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Alcune
note per difendere le nostre liquidazioni (TFR/TFS)
e
riaprire la battaglia generale sulle pensioni
1.
Smascherare le falsità sulla
bancarotta annunciata della previdenza pubblica
L’argomento principe, usato da governo e sindacati
confederali e autonomi per convincere lavoratori e lavoratrici ad optare per i
fondi pensione finanziandoli con le proprie liquidazioni e quindi rinunziando ad
esse, è il seguente: la vita media si è allungata, il costo delle prestazioni
pensionistiche per gli enti previdenziali pubblici (INPS, INPDAP,…) si è
fatto insostenibile, i contributi versati non riescono a far fronte alla
crescita del numero dei pensionati che hanno preso la maledetta abitudine di
vivere molto più a lungo che in passato e stanno per superare quantitativamente
i lavoratori in attività; i deficit di INPS ed INPDAP sono incolmabili e tra
alcuni anni si rischia di non poter più pagare le pensioni; perciò bisogna
accontentarsi di pensioni pubbliche molto più basse di quelle attuali e, per
garantirsi una vecchiaia dignitosa, occorre costruirsi un’altra pensione (la
cosiddetta seconda gamba previdenziale), finanziata con le proprie liquidazioni.
In
realtà non è poi così scontato che INPS ed INPDAP siano in deficit, perché,
se andiamo a leggere gli ultimi dati disponibili forniti dai diretti
interessati, scopriamo che nel 2001 l’INPS ha chiuso con un avanzo economico
netto di 2645 miliardi di lire; l’INPDAP nel 2003 ha realizzato un avanzo di
copertura di 5,24 miliardi di euro.
Lor
signori forse obietteranno che nelle Finanziarie di fine anno si inseriscono
fondi di spesa per ripianare eventuali deficit degli enti previdenziali.
Noi
replichiamo osservando che comunque la situazione non è per nulla così
drammatica come si vuol far credere (avendo tra l’altro gli enti previdenziali
un patrimonio immobiliare e finanziario di riserva di tutto rispetto) e
soprattutto facendo presente che sono a carico dell’INPS tutta una serie di
spese per prestazioni (cassintegrazione, integrazione ai minimi
pensionistici,..) che sono assistenziali e che dovrebbero far parte della
fiscalità generale. Non abbiamo dimenticato che nel ’94 contro la
controriforma Berlusconi (in realtà l’anno successivo sostanzialmente
realizzata da Dini) uno dei cavalli di battaglia del sindacato, in linea di
principio condiviso da tutte le forze politiche, era la separazione della
previdenza dall’assistenza (quest’ultima sarebbe dovuta rientrare nelle
spese della fiscalità generale). Invece tutto questo è finito nel porto delle
nebbie.
Ma
soprattutto l’evasione contributiva (si parla di circa 20 miliardi di euro)
messa in pratica da parte delle aziende (recentemente su tutti i media è
circolata la notizia di fonte ufficiale che dalle migliaia di accertamenti
effettuati dagli ispettori del lavoro –il cui organico è nettamente
sottodimensionato alla bisogna e di cui invece occorre rivendicare un notevole
potenzionamento per poter meglio assolvere alle loro funzioni di difesa della
previdenza pubblica- sono emerse irregolarità contributive per il 75% delle
aziende) contribuisce a far vacillare i conti degli enti previdenziali.
Se
a ciò aggiungiamo le sempre più numerose decontribuzioni che vengono garantite
soprattutto per le nuove assunzioni più o meno precarie e la sciagurata parte
della legge delega del governo Berlusconi sulla previdenza già in atto dal 1°
gennaio –cioè quella che consente a coloro che hanno raggiunto l’età
pensionabile di restare al lavoro senza
versamento
di contributi che invece vengono accreditati direttamente in busta paga- allora
si comprende che c’è una chiara volontà politica da parte governativa,
accettata più o meno tacitamente dai sindacati e dall’”opposizione” di
centrosinistra, di progressivo indebitamento e tendenziale liquidazione degli
enti previdenziali pubblici.
Da
parte nostra non dobbiamo mai smettere di denunciare questa manovra e
contrapporre una posizione limpida; separazione tra assistenza e previdenza,
recupero dell’evasione contributiva, cancellazione di qualsiasi forma di
decontribuzione: questi devono essere i capisaldi alla base della nostra
battaglia per la difesa e il risanamento degli enti previdenziali pubblici.
2.
La filosofia dei fondi pensione
I
sindacati ci dicono che con la riforma Dini e l’introduzione, nel calcolo
della pensione, del contributivo (totale per i nuovi assunti dal 1/1/’96,
parziale per quelli che al 31/12/’95 avevano meno di 18 anni di contributi),
le pensioni del futuro, quindi soprattutto quelle dei neoassunti, saranno pari
al 40/50% di quelle attuali.
