicuri di ciò in base
alle eterne rivoluzioni della cieca materia?
E ciò non può spiegare tutta la
saggezza e l’ingegnosità che appaiono nell’universo?
Il passo è
interessante per quest’idea che la materia
possa “catturare” la forza-impulso e
incorporarla, ma è evidentemente carente
da un punto di vista logico, mancando
i passaggi che spieghino “come e quando”
cominci ad instaurarsi l’ordine dal
disordine: « il caso dell’universo al presente
» non è per nulla caotico come
pensa Filone. Ma forse la carenza è voluta,
sì da offrire al più affidabile
Cleante di obiettare circa la scarsa sostenibilità
dell’ipotesi filoniana in
relazione all’ordine-fine del Creato, rimettendo
così le cose a posto. Ma resta
interessante il fatto che Hume permetta a
Filone, che pur riconosce la propria
ipotesi «incompleta e imperfetta » [103] di
non darsi per vinto, affermando che «nessun
sistema si deve respingere a causa
di qualche piccola incoerenza.» È un modello
letterario questo, dell’attore
principale del dialogo che si lascia contestare
efficacemente da una
“controparte”, che anche Diderot utilizza
parecchio.
Filone rappresenta infatti uno sdoppiamento
della coscienza di Hume, il quale, pur
identificandosi prevalentemente con Cleante,
sente il bisogno di contrapporre
qualcosa al suo troppo deciso antropomorfismo.
Rileva infatti Filone, uscendo
dal precedente registro cosmogonico-materialistico:
Noi ammettiamo che il potere della Divinità
è infinito; tutto ciò che
essa vuole, vien fatto; ma né l’uomo, né
alcun altro animale, è felice; dunque
essa non vuole la loro felicità; la sua sapienza
è infinita; essa non s’inganna
mai nella scelta di mezzi in vista di un
fine qualunque; ma il corso della
natura non tende alla felicità degli uomini
o degli animali; dunque non è
stabilito per questo scopo. In tutto il campo
della conoscenza umana non ci
sono inferenze più certe ed infallibili di
queste. In che cosa, allora, la
bontà e la misericordia della Divinità assomigliano
alla bontà ed alla
misericordia degli uomini? Le vecchie domande
di Epicuro non hanno ancora
trovato risposta. Ha la Divinità la volontà
di impedire il male, ma non il
potere di farlo? [104]
Domanda
impertinente con cui la cultura cristiana
deve sempre fare i conti con
imbarazzo, alla quale Filone aggiunge la
considerazione che il dolore nel mondo
prevale sul piacere. Ma Cleante ha già pronta
la risposta, che culmina in un:
«Stabilire un’ipotesi sopra un’altra ipotesi
è costruire del tutto in aria […]
non potremo mai, i questi termini, stabilire
la realtà. Il solo metodo per
difendere la bontà divina (ed è quello che
abbraccio volentieri), è di negare
assolutamente la miseria e la malvagità dell’uomo.
[105] Per
un determinista come Hume, che nega il libero
arbitrio, l’uomo pecca “per
necessità” (il che tuttavia non lo libera
dal peccato) e appare in ciò la
componente stoica della sua cultura.
Nella Parte Undicesima Filone torna a fare
il provocatore, ed espone la sua idea circa
« quattro circostanze da cui
dipendono la totalità o la maggior parte
dei mali che tormentano le creature
sensibili » [106]: 1. «l’assestamento o
l’economia della creazione animale, per cui
pene e piaceri sono usati per
eccitare tutte le creature all’azione e per
renderle vigilanti »; 2. « il fatto
che il mondo è regolato da leggi generali
» che non tengono conto delle
esigenze individuali; 3. «la grande parsimonia
con cui tutte le capacità e
facoltà risultano distribuite ai singoli
esseri particolari », pertanto deboli
rispetto al tutto; 4. «la costruzione poco
accurata di tutte le parti e principi
della grande macchina della natura » [107] Il
primo motivo possiamo definirlo biologico,
il secondo fisico, il terzo
fisiologico e il quarto strutturale. In ognuno
di essi ciò che è messo in
discussione è il modello provvidenzialistico,
per quanto l’ultimo sia il più
azzardato e dirompente. Provocazione intollerabile
per Demea, ma non per
Cleante, il quale, anzi, segue divertito
il suo sconcerto nei confronti del
discorso di Filone. Il quale, però, lascia
aperta la porta al compromesso
affermando che le sue ipotesi: «potrebbero
facilmente conciliarsi con esso
[l’assioma dell’assoluta bontà di Dio] »
[108] Ed
ancora: «sono abbastanza scettico per convenire
che le cattive apparenze,
nonostante tutti i miei ragionamenti, possono
essere compatibili con attributi
del genere di quelli che voi supponete.»
Prosegue Filone sottolineando che i
contrasti tra gli uomini fanno pensare a
«una natura cieca, impregnata da un
grande principio vivificante e che lascia
cadere dal suo grembo, senza
discernimento né cura materna, i suoi figli
storpi ed abortivi.» [109]
Inevitabile il riferimento a Lucrezio, assai
più noto e studiato di Epicuro e
considerato suo interprete fedele, ma anche
al dualismo di Mani attraverso la
lettura che ne aveva dato Bayle. E Filone
torna ancora all’argomento
cosmogonico per avanzare quattro ipotesi
sul male nel mondo, ribadendo che il
rapporto diretto tra la bontà di Dio e il
concetto che l’uomo si è fatto di
essa è indimostrabile. «Basta, basta! » sbotta
Demea scandalizzato: «dove vi
trascina la vostra immaginazione? Aggiungendo:
Ho
fatto alleanza con Voi per provare l’incomprensibile
natura dell’Essere divino
e per confutare i principi di Cleante che
vorrebbe misurare tutte le cose con
un criterio ed un’unità di misura desunti
dall’uomo. Ma ora trovo che voi vi
immergete in tutti gli argomenti consueti
dei più grandi libertini ed increduli
e tradite la santa causa, che pareva aveste
sposata. Siete voi dunque, in
segreto, un nemico più pericoloso dello stesso
Cleante? [110]
Nel gioco delle parti si
vede bene come Demea ritenga il modello microcosmo/macrocosmo
troppo
pre-cristiano e paganeggiante per essere
accettabile, sì da appoggiarsi all’irrazionalismo
filoniano contro Cleante; ma ora Filone è
andato troppo oltre, finendo per
lasciarlo solo. Cleante, divertito, dice:
E
voi siete tanto lento ad accorgervi di ciò?
Credetemi Demea, il vostro amico
Filone fin dall’inizio non ha fatto che divertirsi
a spese sia vostre che mie;
e bisogna confessare che il ragionamento
poco giudizioso della nostra volgare
teologia non ha dato che troppo giusta presa
alla sua beffa. La totale
infermità della ragione umana, l’assoluta
incomprensibilità della natura
divina, la grande universale miseria e l’ancor
più grande malvagità degli
uomini: certamente questi sono argomenti
strani per essere benevolmente accolti
da ecclesiastici e da dottori ortodossi.
[111]
Si rivela l’esistenza di
un asse dialettico, ma sinergico, tra l’ottimismo
di Cleante e il pessimismo di
Filone, che replica:
Non
biasimate troppo l’ignoranza di questi reverendi
signori. Essi sanno cambiare
lo stile a seconda dei tempi. Una volta era
argomento teologico popolarissimo
sostenere che la vita umana è vanità e miseria,
ed esagerare tutti i mali e
tutti i dolori che incombono sugli uomini.
Ma, in questi ultimi anni, gli
ecclesiastici cominciano a ritrattare quest’asserzione
per sostenere, sebbene
ancora con qualche esitazione, che anche
in questa vita vi sono più beni che
mali, più piaceri che dolori. [112]
Filone ha smascherato il
trasformismo della teologia integralista,
e Demea, che non gradisce, si ritira
dal dialogo e se ne va. Però l’ultima parte
dei Dialoghi, la Dodicesima,
non diventa un testa a testa tra
Filone e Cleante, poiché il progetto di Hume
è un altro: quello di far
trionfare un punto di vista sintetico che
superi le contrapposizioni
dialettiche delle sue creature dialogiche.
Perciò così fa esordire Filone:
Voi
specialmente, Cleante, con il quale vivo
in un’intimità senza riserve, sapete
bene che, nonostante la libertà che mi permetto
nella conversazione e
nonostante il mio attaccamento agli argomenti
singolari, nessuno ha impresso
nella sua mente un più profondo sentimento
religioso di quello che io nutro e
nessuno tributa all’Essere divino, come si
scopre alla ragione
nell’inesplicabile costruzione ed assetto
dell’universo, un’adorazione più
profonda. [113]
Fin’ora “abbiamo
scherzato”, dice in sostanza Filone, adesso
“facciamo le persone serie”. Che
l’universo sia ordinato, che abbia uno scopo,
che sia il frutto di
un’intelligenza superiore e benevola è fuori
discussione. Cleante si accoda:
Aggiungerò
inoltre, a quanto avete messo in evidenza
così bene, che uno dei grandi
vantaggi del principio del teismo è che esso
è il solo sistema di cosmogonia
che possa essere sviluppato in forma completamente
intelligibile e che tuttavia
possa conservare da un capo all’altro una
forte analogia con ciò che oggi
vediamo e sperimentiamo nel mondo. Il paragone
fra l’universo ed una macchina
di costruzione umana è così evidente e naturale
che si giustifica con tanti
esempi di ordine e di finalità della
natura […] [114]
Ristabilita
un’incrollabile fede, conciliata con quello
che può essere facilmente
individuato col modello cosmologico newtoniano,
i Dialoghi si avviano alla
conclusione e Filone può finire in gloria, aggiungendo «Infatti, poiché
si ammette che l’Essere supremo è assolutamente
ed interamente perfetto, ciò
che più differisce da lui si allontana maggiormente
dal supremo modello di
rettitudine e perfezione.» [115]
7.3 Immanuel Kant
Kant passa
per un illuminista ma per molti versi egli
è già un post-illuminista, se non
altro per la radicalizzazione di un “dover
essere” che confligge con due degli
elementi fondamentali dell’etica illuminista:
quello dell’ammissione del
diritto al piacere e quello della ricerca
della felicità come aspirazione
primaria dell’uomo. Va inoltre considerato
che nel Settecento la scienza
acquista una nuova dignità, sganciandosi
dalla teologia, e che ad essa guardano
i pensatori che riconoscendo valore primario
e fondante del conoscere alla
ricerca sperimentale intendono abbinare il
loro pensiero alla scienza. Non Kant
sicuramente, che rimane un metafisico, legato
al solco della tradizione
logico-speculativa. Malgrado i suoi ripetuti
tentativi, specialmente in tarda
età, egli non riuscirà mai a causa di tali
vincoli a colmare lo iato teorico
che coglieva tra le due sponde della metafisica
e della fisica se non
ipostatizzando il “ponte” del calorico-etere. Ne sono testimonianza
numerosi frammenti manoscritti raccolti nell’Opus postumum, dove si
coglie il suo tormento di non trovare una
formulazione soddisfacente e di temere
il fallimento teorico di un quadro di riferimento
a priori per la fisica
(Konvolut X, 12, 18; Konvolut XI, 4, 6, 7) [116].
D’altra parte Kant (come molti uomini del
suo tempo) negava il vuoto e gli
atomi e pensava il cosmo come un “tutto pieno”
intriso di calorico, o etere
(già posto da Aristotele e in vigore presso
gli anti-atomisti sino a tutto
l’800), che così teorizzava in un tardo manoscritto
relativo al Konvolut
(fascicolo) II (7, 2):
Esiste una materia diffusa
come un continuum nella totalità dello spazio cosmico, che
riempie,
penetrandoli uniformemente, tutti i corpi
(e, pertanto, non è soggetta ad alcun
cambiamento di luogo), che, la si chiami
etere o calorico etc., non è un elemento
ipotetico (per spiegare certi fenomeni ed escogitare,
per effetti dati,
cause più o meno verosimili), ma può esser
postulata e riconosciuta a priori
come un elemento appartenente necessariamente
al passaggio dai principi
metafisici della scienza della natura alla
fisica. Proposizione prima.
La differenza di materia, in quanto un corpo
in uno stesso spazio ne contiene
di più o di meno, non può esser spiegata
atomisticamente (con Epicuro),
mediante composizione del pieno con il vuoto interposto […] [117]
Fraintendimento esiziale per chiunque intenda
occuparsi di fisica; dettato probabilmente
da un punto di vista fideistico che
deve rifiutare un sistema materialistico
intrinsecamente ateo, ma anche dalla
credenza nell’assioma della divisibilità
all’infinito dello spazio, come subito
dopo Kant precisa con decisione: «Gli atomi
poi, come corpuscoli densi, se
dovessero essere matematicamente indivisibili
conterrebbero un concetto contraddittorio,
perché ciò che è spaziale è divisibile all’infinito.»
[118] Se
ci si domanda il perché di questa convinzione
così granitica, si constaterà che
essa, ancora una volta, sta nella “matematizzazione”
della materia, posizione
dogmatica che non permette di comprendere
che per quanto la matematica
rappresenti un linguaggio assolutamente coerente
con la struttura e il
funzionamento della materia, ed utilissimo
quindi per definirla nella maggior
parte dei suoi aspetti, non può essere assunta
come strutturale alla materia
stessa. E ciò, lo ribadiamo, perché la matematica
è il linguaggio con cui “noi”
accediamo ai segreti della materia, senza
che ciò ci autorizzi a ritenere che
esso sia il linguaggio “esclusivo” ed “unico”
che la concerne.
Il fatto,
tuttavia, che il Nostro avesse relativamente
alla scienza una distorsione
mentale di stampo metafisico-matematico,
nulla toglie al suo importante lavoro
d’analisi in altri campi. Se però si considerano
gli sviluppi del kantismo, le
conseguenze di esso ed una certa sua utilizzazione,
si deve ammettere che la
naturale “continuazione” del pensiero kantiano
è l’iper-idealismo ottocentesco,
non a caso tanto teologico quanto anti-scientifico.
Ed è forse proprio
nell’orizzonte iperidealistico che si definisce
nel Settecento la frattura
definitiva tra l’osservare e il ricercare
dello scienziato e il puro
“ragionare” del metafisico. Se poi si guarda
all’epistemologia va detto che
Kant prosegue tutto sommato l’opera di Hume
nel “confinamento” della scienza
alle pure “apparenze” del reale, lasciando
del tutto in ombra l’indagine sulla
sua “struttura”. Una tendenza che si ritrova
anche, a nostro parere, in certi ambigui epistemologi platonici del
‘900, come Koyré e seguaci, i quali,
storicizzando radicalmente la scienza, la
relativizzano e finiscono per
indebolirne la consistenza rispetto all’eterno
“magistero” della metafisica.
Ma, relativamente a Kant, che ribadisce espressamente
il primato della
teologia, non gli si può certo far carico
di privilegiare la metafisica rispetto
alla scienza.
Un aspetto
importante della mentalità kantiana ce la
offre la sua Logica (anch’essa
postuma), poiché in essa si coglie la credenza
del Nostro nella capacità della
logica di riguardare la “materia” dell’essere e non la sua forma. La chiusa
del § I recita:
La logica è una scienza razionale non riguardo
alla
mera forma, ma riguardo alla materia, una
scienza a priori delle leggi necessarie del pensiero, ma
non in considerazione di oggetti particolari,
bensì di tutti gli oggetti in
genere; dunque, una scienza del retto uso,
in generale, dell’intelletto e della
ragione, ma non in senso soggettivo, cioè
non secondo princìpi empirici
(psicologici) del modo in cui l’intelletto
pensa, bensì in senso oggettivo,
cioè secondo princìpi a priori del modo in cui esso deve pensare. [119]
Affermare che la logica concerne «gli oggetti
» in
quanto tali, ed in senso oggettivo, e poi
considerare la ricerca empirica come
meramente soggettiva e psicologica, come
se non riguardasse gli oggetti, ma
forme insostanziali ed apparenti di essi,
presuppone la credenza nel valore
ontologico della logica, tipico di tutti
i teologi filosofali.
