IL SUPERMERCATO MONDIALE


 

Il mondo è troppo grande perché sia governato come una nazione!

Ma siamo proprio sicuri???

Pensiamoci un momento. Non facciamo in tempo ad alzarci al mattino che già entri in rapporto con gli operai dell’Indonesia che fabbricano le nostre scarpe sportive. Poco dopo, quando c mettiamo a tavola per fare colazione, entri in contatto con i contadini della Costa D’Avorio che hanno raccolto il cacao che beviamo. Ci sediamo al computer e magari il monitor è stato assemblato da operaie filippine.

Ma in realtà che sappiano delle condizioni di vita e di lavoro di questa gente!? Quanto guadagnano, quante ore lavorano, di che diritti godono!?

Una cosa la sappiamo di sicuro, vale a dire che siamo diventati consumatori di prodotti mondiali e siamo dominati da forze economiche che gestiscono l’economia a livello mondiale.

 

Cerchiamo di capire insieme chi sono e cosa fanno alcune delle più grandi multinazionali.

 

  • “CIQUITA” Chiquita Brands Internationl, Cincinnati, USA. Multinazionale di proprietà della American Financial Corporation, una grande finanziaria americana che fa capo a Carl Linder. E’ presente in 11 paesi. Fattura 6.350 miliardi delle vecchie lire e impiega 46.000 persone. Grande produttrice di frutta e verdura, è nota al mondo soprattutto per le banane di cui è la maggiore produttrice e venditrice. Due terzi delle banane commercializzate da Ciquita provengono dai 55.000 ettari di piantagioni che la compagnia possiede in Honduras, Panama, Colombia ecc.. La compagnia possiede anche centrali elettriche, tratti di ferrovie, e una flotta di otto navi-frigorifero cui se ne aggiungono altre 44 che gestiscono a vario titolo. Nel 1998, in Honduras, Ciquita ha chiuso quattro piantagioni e secondo il sindacato locale si è trattato di una scelta compiuta solo per indebolire il movimento dei lavoratori. Ciquita ha anche preteso che i braccianti licenziati abbandonassero le piantagioni nelle quali abitavano assieme alle loro famiglie da generazioni. Di fronte al rifiuto dei residenti a lasciare le loro abitazioni Ciquita fece intervenire la Polizia locale. Fu evitato uno spargimento di sangue solo per la disponibilità dei braccianti a scendere a compromesso. Inoltre qualche anno dopo, Ciquita fu denunciata per aver provocato la sterilità di migliaia di braccianti per l’uso di un vermicida, che negli Stati Uniti era proibito.

 

  • “DOLE” Dole Food co., Westlake Village, USA. E’ il più grande produttore e venditore al mondo di frutta e verdura fresca, dalle mele agli asparagi, dai fiori all’ananas, dalle pesche alle banane. Essa tuttavia è attiva anche in ambito turistico e edilizio, sia nelle Hawaii sia in California. Conduce affari in 70 paesi, fattura 5.402 miliardi di lire e impiega 45.000 persone. Oltre ai terreni che ammontano a 120.000 ettari, Dole possiede una flotta di 10 navi e ne gestisce a vario titolo altre 39. Oggi il suo principale azionista è David Murdock. Secondo la stampa filippina, Dole sfida sistematicamente le leggi ambientali e rende sempre più difficile la vita dei piccoli contadini per poi indurli ad affittare le loro terre.

 

  • “PHILIP MORRIS” Philip Morris Corporation, New York, USA. Vasto conglomerato presente in 46 paesi, fattura 107.456 miliardi di lire e impiega oltre 170.000 persone. Sorta a Londra e successivamente registrata a New York, Philip Morris che vende in 180 paesi, è la settima società degli Stati Uniti e la prima produttrice di sigarette nel mondo. Benché il 72% dei suoi profitti provenga dalle sigarette, il 56% delle entrate complessive, proviene dai prodotti alimentari. Da alcuni anni è nell’occhio del ciclone per l’aggressiva campagna planetaria di promozione delle sigarette per la quale spende ogni anno centinaia di milioni di dollari. Poiché nel Nord il consumo di tabacco è in flessione, Philip Morris sta facendo di tutto per espandere le sue vendite nel Sud del mondo. Purtroppo, fra i bersagli prediletti delle sue campagne di promozione ci sono adolescenti e, dalla seconda metà degli anni ’80, il consumo di tabacco tra i minorenni dei paesi del Sud del mondo è aumentato in misura impressionante.

 

Ma a proposito di campagne pubblicitarie …..

Il costo del lavoro è quello che incide meno di tutti sul prezzo finale di un paio di scarpe! Un esiguo 1.7%. Per conto, la pubblicità incide oltre il doppio con il 4,4%. Le somme spese dalle multinazionali in pubblicità sono da capogiro: nel solo 1999 Reebok ha speso 275 miliardi di lire, mentre la Nike 700.