CGIL-CISL-UIL
dicono la verità, solo che dimenticano di dire che la riforma Dini fu da loro
sostenuta e appoggiata come il male minore che poteva salvare il sistema
pensionistico; inoltre fingono di non ricordare che il sistema contributivo (tu
avrai una pensione calcolata rigidamente sui contributi versati) spezza il patto
generazionale insito nel sistema retributivo (o a ripartizione, secondo il quale
la pensione viene calcolata sulla media dello stipendio degli ultimi dieci anni,
o, per essere più precisi, il 50% sugli ultimi 10 e l’altro 50% sugli ultimi
5), per cui le pensioni dei padri venivano pagate con il lavoro dei figli e
alimenta l’individualismo (io mi faccio la mia pensione) e lo scontro
generazionale; infine dimenticano che il metodo contributivo non era affatto una
novità, ma esisteva già durante l’Italia fascista, fu cambiato nel
dopoguerra con il retributivo, dopo il tracollo dell’INPS.
Ed
è seguendo questo crinale che governo e CGIL-CISL-UIL ci vengono a proporre i
fondi pensione (istituiti dal primo governo Amato con il d.lgs. n. 124 del
21/4/’93, i primi fondi sono diventati operativi nel settore privato nella
seconda metà degli anni ’90); lo scopo è quello di tagliare la spesa sociale
e soprattutto vivacizzare l’asfittico mercato finanziario italiano.
I
fondi pensione costituiscono, particolarmente negli USA e in Gran Bretagna, il
cuore pulsante dei mercati finanziari arrivando a movimentare capitali per
diverse migliaia di miliardi di dollari.
Ma
i fondi pensione trovano il loro trampolino di lancio nell’’80 nel Cile di
Pinochet dominato dalla scuola ultraliberista dei Chicago boys: in quell’anno
due decreti spazzano via d’un colpo la previdenza pubblica e creano ex novo la
previdenza privata obbligatoria.
Teoricamente
i fondi pensione sono di due tipi: a prestazione definita o a contribuzione
definita. In realtà non esistono fondi pensione del primo tipo, nel senso che
nessuno può garantire ai clienti che a tot versamenti corrisponderà la
realizzazione di una tot somma; per cui i fondi in realtà sono tutti a
contribuzione definita, cioè sai quanto versi (e neanche tanto), ma non sai
quanto incasserai (altrimenti i fondi funzionerebbero come una pensione
pubblica).
I
fondi a contribuzione definita sono di due specie: fondi aperti gestiti da
finanziarie, banche,..; fondi chiusi o negoziali di categoria o aziendali,
cogestiti da sindacati e rappresentanti di organizzazioni padronali; infine
esistono già da tempo le vecchie polizze previdenziali individuali (PIP).
I
sindacati propagandano ovviamente i fondi chiusi, affermando che sono molto più
sicuri, con minori rischi d’investimento e più democratici di quelli aperti.
I
precedenti di Enron, dell’Alaska Carpenter Pension Fund (che addirittura aveva
investito in obbligazioni Parmalat), dell’italiana Comit,… con i loro
fallimenti hanno allertato i lavoratori futuri gonzi da pelare, che vanno quindi
in qualche modo rassicurati.
Ma
non si capisce per quale motivo i lavoratori dovrebbero fidarsi di chi non si è
opposto alle precedenti riforme previdenziali di Amato nel ‘92, Dini nel ‘95
e Prodi nel ‘97, di chi aveva promesso fuoco e fiamme contro la legge delega
sulle pensioni di Berlusconi e, una volta che questa è stata approvata (fine
luglio 2004), ha addirittura dimenticato di menzionarla nell’ultimo sciopero
generale del 30 novembre scorso, nonostante che essa, per la gran parte, entrerà
in vigore solo nel 2008 e ci sarebbe tutto il tempo necessario per cercare di
ribaltarla.
In
realtà, qualcuno lo dice sempre più apertamente, sta nascendo una sorta di
nuovo conflitto d’interesse che attanaglia i sindacati concertativi; infatti
che interesse avrebbero a difendere le pensioni pubbliche, mentre sono intenti a
sponsorizzare e a far lievitare l’adesione ai fondi chiusi? Anche un bambino
comprende come, precipitando le sorti della previdenza pubblica, salirebbero le
quotazioni della previdenza privata e dei fondi pensione (aperti o chiusi che
siano).
Ma,
nonostante vecchi dirigenti sindacali non certo barricaderi come Carniti (che
acconsentì al taglio di 4 punti della scala mobile operato da Craxi con il
decreto di San Valentino dell’’84) e Trentin (che firmò gli accordi del
luglio ’92 che cancellavano definitivamente la scala mobile, e quelli del
luglio ’93 che, ingabbiando la contrattazione e le dinamiche salariali,
sancivano la linea della concertazione), avessero dissentito da tale sciagurata
scelta, l’ossequio al libero mercato e al dominio della finanza ha portato
CGIL-CISL-UIL a farsi piazzisti dei fondi pensione.
E’
per questo che CGIL-CISL-UIL, insieme a Confindustria, Confcommercio e
Confservizi, hanno costituito, alla fine del 2003, l’Assofondipensione,
associazione dei fondi pensione negoziali, che ad oggi associa 18 fondi, con un
patrimonio di 4 miliardi di euro; presidente dell’associazione è il falco
della giunta esecutiva della Confindustria Alberto Bombassei, vicepresidente la
segretaria confederale della CGIL Morena Piccinini; scopo dell’associazione è
sviluppare la previdenza complementare basata sui fondi chiusi ed in proposito
porsi come interlocutore istituzionale nei confronti del governo.