E tuttavia,
quale che possa essere la nostra opinione
sulla teologia kantiana, bisogna
ammettere che se il Settecento è un secolo
straordinario per il pensiero
filosofico, lo è anche per averci regalato
nel teologo filosofale Kant il più
grande speculatore logico-dialettico di tutti
i tempi. Uno speculatore,
inoltre, che ha reso un paradigma insuperato
di come si possono porre metafisicamente
i problemi del pensiero; egli è come un meccanico
che smonta il giocattolo
della metafisica, fa l‘analisi dei pezzi
e poi li si ricompone in un sistema
grandioso. La differenza tra i meri ragionatori
e gli speculatori sta nel fatto
che i primi rompono il giocattolo ma non
lo ricostruiscono, o lo fanno in
maniera incompleta o incoerente, mentre gli
speculatori sanno ricomporre i
pezzi “al giusto posto”, costruendo imperituri
modelli di ragionazione. Ma
se l’opera kantiana nel suo complesso è “monumento”
filosofale insuperato, va
precisato che la sua filosofalità non è difficile
da comprendere; semmai la
difficoltà sta nel seguire e memorizzare
le innumerevoli suddivisioni e
specificazioni che la caratterizzano. Kant
scompone e ricompone, ma spesso
mutando i significati dei pezzi; e non solo:
egli integra continuamente i pezzi
che si ritrova tra le mani con nuovi pezzi.
Il suo è un procedere quindi anche
“per addizione”, sicché la macchina ragionativa
che è costruita raggiunge
livelli di complessità a volte eccessivi.
Va però ammesso che nel Nostro è
difficile trovare l’arbitrario e l’inutile;
e tuttavia la sua pignoleria nel
“definire” e non lasciare nulla all’approssimazione
lo porta talvolta ad andare
ben oltre i confini posti da un Rasoio di
Ockham … “trascendentale”. Ma egli è
anche un sincero cristiano di formazione
pietista e tutto il suo pensiero ha
un’inequivoca base teologica. Esso però è
sviluppato con le modalità di un
razionalismo puro, e quindi sostanzialmente
laico, che solo nei fini si rivela
come il frutto di un atteggiamento fideistico
profondo, chiaro e coerente.
Atteggiamento teologico chiaro e coerente,
dicevamo, il fatto è che Kant
passa anche per uno dei grandi teorici della
gnoseologia, e come colui che ha
riflettuto sulle posizioni di Hume [120], le
ha revisionate, corrette, completate e superate
[121]. Si
tratta del tema di fondo della Critica della ragion pura, che
considereremo per prima, cercando di fornirne
una piccola e parziale sintesi
interpretativa in rapporto alle finalità
informative di questa Parte Seconda
del nostro lavoro. D’altra parte, l’opera
del grande Immanuel è così praticata
che è superfluo ricordare i suoi aspetti
già ben noti a chiunque abbia fatto
minimi studi di filosofia. Per chi ha fatto
studi regolari va poi aggiunto che
spesso il pensiero di Kant assume talvolta
la pregnanza di un vero e proprio imprinting
didattico, con quell’aura quasi sacrale che
circonda sempre il “memorabile”. Il
guaio è che limitandosi a considerare le
più famose e praticate Critiche
e in maniera sintetica, come spesso viene
fatto nelle aule liceali, si finisce
per lasciare in ombra il ben più importante
elemento teologico del suo
pensiero. Egli pone anche due elementi basilari
per gli sviluppi del pensiero
idealistico posteriore, la distinzione tra
il fenomeno e il noumeno
e la centralità del soggetto conoscente. Elementi gnoseologici che un anti-hegeliano
come Schopenhauer assume integralmente e
che auto-qualificandosi “idealista” autentico
vede in Kant un padre tradito del “vero idealismo”,
per quanto colpevole di
averlo lasciato nell’”incompiutezza”. Un
tema intrigante, che Fabio Bazzani
sviluppa con acutezza nel suo saggio L’incompiuto maestro [122].
Quantunque il
Neoplatonismo abbia costituito il nutrimento
primario dell’iper-idealismo
ottocentesco, la partenza sta tutta nella
critica della conoscenza di Kant,
nell’ipostasi del noumeno e nel rafforzamento della funzione dell’Io
penso. Per questa ragione, al fine di distinguere
l’idealismo di Kant da
quello dei suoi compatrioti che lo sviluppano
e lo radicalizzano, abbiamo
definito la loro teologia iper-idealismo, poiché con Fichte, Schelling e
Hegel e loro seguaci, si verifica un’estremizzazione
e una radicalizzazione del
primato dell’”idea” (Spirito) quale suprema,
ultima e conclusiva realtà, il che
va oltre tutti gli idealismi del passato
con la sola eccezione
dell’immaterialismo berkeleyano. Non è poi
privo di significato il fatto che
Kant, come tutti teologi, neghi il vuoto
(l’elemento fondamentale ed originario
di ogni materia elementare e di ogni fenomenologia
di essa) che pure Newton
aveva sufficientemente evidenziato; mentre
“crede” nell’esistenza del noumeno
quale “spirito del corpo”, o cosa in sé.
Il concetto fa la sua comparsa ufficiale
nel § 3 della dissertazione De
mundi sensibilis del 1770, lo scritto in cui è posta la distinzione
tra
“conoscenza sensibile” e “conoscenza intellettuale”,
la prima passiva e la
seconda attiva.
Passaggio obbligato
primario per evidenziare la teoria gnoseologica
kantiana è la Critica della
ragion pura, pubblicata nel 1781, compimento ultradecennale
delle sue
riflessioni sulla conoscenza iniziate con
la Dissertazione del ‘70. Lo
scopo dell’opera è di “istituire” una cornice
di riferimento entro la quale si
possa delineare il conoscere a priori istituendosi
come “pietra di paragone”,
come “metro” per valutare il sapere filosofico.
Con ciò egli però definisce
anche, implicitamente, un distinto “sapere”
teologico a “cogenza morale” che si
definirà solo nella Critica della ragion pratica per quanto nella pura
(§ III) già si affermi: « Questi inevitabili
problemi della ragion pura sono
Dio, la libertà e l’immortalità.» [123].
L’apposizione di un limite invalicabile alla
conoscenza e la fissazione di un
metro di giudizio per la teoreticità rivendica
per la ragione la facoltà di definire l’operatività
di se stessa. Ciò significa toglierne la
giurisdizione alla metafisica, ma nel
contempo, negando alla scienza osservativo-sperimentale
ogni possibilità di
accedere alla sostanza dell’essere, se ne ribadiscono i principi
basilari di sempre. Per capire bene il punto
di partenza dobbiamo fare un passo
indietro, alla Dissertazione, lo scritto dove nasce il concetto di analisi
trascendentale, conseguente alla distinzione tra mondo
“sensibile” e mondo
“intelligibile”, che, a ben vedere, è però
poi la stessa già posta da Platone
tra la conoscenza di “copie materiali” e
quella dei loro divini modelli (le
“idee spirituali”).
L’aggettivo
“trascendentale” in Kant assume un significato
nuovo che va ribadito. Se nella
metafisica tradizionale, ed in particolare
nella Scolastica tomista, esso
indicava una proprietà dell’oggetto da conoscere
(unità, verità, bontà, ecc.),
per lui esso qualifica invece la ragione
conoscente nelle sue capacità di
accedere al conoscibile a priori. Egli ci dice: «Chiamo trascendentale
ogni conoscenza che si occupa non di oggetti,
ma del nostro modo di conoscenza
degli oggetti in quanto questa deve esser
possibile a priori.» [124] In altre parole, la trascendentalità diventa
la “modalità” con cui la mente umana accede
al mondo sensibile
indipendentemente dall’esperienza: in definitiva
si sta parlando di ciò che fa
variamente riferimento all’appercezione pura, all’autocoscienza e
all’Io penso. La trascendentalità è quindi: «la condizione
richiesta per
la costituzione dell’intero concetto », mentre:
«l’uso che se ne fa è ridotto
entro le regole generali dell’accordo della
conoscenza con se stessa.» [125]
Entriamo ora nel
vivo del testo kantiano col soffermarci sulla
Prefazione alla prima edizione
(rifatta e ampliata notevolmente nell’87
per la seconda), dove si legge:
Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza
dovesse
regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi
di stabilire intorno ad essi
qualche cosa a priori, per mezzo di concetti,
coi quali si sarebbe potuto
allargare la nostra conoscenza, assumendo
un tal presupposto non riuscirono a
nulla. [126]
Si soppesino bene le parole. Kant qui teorizza
l’a priori
come indispensabile elemento del conoscere;
facendo ciò egli per un verso si astiene
dall’occuparsi di ogni conoscenza a posteriori, qual è quella
conseguibile con l’osservazione e l’esperimento
sugli oggetti, ma per altro
verso ne minimizza implicitamente la portata
gnoseologica escludendola dalla
sua indagine. Bloccandosi su ciò che a priori può esser stabilito dalla
ragione “circa” gli oggetti stessi, egli
parla di «allargare la conoscenza» in
senso diametralmente opposto all’ampliamento
dell’”orizzonte conoscitivo” a cui
le nostre facoltà intellettive possono accedere
gnoseologicamente con la
ricerca scientifica. Qui si indica e si teorizza
il percorso inverso come
prioritario: non l’approccio di “noi agli
oggetti”, ma l’assunzione “degli
oggetti a noi”, poiché sarebbero gli oggetti
che debbono essere “fatti entrare”
nel nostro orizzonte mentale e ad esso conformarsi.
Infatti:
Si faccia, dunque, finalmente la prova di
vedere se saremo
più fortunati nei problemi della metafisica,
facendo l’ipotesi che gli oggetti
debbano regolarsi sulla nostra conoscenza:
ciò che si accorda meglio colla
desiderata possibilità d’una conoscenza a
priori, che stabilisca qualcosa
relativamente agli oggetti, prima che essi
ci siano dati. [127]
Ma può avere qualche senso stabilire degli
elementi di
conoscenza sugli oggetti « prima che essi
ci siano dati »? Da buon teologo
filosofale Kant non solo ne è convinto, ma
si appresta a scrivere ottocento
pagine per dimostrarci i modi, le maniere,
le forme, le classificazioni, le
distinzioni ecc. per conseguire lo scopo.
Così convinto che scrive poco
oltre:
Questo tentativo riesce conforme al desiderio,
e promette
alla metafisica, nella sua prima parte, dove
ella si occupa dei concetti a
priori, di cui possono esser dati nell’esperienza
gli oggetti corrispondenti ad
essi adeguati, il cammino sicuro di una scienza.
Si può infatti spiegare
benissimo, secondo questo mutamenti di metodo,
la possibilità di una conoscenza
a priori, e, ciò che è più, munire delle
prove sufficienti le leggi che a
priori sono a fondamento della natura, come
complesso degli oggetti dell’esperienza;
due cose che, col tipo di procedimento fin
oggi seguito, erano impossibili. [128]
Questo passo è sufficientemente chiaro da
esimerci da ogni
commento, ci induce però ad una riflessione.
La metà del Settecento aveva già
lasciato intravedere la generale crisi della
metafisica, che né riesce più a
pretendersi guida per la scienza e neppure
a starle dietro nei suoi sviluppi
tumultuosi. Kant è consapevole di questo
gap che si profila come
irreversibile e incolmabile, ed allora, fermi
restando gli ”irrinunciabili” a
priori metafisici (unica possibilità della teologia
filosofale di
garantirsi una legittimità gnoseologica che
sta svanendo), “inventa” il
cambiamento di metodo che abbiamo sintetizzato
con l’espressione “gli oggetti a
noi”. Egli è infatti del tutto convinto di
poter risolvere la crisi della
metafisica aprendole una nuova strada che
inverte il rapporto
conoscente/conosciuto. Che dire? Ammirazione
per l’idea geniale, per lo sforzo
di definirla e per la fatica di darne conto
in termini di “ragion-pura”.
Tuttavia una domanda è d’obbligo: Kant ha
dato qualche contributo ai progressi
della scienza? La nostra risposta non può
essere che: ma proprio per niente! L’analisi
trascendentale kantiana della conoscenza è priva di alcun
rapporto con un
procedere scientifico in senso moderno, peraltro
già sufficientemente delineato
nel Settecento attraverso l’elaborazione
e l’aggiornamento del metodo
baconiano.
L’istituzione di
qualsiasi a priori logico-formale (definito dal Nostro «cammino
sicuro
di una scienza ») è infatti non solo estraneo,
ma del tutto negativo per
qualsiasi ricerca scientifica e filosofica.
La ricerca ha bisogno di tutt’altre
premesse metodiche che gli a priori, anche perché il progresso
scientifico si estrinseca sempre in un a posteriori. Per aver idea di
che cosa stiamo parlando: si pensi che in
questo momento qualche centinaio di
migliaia di fisici sparsi per il mondo sono
in attesa di che cosa il Large
Hadron Collider (che si sta costruendo al
CERN di Ginevra) riuscirà a produrre
in merito alla conferma o meno dell’esistenza
del cosiddetto Bosone di Higgs,
il supposto generatore di massa. In altre
parole, è la macchina che dovrà
“rivelare” a posteriori della sua operatività l’esistenza o meno
di una
realtà teoricamente prevista, ma indimostrata.
L’uomo qui è totalmente a
rimorchio della macchina come lettore e tutt’al
più come elaboratore di un
metaforico “testo di conoscenza” che sarà
la macchina a scrivere. Il problema
che si pone nelle ricerche sulle particelle
elementari, i “mattoncini dell’universo”,
quale problema fondamentale dell’essere, sta esclusivamente nel “dato”
che la macchina o lo strumento rivelerà;
mai nel “pensato” e meno che mai in
qualsivoglia a priori.
Ma se rispetto alla
ricerca scientifica il criticismo kantiano
è stato nullo ma non particolarmente
dannoso, se visto come prodromico all’iperidealismo, i cui danni per la
filosofia sono stati incalcolabili, il giudizio
muta. Con ciò non si intende
dire che Kant sia colpevole dell’iperidealismo,
ma soltanto che, nella misura
in cui egli ha costruito i ponti sui quali
sarebbero passate le orde di ciò
che, dopo la distruzione della filosofia
antica da parte di Platone, ha
prodotto danni irreparabili per gli sviluppi
di quella moderna, qualche
responsabilità gli va addebitata. E tuttavia,
indipendentemente dalla chiamata
di correo circa la nascita dell’iperidealismo,
rimane il fatto che lo stesso
criticismo, ed in particolare la logica trascendentale, è tutto sommato pretesa
“guida” al conoscere “possibile” più o meno
negli stessi termini in cui si
pretendevano tali le metafisiche di Aristotele,
di San Tommaso, di Cartesio, di
Leibniz e di Hume. Si colga ancora dalla
prefazione questa frase ricca
di significato, dove il divino (l’incondizionato) è identificato con la cosa
in sé:
Giacché quel che ci spinge a uscire necessariamente
dai
limiti dell’esperienza e di tutti i fenomeni,
è l’incondizionato, che la
ragione necessariamente e a buon diritto
esige nelle cose in se stesse, per
tutto ciò che è condizionato, al fine di
chiudere con esso la serie delle
condizioni. […] e che perciò l’incondizionato
non deve trovarsi nelle cose in
quanto noi le conosciamo (esse ci son date)
ma nelle cose in quanto noi non le
conosciamo, come cose in sé.. [129]
A parte ogni altra considerazione, siccome
l’incondizionato
non é altri che Dio [130],
è naturale domandarsi quale ruolo possa avere
Egli nella conoscenza della
realtà in sé o quanto meno nella sua intuizione. Domanda
retorica,
poiché per Kant, come per ogni esponente
della filosofalità (e ciò contro la
filosoficità), la capacità umana di accesso
al reale è condizionata dalla
credenza in un Dio (Volontà o Necessità)
che è origine e fondamento dell’essere
reale in sé e di tutti i possibili in sé particolari. Ora,
proprio nel definire il “conoscibile” come
limitato al mero apparire della cosa
(il materiale fenomeno) ed “inconoscibile” la sua essenza (il divino
noumeno),
la cosa, in quanto fenomeno è svuotata di
ogni consistenza. L’essenza “di sé”
che la cosa possiede in quanto fenomeno è
per il Nostro un “insostanziale”
rispetto all’ipostasi del “sostanziale” in-sé divino. Ciò che è molto importante
rilevare è che nel momento in cui si allude
al noumeno che “si
nasconde”, si esclude anche ogni “struttura
invisibile” della cosa (insieme ad
ogni causa invisibile del suo divenire) che
possa porsi tra la cosa e Dio.
Tutte le quattro forze fondamentali che determinano
l’universo (gravità,
elettromagnetismo, interazioni forte e debole)
sono ovviamente invisibili, come
lo sono le particelle elementari quali pura
energia/massa. Ma queste e quelle sono
l’”essenza” della materialità, e quindi di
ogni cosa”esistente”, perché solo
attraverso la conoscenza di esse sì dà una
ragion sufficiente
dell’essere della cosa stessa. Come si collocano
questi elementi fondanti
l’essere stesso del cosmo nella prospettiva
gnoseologica del criticismo
kantiano? Come inesistenti!
