IL SUPERMERCATO MONDIALE
Il
mondo è troppo grande perché sia governato come una nazione! Ma
siamo proprio sicuri??? Pensiamoci un momento. Non facciamo in tempo ad alzarci al mattino che già entri in rapporto con gli operai dell’Indonesia che fabbricano le nostre scarpe sportive. Poco dopo, quando c mettiamo a tavola per fare colazione, entri in contatto con i contadini della Costa D’Avorio che hanno raccolto il cacao che beviamo. Ci sediamo al computer e magari il monitor è stato assemblato da operaie filippine. Ma
in realtà che sappiano delle condizioni di vita e di lavoro di questa
gente!? Quanto guadagnano, quante ore lavorano, di che diritti godono!? Una
cosa la sappiamo di sicuro, vale a dire che siamo diventati consumatori di
prodotti mondiali e siamo dominati da forze economiche che gestiscono
l’economia a livello mondiale. Cerchiamo
di capire insieme chi sono e cosa fanno alcune delle più grandi
multinazionali.
Ma
a proposito di campagne pubblicitarie ….. Il
costo del lavoro è quello che incide meno di tutti sul prezzo finale di
un paio di scarpe! Un esiguo 1.7%. Per conto, la pubblicità incide oltre
il doppio con il 4,4%. Le somme spese dalle multinazionali in pubblicità
sono da capogiro: nel solo 1999 Reebok ha speso 275 miliardi di lire,
mentre la Nike 700. Gran
parte della spesa pubblicitaria è in promozioni. Le grandi multinazionali
fanno a gara fra di loro per offrire ai campioni sportivi miliardi e
miliardi affinché indossino i loro abiti e calzino le loro scarpe. Nike
è anche sponsorizzata da personaggi anticonformisti (si fa per dire) come
John McEnroe, Eric Cantona, Ian Wright, André Agassi. Il presidente della
Nike, Phil Knight, sottolinea che ci vuole “qualcuno che il pubblico
amerà o odierà decisamente”. Nel
complesso si calcola che Nike spenda dai 500 ai 700 miliardi annui delle
vecchie lire, per pagare gli sportivi che promuovono le sue scarpe. Ed
è stato calcolato che il costo di un solo spot televisivo di Nike e
Reebok basterebbe a raddoppiare il salario annuo di mille operai che
producono scarpe in Cina o nelle Filippine. Delle
operaie di El Salvador hanno raccontato ad un giornalista svedese, di aver
lavorato in un’azienda del loro paese di proprietà della società
Taiwan, riconducibile ad una nota multinazionale americana di camicie
“Gap”. Dicono di aver lavorato dal lunedì al giovedì dalle 7 del
mattino alle 9 di sera, il venerdì invece dalle 7 del mattino alle 4 del
mattino successivo. Poi si stendevano 3 ore sul pavimento e riprendevano
il lavoro sempre alle 7 fino alle 5 del pomeriggio. Nonostante
quell’orario così massacrante non hanno mai preso più di 750 colones
(circa 30 Euro) al mese ciascuna. Raccontano di essere state picchiate dai
capi che le sbattevano in faccia le camicie e urlavano di lavorare più in
fretta. Non era permesso andare al bagno più di due volte al giorno, e
ogni volta che andavano dovevano ritirare un cartoncino con l’orario da
riconsegnare al massimo entro 3-4 minuti. Nello stanzone si moriva di
caldo e non c’era acqua potabile, quella che gli facevano bere era
contaminata. Poi le ragazze raccontano di attenzioni sessuali e di altre
porcate perpetrate dai loro datori, come ad esempio l’assunzione
coercitiva di pillole anticoncezionali. Un giorno stanche di tutti questi
maltrattamenti decidono in 350 di formare un sindacato, ma la direzione
subito dopo assunse dei malviventi che maltrattarono e torturarono i
dirigenti sindacali in tutti i modi. Come se non bastasse durante una
manifestazione davanti ai cancelli fu chiamata la polizia che dopo aver
preso a manganellate i manifestanti, arrestarono il segretario generale
del sindacato a sua volta maltrattato e minacciato, gli dissero che
avrebbero sterminato la propria famiglia se non avesse fatto i nomi di
tutti gli attivisti sindacali. Furono licenziate tutte e 350, e adesso
raccontano di essere finite in una lista nera e di non poter trovare più
lavoro nel Salvador. Pensate che
ormai non solo le multinazionali ma qualsiasi tipo di impresa anche media,
fa di tutto per abbattere i costi dei salari. Storicamente è sempre stato
così, l’avversità dei capitalisti per il lavoro è una cosa antica e
fin dall’inizio della rivoluzione industriale hanno messo a punto delle
strategie per ridurre l’incidenza del costo del lavoro sul prezzo
finale. Qualcuno
potrebbe pensare, ma cosa c’è di male se cercano di ridurre i costi per
stare sul mercato!! Io penso
niente, fino a quando non si arriva ad avere comportamenti disumani!!! Oggi piuttosto
che spendere soldi per rinnovare i macchinari nelle fabbriche del Nord del
mondo, le imprese di molti settori preferiscono trasferire la produzione
dove i salari sono bassi. Già… i disoccupati avranno le scarpe nuove, e
chi si ammazza di lavoro non potrà neanche permettersi di comprarle!!! Ma
cerchiamo di capire quanto ad esempio guadagnano i contadini del caffè.
Su 1Euro che noi paghiamo su ogni pacchetto di caffè, ben 87 centesimi si
fermano nel Nord del mondo, e solo 13 centesimi tornano nel Sud. A loro
volta questi 13 centesimi sono ulteriormente spartiti fra lo Stato,
l’esportatore, il grossista, ed infine i contadini che producono. Si
calcola che ai contadini arrivi solo 1-1,5 % del prezzo finale del
prodotto. Una vera miseria!!!! Magari
molti di noi hanno coscienza di questi problemi, ma non sanno come è
possibile dare un messaggio in controtendenza!! Per conto mio se capita di
incontrare per strada una bottega del Commercio equo e solidale ci
faccio sempre un salto… Lo
scopo del Commercio equo e solidale è di liberare i contadini del sud del
mondo, che producono per il Nord, dal giogo dello sfruttamento e delle
speculazioni tessute dai commercianti locali ed internazionali. La
soluzione proposta è di distribuire prodotti comprati direttamente dai
contadini e dagli artigiani, in modo da far godere a loro tutto il prezzo
pagato. Un prezzo equo, naturalmente, stabilito dai produttori stessi,
perché nessuno, meglio di loro, sa qual’è la giusta retribuzione. La giustizia non si costruisce solo lottando contro ciò che non va. La giustizia si costruisce anche cominciando ad attuare subito l’alternativa, non foss’altro per testimoniare che cambiare è possibile e soprattutto indicare in quale direzione dobbiamo andare.
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