I
lavoratori che imboccano la strada dei fondi pensione non solo rischiano di
andare incontro a profonde delusioni che potrebbero persino compromettere la
speranza di una vecchiaia dignitosa, ma addirittura vivrebbero in una dimensione
scissa, schizofrenica; infatti è forse paradossale, ma probabilmente molto
realistico, ipotizzare una situazione in cui lo stesso individuo è portato in
quanto lavoratore a battersi per la difesa del posto di lavoro, suo e dei propri
colleghi, in quanto risparmiatore invece deve tifare per un congruo numero di
licenziamenti (purchè non capiti a lui), perché molto spesso questa è una
condizione ottimale per aver successo in borsa.
In
tal modo il lavoratore non è più portatore di diritti che difende
collettivamente, ma un individuo atomizzato in feroce competizione con gli altri
per l’affermazione del suo egoistico interesse; il sindacato si trasforma
invece in un comitato finanziario d’affari che gestisce i soldi dei
lavoratori.
La
forza lavoro a vario titolo in attività nel nostro Paese è costituita da 22,5
milioni di individui, di cui 16,2 milioni lavoratori dipendenti e 6,3 autonomi;
tutti con la legittima aspettativa di percepire una pensione pubblica.
Rivoltando la frittata si può dire che sono tutti potenziali “clienti” dei
fondi pensione già esistenti e/o che si apprestano a nascere.
In
realtà a cominciare dal ’97 i fondi pensione chiusi, nati da accordi
sindacali tra le parti, hanno cominciato a diffondersi nel settore privato, ove
ne esistono 42 (da quelli legati alla singola azienda a quelli invece estesi ad
intere categorie). Come si finanziano? Prendiamo il caso del fondo più grande,
quello dei metalmeccanici, il Cometa.
C’è
una quota di almeno l’1,24% del salario trattenuta direttamente dalla busta
paga più un altro 1,2% che versa direttamente al fondo il datore di lavoro (si
badi bene che questa elargizione padronale vale solo per i lavoratori aderenti
al fondo). Ma ovviamente tali versamenti sono troppo leggeri per far decollare
il fondo, per cui si ricorre al TFR dei lavoratori, che ne versano il 40%, se
assunti entro il 27/04/’93, e l’intero importo, se assunti dopo il
28/04/’93. Queste sono quote fissate contrattualmente e possono essere
modificate solo da accordi successivi; l’unica cifra che può variare è la
quota versata direttamente dal lavoratore che può salire, poiché la
contrattazione ha già definito accordi in tal senso e altri potrà deciderne in
futuro; l’aumento delle quote da versare,
dopo che così è stato sancito dall’accordo collettivo, si applica
automaticamente e non può essere
rifiutato dal singolo lavoratore, a meno che non receda dalla sua iscrizione al
fondo; ma anche in tal caso c’è la trappola, perché il lavoratore non è
libero di abbandonare il fondo prima che siano passati cinque anni dal momento
della sua iscrizione.
Quindi
la cospicua massa finanziaria teoricamente disponibile, su cui governo,
Confindustria e sindacati vogliono allungare le mani per far decollare i fondi
pensione, è costituita dalle liquidazioni (TFR cioè Trattamento di Fine
Rapporto o TFS cioè Trattamento di Fine servizio, quest’ultimo per buona
parte dei dipendenti pubblici) dei lavoratori.
Il
TFR si calcola accantonando annualmente –lungo l’intero arco dell’attività
lavorativa- il 6,91% dello stipendio lordo annuale rivalutato dello 0,75% del
tasso d’inflazione ufficiale più un 1,5% fisso (esempio: con un tasso
d’inflazione al 3% il TFR viene rivalutato del 2,25% -equivalente allo 0,75%
dell’inflazione- + l’1,5% fisso, quindi del 3,75%).
Nessun
fondo pensione può garantire a priori rendimenti superiori a quelli del TFR, né,
per quanto oculatamente amministrato, può ritenersi del tutto fuori da crisi e
crack finanziari.
Al
contrario gli enti previdenziali pubblici garantiscono il pagamento del TFR
maturato anche in caso di fallimento e/o bancarotta aziendale.
Nel
2004 – lo afferma Luigi Scimia, presidente della Covip (Commissione di
vigilanza sui fondi pensione)- i fondi chiusi hanno dato risultati superiori
alla rivalutazione del TFR, ma, se andiamo a verificare il loro andamento
complessivo nei precedenti quattro anni, il risultato è nettamente favorevole
al TFR, risultato che diventa clamoroso, se paragoniamo, nello stesso periodo
preso in esame, il rendimento del fondo Cometa (il più grande fondo chiuso),
che si è apprezzato del 5,25%, a
quello del TFR, che si è rivalutato del 13,44%.
La
stessa dinamica generale su scala internazionale e sul lungo periodo (1921-1996)
dell’andamento dei fondi -che è l’unica che ci permetta di fare previsioni
di una qualche affidabilità- rivela che nel 50% dei 39 paesi analizzati si è
verificato un apprezzamento medio dei fondi dello 0,8%, in Italia è stato
vicino allo zero, in altri 17 paesi il tasso è stato addirittura negativo (dati
tratti da una ricerca dell’Università della California e di Yale).