Si comprende allora
la sostanziale anti-scientificità del criticismo
di Kant, che pare del tutto
ignaro, o dimentico, persino di quelle ricerche
sull’invisibile che tutti i microscopisti
operavano ormai da oltre un secolo, rivoluzionando
completamente i concetti
della biologia, della botanica e della
mineralogia. Questi cacciatori dell’invisibile
della materia, persone
che sempre si giocavano la vista e in molti
casi ce l’anno rimessa, sono gli
spesso oscuri eroi della conoscenza che i
metafisici e i teorici della
deduzione hanno sempre disprezzato. Il Nostro,
che pure ha coltivato qualche
interesse scientifico in gioventù, si attarda
talvolta in bizantinismi
logico-dialettici privi di alcun rapporto
con il conoscere, basati unicamente
su distinzioni, tabelle di giudizi, classificazioni,
categorizzazioni, ecc.
Cose del tutto sterili per la scienza, ma
unicamente volte ad aggiungere altri
mattoni alla già gigantesca, quanto colma
di cianfrusaglie, cattedrale
metafisica. Che cosa potrebbero mai servire
la distinzione tra il giudizio
analitico e quello sintetico, dal momento
che il conoscere vero, quello della
scienza, può soltanto nascere dalla scoperta
di nuovi “dati”?
Si può fantasticare
sin che si vuole sui fenomeni in maniera
astratta, ed operare categorizzazioni
sulla quantità, sulla qualità, sulla modalità
o sulle relazione, ma è solo
sulla base di dati che si possono elaborare giudizi sulla realtà
ed
avanzare deduzioni corrette. Concetti, postulati
e principi possono essere,
semmai, solo fattori “aggiuntivi” o corollari
dei dati stessi, sì da dar
luogo ad ipotesi o teorie accessorie. Soltanto
ulteriori dati
sperimentali potranno dirci se esse sono
giuste o sbagliate, e qualsiasi cogito
è in grado di aggiungere solo commenti, interpolazioni,
estrapolazioni,
analogie, ecc. Non lo si ribadirà mai a sufficienza:
la conoscenza si fonda sui
dati e riposa sui dati, e la datità si acquisisce esclusivamente
dall’”esperienza strumentale”, alla quale
nessun processo ragionatorio
meramente autoreferenziale può aggiungere
nulla. Ma Kant ha tutt’altre
preoccupazioni, e la”scienza” alla quale
mira deve “proprio” prescindere
dall’esperienza per fondarsi, poiché: «se
si esce dalla cerchia
dell’esperienza, si è sicuri di non essere
contraddetti dall’esperienza.» [131]
Considerazione ovvia? No, convinta tautologia,
ed anzi, sincera ammissione che
solo tenendosi fuori dell’ambito dell’esperienza,
ovvero della conoscenza
reale, si possono rendere accettabili i frutti
della logica e della dialettica
trascendentali!
La Critica della
ragion pura, d’altra parte, delinea una disciplina “speciale”,
che contiene
«i principi per conoscere qualcosa assolutamente
a priori.» [132]
e bisogna dare atto a Kant di avere sufficientemente
chiarito i limiti della
propria dottrina:
Questa ricerca, che non possiamo propriamente
chiamare
dottrina, ma solo critica trascendentale,
poiché non mira all’allargamento
delle conoscenze stesse, ma soltanto alla
loro rettificazione, e ci deve dare
la pietra di paragone del valore o della
vanità di tutte le conoscenze a
priori, è ciò di cui ora ci occupiamo. [133]
Nell’ulteriore aggiunta: « Tanto
meno ci si può aspettare qui una critica
dei libri e dei sistemi della ragion
pura, bensì quella della facoltà stessa della
ragion pura.» [134]
risulta evidente che Kant si muove nell’ambito
dei criteri di una pura logica
formale, priva di alcun aggancio con la conoscenza
scientifica, e che si pone
unicamente come progetto revisorio della
metafisica per riconfermarne la
validità. Pare anche che Kant, per quanto
si sia anche occupato di scienza e
abbia avanzato modelli cosmologici, pensi
che il compito principale della
filosofia concerna o il ragionamento astratto
o la morale pratico, concentrandosi
quindi o sulla ragionazione o sulla morale:
«Perciò la filosofia trascendentale
è filosofia della ragion pura semplicemente
speculativa. Giacché tutto ciò che
è pratico, in quanto contiene motivi riporta
a sentimenti, che appartengono
alle fonti empiriche della conoscenza.» [135] O
speculazione metafisica oppure praticità
morale, la filosofia si esaurisce
entro queste due polarità (e con ciò Bacone
è servito!). Fin qui l’Introduzione,
veniamo ora alla Parte Prima (Estetica trascendentale) dove già
nell’affermazione: «io chiamo materia ciò
che corrisponde alla sensazione» si
vede bene che siamo sulla stessa linea di
Berkeley e di Hume: la materia come sub-stantia
strutturale dei corpi non esiste: esistono
solo
i corpi con i loro noumeni, Dio che li ha creati e se li
gestisce, e null’altro. D’altra parte anche
lo spazio e il tempo
non sono concetti empirici (§ 2) ma intuizioni
a priori, quindi non
esperibili, per quanto lo sia il movimento.
Lo spazio è (§ 3, Corollario,
b): « condizione soggettiva della sensibilità
» [136] ed
il tempo (§ 6, c): «non è nulla in se stesso
fuori del soggetto.» [137]
La Parte Seconda dell’opera pone il
complesso argomento della Logica trascendentale, della quale si precisa:
«[…] essa riguarda semplicemente le leggi
dell’intelletto e della ragione, ma
solo in quanto si riferisce ad oggetti a
priori, e non, come la logica
generale, a conoscenze tanto empiriche quanto
pure, senza distinzione.» [138]
Questo tipo particolare di logica si distingue
poi in analitica e dialettica,
la prima riguardante i “criteri della verità”
che vengono posti
dall’intelletto, la seconda come critica
dell’«apparenza dialettica» che
evidenzia le “illusioni” cui essa perviene,
di cui il “giudicante” è la ragione
[139]. Ed
è nell’analitica trascendentale che incontriamo (Sezione seconda, § 9)
la tabella dei 4 giudizi (di quantità, qualità, relazione e modalità),
suddivisi in 3 “momenti”, cui corrispondono
le 4 categorie (§ 10),
altrettanto tripartite [140].
Tali schematizzazioni ci riportano nell’ambito
della più pura filosofalità, che
si pasce di categorizzazioni e definizioni
che con la conoscenza, ovvero con la
filosoficità, non hanno nulla a che fare.
Eppure è proprio grazie ad esse che,
secondo Kant, è possibile legare l’io penso al fenomeno (Analitica
dei principi, Capitolo I):
Ora è chiaro che ci ha da essere un terzo
termine, il quale
deve essere omogeneo da un lato alla categoria
e dall’altro col fenomeno, e che
rende possibile l’applicazione di quella
a questo. Tale rappresentazione
intermediaria deve esser pura (senza niente
di empirico), e tuttavia, da un
lato, intellettuale, dall’altro sensibile. Tale è lo schematismo
trascendentale. [141]
È veramente da chiedersi come
si possa pensare che uno “schema” elaborato
dalla nostra mente possa creare un
ponte tra il pensiero e il senso laddove l’oggetto-causa della
sensazione è escluso dalla relazione. E tuttavia
Kant è ben consapevole che le
rigidità dogmatico-deduttive della logica
classica vanno superate (Capitolo II,
Sezione Prima), essendo il principio di contraddizione: «una conditio
sine qua non, ma non un fondamento di determinazione
della verità della
nostra conoscenza.» [142]
La struttura quaternaria dei giudizi
e delle categorie ritorna nei principi dell’intelletto puro
(assiomi, anticipazioni, analogie dell’esperienza
e postulati), tutti corredati
di ampia “dimostrazione”. Interessante
in tale contesto è l’analisi kantiana del
concetto di causa (B, Seconda analogia
dell’esperienza), che si riallaccia a Hume, ponendosi però
il compito di
superarne la spiegazione psicologistica.
In realtà il Nostro non fa altro che
eludere il problema, facendo della legge di causalità nulla più che un principio
puro dell’intelletto a priori: essa è quindi “nella nostra testa” e non
nella dinamica “delle cose”. Ritorna allora,
“camuffato”, il principio humiano
dell’abitudine a cogliere, anzi “immaginare”,
il prima/dopo come causa/effetto,
sicché se ne conferma la pura
“temporalità” e non la “trasformazione strutturale”:
Ora, ciò avviene perché esso [l’intelletto]
trasmette
l’ordine te,morale ai fenomeni e all’esistenza
loro, assegnando ad ognuno di
essi, come conseguenza, una posizione nel
tempo determinata a priori rispetto
ai fenomeni precedenti; posizione senza di
cui il fenomeno non si potrebbe adattare al tempo stesso,
che
determina a priori il posto di tutte le parti
di esso. [143]
La causalità non è più un fatto
“fisico” ma di “posizione temporale” nella
nostra coscienza, ma con ciò abbiamo
una puro mutamento “formale” di ciò che Hume
già sosteneva e che Berkeley prima
di lui aveva radicalizzato negando realtà
alla materia.
E tuttavia Kant presume di operare una Confutazione
dell’idealismo [144]
distinguendo tra un idealismo
problematico (quello di Cartesio) e un idealismo dogmatico (quello
di Berkeley). Relativamente a questo egli
ritiene di averlo “distrutto” nell’Estetica
trascendentale («delle cose esterne abbiamo semplice immaginazione,
ma anche esperienza » [145])
mentre quello resta “ragionevole” ma superato
col Teorema: « La semplice
coscienza, ma empiricamente determinata,
della mia propria esistenza, dimostra
l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori
di me.» Il cogito ergo sum
con l’aggiunta di un ergo id est segna la distanza che Kant prende da
Berkeley, confermando che l’esperienza del
percipiente è come una ratifica
dell’esistenza “reale” del percepito. Ma
Kant fa più avanti un altra
considerazione anche più importante che lo
distanzia da Hume:
Sicché tutti i concetti, e con essi tutti
i princìpi, per
quanto siano possibili a priori, pure si
riferiscono a intuizioni empiriche,
cioè a dati per l’esperienza possibile. Senza
di che non hanno mai validità
oggettiva di sorta, ma si riducono a un semplice
giuoco o della immaginazione o
dell’intelletto, con le loro relative rappresentazioni.
[146]
I concetti e i princìpi sono conditiones
sine qua non per la corretta conoscenza di un oggetto
reale, ma restano
puri modelli schematici e rappresentazioni
sterili se non si concretano in
rapporto all’esperienza di esso. Ciò significa
anche che: «Possibilità, esistenza,
necessità non si sono mai potute spiegare
senza manifesta tautologia, quando si
voglia ricavare la loro definizione unicamente
dall’intelletto puro.» e l’uso
del concetto, che è «possibilità logica»,
sganciato da un’esperienza sensibile,
diventa uno sterile « giuoco di prestigio
» [147]
L’aggettivo trascendentale
conferisce un “significato”, ma limitatamente
alla ragion pura fine a se
stessa; infatti, solo in riferimento alla
realtà i concetti e i principi
trascendentali acquistano anche un “uso”:
Ne deriva incontrastabilmente che i concetti
puri
dell’intelletto non possono essere mai di
uso trascendentale, ma solo
sempre di uso empirico, e che i principi dell’intelletto puro soltanto
in relazione alle condizioni generali di
un’esperienza possibile possono essere
riferiti agli oggetti dei sensi, ma giammai
alle cose in generale. [148]
Un’esperienza è sempre
specifica e mai generale, ed i principi dell’intelletto
puro sono concepibili
solamente in relazione a “condizioni”, non
a “fatti”. La considerazione è
ribadita poco dopo in questi termini: «Le
categorie pure, senza le condizioni
formali della sensibilità, hanno un significato
semplicemente trascendentale,
ma non hanno alcun uso trascendentale, poiché
questo è in se stesso
impossibile.» [149] Si
vede bene l’intento di Kant è di precisare
il suo atteggiamento teorico, e di
uscire dall’impasse in cui si era cacciato Hume riducendo la
conoscenza
a pura immagine mentale. E tuttavia l’immagine
mentale è mantenuta, ed i
concetti e i principi sono condizioni a priori del conoscere; pretesa
del tutto inverificata, ed anzi contraddetta
dalla maggior parte del procedere
“reale” della ricerca scientifica.
Il Nostro ci dice poi che un’illusione
difficile da evitare è quella di pensare
che le categorie (che sono forme
del pensiero) possano sussistere indipendentemente dalle
forme
dell’intuizione (spazio e tempo). Esse, in realtà: « contengono
solo la
facoltà logica di unificare a priori in una
coscienza il dato molteplice
dell’intuizione » ma non hanno significato
«ove non si aggiunga
quell’intuizione in cui soltanto può esserci
dato codesto molteplice.» [150]
Considerazioni che chiariscono la posizione
kantiana, ma insieme danno l’idea
di una certa ridondanza teorica che si conferma
poco oltre a proposito di un
approfondimento del concetto di noumeno, definito concetto
problematico. Per Kant l’aggettivo “problematico” indica
qualcosa di
non-contraddittorio, ma che ponendosi fuori
dell’esperienza reale è
“inconoscibile”; per questa ragione quello
di noumeno diventa un puro concetto
limite [151].
Ma limite a che cosa? Alla pretesa dell’esperienza
sensibile di conoscere
qualcosa che si ponga “oltre” la mera fenomenicità.
Ed allora: «questo concetto è necessario, acciò
l’intuizione sensibile non venga estesa fino
alla cosa in sé », poiché: «tale
conoscenza [sensibile] non può estendere
il suo dominio anche a ciò che pensa
l’intelletto.» [152] Ora, per quanto il Nostro abbia definito
il
noumeno in senso problematico e quindi come
concetto limite che concerne
l’”inconoscibile”, rimane il fatto che, in
quanto “pensato” dall’intelletto,
esso è immaginato come reale allo stesso
titolo di un oggetto sensibile. Si
comprende allora la ragione di voler fissare
un limite alla conoscenza
scientifica a una sorta di “involucro materiale”
delle cose, col presupposto
che la realtà non si ferma ad esso, e che
le cose celano in sé un “nucleo
spirituale” che si colloca in un ambito “più
profondo” della realtà, al quale
la conoscenza intellettiva non può avere
accesso. Abbiamo così il disegno di
una realtà duplice, quella “profana” e quella
“sacra” (nel senso etimologico di
“nascosta”), dove la conoscenza si ferma
al profano lasciando sullo
sfondo il sacro, relativamente al quale, pur avendone definita
l’irraggiungibilità con la comprensione,
se ne lascia intendere l’accessibilità
per “altra via”.
È difficile allora non rilevare una certa
incongruenza nel considerare Dio in qualche
modo conoscibile (se non altro
attraverso le sacre Scritture), e l’anima
delle cose (il loro in-sé),
invece, no. Noi avremmo così nozione dell’Artefice,
ma non dei suoi manufatti,
se non nel loro mero apparire. Un apparire
che non è poi altro che il divenire
delle cose, mentre il noumeno sarebbe il
loro essere, riproponendo
integralmente la dicotomia concettuale di
tutti gli idealismi. Ma Kant non
intende passare per un visionario dogmatico,
ed allora, ribadendo che il
noumeno ha funzione unicamente “negativa”
(cioè limitativa), lo correda (Appendice)
con un ulteriore connotazione che ridefinisce
la sua realtà in una possibilità:
Ma, allora, il concetto di noumeno è problematico,
ossia è la
rappresentazione d’una cosa, della quale
non possiamo dire né che sia
possibile, né che sia impossibile, non conoscendo
noi nessuna specie
d’intuizione, oltre la nostra sensibile,
e nessuna specie di concetti, oltre le
categorie, e non essendo per altro né quella
né queste adeguate a un oggetto
extrasensibile. [153]
Ma se il noumeno è mera
«rappresentazione d’una cosa» che ragione
c’è di tirarlo in ballo in un
trattato di gnoseologia? Sul piano dell’immaginazione
tutto diventa possibile e
non si vede perché il noumeno debba aver
uno status privilegiato. E
inoltre: perché chiamarlo “cosa”, dal momento
che tale sostantivo si utilizza
solo per indicare enti reali, tanto più che
si allude alla sua concretezza
chiamandola infine “oggetto”? Ci pare inoltre
abbastanza ipocrita per un
cristiano sostenere che non vi sia altra
intuizione che quella sensibile,
poiché tutta la storia del Cristianesimo,
a cominciare dal suo fondatore, San
Paolo, è piena di “intuizioni” sovrasensibili
come vie intermedie per un
misticismo che è “visione diretta del Divino”.