Gran parte della spesa pubblicitaria è in promozioni. Le grandi multinazionali fanno a gara fra di loro per offrire ai campioni sportivi miliardi e miliardi affinché indossino i loro abiti e calzino le loro scarpe. Nike è anche sponsorizzata da personaggi anticonformisti (si fa per dire) come John McEnroe, Eric Cantona, Ian Wright, André Agassi. Il presidente della Nike, Phil Knight, sottolinea che ci vuole “qualcuno che il pubblico amerà o odierà decisamente”.

Nel complesso si calcola che Nike spenda dai 500 ai 700 miliardi annui delle vecchie lire, per pagare gli sportivi che promuovono le sue scarpe. Ed è stato calcolato che il costo di un solo spot televisivo di Nike e Reebok basterebbe a raddoppiare il salario annuo di mille operai che producono scarpe in Cina o nelle Filippine.

 

Delle operaie di El Salvador hanno raccontato ad un giornalista svedese, di aver lavorato in un’azienda del loro paese di proprietà della società Taiwan, riconducibile ad una nota multinazionale americana di camicie “Gap”. Dicono di aver lavorato dal lunedì al giovedì dalle 7 del mattino alle 9 di sera, il venerdì invece dalle 7 del mattino alle 4 del mattino successivo. Poi si stendevano 3 ore sul pavimento e riprendevano il lavoro sempre alle 7 fino alle 5 del pomeriggio. Nonostante quell’orario così massacrante non hanno mai preso più di 750 colones (circa 30 Euro) al mese ciascuna. Raccontano di essere state picchiate dai capi che le sbattevano in faccia le camicie e urlavano di lavorare più in fretta. Non era permesso andare al bagno più di due volte al giorno, e ogni volta che andavano dovevano ritirare un cartoncino con l’orario da riconsegnare al massimo entro 3-4 minuti. Nello stanzone si moriva di caldo e non c’era acqua potabile, quella che gli facevano bere era contaminata. Poi le ragazze raccontano di attenzioni sessuali e di altre porcate perpetrate dai loro datori, come ad esempio l’assunzione coercitiva di pillole anticoncezionali. Un giorno stanche di tutti questi maltrattamenti decidono in 350 di formare un sindacato, ma la direzione subito dopo assunse dei malviventi che maltrattarono e torturarono i dirigenti sindacali in tutti i modi. Come se non bastasse durante una manifestazione davanti ai cancelli fu chiamata la polizia che dopo aver preso a manganellate i manifestanti, arrestarono il segretario generale del sindacato a sua volta maltrattato e minacciato, gli dissero che avrebbero sterminato la propria famiglia se non avesse fatto i nomi di tutti gli attivisti sindacali. Furono licenziate tutte e 350, e adesso raccontano di essere finite in una lista nera e di non poter trovare più lavoro nel Salvador.

 

Pensate che ormai non solo le multinazionali ma qualsiasi tipo di impresa anche media, fa di tutto per abbattere i costi dei salari. Storicamente è sempre stato così, l’avversità dei capitalisti per il lavoro è una cosa antica e fin dall’inizio della rivoluzione industriale hanno messo a punto delle strategie per ridurre l’incidenza del costo del lavoro sul prezzo finale.

Qualcuno potrebbe pensare, ma cosa c’è di male se cercano di ridurre i costi per stare sul mercato!!

Io penso niente, fino a quando non si arriva ad avere comportamenti disumani!!!

Oggi piuttosto che spendere soldi per rinnovare i macchinari nelle fabbriche del Nord del mondo, le imprese di molti settori preferiscono trasferire la produzione dove i salari sono bassi. Già… i disoccupati avranno le scarpe nuove, e chi si ammazza di lavoro non potrà neanche permettersi di comprarle!!!

 

Ma cerchiamo di capire quanto ad esempio guadagnano i contadini del caffè. Su 1Euro che noi paghiamo su ogni pacchetto di caffè, ben 87 centesimi si fermano nel Nord del mondo, e solo 13 centesimi tornano nel Sud. A loro volta questi 13 centesimi sono ulteriormente spartiti fra lo Stato, l’esportatore, il grossista, ed infine i contadini che producono. Si calcola che ai contadini arrivi solo 1-1,5 % del prezzo finale del prodotto. Una vera miseria!!!!

 

Magari molti di noi hanno coscienza di questi problemi, ma non sanno come è possibile dare un messaggio in controtendenza!! Per conto mio se capita di incontrare per strada una bottega del Commercio equo e solidale ci faccio sempre un salto…

 

Lo scopo del Commercio equo e solidale è di liberare i contadini del sud del mondo, che producono per il Nord, dal giogo dello sfruttamento e delle speculazioni tessute dai commercianti locali ed internazionali. La soluzione proposta è di distribuire prodotti comprati direttamente dai contadini e dagli artigiani, in modo da far godere a loro tutto il prezzo pagato. Un prezzo equo, naturalmente, stabilito dai produttori stessi, perché nessuno, meglio di loro, sa qual’è la giusta retribuzione.

 

La giustizia non si costruisce solo lottando contro ciò che non va. La giustizia si costruisce anche cominciando ad attuare subito l’alternativa, non foss’altro per testimoniare che cambiare è possibile e soprattutto indicare in quale direzione dobbiamo andare.

 

 

 

 

 

 

 


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