Di
recente, per convincerci a mollare il nostro TFR, si fa un gran parlare nel
nostro Paese di gestione “prudenziale” dei fondi, in grado di garantire un
rendimento sicuro, comparabile a quello del TFR, o almeno del 2,5% annuo; una
simile garanzia sarebbe costituita dall’investimento, piuttosto che in azioni,
in obbligazioni (in inglese bond); in realtà le obbligazioni, spesso, vengono
emesse da aziende fortemente indebitate che non sono in grado di ottenere
crediti a tasso agevolato e le banche ritengono di guadagnare di più preferendo
incassare le commissioni ricavate dalla vendita delle obbligazioni piuttosto che
anticipare i soldi; il rischio di speculazione non è per nulla scongiurato; si
pensi ai casi di Cirio e Parmalat, che hanno emesso obbligazioni con il
benestare delle autorità di vigilanza finanziaria e borsistica e, quando c’è
stato il crack, hanno gettato sul lastrico migliaia di risparmiatori; ma sono
rischiose anche le obbligazioni emesse da stati, come quelle argentine e russe,
che negli anni scorsi non sono mai state rimborsate.
Intanto
però i fondi -che rappresentano una torta potenziale di 15 miliardi di euro da
spartirsi tra San Paolo Imi, Unicredito, Intesa, Arca, Generali,.. o potenti
assicurazionni come Mediolanum (di Berlusconi), Unipol (legata alla CGIL),
Cattolica assicurazione (legata alla CISL),.. che già attualmente sono in poole
position e che hanno i loro sponsor in tutto l’arco politico e sindacale- non
decollano.
Finora
a quelli esistenti nel settore privato hanno aderito meno del 14% dei potenziali
clienti, che costituiscono meno del 10% del totale dei lavoratori dipendenti;
non esistono ancora fondi pensione per i lavoratori autonomi; nel Pubblico
Impiego solo da poco è partito il fondo chiuso Espero per la scuola, si ritiene
che a breve partiranno anche negli altri comparti.
Perciò
gli esperti si affannano a dare assicurazioni circa la maggiore sicurezza che i
fondi pensione italiani offrono rispetto a quelli anglosassoni, ma poi sono
costretti ad ammettere sconsolatamente che “C’è una notevole incertezza
perché non è stato ancora definito un meccanismo in grado di replicare il TFR,
che offre un rendimento garantito e il consolidamento di quanto maturato ogni
anno di contribuzione” (così afferma Nadia Vavassori, responsabile Seconda
Pensione di Credit Agricole Am sgr., in un’intervista ad Affari Finanza
supplemento de “La Repubblica” del 14/02/2005).
Da
qui una duplice necessità: quella di dirottare più o meno subdolamente, con
un’apposita legislazione di sostegno, gran parte o tutto il TFR dei lavoratori
nei fondi pensione; quella di rendere meno appetibile, con una altrettanto
apposita legislazione deterrente, il mantenimento del TFR nelle mani dei
lavoratori.
Questo
spiega dal ’93 in poi i numerosi interventi legislativi e pattizi per
generalizzare i fondi pensione nel settore privato e tentare di estenderli al
settore pubblico, con provvedimenti di finanziamento alle imprese, detassazione
dei fondi pensione, tassazione vessatoria dei TFR (dal 2001 è stata introdotta
dal centrosinistra la tassazione dell’11% sulla rivalutazione del TFR, che il
governo Berlusconi si è ben guardato dal cancellare con la sua riduzione
fiscale tutta proiettata nei confronti dei ceti abbienti, dimenticando dal 2003
l’applicazione al TFR della no tax area).
Ma
neanche ciò riesce a far crescere vistosamente i fondi; le stesse aziende
lamentano perplessità, perché, con il dirottamento del TFR verso i fondi, si
vedrebbero sottratto uno strumento prezioso di liquidità nelle loro mani; gli
sgravi fiscali loro promessi dal governo in cambio dello smobilizzo dei fondi
non sono ritenuti adeguati e stentano a trovare la necessaria copertura
finanziaria.
E
questo disagio arriva a trasformarsi in dileggiante e realistica
“provocazione” nelle parole degli economisti Tito Boeri e Agar Brugiavini
-pubblicate su Lavoro.info e riprese con uun certo rilievo dal confindustriale
“Il Sole-24 Ore” del 27/01/2005- che scrivono: “Se in un’impresa solo
alcuni lavoratori chiedono lo smobilizzo del TFR, mentre gli altri trattengono i
fondi presso l’impresa, il rischio di licenziamento finisce per concentrarsi
sui primi. Infatti il datore di lavoro, chiamato a decidere quale lavoratore
mettere in esubero in caso di crisi aziendale, ha un forte incentivo a non
licenziare proprio quei lavoratori, cui dovrebbe, in caso di separazione,
liquidare il TFR”.
Né
infine va sottaciuto che i versamenti finanziari da parte dei padroni privati e
delle amministrazioni pubbliche per foraggiare i fondi pensione chiusi non sono
graziosi regali elargiti generosamente ai lavoratori, bensì sono stanziamenti
sottratti agli aumenti salariali contrattuali, alla spesa sociale e alle
pensioni pubbliche per tutti i lavoratori e la collettività.
Il
grimaldello utilizzato per far saltare resistenze, perplessità e la, seppur non
ancora pienamente esplicitata, opposizione dei lavoratori, è quello del
silenzio/assenso nel trasferimento del TFR dei lavoratori ai fondi pensione
contenuto nell’ultima controriforma delle pensioni di Berlusconi.