Ora, se è ben vero che il
razionalista Kant mantiene le distanze da
tutti i fenomeni religiosi che
esulano dall’ambito della razionalità, ma
non può esimersi dal considerare che
buona parte degli scritti del Vecchio Testamento
non sono altro che racconti di
“visioni”.
Fin’ora abbiamo considerato l’analitica
trascendentale (la parte della logica trascendentale che si occupa
dei “criteri di verità” posti dall’intelletto),
ora passeremo ad occuparci
della dialettica trascendentale quale critica della “logica
dell’apparenza”, ovvero dell’apparenza dialettica
che si pretende conoscenza,
ma che in realtà è solo «vuota ciancia» [154].
Siccome «Ogni nostra conoscenza sorge dai
sensi, indi va all’intelletto e
finisce nella ragione » [155],
questa costituisce il nostro più “alto” strumento
per elaborare «la materia
delle intuizioni e sottoporla alla più alta
unità del pensiero.» [156]. La
ragione è ancora definita come «la facoltà
dell’unità delle regole
dell’intelletto sotto princìpi », essa quindi
è avulsa dall’esperienza diretta
e utilizza l’intelletto («facoltà dell’unità
dei fenomeni mediante le regole»)
come veicolo e intermediario. Ma essa,
quale “facoltà del pensare a priori”, è anche il “giudice” che deve
smascherare, evidenziare, analizzare e classificare
quei risultati della logica
tradizionale che in maggiore o maggior misura
tradiscono la verità logica, che
deve essere sempre “accordo della conoscenza
col suo oggetto”. Lo sviluppo di
questa parte della Critica della ragion pura è imponente e si estrinseca
in un’accurata analisi dei concetti della
ragion pura (idee in generale, idee
trascendenti e sistema delle idee trascendentali) quindi dei paralogismi
della r.p., dell’antinomia della r.p. e dei
vari problemi annessi e connessi
con relative esplicazioni.
Ci soffermeremo ora sul capitolo dedicato
all’Ideale della ragion pura, un elemento importante dell’impianto
teoretico kantiano. L’idea già si allontana dal concreto fenomenico
ma
l’ideale si proietta in un orizzonte ancora “più
alto”:
Ma, anche più dell’idea, pare che sia lontano
dalla realtà
oggettiva quello che io dico ideale, e per cui intendo l’idea non
semplicemente in concreto, ma in individuo […] l’umana ragione
non possiede soltanto idee, ma anche ideali,
che non hanno bensì, come gli
ideali platonici, una potenza creativa, ma
ne hanno tuttavia una pratica (come
principi regolativi) e sono a base della
possibilità della perfezione di certe azioni.
[157]
Il concetto di perfezione è
originariamente e fondamentalmente teologico,
ma in Kant, che considera il
senso morale la più importante prova di Dio,
esso si connota eminentemente come
etico. E poiché: «La virtù e con essa la
sapienza umana, in tutta la loro
purezza, sono idee.», ma esse hanno un loro
”oltre”:
Come l’idea dà la regola, così l’ideale, in tal caso,
serve di modello alla perfetta determinazione della copia;
e noi non
abbiamo altro criterio per giudicare le nostre
azioni che la condotta di
quest’uomo divino in noi, col quale noi possiamo
paragonarci, giudicarci, e
così, migliorarci, quantunque non ci sia
possibile mai raggiungerlo. [158]
Abbiamo qui la concretizzazione
dell’ideale nella misura in cui la singolarità
umana, concreta, se “tende” ad
esso presuppone con esso un’identità d’essere. Cosa evidente quantunque
Kant aggiunga:
Questi ideali, sebbene non si possa loro
attribuire realtà
oggettiva (esistenza), non sono perciò da
considerare per chimere, anzi offrono
un criterio alla ragione, che ha bisogno
del concetto di quel che nel suo
genere è perfetto, per apprezzare alla sua
stregua e misurare il grado e il
difetto dell’imperfetto. [159]
Emerge chiaramente le
progettualità di un’ascesi ad un modello
di perfezione comportamentale che sarà
definito nella ragion pratica, ma che qui è premesso per definirne
razionalmente la forma, che va sottoposta
al “principio di determinabilità”,
che impone la definizione di una determinazione completa [160] per
diventare “pratico”. E dunque:
Il principio della determinazione completa
concerne, dunque,
il contenuto, e non soltanto la forma logica.
È il principio della sintesi di
tutti i predicati, che devono fare il concetto
completo di una cosa, e non
soltanto della rappresentazione analitica
mediante uno dei due predicati
opposti; e contiene un presupposto trascendentale,
quello cioè della materia per
ogni possibilità, la quale deve a priori contenere i dati per la
possibilità particolare di ciascuna cosa. [161]
Ma il modello (quale «insieme
di ogni possibilità») per diventare ideale della ragion pura deve ancora
“depurarsi” del superfluo, per arrivare al
modello supremo di Dio, quale primo
ed ultimo ideale della ragione, estrinsecantesi in Essere originario,
Essere Supremo ed Essere degli esseri [162]. Dio
è: «La realtà suprema » ed insieme «base
della possibilità di tutte le cose».
Leggiamo ancora:
Ora, se noi seguiamo più oltre questa nostra
idea, di cui,
facciamo un’ipostasi, potremo determinare
l’Essere originario mediante il
semplice concetto di realtà suprema come
un esser unico, semplice, onnipotente,
eterno, ecc., in una parola nella sua incondizionata
perfezione, per mezzo di
tutti predicati. Il concetto di un tale essere
è il concetto di Dio, inteso in
senso trascendentale, e, così come ho accennato
di sopra, l’ideale della ragion
pura è l’oggetto di una teologia trascendentale.
[163]
Ecco ritornare l’attributo
dell’incondizionatezza, intesa come causa
prima di tutte cause, un concetto
teologico che Kant assume in termini assoluti,
precisando così che il vero
oggetto della ragion pura è Dio e che il
compimento della filosofia si dà in
quanto teologia (come già sosteneva Aristotele).
Ma la ragione umana si
convince anche che Dio esiste «in modo assolutamente
necessario» [164]
La conoscenza di Dio o si fonda sulla pura
ragione o sulla rivelazione, la prima si
consegue o attraverso concetti
trascendentali o ricavandone il concetto dalla natura,
qualificandosi così
come teologia naturale. Ciò permette a Kant di definire due concetti
talora confusi: «Chi ammette soltanto una
teologia trascendentale è detto deista;
chi ammette anche una teologia naturale,
teista [165].» La teologia naturale, in più, rispetto a
quella trascendentale, ha elementi che trae
dal mondo i in termini di «ordine e
perfezione fisica» cui corrisponde il concetto
di « ordine e perfezione morale»
legittimando il termine di teologia morale [166]. Ed
è solo questa che permette di evitare che
una teologia puramente razionale dia
luogo solo a « tentativi infecondi e per
la loro intima natura nulli e vani » [167]
Saltiamo allora alla conclusione, che troviamo
alla Sezione Prima del Canone
della ragion pura: « Lo scopo finale, al quale da ultimo mira
la
speculazione della ragione nell’uso trascendentale,
riguarda tre oggetti, la
libertà del volere, l’immortalità dell’anima
e l’esistenza di Dio.» [168]
Ovvii il secondo e il terzo oggetto, ma perché
il primo?
Per comprendere la ragione dell’accorpamento
trascendentale della libertà del volere con
l’anima e con Dio occorre calarsi
in un momento storico in cui il problema
del libero arbitrio è arrivato al suo climax.
E ciò proprio in concomitanza con la tematizzazione,
tutta illuministica, della
libertà di pensare, di fare e di essere,
quale obbiettivo primario di un homo
sapiens che tende a liberarsi dai
ceppi dell’assolutismo politico e dalla cappa
dell’integralismo religioso.
Problema di stampo prettamente teologico,
che vede il libero arbitrio diventare
oppositivo rispetto al concetto di Grazia
com’era stato posto in termini
perentori da Sant’Agostino e decisamente
contrastati da Pelagio. Conflitto
teologico che prosegue nei tempi moderni
ed è riproposto da Erasmo da Rotterdam
a sostegno del libero arbitrio (Diatriba de libero arbitrio, 1524)
scomponendone il senso in tre accezioni.
Posizione alla quale si era opposto
Lutero con la tesi del servo arbitrio, risostenendo il principio della
predestinazione divina, tesi poi anche sostenuta
da Zwingli e da Calvino.
Ribadita la negazione del libero arbitrio
da Spinoza e da Hobbes la
contrapposizione torna verso fine ‘600 tra
i seguaci di Luis de Molina (a favore del libero arbitrio) e Giansenio (a
favore della predestinazione) e percorrerà
in vario modo anche il XVIII secolo.
Kant, che sostiene la libera scelta
dell’imperativo morale in funzione del conseguimento
della perfezione etica, si
dichiara a favore dell’ammissione del libero
arbitrio nei termini
seguenti:
La libertà pratica può esser dimostrata per
esperienza.
Perché non soltanto ciò che stimola, cioè
che tocca immediatamente i sensi,
determina l’arbitrio umano, ma noi abbiamo
il potere di vincere con
rappresentazione di ciò che è, se anche lontanamente,
utile o dannoso, le
impressioni esercitate sulla nostra facoltà
sensibile di desiderare. [169]
La ragione prende atto della
legge morale, che è suo compito valutare
e spingere a seguire, ma essa può solo
prescriverla in termini trascendentali, mentre
il comportamento reale resta
libero di seguirla oppure no, per quanto
solo l’osservanza della legge morale
legittimi l’aspirazione alla felicità.
La ragion pura ha l’ideale del sommo
bene « come principio determinante del fine ultimo
» (Sezione seconda del Canone
della r.p.) [170] e da
ciò conseguono tre domande: 1. Che cosa posso
sapere?; 2. Che cosa devo fare?;
3. Che cosa posso sperare? La prima domanda
ha carattere gnoseologico, la
seconda pratico, la terza pratico-teoretico.
La risposta alla terza è: la
felicità. Ma che cos’è la felicità? La risposta
di Kant:
La felicità è l’appagamento di tutte le nostre
tendenze
(tanto extensive, nella molteplicità loro, quanto intensive,
rispetto al grado, a anche protensive, rispetto alla durata). Io dico
legge prammatica (regola di prudenza) la
legge pratica derivante dal motivo
della felicità; morale (legge dei costumi)
quella invece, in quanto ce n’è una,
che non ha altro motivo, che il merito di
esser felice. [171]
Il concetto di una felicità
legata al piacere non è nell’orizzonte kantiano
e quindi non viene definito in quanto
secondario rispetto al conseguimento della
moralità, dalla quale riceve
legittimazione. Perciò siamo in grado di
dare una risposta kantiana alle tre
domande di Kant: 1. Posso sapere qual è la
legge morale; 2. Devo seguirla in
quanto tale; 3. L’attuazione dei suoi dettami
legittima la mia aspirazione alla
felicità. In sintesi: «Fa ciò per cui divieni
degno di esser felice.» [172] Ma
Kant si preoccupa anche di precisare, coerentemente
con gli assunti
trascendentali della ragion pura, che:
«il sistema della moralità è unito inseparabilmente
con quello della
felicità, ma soltanto nell’idea della ragion
pura.» [173] Ma
il dovere morale e la speranza di felicità
hanno senso soltanto in rapporto a
Dio:
[…] e l’indicata connessione necessaria della
speranza di
esser felice con lo sforzo incessante di
rendersi degno della felicità non può
esser conosciuta dalla ragione, se si prende
a fondamento semplicemente la
natura, ma può essere soltanto superata se
una Suprema Ragione, che comanda
secondo le leggi morali, vien posta contemporaneamente
a fondamento come causa
della natura. Io dico ideale del Sommo Bene l’idea di una tale
Intelligenza, in cui il volere moralmente
più perfetto unito alla più alta
beatitudine è causa di ogni felicità nel
mondo. [174]
La nostra ragione ci può
indicare la strada, ma non è sufficiente
per rapportarci a Dio, bisogna sentirlo
attraverso la legge morale come Suprema Ragione,
come Sommo Bene e come
Intelligenza assoluta.
Consideriamo ora la Fondazione della
metafisica dei costumi, pubblicata nel 1785, tre anni prima della
Critica
della ragion pratica, perché, oltre che esserne premessa teorica,
ci
permette di coglierne meglio la genesi. Kant
qui pone quei principi che verranno
poi sviluppati nell’opera principale. Incominciamo
a vedere su quale base nasca
l’imperativo morale: «Ogni cosa di natura agisce secondo
leggi. Solo un
essere razionale ha la capacità di agire
secondo la rappresentazione
delle leggi, cioè secondo princìpi, ovvero
con una volontà.» [175] Il
mondo è regolato da leggi, ed ogni ente di
natura è ad esse costitutivamente
vincolato e coatto; l’uomo no. L’uomo è libero,
e pertanto per “scegliere” una
linea di condotta deve auto-crearsi una legge
cui obbedire, cioè se la deve
prima rappresentare (sulla base del concetto di Dio) e poi costituirla
e
riconoscerla come vincolo cogente per il
conseguimento della santità. Da ciò la
definizione: «La rappresentazione di un principio
oggettivo, in quanto
necessario per una volontà, si chiama comando
(della ragione), e la formula del
comando si chiama imperativo.» [176]
L’uomo sceglie la morale (la santità), se
ne immagina le connotazioni e i fini
su base teologica, ne fabbrica una rappresentazione
sotto forma di legge, ed
infine assume la legge come cogente e come
imperativa. Il procedimento teorico
kantiano trasforma una “scelta” in un “comando”
attraverso la volontà, libera di adeguarsi adesso. Se
Mosè sul Sinai aveva ricevuto la legge morale
direttamente da Dio, ora l’uomo,
“da sé”, deve ri-connotare “razionalmente”
quei sintetici ordini in un forma
adeguata e consona alla sua razionalità ormai
giunta ad un livello di sviluppo
capace di ri-definirla e perfezionarla.
Il comando, l’imperativo, può agire
in due forme: o ipoteticamente o categoricamente [177]. E
da ciò:
Poiché ogni legge pratica ci presenta una
possibile azione
come buona, e perciò necessaria per un soggetto
la cui volontà si lasci
determinare dalla ragione, tutti gli imperativi
sono formule della
determinazione di un’azione necessaria secondo
il principio di una volontà, per
qualche aspetto, buona. Ora, se l’azione
si presenta come buona solo “per
altro”, in quanto mezzo, l’imperativo è ipotetico, mentre se è
rappresentata come buona “in sé”, e pertanto
necessaria per una volontà di per
sé conforme a ragione e come principio della
volontà stessa, l’imperativo è categorico.
[178]
La volontà assume “di
principio” e come “necessaria” una legge
di comportamento che, in quanto
riconosciuta come “in sé”, non ammette più
alcun’opzione, ma deve sottoporsi al
comando categorico. Questo tipo di atteggiamento
morale, che assolutizza la
legge etica, è evidentemente del tutto contrario
a quello che l’Illuminismo,
sin dai suoi prodromi secenteschi, aveva
coltivato. Il criterio morale
illuministico è infatti eminentemente relativistico,
libertario, edonistico ed
eudemonistico. Kant, in realtà, non nega
legittimità all’aspirazione alla
felicità, ma la subordina alla morale, adducendo
a pretesto che essa è
indeterminabile. Da ciò la precisazione:
Sfortunatamente, il concetto della felicità
è un concetto
così indeterminato che, sebbene ogni uomo
desideri giungere ad essa, nessuno
tuttavia è in grado di dire determinatamente
e coerentemente che cosa, in
verità, desideri o voglia. Causa di ciò è
che tutti gli elementi che concorrono
a formare il concetto della felicità sono
empirici, ossia devono essere tratti
dall’esperienza, mentre all’idea della felicità
si richiede un tutto assoluto:
un massimo di benessere nella mia condizione
attuale e in ogni stato futuro. [179]
L’argomentazione è
evidentemente capziosa. Nessuno ha mai tentato
di “assolutizzare” la felicità in
termini profani, poiché è semmai il concetto
teologico di beatitudine
(paradisiaca) che può prestarsi ad essere
pensato come un “assoluto ideale-sacrale”.