CGIL-CISL-UIL,
così come il centrosinistra, ritengono inevitabile e necessario un forte
ridimensionamento del sistema previdenziale pubblico, però, essendo consapevoli
dell’antipopolarità di tale scelta padronale e liberista, preferiscono
lasciarla fare a Berlusconi, senza disturbare più di tanto il manovratore.
In
più CGIL-CISL-UIL, perfettamente consapevoli dell’”ineluttabilità” delle
“magnifiche sorti e progressive” della previdenza
complementare, che va ad affiancarsi ed in linea tendenziale a sostituirsi a
quella pubblica, avevano già da tempo deciso di investire in questa direzione.
Da
qui, dopo un qualche traccheggiamento soprattutto cigiellino rispetto alla
troppo sputtanata proposta originaria del governo e della CISL circa
l’obbligatorietà del trasferimento delle liquidazioni (TFR) dei lavoratori
all’interno dei fondi pensione, i confederali e Maroni hanno convenuto insieme
sulla bella trovata del silenzio/assenso, completamente capovolta rispetto alla
precedente e consolidatissima prassi, per cui in futuro, se un lavoratore vorrà
mantenere il proprio TFR, quindi restare nella situazione attuale, dovrà fare
esplicite dichiarazioni al datore di lavoro e all’ente previdenziale di
riferimento (INPS, INPDAP,…).
Anche
uno sciocco, purchè correttamente informato,
comprenderebbe la portata dell’inganno e della truffa; si gioca sulla
disinformazione, sulla distrazione, sulla superficialità di tanti, per
trasferire comodamente milioni di liquidazioni nei fondi pensione.
In tal modo CGIL-CISL-UIL entrano direttamente in concorrenza
con finanziarie, assicurazioni, banche, per cercare di convogliare il TFR,
che costituisce parte del salario differito dei lavoratori, all’interno
dei fondi di categoria chiusi (da loro cogestiti con la parte datoriale),
piuttosto che in quelli aperti.
La
controriforma Berlusconi/Maroni sulle pensioni, L. 243/2004, è stata pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale il 6/10/2004, da quella data il governo ha un anno di
tempo per varare i decreti attuativi, in particolare quello che regola i fondi
pensioni e la loro stretta connessione, tramite il famigerato meccanismo del
silenzio/assenso, con il trasferimento ad essi del TFR; dal momento del suo
varo, i lavoratori avranno sei mesi di tempo per comunicare all’azienda e
all’ente previdenziale di appartenenza la loro indisponibilità ad aderire ai
fondi pensione, in caso di silenzio si troveranno scippato il proprio TFR, che
andrà a costituire la polpa dei fondi pensione.
Sono
stati già quantificati i finanziamenti per il decreto attuativo (20 milioni di
euro per il 2005; 200 milioni per il 2006; 500 milioni per il 2007), che, non
avendo trovato posto nella Finanziaria 2005, forse si pensa, da parte del
governo, di inserire nell’imminente decreto sulla competitività.
Il
governo ha rispetto ai fondi pensione una posizione sostanzialmente
“egualitaria”, tutti sullo stesso piano: fondi aperti, fondi chiusi, polizze
individuali.
In
gennaio Maroni, per accattivarsi le simpatie padronali, nella bozza di decreto
aveva anche inserito la proposta di far scegliere direttamente ai datori di
lavoro la destinazione del TFR del lavoratore che non avesse espressamente
optato per un fondo di riferimento; in realtà il suo tentativo ha sortito
l’effetto opposto, spingendo la Confindustria ad avvicinare sempre più le sue
posizioni a quelle del sindacato; ciò si spiega sia per la necessità padronale
di rafforzare i buoni rapporti recentemente ritrovati –pronuba la presidenza
di Montezemolo- con CGIL-CISL-UIL, sia con l’interesse che la parte datoriale
ha oggi (se proprio deve rinunciare ad utilizzare la liquidità del TFR dei
lavoratori) a privilegiare, tra i fondi, quelli chiusi, in cui si troverebbe,
sia pure in condominio con i sindacati, direttamente in cabina di regia.
Nonostante
stiano cercando di fare in fretta, non riescono però a far andare al posto
giusto tutte le tessere di questo ineffabile mosaico. Non sono sicuri che i
lavoratori ci cascheranno; non sono sicuri di rastrellare la massa finanziaria
sufficiente a far partire in grande stile l’operazione.
Ed
allora le sparano grosse; così il viceministro dell’economia Baldassarri (AN)
arriva a proporre, per rimpinguare i fondi, non solo l’utilizzo del TFR che il
lavoratore maturerà dal momento della sua adesione, ma addirittura l’intero
TFR già maturato nel corso di tutta la sua precedente attività lavorativa;
Maroni dal canto suo rilancia, suggerendo di dar maggior slancio ai fondi
finanziandoli con i soldi degli ammortizzatori sociali; sono delle boutades che
però indicano comunque la necessità di superare la soglia oltre la quale non
c’è più la certezza dei diritti, nemmeno quelli già acquisiti, dei
lavoratori.
O |
ggi
CGIL-CISL-UIL-UGL-CONFINDUSTRIA-CONFCOMMERCIO-CONFARTIGIANATO-CONFAPI
hanno ormai raggiunto l’accordo per un avviso comune
delle parti sociali sulla previdenza complementare, subito inviato al governo,
basato essenzialmente su questi punti (come si ricava dal documento redatto in
merito dall’Assofondipensione): a) rinvio alle parti sociali e quindi alla
contrattazione per quel che riguarda la gerarchia delle forme integrative cui
destinare il TFR, trasformando la non opzione del lavoratore “silente” in
adesione al fondo chiuso di categoria; b) detassazione sul rendimento dei fondi
chiusi e sulla loro portabilità (vale a dire eguali facilitazioni fiscali
garantite tramite contrattazione nel caso di passaggio da un fondo all’altro
in seguito al mutamento del posto di lavoro e della posizione previdenziale del
singolo lavoratore); c) compensazioni adeguate per i datori di lavoro secondo le
indicazioni contenute nella legge delega (facilitazioni creditizie soprattutto
per piccole e medie aziende, riduzione del costo del lavoro tramite la
fiscalizzazione degli oneri sociali e magari anche con nuove forme di
decontribuzione, eliminazione del contributo al fondo di garanzia del TFR presso
l’INPS); d) estensione della previdenza integrativa a tutti i dipendenti
pubblici.
L’avviso
comune costituisce un manifesto ideologico, di stampo neocorporativo, che segna
un punto di non ritorno nella miserabile commistione d’interessi che lega
datori di lavoro e sindacati confederali e (post)fascisti in una specie di lobby
“liberista”, che sottolinea la divaricazione stellare nel mondo del lavoro
tra rappresentati e rappresentanti, che potrebbe avere -se non gli si risponde
con adeguate e generalizzate iniziative di lotta- delle conseguenze materiali
devastanti sul futuro di milioni di lavoratori
Al
di là delle divergenze tra sindacati/padroni da un lato e governo dall’altro,
il tentativo comune è quello di arrivare al varo del decreto entro giugno, in
modo da smaltire entro la fine dell’anno (i famosi 6 mesi entro cui ci si deve
pronunciare) la pratica del silenzio/assenso e rilanciare alla grande con i
fondi chiusi all’inizio del 2006.
CGIL-CISL-UIL
e compagnia cantando non si pongono minimamente il problema
dell’antidemocraticità dell’attuale formulazione del silenzio/assenso,
sostengono che tale meccanismo è perfettamente legittimo e garantisce
ampiamente la facoltà di scelta dei lavoratori.
Costoro
dimenticano che, alcuni anni fa, la legge sulla donazione degli organi, aveva
originariamente stabilito che, in caso di silenzio da parte dell’interessato,
si procedesse, automaticamente, dopo la morte, all’espianto degli organi.
Allora bastarono alcuni opinionisti a sottolineare il pesante vizio
antidemocratico di quella legge incurante delle volontà dei singoli; ci fu un
dibattito a mezzo stampa e la legge fu cambiata, introducendo l’obbligo di
un’esplicita dichiarazione preventiva del singolo per procedere post mortem
all’espianto.
Noi
non possiamo assistere passivamente all’espianto delle nostre liquidazioni,
per cui dobbiamo far di tutto per far saltare questa formulazione truffaldina
del meccanismo del silenzio/assenso.
5.
La peculiarità del Pubblico Impiego e della scuola
Nel
Pubblico Impiego i fondi pensione sono ancora assenti, se si eccettua la recente
costituzione nel settore scuola di
Espero.
Le
liquidazioni dei lavoratori sono però calcolate in maniera diversa e con altri
strumenti.
I
dipendenti pubblici a tempo indeterminato assunti prima del 31/12/2000 sono a
regime TFS (Trattamento di Fine Servizio), quelli a tempo determinato assunti a
partire dal 30/5/2005 e quelli a tempo indeterminato assunti dopo il 31/12/2000
sono invece già adesso a regime TFR.
Si
sono sviluppate a partire dal ’95 una contrattazione ed una legislazione di
sostegno finalizzate ad armonizzare le regole fra settore pubblico e privato e a
creare le condizioni ottimali per la costituzione e lo sviluppo dei fondi
pensione.
La
Legge 335/’95, la L. 449/’97, la L. 448/’98, l’Accordo Quadro Nazionale
tra Aran e CGIL-CISL–UIL del luglio ’99, il DPCM del 20 dicembre ‘99
costituiscono alcune tra le principali fonti normative e pattizie che hanno
istituito il TFR per i nuovi assunti e consentono la possibilità di trasformare
il TFS in TFR solo se però contestualmente si aderisce ad un fondo pensione. Il
termine per quest’ultima opzione è stato via via spostato contrattualmente;
ora è stato fissato al 31/12/2005, ma nulla toglie che possa slittare ancora.
Per
i dipendenti pubblici il TFS equivale ai 13/12 dell’80% dell’ultimo
stipendio lordo (negli enti locali e nella sanità si calcola sull’80% della
media dell’ultimo anno di stipendio), vale a dire l’86,66% dell’ultimo
stipendio moltiplicato per gli anni di servizio (non solo quelli effettivamente
prestati, ma anche quelli riscattati). Il TFS non è salario differito (come il
TFR), bensì salario previdenziale istituito per legge, gode di un trattamento
fiscale più favorevole (solo il 40% del TFS è tassato) rispetto al TFR.