La tematizzazione eudemonistica “laica” ha
sempre avuto come sua base teorica
non già la felicità “in sé”, che non esiste,
ma sempre soltanto le strutture e
i mezzi tali da favorire l’instaurarsi di
un certo stato di felicità
“possibile” per il maggior numero di individui
“possibile”, con la
consapevolezza della pluralistica soggettività
del concetto.
E tuttavia neppure la definizione di un’azione
buona “in sé” ne può sancire l’oggettività,
e proprio nei termini in cui si
pone il precetto dell’imperativo categorico di cui Kant dà in
successione due definizioni sostanzialmente
identiche. La prima: «Agisci solo
secondo quella massima che tu puoi volere,
al tempo stesso, che divenga una
legge universale.»; la seconda: «Agisci come
se la massima della tua azione
dovesse, per tua volontà, divenire una legge
universale di natura.» [180]
L’assunto è che la massima, che non può avere
che valore soggettivo, acquista
valore oggettivo per il solo fatto che è
assunta come “legge onerosa”. In altre
parole, siccome l’assunzione della
cogenza è lesiva della libertà individuale,
divenendo ”onere” morale,
auotomaticamente “salta” dal piano soggettivo
a quello oggettivo. Kant fornisce
una serie di esempi abbastanza convincenti,
ma che, tuttavia, non riescono ad
uscire da quella “empirìa” che caratterizza
ciò che ha definito imperativo
ipotetico. D’altra parte non esiste un confine netto
tra il “per altro” e
l’“in sé” dell’azione supposta buona, poiché
la bontà di un’azione (all’infuori
del “non uccidere” e del “non far del male
a nessuno senza motivo”) è
innanzitutto sempre codificata all’interno
di un sistema di riferimento, di una
weltanschauung, di un’ideologia di qualche tipo, e in secondo
luogo è
sempre soggetta a una condizione individuale,
a una situazione, a un ruolo,
ecc. Un soldato in guerra non può utilizzare
i criteri che può usare in pace,
così come in stato di bisogno molti indigenti
si sentono legittimati rubare,
ritenendo che il furto possa avere “valore
universale”. L’indigente che decide
di rubare lo fa spesso nella convinzione
che del suo stato abbia colpa la
comunità di cui fa parte, sì da ritenere
che la sottrazione del superfluo a chi
ne gode sia un “dovuto a sé” in base a una
legge morale di cui il sistema
sociale dovrebbe farsi carico, ma che nella
realtà o gli nega oppure omette l’agire
relativo.
Naturalmente Kant correda, come sempre, un
principio con i più acuti corollari, e tuttavia
rimane il fatto che la validità
di ciò che sostiene può essere forse riconosciuta
nel contesto cristiano, ma difficilmente
assumibile quale ”universale”, come egli
pretende. L’impressione di un certo
dogmatismo aprioristico si ha anche quando
si legge: «La natura razionale
esiste come un fine in sé.» [181] e
siccome la vita per ciascun uomo è soggettivamente “fine in sé”,
“automaticamente” essa diventa oggettivamente “fine in sé” per l’umanità intera. Ora,
questa è un’ovvia tautologia che non dimostra
nulla. Così come è precetto del
tutto astratto sentenziare: «Agisci in modo
da considerare l’umanità, sia nella
tua persona, sia nella persona di ogni altro,
sempre al tempo stesso sempre
come scopo, e mai come semplice mezzo.» [182] Si
potrebbe naturalmente obbiettare che è poco
generoso muovere questo rimprovero,
poiché chi parla è pur sempre un tedesco
del Settecento impregnato e immerso
nell’etica pietista. Ma proprio questo il
punto; come si può invocare un
“universalità”, con la consapevolezza di
appartenere a una “contestualità”? Ed ancora più opinabile è il ritenere che
«L’idea della volontà di ogni essere razionale
» possa diventare «volontà
universalmente legislatrice.» [183]
Il fondamento teologico di tutto il
discorso si chiarisce quando il Nostro pone
il «Regno dei fini » [184], in
quanto è proprio questo che legittima la
legge morale. E infatti Kant, dopo averci detto che le
massime morali hanno una forma (l’universalità), una materia
(lo scopo) e una determinazione
completa (la concordanza di tutte le massime « con
un possibile regno dei
fini come se fosse un regno della natura.»
[185], ci
precisa in nota:
La teologia tratta la natura come un regno
dei fini, la
morale tratta un possibile regno dei fini
come un regno della natura. Là il
regno dei fini è un’idea teorica a chiarimento
di ciò che esiste [Dio]; qui è
un’idea pratica, per porre in essere ciò
che non esiste [il Regno di Dio sulla
Terra], ma può divenire reale in virtù della
nostra azione, e precisamente
secondo quell’idea. [186]
È l’idea di Dio, quindi, il
motore della legge morale, ed è in funzione
di Lui che essa si costituisce, e
non già in funzione dell’umanità, ovvero
dell’universalità, inizialmente
posta. Ma la formula generale dell’imperativo
categorico recita: «Agisci
secondo una massima che possa farsi al tempo
stesso legge universale.» [187] dove
“legge universale” va letto “Legge Divina”.
La Legge Divina, in quanto Dio è il Sommo
Bene,
deve ammettere ogni elemento della realtà
assumibile come un bene, quindi anche
la felicità in generale:
Così, per esempio, io devo cercare di promuovere
la felicità
altrui, non perché m’importi qualcosa il
suo esistere (vuoi per un’inclinazione
immediata, vuoi, anche, per un compiacimento
indiretto, mediato dalla ragione),
bensì unicamente perché una massima che la
escludesse non potrebbe essere
compresa in una stessa volontà come legge
universale. [188]
Kant continua ad utilizzare
l’aggettivo “universale” al posto di “divino”.
E tanto poco gli interessa la
felicità “reale” (non quella riferibile a
un’astratta umanità ma ai singoli
uomini che la costituiscono), che afferma:
Peraltro, il principio della propria felicità è il più
spregevole; non solo perché falso, e perché
dà l’impressione che l’esperienza
commisuri sempre il benessere al comportarsi
bene; e neppure solo perché non
contribuisce in nulla alla fondazione dell’etica,
essendo qualcosa di
assolutamente diverso rendere un uomo felice
o renderlo buono; bensì perché
basa la moralità su moventi atti, piuttosto,
a sotterrarla, e distruggere tutta la sua sublimità,
collocando in una stessa classe ciò che spinge
alla virtù con ciò che spinge al
vizio. [189]
La sublimità dell’etica è
“sotterrata”, secondo Kant, dalla spregevole
felicità individuale, il cui mezzo
per conseguirla è il vizio.
Passiamo ora alla Critica della ragion
pratica, del 1788, sicuramente l’opera più importante
di Kant, quella in
cui egli definisce la teologia morale come
asse portante di tutta la sua
speculazione. A differenza della complessità
e della prolissità della Ragion
pura noi troviamo qui una grande chiarezza nella
sinteticità: il testo è
agile quanto avvincente. Sin dalla Prefazione è precisato che il tema
del libro è la ragion pura pratica, per renderci chiaro da subito che si
tratta di una prosecuzione della critica precedente. Il tema della
libertà è qui ribadito come stretto correlato
della moralità:
Il concetto della libertà, in quanto la realtà
di essa è
dimostrata mediante una legge apodittica
della ragion pratica, costituisce ora
la chiave di volta dell’intero edificio di un sistema della
ragion pura,
anche della speculativa, e tutti gli altri
concetti (quelli di Dio e
dell’immortalità), i quali, come semplici
idee, nella ragione speculativa
rimangono senza sostegno, ora si uniscono
ad esso e ricevono con esso e per
mezzo di esso la stabilità e la realtà oggettiva,
ossia la possibilità è
dimostrata dal fatto che la libertà è reale;
poiché quest’idea si manifesta
come legge morale. [190]
Moralità e libertà sono
complementari, ma è la seconda che, in quanto
“reale”, sostiene la prima che ne
è manifestazione. Va qui rilevato che mentre
sul piano ontologico Kant tende ad
essere determinista, più o meno nei termini
leibniziani, in quello
antropologico egli è nominalmente indeterminista
nel riconoscere il libero
arbitrio, ma la connessione del “poter fare”
della libertà personale con il
“dover fare” della legge morale introduce
un elemento estraneo al concetto di
libertà e per molti versi ne limita la portata.
La Parte Prima dell’opera, che si intitola
Dottrina
degli elementi della ragion pura pratica, è assai più estesa della seconda
(Dottrina del metodo della r.p.p.) e ne pone le premesse teoriche. I
principi pratici della ragion pura hanno
una doppia valenza: sono soggettivi
dal punto di vista del singolo uomo, ma oggettivi
da quello di ogni « essere
razionale » [191]. Ovviamente, siccome ogni uomo è un essere
razionale, egli si comporta come tale se
razionalmente sceglie i principi
morali (pratici) che la ragion pura pone.
Ne deriva che:
Nella conoscenza pratica, cioè in quella
che si occupa
semplicemente dei motivi determinanti della
volontà, i principi che ci
imponiamo non sono ancora perciò delle leggi
alle quali sia inevitabile
sottostare, perché la ragione nell’uso pratico
ha da fare col soggetto, cioè
con la facoltà di desiderare, e secondo la
disposizione particolare di quella
facoltà si può adattare variamente le regola.
La regola pratica è sempre un
prodotto della ragione, perché prescrive
l’azione come mezzo all’effetto come
fine. Ma per un essere, per cui il motivo
determinante della volontà non è unicamente la ragione,
questa regola è un imperativo, cioè una regola che è caratterizzata
mediante un dovere esprimente la necessità
oggettiva dell’azione. [192]
L’esercizio della ragione non è
il fine dell’uomo e la volontà umana deve
guardare oltre, e questo “oltre” è la
moralità, che pone la “sua” regola e determina
l’imperativo che l’uomo,
facendo uso della sua libertà di volere,
deve scegliere. A livello del soggetto
libero-volente la legge morale è un’opzione,
ma a livello del soggetto morale
essa è un imperativo. Una serie di tre primi
teoremi e relativi scolii
definisce le conseguenze teoriche delle premesse
[193], ma
sollevano due problemi che trovano la loro
soluzione nella famosissima Legge
fondamentale della ragion pura pratica, la quale recita: «Opera in modo che
la massima della tua volontà possa sempre
valere in ogni tempo come principio
di una legislazione universale.» [194]. Nel
Teorema IV è definita la differenza tra una positiva
“autonomia della
volontà” e una negativa “eteronomia del libero
arbitrio” dove la prima
costituisce il buon uso della libertà (in
direzione della moralità) mentre la
seconda si pone come suo uso negativo [195]. Ciò
posto risulta evidente che la legge morale
proietta l’uomo in un orizzonte che
si pone “aldilà” dell’esperienza sensibile,
il quale «ci indica un modo
dell’intelletto puro, anzi lo determina in un modo affatto positivo
e ce ne fa conoscere qualcosa, e cioè una
legge.» [196]
Stabilito il concetto di ragion pura
pratica Kant si pone il problema di definirne l’oggetto
e il suo campo d’applicazione,
e poiché: «I soli oggetti di una ragion pratica
sono dunque il male e il bene» [197], il
problema che si pone è quello di rapportare
il male e il bene al dispiacere
e al piacere. Ma siccome sono solo i concetti di bene e di male
a concernere la moralità, sono essi a dover
esser tematizzati, e la loro
determinazione non può avvenire “prima” che
la legge morale sia posta, ma
esclusivamente “dopo”, in quanto il significato
si determina «dopo di essa e
mediante essa.» [198] La
libertà in funzione della moralità si offre
in tipi differenti, che ripetono la
quadripartizione categoriale già vista nella
Ragion pura in termini di
quantità, qualità, relazione e modalità [199], cui
segue la seguente regola per l’applicazione
in concreto della legge
stessa: « Domanda a te stesso se l’azione
che tu hai in mente, la potresti
considerare come possibile mediante la tua
volontà se essa dovesse accadere
secondo una legge della natura della quale
tu stesso fossi una parte.». Kant,
preoccupato che la legge morale si stagli
in un orizzonte che sia aldilà della
mera sensibilità e quindi troppo avulso dalla
naturalità, opera qui un’evidente
forzatura che nelle pagine seguenti cerca
di giustificare, sostenendo la
possibile conciliazione di moralità e
naturalità.
L’applicazione della legge morale implica
una costrizione che determina un «mal volentieri»,
ma in quanto essa ci rende
consapevoli di una nostra «elevazione» [200] ne
segue «l’approvazione di sé» [201]
quale gratificazione. È quest’auto-approvazione
che sancisce l’accordo col
comandamento: «Ama Dio sopra ogni cosa e
il prossimo tuo come te stesso.» [202]
senza che ciò debba dare adito a fanatismo
che anziché perseguire la virtù
come «intenzione morale in lotta », veda «
la santità nel creduto possesso
di una purezza perfetta delle intenzioni della volontà.»
[203] Ma,
nello stesso tempo, «il rispetto al dovere
(come l’unico vero sentimento
morale) dev’esser assolutamente usato come
movente: severo e santo precetto che
non permette al nostro frivolo amor proprio
di trastullarci con gli impulsi
patologici (in quanto essi sono analoghi
alla moralità), e a noi di vantarci
del nostro merito.» [204] Il
dovere non deve venire inquinato dal soddisfacimento
dell’amor proprio e nessun
vanto deve derivare da esso, perciò:
Purché cerchiamo bene, per tutte le azioni
che son degne di
lode troveremo una legge del dovere, che
comanda e non lascia dipendere dal nostro arbitrio ciò
che
potrebbe piacere alla nostra tendenza. Questo
è il solo modo di rappresentazione
che rende morale l’anima, perché solo esso
è capace di principi saldi ed
esattamente determinati. [205]
Kant concede sì il libero arbitrio, ma
pretende che esso persegua il dovere morale
in quanto tale e senza secondi
fini. La realizzazione dell’ideale morale
riposa quindi nell’ “intenzione pura”
di aderire alla legge morale che Dio ha posto
nei nostri cuori. Né Kant pensa
che la legge morale sia interpretabile in
rapporto a condizioni e situazioni
particolari, egli la vede come “assoluta”
e “definita” (opera di Dio, appunto!)
latrice di « principi saldi ed esattamente
determinati.» Se pure il Nostro
intende distinguere il suo atteggiamento
dal fanatismo morale è difficile non
cogliere proprio questo in una simile posizione.
Un fanatismo che emerge dalla
seguente asserzione: « Dovere! Nome sublime
e grande che non contieni niente di
piacevole, che implichi lusinga ma chiedi
la sommissione.» [206] Il
“principio di piacere”, tipico dei libertini
(e assunto da molto Illuminismo),
per Kant è fumo negli occhi. Il dovere morale
è legge ineludibile quanto
sublime per la realizzazione di una «personalità»
che vada oltre la naturalità
generica! L’osservanza del dovere morale
rende possibile l’accesso a una “bene
morale” fatto di austerità, che non ha nulla
a che vedere con la felicità
edonistica dei materialisti. Esso è un obiettivo
eroico:
Questo conforto non è la felicità; non è
neanche la minima
parte di essa. Nessun uomo desidera l’occasione
di provarlo, e forse neanche
desidererà una vita in tali circostanze:
Ma egli vive, e non può sopportare di
esser indegno della vita ai propri occhi.
Questa pace interna è dunque
semplicemente negativa riguardo a ciò che
rende piacevole la vita; essa cioè
tiene lontano il pericolo di diminuire nel
valore personale, dopo che si è già
rinunziato affatto al valore del proprio
stato. Essa è l’effetto di un rispetto
per qualcosa d’interamente diverso dalla
vita, in paragone e in opposizione al quale, piuttosto, la vita,
con
tutta la sua piacevolezza, non ha proprio
nessun valore. L’uomo vive ancora
soltanto per dovere, non perché provi il
minimo gusto alla vita. Di tal natura
è il vero movente della ragion pura pratica:
esso non é altro che la stessa
legge morale pura, in quanto ci fa sentire
la sublimità della nostra, e produce
soggettivamente negli uomini, che sono consci
insieme della loro esistenza
sensibile e della congiunta dipendenza dalla
loro natura, in quanto affetta
patologicamente, il rispetto per la loto
determinazione superiore.[207]
La nostra « esistenza
soprasensibile » si impone nell’orizzonte
esistenziale kantiano. Nel concetto
di natura in quanto « affetta patologicamente
» dalla tendenza al male ritorna
implicitamente quel “peccato originale “
che ci trascina verso il basso e ci
allontana dalla « determinazione superiore
» a cui Dio, avendoci fatti a sua
immagine, ci ha destinati.
Kant è anche convinto «che nessun
intelletto umano, anche il più ordinario
[…] non può non scorgere subito che
per dei motivi empirici del volere può bensì
accadergli di seguire le sollecitazioni,
ma che non può mai pretendere di ubbidire a un’altra legge che non sia
quella della pura pratica della ragione.»
[208]
Questa “voce” interiore è secondo lui chiara
a tutti, come sono chiare le
regole che deve seguire per adempierla e
quindi la distinzione tra i «motivi
empirici» e quelli morali:
La distinzione della dottrina della felicità dalla dottrina
dei costumi, della prima delle quali
i principi empirici
costituiscono l’intero fondamento, mentre
della seconda non costituiscono neanche il minimo complemento, è
dell’analitica della ragion pura pratica
il primo e il più importante compito,
in cui essa deve procedere con tanta precisione,
anzi, per così dire, con tanto
scrupolo, come il geometra nel suo lavoro.
[209]
Precisione e scrupolo da geometra
Kant devono dirimere le esigenze dell’immanenza
(l’aspirazione alla felicità)
da quelle della trascendenza (l’aspirazione
a Dio), ma esse non sono
inconciliabili:
Ma questa differenza del principio della felicità da
quello della moralità non è perciò addirittura
un’opposizione, e la
ragion pura pratica non vuole che si rinunzi
alle pretese della felicità, ma
soltanto che, appena si tratta del dovere,
non si abbia in nulla riguardo alla
felicità. [210]
Tutto ciò implica anche una ridefinizione
del concetto di libertà, che «ancora molti»
pensano di poterla ridurre a
«principi empirici» o «psicologici» e non
come «predicato trascendentale della
causalità» [211]
dell’uomo. Segue un passo importante:
Il concetto della causalità come necessità naturale, a
differenza della causalità come libertà, riguarda soltanto l’esistenza
delle cose, in quanto è determinabile nel
tempo, e quindi [delle cose] come
fenomeni, in opposizione alla causalità di
esse come cose in sé. Ora, se si
prendono le determinazioni dell’esistenza
delle cose nel tempo per
determinazioni delle cose in se stesse (che
è il modo di vedere più comune), la
necessità nella relazione causale non si
può in tal caso unire in nessun modo
con la libertà; ma esse sono opposte l’una
all’altra in modo contraddittorio.
Poiché dalla prima risulta che ogni evento,
e quindi anche ogni azione che avviene
in un dato momento, è necessariamente condizionato
da ciò che fu nel tempo
precedente. Ora, siccome il tempo passato
non è più in mio potere, così ogni
azione che io faccio, deve essere necessitata
da motivi determinanti che non
sono in mio potere: cioè, nel momento che
io agisco, non sono mai libero. […]
In ogni momento infatti io sono sempre sotto
la necessità di esser determinato
ad agire mediante ciò che non è in mio potere. [212]
Fin qui la premessa, che
definisce la condizione dell’uomo “se” venisse
considerato alla stregua delle
cose, che sono soggette ad un rigoroso determinismo.
Ma:
Se, dunque, si vuol attribuire la libertà
a un essere, la cui
esistenza è determinata nel tempo, essa non
si può ricavare, almeno sotto
questo rispetto, dalla legge della necessità
naturale di tutti gli eventi della
sua esistenza, e quindi anche delle sue azioni;
poiché ciò sarebbe come
rimetterla al cieco caso. [213]
Se l’uomo fosse un ente del
mondo come tutti gli altri e si volesse ipotizzare
la “non-necessità” della sua
esistenza e delle sue azioni non resterebbe
che attribuirla al caso. Ma esso
per Kant è inammissibile:
Quindi, se si vuol ancora salvar la libertà,
non rimane altra
via che attribuire l’esistenza di una cosa
in quanto è determinabile nel tempo,
e quindi anche la causalità secondo la legge
della necessità naturale,
semplicemente al fenomeno, e la libertà invece allo stesso essere
come cosa
in sé. [214]
L’uomo, possedendo libero
arbitrio, va disgiunto dallo status fenomenico, poiché i fenomeni sono necessitati,
egli potrebbe allora venir considerato come
una cosa in sé, svincolata
dalle leggi fisiche e biologiche. Il passo,
se pur posto non in termini
assertivi, allude a implicazioni teologiche
molto importanti che Kant non nega.
Se l’uomo possiede la libertà di agire in
virtù dell’anima (che è elemento
divino in un corpo materiale), ed ha quindi
uno status ontologico
particolare, anche la cosa in sé (il noumeno) può allora venir
considerata : 1° non-necessitata e 2° divina.
Ma il Nostro ammette che da
questo ragionamento nascono grandi difficoltà
«le quali sembra che rendano
impossibile tale unione.» [215] Gli sviluppi lo portano a considerare che
pur
ammettendo una certa libertà psicologica, essa sarebbe comunque
condizionata da una necessità naturale, ma ciò è incompatibile una libertà
trascendentale concepibile soltanto come assoluta. Né si
può ammettere che
l’uomo abbia un comportamento duplice, come
un essere dissociato che si
comporterebbe sia come un automa materiale
e sia come una libera psiche [216]. La
difficoltà è superata come segue:
Ora, per togliere nel caso proposto l’apparente
contraddizione fra meccanismo naturale e
libertà in una sola e medesima azione,
bisogna ricordare ciò che nella Critica della ragion pura fu detto, o
ciò che ne risulta: che la necessità naturale,
la quale non può coesistere con
la libertà del soggetto, è inerente semplicemente
alle determinazioni di quella
cosa che è sotto le condizioni del tempo,
e quindi soltanto alle determinazioni
del soggetto agente come fenomeno; […]
Ma lo stesso soggetto, che d’altronde è anche
conscio di sé come di cosa
in sé, considera anche la sua esistenza,
in quanto essa non sta sotto le
condizione di tempo, e considera se stesso
soltanto come determinabile secondo
le leggi che si dà mediante la ragione stessa;
e in questa sua esistenza niente
è per lui anteriore alla determinazione della
sua volontà, ma ogni azione, e in
genere ogni determinazione della sua esistenza,
la quale cambia secondo il
senso interno, e anche l’intera successione
della sua esistenza come essere
sensibile, non è da riguardare nella coscienza
della sua esistenza
intelligibile se non come conseguenza, e
non mai come motivo determinante della
sua causalità in quanto noumeno. [217]
Sono queste considerazioni a
permettere a Kant di arrivare ad un punto
fondamentale della Ragion pratica:
« Con ciò s’accordano perfettamente anche
le sentenze di quella meravigliosa
facoltà che è in noi, e che chiamiamo coscienza.»
[218] Da
questo punto il prosieguo del discorso diventa
quasi scontato, ma ciò che
risulta particolarmente interessante è per
un verso la conferma che in qualche
modo l’uomo, considerato come corpo, è simile
a una “cosa”, condizionata dalla
necessità cosmica, mentre considerato come
anima libera è “noumeno”
indipendente.
Il Libro Secondo ha per argomento la Dialettica
della ragion pura pratica e che inizia il suo corso con la determinazione
del concetto di sommo bene; un concetto che si pone in stretto rapporto
con l’immortalità dell’anima. La conformità
“completa” alla legge morale
presuppone la santità: «una perfezione di
cui non è capace nessun essere
razionale del mondo sensibile» [219].
Essa si delinea come obiettivo «soltanto
in un progresso cha va all’infinito»
e che tuttavia «è necessario ammettere come
l’oggetto reale pratico della
nostra volontà.» [220] Ma
siccome questo progresso infinito è possibile
solo ammettendo una “esistenza
all’infinito” ne deriva l’immortalità dell’anima
come primo postulato
della ragion pratica [221]. Secondo
irrinunciabile postulato è quello dell’esistenza
di Dio, con esso, siccome noi
siamo “nella natura” (perciò tendiamo alla
felicità), va postulata «una causa
di tutta la natura, differente dalla natura,
la quale contenga il principio di
questa connessione, cioè dell’accordo esatto
della felicità con la moralità.» [222]; questa
causa (ovviamente) è ancora Dio [223]. Ciò
che Kant comunque ribadisce è che «non si
deve mai trattare la morale in sé
come dottrina alla felicità, cioè come una dottrina che c’insegni a
diventare partecipi della felicità; poiché
essa si occupa soltanto della
condizione razionale (conditio sine qua non) della felicità, non di un
mezzo per acquistarla.» [224]
Però: «dopo che, in aiuto a questo desiderio
[di promuovere il regno di Dio
attraverso la morale] è stato fatto il [primo]
passo verso la religione; allora
soltanto questa dottrina dei costumi può
esser chiamata dottrina della
felicità, perché la speranza comincia soltanto
con la religione.» [225]
Veniamo ora alla Parte Seconda di
questa seconda critica della Dottrina del metodo,
con la quale Kant organizza i moventi della
virtù: «perché altrimenti si
produrrebbe bensì la legalità delle azioni,
ma non la moralità delle
intenzioni.» [226] Al fine di chiarire meglio la sua posizione,
che è razionalistica e non sentimentalistica,
il Nostro precisa:
Vorrei soltanto risparmiare
alla gioventù gli esempi delle azioni cosiddette
nobili (supererogatorie), di
cui i nostri scritti sentimentali sono tanto
prodighi, e riferire
tutto semplicemente al dovere e al valore
che un uomo si può e si deve dare ai suoi propri
occhi mediante la coscienza di non averlo
trasgredito, perché ciò che riesce a
vuoti desideri e brame di perfezione irraggiungibile,
produce solo eroi da
romanzo; i quali, vantandosi molto del loro
sentimento per la grandezza
trascendente, si dispensano
dall’osservanza dell’obbligazione comune
e d’uso, che a loro sembra poi solo
meschinamente piccola. [227]
Atteggiamento meglio
comprensibile attraverso un’adeguata contestualizzazione:
è evidente che Kant
sta pensando a quella tendenza tipica di
un Romanticismo incipiente,
specialmente in Germania, che fa dell’avvicinamento
al divino un progetto ascetico
su base emotiva, cui egli si oppone fermamente
in nome della razionale
consapevolezza di un dovere da compiere.
La nota a piè di pagina è ancora più
esplicita:
È cosa affatto conveniente
lodare le azioni in cui risplende un’intenzione
e un’umanità grande,
disinteressata e simpatica. Ma qui si deve
far notare non tanto l’elevazione
dell’anima, la quale è assai incostante e
transitoria, quanto piuttosto la
sommissione del cuore al dovere, da cui da
cui si può sperare un’impressione
più lunga, perché essa implica dei principi
(laddove l’elevazione dell’anima
importa soltanto emozioni. […] per impedire
che la rappresentazione egoistica
del meritorio scacci il pensiero del dovere.
[228]
Il protagonismo
individualistico, e narcisistico, anche in
fatto di fede, è cosa nota, e qui
Kant, efficacemente, ne smaschera le premesse
egoistiche, del tutto estranee
alla virtù del “compito”. D’altra parte «I
principi devono esser stabilitisi
concetti; su tutti gli altri fondamenti possono
soltanto effettuarsi velleità.»
[229]
La condotta morale è un percorso verso il
Sommo Bene che non può essere affidato all’improvvisazione,
ma deve basarsi su
un progetto morale definito e su una metodica
della sua realizzazione:
Il metodo prende dunque
quest’andamento. Dapprima si tratta
soltanto di fare del giudizio, secondo le
leggi morali, un’occupazione
naturale, che accompagni tutte le nostre
azioni libere, e così pure
l’osservazione di quelle degli altri e, nello
stesso tempo, di farne
un’abitudine e di acuirlo, mentre si domanda
anzitutto se l’azione è conforme
oggettivamente alla legge morale […] [230]
La condotta morale si realizza
in prima istanza come “occupazione naturale”
dettata dalla consapevolezza e
dalla volontà virtuosa, la quale, instaurandosi
nel nostro cuore, genera
un’abitudine al bene di natura spontanea
e quasi automatica (il che non può che
far pensare al progetto kantiano di un’umana
“macchina della virtù”). Questo
metodo, sulla base di una legge morale posta
da Dio, innata nella nostra anima
e presente alla coscienza, pare aver lo scopo
di accompagnare (o forse persino di
superare) i Dieci Comandamenti biblici nell’indicazione
di una strada “moderna”
alla la santità, sottratta alle incertezze
individuali sia della volontà, sia
dell’emozione e sia dell’arbitrio interpretativo.
Rimane tuttavia da chiedersi
come Kant possa pensare ad un agire «conforme
oggettivamente alla legge morale
» che possa prescindere e dalla soggettività
e dal contesto. È evidente che
siamo di fronte non solo a una sopravalutazione
di un razionalismo oggettivante
che si pretende capace di misurare esattamente
il bene e il male, ma anche
dell’idea utopica di “regole universali”
su base innatistica; cosa del tutto indimostrabile
e fortemente opinabile. E tuttavia il Nostro
è convinto che ci si possa
sbarazzare dell’arbitrarietà individuale
radicando nei nostri cuori un nuovo
tipo di libertà tutta interiore e meta-sensibile,
conseguendo: «la libertà
interna di sbarazzarsi dall’importunità violenta
delle inclinazioni, in modo
che nessuna affatto, neanche quella che ci
è più cara, abbia influsso su una
risoluzione, per cui ci dobbiamo ora servire
della nostra ragione.» [231]
. Sia quell’Illuminismo che sostiene e promuove
una rivalutazione della
passionalità e sia quell’incipiente Romanticismo
che intende cavalcare le
passioni verso le sublimi vette dello spirito,
sono cassati da Kant. Contro la
spontaneità e l’arbitrio morale egli auspica
una libertà che scelga un vincolo
e accetti di sottostare ad una “obbligazione”,
scegliendo di ubbidire in nome di
quella libertà alla quale per ciò stesso
rinuncia: «E così la legge del dovere,
mediante il valore positivo che l’osservanza
di essa ci fa sentire, trova un
accesso più facile mediante il rispetto per
noi stessi alla coscienza della
nostra libertà.» [232]
L’incipit della Conclusione della Critica
della ragion pratica è troppo famoso per ripeterlo qui: cielo
stellato e
legge morale sono i due estremi della Creazione
divina cui guarda l’uomo
kantiano. Un modello antropico che resiste,
inossidabile al tempo, e che si
rinnova sia in termini laici che religiosi
ogni volta che l’umanità attraversa
momenti di sbandamento morale e di crisi
delle coscienze. Poiché tutto si può
dire di Kant ma non si può fare a meno di
riconoscergli la capacità di
sistematizzare la struttura dell’uomo in
funzione di un fine che vede la razionalità
come mezzo e la virtù come fine. Un modello
chiaramente teologico, ma che in
qualche modo rispetto alla teologia tradizionale
e istituzionalizzata si pone
come alternativo. Detto questo, resta il
fatto che l’istanza religiosa è al
vertice delle preoccupazioni e delle occupazioni
di Kant, e sarebbe bene che
molti esegeti, un poco distratti, che vedono
in lui la quintessenza
dell’Illuminismo, se ne ricordassero più
spesso nelle loro interpretazioni. Ed
è proprio in connessione con la gnoseologia
esposta nella Ragion pura,
ma soprattutto con l’etica specificamente
religiosa della Ragion pratica
(oltre alla fede in senso stretto che pervade
tutta l’opera kantiana) che nasce
il notevole contributo del Nostro all’estetica
del Settecento, costituendo
parte importante della Critica del giudizio, della quale ci siamo
occupati al § 3.3.
La tesi
lockiana del binomio bene-male, come corrispondente
di quello piacere-dolore,
trova in Kant la sua negazione nell’orizzonte
del “dovere” radicale. La
sensibilità dell’analisi, del discernimento
e della scelta morale si annullano
in lui con l’universalizzazione antropologica
della legge morale. Essa,
prescindendo dall’individualità, dalle condizioni,
dalle situazioni, dai
contesti, assolutizza uno dei concetti più
relativi che esistano,
riprecipitando l’etica in un’accezione meramente
religiosa. D’altra parte, lo
abbiamo già rilevato, Kant è eminentemente
teologo, c l’insieme delle sue
ultime riflessioni, raccolte nell’Opus postumum, ne sono ulteriore conferma.