Ora
non è il caso di innescare una querelle infinita, tendente a dimostrare che il
TFS sia economicamente più conveniente del TFR, perché molto dipende dal trend
dell’inflazione.
Ma
per tutti i dipendenti a regime TFS conviene mantenere tale forma di
liquidazione, perché, qualora oggi optino per il TFR, automaticamente si
troverebbero in un fondo pensione (infatti non è possibile scegliere il TFR
senza aderire ad un fondo pensione).
Diverso
è il caso dei neoassunti, che oggi già sono a regime TFR; essi a tuttora non
sono vincolati ai fondi pensione, almeno finchè non scatterà il meccanismo del
silenzio/assenso.
Per
i “neoassunti” (a partire dal 30/5/2000 quelli a tempo determinato, dopo il
31/12/2000 quelli a tempo indeterminato) che scelgono di aderire ai fondi
pensione, automaticamente tutto il TFR maturando (il famoso 6,91% dello
stipendio) più l’1% dello stipendio, più l’1% versato
dall’amministrazione di appartenenza confluiscono nel fondo di riferimento; in
più l’amministrazione pubblica aggiunge un versamento/bonus dell’1% per un
anno se l’adesione avviene entro il primo anno di operatività del fondo, o
dello 0,5% sempre per un anno se l’adesione avviene entro il secondo anno di
vita.
Per
gli assunti a tempo indeterminato entro il 31/12/2000 che scelgono la previdenza
complementare, la quota che confluisce nei fondi pensione è costituita da un
versamento dell’1% dello stipendio, a cui si somma il versamento di eguale
entità dell’amministrazione di appartenenza, a cui vanno aggiunti il 2% dello
stipendio trattenuto dalla quota del TFR maturando e l’1,5% trattenuto dal TFS
precedentemente maturato, infine c’è da addizionare l’1% o lo 0,5% elargito
per un anno dall’amministrazione se l’adesione ai fondi avviene entro il
primo o il secondo anno di vita della loro operatività. Le quote da prelevare
sul TFR e versare ai fondi potrebbero variare in seguito a sopravvenuti accordi
in sede contrattuale. Al momento attuale non è ancora del tutto chiaro se,
all’atto dell’eventuale entrata in vigore del meccanismo del
silenzio/assenso, tutto il TFR maturando dei vecchi assunti passerà ai fondi
pensione.
Devono
ancora sciogliersi alcuni problemi di carattere giuridico per armonizzare la
disciplina del trasferimento del TFR ai fondi già nei fatti definita per il
settore privato con quella del settore pubblico. Se si applicasse subito la
stessa regola del silenzio/assenso del settore privato al settore pubblico ed in
particolare ai dipendenti in regime TFS, cosa ne sarebbe del TFS? Un conto è
dire da oggi che chi non dichiara nulla vede il suo TFR trasferirsi al fondo
pensione; ma chi invece ha il TFS e non dichiara nulla, come fa il TFS a
trasformarsi in TFR? E’ chiaro, specie dopo lo scempio del silenzio/assenso,
che lor signori la gabola tecnica sono in grado di trovarla, ma intanto devono
farlo.
Le
nostre indicazioni non possono che essere semplici e chiare: per chi è in
regime TFS mantenerselo stretto altrimenti si va a finire dritti nei fondi
pensione; anche per chi è in regime TFR –quei neoassunti verso cui più
martellante è la campagna della previdenza complementare- non optare per i
fondi, non farsi infinocchiare dalle mirabolanti promesse di un’altra pensione
che sostituisce la parte amputata a quella pubblica; perché nulla è certo,
anzi no, l’unica cosa certa è che si ritroveranno con una pensione pubblica
miserabile e senza TFR; in quanto poi alla pensione integrativa è stato
calcolato che, per arrivare a 900 euro mensili, occorre, a inflazione ferma,
versare qualcosa come 5.000 euro all’anno e con gli stipendi e i salari
attuali per i più giovani è come chieder loro la luna.
Intanto
con grande battage pubblicitario nelle scuole è diventato operativo il fondo
Espero sostenuto da CGIL-CISL-UIL-SNALS-GILDA-ANP (Associazione Nazionale
Presidi), tutte insieme appassionatamente, quando si tratta di lucrare sui soldi
dei lavoratori. Sono stati debitamente formati un migliaio di funzionari e
attivisti sindacali, trasformati in promoters finanziari in cerca di allocchi da
prendere all’amo nelle assemblee organizzate ad hoc dai sindacati di stato
(stavolta è proprio il caso di dirlo, tanto più che, per sponsorizzare i loro
fondi, hanno ottenuto una deroga dall’amministrazione che consente loro di
sforare il tetto di 10 ore annue di assemblea); mentre le segreterie delle
scuole sono state invase da 14 tonnellate di materiale cartaceo di propaganda (a
detta dei promoters medesimi).