In esse, tra l’altro, egli riconsidera la
sua Filosofia trascendentale
mettendola a confronto con ciò che definisce
l’”idealismo trascendentale” di
Spinoza, che ritiene un estremista («Il concetto
spinoziano di Dio e dell’uomo,
secondo cui il filosofo vede tutte le cose
in Dio, è fanatico.» [233] ). Ed
è proprio di questo periodo, in cui il Nostro
tira le somme del suo lungo
lavoro speculativo, la lapidaria asserzione:
«Religione, la faccenda suprema
dell’uomo.» [234].
È molto strano, ed anche piuttosto
ipocrita, che nella nostra cultura storiografica
(che rimane perlopiù
idealistica) si enfatizzi il peso di un’opera
con la Critica della ragion
pura e non si comprenda che essa è soltanto un
“passaggio” necessario ad
opere come la Critica della ragion pratica, la Metafisica dei costumi
e La religione entro i limiti della sola ragione. Tutto il pensiero di
Kant è infatti eminentemente e fondamentalmente
religioso e non cogliere ciò
significa certamente fraintenderlo, ma soprattutto
tradirlo. Opera fondamentale
La religione entro i limiti della sola ragione, pubblicata
nel 1793, è la conclusione di un lungo percorso
speculativo costantemente
illuminato e guidato dalla luce della fede,
quindi testo basilare per
comprendere non solo il Kant nominalmente
ragionatore, ma il Kant più vero: il “ragionatore
per la fede”. Il Capitolo Primo si occupa
del problema del male [235]
e ci permette di entrare nel tema religioso
posto da ciò che per antonomasia ne
è negazione. La tendenza al male della natura
umana, come conseguenza del
Peccato Originale, è assioma troppo noto
per soffermarcisi, così profondamente
radicato nella cultura occidentale, almeno
a tutta la prima metà del Settecento
da essere assunto persino da pensatori che
religiosi non sono. Il Nostro,
relativamente a questa naturale “tendenza
al male” dell’uomo, individua tre
gradi di essa: 1. la fragilità della matura
umana, 2. l’impurità del cuore
umano e 3. la malvagità e la corruzione.
[236] Nessun dubbio sulla realtà di un male non
solo reale ma metafisico: « Che una tale
tendenza depravata sia di necessità
radicata nell’uomo, possiamo risparmiarci
di dimostrarlo formalmente, data la
quantità di esempi palpitanti che, nei fatti degli uomini, l’esperienza
ci pone sotto gli occhi. » [237]
I gradi 1. e 2. della malvagità sono innati
mentre il 3. è doloso e volontario [238].
E tuttavia Kant ritiene sbagliato pensare
che la tendenza al male sia nel suo complesso
da ritenersi ereditaria e quindi
ineluttabile; l’uomo è infatti sempre libero
di fare o non fare. Concordemente
con la lettera biblica il Nostro ritiene
che il male nell’uomo abbia origine
dal peccato come trasgressione del precetto
divino. Ma, in quanto il peccato
presuppone un precedente stato di “innocenza”
dei nostri progenitori, il male
ha un «cominciamento nel tempo» [239],
e ciò presuppone anche uno “spirito tentatore”
quale agente di corruzione [240]. E perciò sottolinea con forza Kant:
Poiché, malgrado questa caduta, risuona tuttavia
con forza
non attenuata nella nostra anima il comando:
« noi dobbiamo diventare migliori
»; conseguentemente noi siamo di necessità
anche in condizione di poter
diventare migliori, anche se ciò che possiamo
fare dovesse essere, di per sé
solo, insufficiente e perciò dovesse soltanto
renderci atti a ricevere un
soccorso superiore, per noi
inesplicabile. [241]
Dopo aver dichiarato che « di
necessità » noi possiamo diventare migliori,
egli intravede questa possibilità
nel nostro poter ricorrere all’aiuto divino;
quest’aiuto ci consente e di
recuperare «un perduto movente al bene » e di restaurare «la purezza
della legge ».
Con tali premesse il Capitolo Secondo si
pone il problema della “lotta” tra il bene
e il male e, dopo un’introduzione
che cita la dottrina stoica del male come
negligenza e un riferimento
alla Efesini di San Paolo, dove (6, 11) si parla del
« nemico invisibile
» e « cattivo spirito» che ci induce al male, Kant afferma (§
1, A):
La sola cosa che possa rendere un mondo oggetto
del decreto
divino e fine della creazione è l’umanità (l’essere terrestre
ragionevole in generale) in tutta la sua perfezione morale, da cui
consegue immediatamente, nella volontà dell’essere
sommo, la felicità, come
dalla sua condizione suprema. Quest’uomo,
il solo gradevole a Dio, « è in Dio
da tutta l’eternità » [Giovanni, I, 1]; la sua idea deriva dall’essere
di Dio; non è, in quanto tale, una cosa creata,
ma il Figlio unigenito, «il Verbo
(il fiat), per mezzo del quale tutte le altre cose
sono, e senza del
quale non è stato fatto nulla in quanto esiste
» (poiché per causa sua, cioè
per causa dell’essere razionale nel mondo
– così come si può pensarlo, secondo
la sua destinazione morale - tutte le cose
sono state fatte. «È il riflesso
della sua gloria [Ebrei, I, 3] ».
«In lui ha amato il mondo », ed in lui solamente,
e per l’adozione delle
sue intenzioni, noi possiamo avere la speranza
«ridiventare figli di Dio »
[Giovanni, I, 12].
Elevarci a questo
ideale della perfezione morale, cioè al modello
dell’intenzione morale in tutta
la sua purezza, è dovere umano universale,
per il cui compimento possiamo
ricevere la forza necessaria appunto da questa
idea, che ci è suggerita dalla
ragione a guida dei nostri sforzi. [242]
s
Il passo è di estrema
complessità teologica e richiederebbe un
commento specifico che risparmiamo al
lettore. Ci limiteremo ad osservare come
venga qui sviluppato un tema lasciato
sullo sfondo sia della Critica della ragion pura e sia della Critica
della ragion pratica, evidenziandone a posteriori una certa ambiguità
nel loro
tentativo di conferire un carattere laico
a una razionalità e ad un senso morale
che solo in riferimento alla fede cristiana
acquistano senso compiuto. Va
peraltro aggiunto che il concetto di perfezione morale trova la sua
origine nel concetto paolino di uomo spirituale e che implica la
contrapposizione all’uomo peccatore, che qui Kant considera condizione
“di partenza” per un processo di ascesi alla
moralità assoluta. D’altra parte
subito dopo ci è precisato che l’idea di
questa perfezione non nasca in noi
autonomamente ma «si può più precisamente
dire che quel modello è sceso
a noi dal cielo» e ciò è avvenuto grazie
al sacrificio del Figlio, che con la kenosi
si è abbassato al nostro livello per consentirci
la risalita a livello
pre-Peccato Originale, ovvero allo stato
di innocenza originaria, propria
dell’uomo prima della disubbidienza alla
legge divina. Ma questo processo di
ascesi alla perfezione morale è anche “razionale”,
ed infatti «
ci è suggerita dalla ragione a guida dei
nostri sforzi », come “ragion pratica”
dove l’esercizio della ragione si coniuga
intimamente con la fede.
Quella saldatura assoluta tra fede e ragione
che Kant nelle Critiche
aveva evitato per questioni di forma, trova
qui il suo esito “di contenuto” nel
senso che la fede cristiana è per Kant fede
razionale a partire da una corretta
interpretazione delle Sacre Scritture, nello
specifico del Nuovo Testamento ed
ancor più nel dettaglio delle Lettere paoline.
A base di questa ascesi alla perfezione
morale sta il concetto di conversione morale [243],
ovvero l’abbandono dello stato di peccaminosità
verso quello di santità,
poiché: « Convertirsi è infatti uscire dal
male ed entrare nel bene, spogliarsi
del vecchio uomo e rivestirsi dell’uomo nuovo
» [244]
secondo un classico topos paolino (cfr.: Efesini, IV, 22, 24; Colossesi,
III, 9, segg.). Ma questo conversione è anche
un “dovuto” per realizzare
compiutamente un’umanità come sinonimo di santità in quanto
auto-liberazione dal male. Operazione peraltro
“razionale”, ma che trova il
proprio fondamento nelle Scritture: « Del
resto, uno sforzo – come quello
contemporaneo – di scoprire, nella Scrittura, quel senso che sia in
armonia con quanto di più santo insegna la ragione, non solo bisogna
ritenerlo come permesso, ma piuttosto come
un dovere » [245]. Si
vede bene come, secondo Kant, un uso corretto
della ragione diventa “via alla
santità” (alla moralità) soltanto se sa appoggiarsi
alla lettera della
Scrittura; anzi, la razionalità stessa è
tale “solo” se si appoggia alla
Scrittura. Infatti, lo sforzo “contemporaneo”
(che sta qui per “mio”) di
scoprire l’armonizzazione tra ragione e fede
è ciò che il Nostro persegue da
sempre e che troppi ermeneuti distratti lasciano
in secondo piano. E ciò perché
essi concentrano l’attenzione solo sul Kant
ragionatore senza metterlo in
relazione al Kant teologo; ed è come tale
che egli parla nella maggior parte delle
sue pagine, ed è per questo che a dispetto
delle apparenze il concetto di fenomeno
ha senso unicamente in rapporto a quello
di noumeno.
La fede deve costituirsi come “religione
morale” affinché questa nuova «disposizione
del cuore a rispettare tutti i
doveri umani come precetti divini» faccia
sì che tali doveri « rendano
finalmente superflua la credenza stessa nei
miracoli in generale.» [246] E riprendendo
un vecchio tema idealistico-stoico Kant è
convinto che (Capitolo Terzo) siano
le “passioni” a rendere difficile l’ascesa
alla moralità [247]. Non
è sufficiente che i singoli uomini operino
in tale senso e neppure l’esistenza
di una comunità etica realizza di per se stessa il Regno di Dio:
ci
vuole lo Stato Etico. Di questo, a differenza
di quanto aveva teorizzato Hobbes
nel Leviatano, si dice: «Uno
stato etico-civile è quello in cui gli uomini sono riuniti
sotto leggi
prive di costrizioni, cioè sono semplici
leggi della virtù.» [248]. Le leggi
della virtù secondo Kant, hanno cogenza non nella costrizione
legale
civile, ma nella “decisione” di scegliere
il bene in osservanza dell’imperativo
categorico [249]
della legge morale. Solo un Chiesa, infatti, si può costituire come Stato
morale (si ricordi ancora Hobbes), e:
L’idea sublime – ma mai attuata completamente
– di una
comunità morale, si rimpicciolisce tanto
nelle mani dell’uomo, da ridursi
infine a un’istituzione, che, pur potendo
rappresentare con purezza, al
massimo, solo la forma di tale idea, è invece
– per quanto riguarda i mezzi
atti a costituire un Tutto di questo genere
– molto limitata, essendo
subordinata alle condizioni della natura
umana sensibile. Ma come si può
sperare di trar fuori da un legno così nodoso
qualcosa di completamente
diritto? [250]
La difficoltà sta nel fatto che
la realizzazione di quest’Uno-Tutto santo
(lo Stato Morale) è resa difficile
dalla natura “sensibile“ dell’uomo, ovvero
dai sensi, che lo trascinano
verso il male. In altre parole, “da solo”, per l’uomo
è quasi
impossibile accedere al bene. Solo con l’intervento diretto di Dio ciò diventa possibile:
Fondare un popolo morale di Dio è dunque
un’opera la cui
esecuzione può esser attesa non dagli uomini,
ma solo da Dio stesso. Ma non
perciò è permesso all’uomo di restare inattivo
rispetto a quest’impresa e di lasciar
fare alla Providenza […] Il voto di tutti
gli uomini di buona intenzione è
dunque: «Che venga il regno di Dio e la sua
volontà sia fatta sulla terra » [251]
Solo Dio può realizzare l’opera,
ma l’uomo deve collaborare, conformemente
all’intimo voto (che è anche sincera
intenzione) affinché si realizzi in terra
sia la volontà divina e sia il Regno
del Bene attraverso la costituzione della
Chiesa “morale”. E ciò in due fasi,
una ideale e una pratica:
Una comunità etica con legislazione morale
divina è una chiesa,
che in quanto non è un oggetto dell’esperienza
possibile, si chiama chiesa
invisibile (semplice idea della riunione di tutti i
giusti sotto
l’immediato, ma morale governo universale
divino, che serve da modello ad ogni
altro governo fondato dagli uomini. La chiesa
visibile è la riunione effettiva
degli uomini in un Tutto che concorda con
quello ideale. [252]
Se il modello statuale
Uno-Tutto di Hobbes era per la realizzazione
sulla terra di un Regno Divino
dove il potere civile sussumeva quello religioso
possedendo sovranità
temporale, nel modello di Kant è questo che sussume
quello determinando una
sovranità sacrale [253].
Entrambi sono modelli rigorosamente razionalistici
e motivati dai contenuti
delle Scritture, ma quello hobbesiano si
basa sul “potere”, mentre quello
kantiano si fonda sulla “virtù”. Il primo
richiede la “forza”, ed ha quindi
carattere coercitivo, ma il secondo, che
fa appello alla “buona volontà”, come
può realizzarsi? Vediamolo:
La chiesa visibile è la riunione effettiva degli
uomini in un Tutto che concorda con questo
ideale. In quanto ogni Società retta
da leggi pubbliche comporta una subordinazione
dei suoi membri (cioè di coloro
che obbediscono alle leggi di questa Società,
a coloro che vegliano
all’osservazione di tali leggi) la moltitudine
riunita in questo tutto (che è
la chiesa) forma la comunità, sottomessa a dei capi (chiamati dottori
o
pastori di anime), i quali unicamente amministrano
gli affari del capo supremo
ed invisibile della chiesa e che, sotto questo
rapporto, si chiamano tutti
servitori della chiesa; come nella comunità
politica il capo visibile del
potere chiama talvolta se stesso primo servo
dello stato, sebbene non riconosca
al di sopra di sé nessun uomo (e nemmeno,
di solito, lo stesso intero popolo). [254]
La sottomissione dei membri
della comunità ai “capi” è la stessa di ogni
sistema gerarchico, ma i capi della chiesa kantiana amministrano
esclusivamente « gli affari del capo supremo
ed invisibile» ed è così esclusa
ogni commistione tra il potere temporale
e quello sacrale. E tuttavia, abbiamo
letto sopra che il « morale
governo universale divino, che serve da modello
ad ogni altro governo fondato
dagli uomini » rappresenta il modello inderogabile
di ogni comunità virtuosa. Quindi
il potere temporale “deve” guardare alla
chiesa visibile (realizzata)
come “regno del bene” se non vuole correre
il rischio di diventare “regno del
male”. La chiesa morale realizzata compiutamente
(visibile) è anche
“vera”, nella misura in cui trova i propri
fondamenti nella suprema Verità
delle Sacre Scritture, poiché: « La vera
chiesa (visibile) è quella che
rappresenta il regno (morale) di Dio sulla
terra, in quanto esso possa essere
costituito mediante gli uomini.» [255]
Questa chiesa avrà requisiti e contrassegni
del suo essere “divina” e del suo essere
“razionale” attraverso la fusione
delle quattro categorie sacrali con le quattro
categorie logiche stabilite
nella Critica della ragion pura (Logica trascendentale, Analitica
dei concetti, Sezione III, §10). Ed allora:
I
requisiti e conseguentemente, anche i contrassegni
della vera Chiesa sono i
seguenti:
1° L’universalità
[una], di conseguenza la sua unità numerica,
per cui è necessario
ch’essa, sebbene sia discorde e disunita
in opinioni contingenti, abbia
tuttavia la disposizione […] all’unione generale
in una sola chiesa.
2°Il carattere (qualità): cioè la purezza, l’unione
sotto nessun altro movente fuor di quelli
morali [sancta] […]
3° La relazione sotto il principio della libertà:
tanto quella interna dei suoi membri fra
di loro [catholica], quanto
quella esterna della chiesa con il potere
politico […]
4° La sua modalità [apostolica], cioè l’immutabilità
secondo la sua costituzione […] [256]
Le quattro categorie sacrali (una,
sancta, catholica, apostolica) vengono così ad identificarsi
con le quattro categorie logiche (quantità, qualità, relazione,
modalità) [257], ma
questa comunità non può essere quella della
Chiesa Cattolica (papa + vescovi)
che è monarchico/aristocratica, bensì «una
società domestica (famiglia)
governata da un Padre morale, comune, sebbene
invisibile, in quanto è
rappresentata dal suo Santo Figlio […] ».