Per
Espero valgono più o meno le stesse regole dei fondi del settore privato:
l’adesione è libera, come è libera la recessione… ma prima di cinque anni
d’iscrizione non puoi recedere; dopo otto anni di iscrizione puoi chiedere
l’anticipo di una parte di quanto maturato per sostenere spese importanti
(acquisto prima casa, particolari cure mediche,…) debitamente documentate; la
quota di adesione (una tantum) è di € 2,58; la quota associativa è fissata
annualmente dal consiglio di amministrazione e (bontà loro) non può superare
lo 0,12% della retribuzione annua. Per essere operativo il fondo deve
raggiungere almeno 30.000 adesioni e i piazzisti di fondi devono far presto per
evitare la tagliola del 31/12/2005, data ultima (però trattabile!) per il
passaggio dal TFS al TFR.
Nella
scuola sperimentano le probabilità di successo, per il settore pubblico, dei
fondi pensione; nella scuola abbiamo cominciato ad organizzare la resistenza per
ricongiungerci con la lotta che sta partendo nel settore privato ed estenderla a
tutto il pubblico impiego.
6.
Far saltare la truffa del silenzio/assenso e riaprire la partita generale sulle
pensioni
Dobbiamo
mettercela veramente tutta per far saltare il meccanismo del silenzio/assenso;
gli interessi coalizzati contro di noi sono potentissimi, ma abbiamo il dovere
politico di provarci fino in fondo per non farci scippare il TFR/TFS.
Nei
posti di lavoro il mugugno dei lavoratori su pensioni/liquidazioni cresce;
bisogna far leva sulla nefandezza del meccanismo del silenzio/assenso per
cercare di capovolgere in positvo le sorti delle prospettive generali del
sistema previdenziale pubblico.
Deve
apparire chiaro che l’operazione fondi pensione e il suo veicolo portante del
silenzio/assenso mirano alla definitiva distruzione della previdenza pubblica e
all’abbattimento di un sistema universalistico del welfare.
Per
difendere oggi, democratizzare e riqualificare socialmente in futuro il sistema
pensionistico pubblico occorre sconfiggere, con la mobilitazione la più
capillare possibile, i fondi pensione. Solo boicottandoli, mostrando la loro
insensatezza, insicurezza e inaffidabilità, la mancanza di convenienza
economica, denunciando il processo di desolidarizzazione individualistica e
qualunquistica che rischiano di innescare tra i lavoratori, si potrà creare nel
Paese un’inversione di tendenza che faccia avvertire a livello generale la
necessità di ritornare a puntare e a investire sulla previdenza pubblica.
Non
aspettiamo l’uscita del decreto sul silenzio/assenso per organizzare il puro e
semplice dissenso; è chiaro che anche questo, qualora sarà necessario, andrà
fatto, ma a suo tempo, soltanto dopo l’eventuale varo del decreto attuativo.
Adesso
costruiamo la discussione e prepariamo le mobilitazioni per imporre il ritiro o
la riformulazione del meccanismo
del silenzio/assenso (se voglio cedere il mio TFR al fondo pensione, lo devo
esplicitare direttamente attraverso una apposita dichiarazione).
Né
questa mobilitazione contro il silenzio/assenso è fine a se stessa (e comunque
se la spuntassimo, sarebbe proprio una gran bella vittoria), ma ci può
consentire di riaprire il discorso generale sulla controriforma pensionistica, i
cui punti essenziali –non scordiamoci mai di ripeterlo- entreranno in vigore
solo nel 2008.
Quindi
i giochi non sono già fatti; la rapina di liquidazioni e pensioni non è
inevitabile.
Possiamo
riaprire la partita nella chiarezza degli obiettivi da perseguire.
Dobbiamo
ribadire il nostro no a qualsiasi aumento dell’età pensionabile e ai 40 anni
di contribuzione per andare in pensione (35 anni di contributi sono già
troppi); così come anche le finestre per accedere alla pensione devono rimanere
4 all’anno.
Nel
contempo dobbiamo tendere a scardinare la controriforma Dini, che è il vero
architrave su cui si regge la demolizione della previdenza pubblica; per cui va
chiesto con forza il ripristino del sistema retributivo che è l’unica
garanzia per una pensione dignitosa e costituisce un importante collante
solidaristico tra i lavoratori vecchi e giovani.
Gli
eventuali deficit degli enti previdenziali vanno abbattuti con la separazione
tra previdenza e assistenza; recuperando l’ingente evasione contributiva;
cancellando tutte le forme di decontribuzione che ormai stanno divenendo la
norma nei nuovi contratti di assunzione o di trattenimento al lavoro per chi già
dovrebbe essere in pensione.
Va
rivendicata con forza l’applicazione di un meccanismo di contribuzione
figurativa per tutti quei lavoratori precari che non sono coperti nei periodi di
disoccupazione dalla contribuzione, tali contributi figurativi possono essere
finanziati con i fondi recuperati dall’evasione fiscale e con i contributi
dell’1% e i bonus vari che aziende e pubbliche amministrazioni così
“generosamente” oggi elargiscono per far lievitare i fondi pensione.
Dai
posti di lavoro ai territori, articolando mobilitazioni settoriali, categoriali
e nazionali, con la prospettiva di una eventuale e necessaria generalizzazione
della lotta, con l’auspicio della costruzione di un vasto fronte sociale e la
ricerca su questi obiettivi della massima unità con il sindacalismo di base e
conflittuale che non si concilia con la banda degli sponsor dei fondi e delle
speculazioni finanziarie, dosiamo bene le nostre forze, ma cerchiamo di
utilizzarle tutte quante con la necessaria coordinazione e fino in fondo.