Questa paternità morale è invisibile
in quanto spirituale, e realizza perfettamente
il sogno paolino di una chiesa
costituita dall’“uomo spirituale” come un’unità-totalità
di “parti” (i suoi
membri). Ma questa Chiesa Universale (una) è anche la razionalizzazione
del divino, poiché: « § 5. La fede religiosa pura è veramente quella che
sola può fondare una chiesa universale, perché
è una semplice fede della
ragione » [258]
Ora, qualsiasi fede ecclesiastica (come religione cultuale) non
può essere un’“aggiunta” a questa fede religiosa pura di base, come la Tradizione
religiosa ha offerto in passato. Essa deve
riferirsi alla Scrittura, poiché
solo questa, in quanto “rivelata” direttamente
da Dio, può porsi come « oggetto
d’alta venerazione per i contemporanei e
per le generazioni successive »,
sicché solo così gli uomini posso convincersi
della necessità «dei loro doveri
cultuali.» [259]
Ma se la realizzazione del Regno di Dio è
possibile per mezzo di una coniugazione di
fede e ragione, rimane tuttavia il mistero
della fede stessa e della sua rivelazione,
e l’accettazione di questo mistero
non può essere collettiva, bensì individuale.
Perciò:
Il mistero, come qualcosa di santo, bisogna che sia un
oggetto morale, perciò un oggetto della ragione,
e che possa esser conosciuto
interiormente, in modo sufficiente per l’uso
pratico; ma come qualcosa di misterioso,
non può esser conosciuto per l’uso teoretico,
poiché in tal caso bisognerebbe
che fosse anche comunicabile a tutti, e quindi
potesse essere professato
esteriormente e pubblicamente. [260]
Di ciò che è mistero non
si dà culto, ma solo « fede divinamente ispirata » o « pura fede
razionale » e la realizzazione della “ragion pratica”
sì dà appunto nella
consapevolezza razionale che Dio è:
1° creatore onnipotente del cielo e della
terra, cioè
moralmente come legislatore santo; 2° in Lui come conservatore,
reggitore benevolo e sostenitore morale del genere umano; in
Lui come
amministratore delle sue proprie leggi sante,
cioè giusto giudice. [261]
La fede nella santità, benevolenza
e giustizia di Dio mette tra parentesi l’atteggiamento
intimo nei
confronti del mistero della fede, perché:
Questa fede non racchiude veramente alcun
mistero, perché
esprime solo il contegno morale di Dio verso
il genere umano; essa si offre
anzi da se stessa a qualsiasi ragione umana,
e perciò si incontra nella
religione della maggior parte dei popoli
civili [ovvero “cristiani”] [262]
Come si vede abbiamo qui la
saldatura tra La religione entro i limiti della ragione e la Critica
della ragion pratica nel fatto che, una volta compresa razionalmente
la
“morale di Dio” e riconosciuta la sua presenza
“in noi” il “ragionare” e il
“sentire” diventano la stessa cosa in termini
di fede.
Nel Capitolo Quarto Kant intende dimostrare
che la fede cristiana non è solamente “razionale”,
ma anche “naturale”, e ciò
proprio in virtù del fatto che essa è “morale”
e che la moralità coincide con la
“naturalità” precedente il peccato. Diventa
chiaro perché Kant fosse stato
profondamente colpito dalla tesi di Rousseau
relativa al legame fondamentale
tra naturalità e bontà, e come fosse d’accordo
con lui che l’abbandono dallo
stato naturale avesse condotto alla perversione
del genere umano. Ma ciò che
interessa a Kant è l’assunzione del Cristo
(in quanto Lógos) come la
“persona” garante della possibilità della
realizzazione della chiesa morale
e nello steso tempo come “maestro” nell’aver
indicato la via al Regno di Dio col
suo insegnamento testimoniato dai Vangeli
[263]. E
«Queste dottrine non possono evidentemente
essere altro che insegnamenti della
ragion pura, perché questi sono i soli che
si provano da se stessi e sui quali
principalmente è necessario fondare l’autenticità
di tutti gli altri.» [264] Le
parabole di Gesù sono viste come coincidenti
con i principi della ragion pura nella
determinazione della religione pura, cioè
morale, dove razionalità e moralità
vengono quindi a coincidere. Si comprende
allora come le due prime Critiche
(1781 e 1788) non siano altro che scritti
propedeutici alla Religione,
che segue (1793) di cinque anni la seconda.
E d’altra parte non solo l’intento
teologico in Kant è prevalente rispetto a
qualsiasi altro, ma lo stesso
concetto di Aufklärung è il lui teologico.
E ciò si evince anche, tra l’altro, da
una dichiarazione in una lettera a Stäudlin
del maggio 1793, dove si afferma: «
ho posto il punto principale dell’illuminismo
[…] principalmente in cose di
religione.» [265].
NOTE
[1] Già Voltaire (Lettere filosofiche, VII) aveva usato l’espressione “macchina da ragionamenti” a proposito di Clarke.
[2] G.Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Roma-Bari, Laterza 1984, pp.100-101
[3] Ivi, p.106.
[4] Ivi, pp.106-107.
[5] Ivi, p.107
[6] Ivi, p.137.
[7] Ivi, p.139.
[8] Ivi, pp.139-140
[9] Ivi, p.140.
[10] Ivi, p.141.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p.142.
[15] Ivi, p.143.
[16] Ibidem.
[17] D.Hume, Dialoghi sulla religione naturale, in: Opere, a cura di E.Lecaldano e E.Mistretta, Bari, Laterza 1971, p.807.
[18] Ivi, p.809
[19] Ivi, p.810.
[20] Ivi, p.759.
[21] Ivi, p.884.
[22] D.Hume, Trattato sulla natura umana, in: Opere, cit, p.6.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p.7.
[28] ivi, p.8.
[29] Ivi, p.13.
[30] Ivi, p.14.
[31] Ivi, p.19.
[32] Ivi, p.20
[33] Ivi, p.22.
[34] Ivi, pp.26-27.
[35] Ivi, p.28.
[36] Ivi, p.29.
[37] ivi, p.34.
[38] Ivi, p.36.
[39] Ivi, p.37.
[40] Ivi, p.46.
[41] Ivi, p.48.
[42] Ivi, p.51.
[43] A.Carlini, Introduzione al Trattato sulla natura umana, Laterza 1982, p.XIX.
[44] D.Hume, Trattato sulla natura umana, in: Opere, cit, pp.52-53.
[45] Ivi, p.57
[46] Ivi, p.65.
[47] Ivi, p.67.
[48] G.Berkekey, Trattato sui principi della conoscenza umana, cit., p.72
[49] Ivi, p.73.
[50] Ivi, p.74.
[51] D.Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p.73.
[52] Ivi, pp.82-83.
[53] Ivi, pp.88-89.
[54] Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, cit., p.75
[55] D.Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p.91.
[56] Ivi, p.91-92.
[57] Ivi, p.107
[58] Ivi, p.109.
[59] Ivi, p.128.
[60] Ibidem.
[61] Ibidem.
[62] Ivi, p.129.
[63] Ivi, p.154.
[64] Ivi, pp.185-186.
[65] Ivi, p.197.
[66] Ibidem.
[67] Ivi, pp.201-202.
[68] Ivi, p.206.
[69] Ivi, p.207.
[70] Ivi, p.220
[71] Ivi, p.231.
[72] Ivi, p.252.
[73] Ivi, p.262.
[74] Ivi, pp.424-425.
[75] Ivi, p.425.
[76] Ivi, pp.425-426.
[77] Ivi, p.429.
[78] Ivi, p.484.
[79] Ivi, p.503.
[80] Ivi, p.525.
[81] Ivi, p.528.
[82] Ivi, p.573.
[83] Ivi, p.623.
[84] Ivi, p.624.
[85] Ivi, p.654.
[86] D.Hume, Storia naturale della religione, in: Opere, cit, p.691.
[87] Ivi, p.696.
[88] Ivi, p.728.
[89] Ibidem.
[90] Ivi, pp.728-729.
[91] Ivi, p.729.
[92] Ivi, p.751.
[93] Ivi, p.752.
[94] Ibidem.
[95] Ibidem.
[96] D.Hume, Dialoghi sulla religione naturale, in: Opere,cit., pp.776-777
[97] Ivi, p.826.
[98] Ivi, p.827.
[99] Ibidem.
[100] Ibidem.
[101] Ivi, p.828.
[102] Ivi, p.828-829.
[103] Ivi, p.831.
[104] Ivi, pp.845-846.
[105] Ivi, p.848.
[106] Ivi, p.855.
[107] Ivi, pp.855-860.
[108] Ivi, p.862.
[109] Ivi, p.862-863.
[110] Ivi, p.864.
[111] Ivi, pp.864-865.
[112] Ivi, p.865.
[113] Ivi, p.866.
[114] Ivi, pp.868-869
[115] Ivi, p.872.
[116] I.Kant, Opus postumum,Roma-Bari, a cura di V.Mathieu, Laterza 1984, pp.191-240. .
[117] Ivi, p.149.
[118] Ibidem.
[119] I.Kant, Logica, a cura di L.Amoroso, Roma-Bari, Laterza 1984, p.10.
[120] Secondo Kant, Hume è un «geografo della ragione» che ha lasciato a metà il suo lavoro e il cui scetticismo si colloca perciò a mezza strada tra il dogmatismo e il criticismo.(Critica della ragion pratica, Dottrina trascendentale del metodo, Disciplina della ragion pura).
[121] Occorre però precisare che mentre Hume aveva delegittimato il conoscere, togliendogli validità. Kant lo rivaluta, ma “entro” i limiti del sensibile ed “entro” la modalità che la ragione dà a se stessa. Ne deriva che, in parte ritornando proprio a Hume, il conoscere è anche sempre un’autoconoscersi.
[122] F.Bazzani, L’incompiuto maestro, Metafisica e morale in Schopenhauer e Kant, Firenze, Clinamen 2002.
[123] Ivi, p.44.
[124] I.Kant, Critica della ragion pratica,a cura di F.Capra e V.Mathieu, Bari, Laterza 1974, p.58.
[125] Ivi, p.125.
[126] Ivi, p.21.
[127] Ivi, pp.20-21.
[128] Ivi, p.22.
[129] Ivi, p.23.
[130] Non a caso due logici post-kantiani come William Hamilton (1788-1856) prima (Discussions on Philosophy, 1852) ed Henry Mansel (1820-1871) poi (The Philosophy of the Conditioned, 1866) chiameranno Dio proprio l’Incondizionato.
[131] I.Kant, Critica della ragion pratica,cit., p.45.
[132] Ivi, p.58.
[133] Ivi, p.59.
[134] Ibidem.
[135] Ivi, p.61.
[136] Ivi, p.72.
[137] Ivi, p.79.
[138] Ivi, p.100.
[139] Ivi, pp.101-103.
[140] Ivi, pp.111-119.
[141] Ivi, p.168.
[142] Ivi, p.177.
[143] Ivi, p.214.
[144] Ivi, p.234.
[145] ivi, p.235.
[146] Ivi, p.251.
[147] Ivi, p.254.
[148] Ivi, p.255.
[149] Ivi, p.256
[150] Ivi, p.258.
[151] Ivi, p.262.
[152] Ibidem.
[153] Ivi, p.285.
[154] Ivi, p.103.
[155] Ivi, p.295.
[156] Ibidem.
[157] Ivi, p.461.
[158] Ivi, p.462
[159] Ibidem.
[160] Ivi, p.463.
[161] Ivi, p.464.
[162] Ivi, p.468.
[163] Ivi, p.469.
[164] Ivi, p.478
[165] Ivi, p.504.
[166] Ibidem.
[167] Ivi, p.507.
[168] Ivi, p.619.
[169] Ivi, p.622
[170] Ivi, p.624.
[171] Ivi, pp.624-625
[172] Ivi, p.626.
[173] Ivi, p.627
[174] Ibidem.
[175] I.Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di V.Mathieu, Milano, Rusconi 1982, p.103.
[176] Ivi, p.104.
[177] Ivi, p.105
[178] Ivi, p.106.
[179] Ivi, pp.110-111.
[180] Ivi, p.115.
[181] Ivi, p.126.
[182] Ibidem.
[183] Ivi, p.129
[184] Ivi, p.131.
[185] Ivi, p.136.
[186] Ibidem.
[187] Ibidem.
[188] Ivi, p.142.
[189] Ivi, p.143.
[190] I.Kant, Critica della ragion pratica,a cura di F.Capra e V.Mathieu, Bari, Laterza 1974, pp.3-4
[191] Ivi, p.23.
[192] Ivi, p.24.
[193] Ivi, pp.26-52
[194] Ivi, p.39
[195] Ivi, p.42
[196] Ivi, p.54
[197] Ivi, p.72.
[198] Ivi, p.78.
[199] Ivi, p.83
[200] Ivi, p.99.
[201] Ivi, p.100.
[202] Ivi, p.102.
[203] Ivi, p.104
[204] Ivi, p.105
[205] Ibidem.
[206] Ivi, p.106
[207] Ibidem.
[208] Ivu, pp.112-113.
[209] Ivi, p.113.
[210] Ivi, pp.113-114.
[211] Ivi, p.115.
[212] Ivi, pp.115-116.
[213] Ivi, p.116.
[214] Ibidem.
[215] Ibidem.
[216] Ivi, p.118.
[217] Ivi, p.119.
[218] Ivi, p.120.
[219] Ivi, p.148.
[220] Ivi, p.149.
[221] Ibidem
[222] Ivi, p.152.
[223] Ibidem.
[224] Ivi, p.158.
[225] Ibidem.
[226] Ivi, p.181.
[227] Ivi, p.185.
[228] Ibidem.
[229] Ivi, p.188.
[230] Ivi, p.190.
[231] Ivi, p.192.
[232] Ivi, pp.192-193.
[233] I.Kant, Opus postumum, Roma-Bari, a cura di V.Mathieu, Laterza 1984, p.345.
[234] Ivi, p.237. Ripete un’allocuzione inviata al consigliere Pott.
[235] I.Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, a cura di M.M.Olivetti, Roma-Bari, Laterza 1985, p.p.V-VI. Nel 1792 Kant aveva inviato al direttore della Berlinische Monatsschrift il saggio Sul male radicale nella natura umana quale prima parte de La religione.
[236] Ivi, p.29.
[237] Ivi, p.33. È molto interessante il fatto che Kant quali esempi di malvagità citi esclusivamente genti “selvagge” come i polinesiani e gli indiani d’America.
[238] Ivi, p.39.
[239] Ivi, p.45.
[240] Ivi, p.46.
[241] Ivi, p.48.
[242] Ivi, pp.6-63.
[243] Ivi, p.78.
[244] Ivi, p.79.
[245] Ivi, p.91.
[246] Ibidem.
[247] Ivi, p.99.
[248] Ivi, p.101.
[249] In un tardo manoscritto (Konvolut VII, 10, p.3) Kant così lo ridefinisce: «L’imperativo categorico è il pronunziato di una volontà morale e santa, che comanda assolutamente, e che al tempo stesso è onnipotente, e, senza bisogno di impulsi, e senza neppure permettere che sussistano, è indipendente, sì da congiungere in sé libertà e legge.» (I.Kant, Opus postumum,Roma-Bari, a cura di V.Mathieu, Laterza 1984, p.315)
[250] Ivi, p.107.
[251] Ivi, p.108.
[252] Ibidem.
[253] È
interessante notare come Kant, in una sua
tarda definizione di Dio del Konvolut
VI (5, 1), sia straordinariamente vicino
a Hobbes. Si dice infatti: «dio è un
essere che contiene nel suo concetto solo
diritti, e nessun dovere, il mondo è
il contrario. Persona è un esser che ha diritti,
e che ne è cosciente. Se ha
diritti e nessun dovere è Dio.» (I.Kant,
Opus postumum,cit., p.324)
[254] Ibidem.
[255] Ibidem.
[256] Ivi, pp.108-109.
[257] E.Kant, Critica della ragion pura, Bari, Laterza 1965, pp.118-119.
[258] Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, cit., p.110..
[259] Ivi, pp.114-115.
[260] Ivi, p.p.151-152.
[261] Ivi, p.154.
[262] Ibidem.
[263] Ivi, p.172-174.
[264] Ivi, p.174.
[265]
Ivi, Introduzione, p.V. Rif. Akademie-Ausgabe, I edizione.,
vol.VIII, p.41.