Gallipoli e il culto di S. Antonio di Bienna. di Elio Pindinelli Ancora da definire è l’origine del culto di 5. Antonio Abate per come andò attestandosi nel Salento in epoca medioevale e sopravvisse fino ai nostri tempi secondo una tradizione popolare e devozionistica che ha legato indissolubilmente il santo eremita al rito del fuoco. Una vastissima letteratura ha contribuito a sviluppare e diffondere del rito del fuoco in genere quei caratteri precristiani propri di culture etnico-folcloriche legate alla pratica agraria e sopravvissute ad assimilazioni classiche, cui si lega per esempio il mito di Prometeo, o a quelle celtiche degli antichi riti in onore di Beleno.(1) Il falò ha avuto funzioni ritualistiche purificatrici inizialmente legate a pratiche domestiche poi trasfuse in quelle collettive e codificate nell’ alveo della tradizione pubblicamente e ciclicamente vissuta in stretto rapporto con gli eventi della natura e con un diffuso sentimento religioso. Nella tradizione romana, il 25 novembre, con eccezionale regolarità si accendeva la legna in tutti i camini ed i “foconi” negli edifici pubblici e nelle anticamere patrizie(2). A Maruggio come in tanti altri luoghi si accendono, invece, collettivamente i due “fuochi ti Cristu piccinnu” la sera della vigilia di Natale di fronte alle due chiese principali del paese, con intrinseco significato di corale partecipazione simbolica al freddo e al gelo che avvolse il Redentore la notte di Natale(3). Ed i fuochi rituali si accendono ancora in molte parti d’Italia il giorno dell’Epifania e particolarmente nelle valli trevigiane e a Tarcento in Friuli. Qualcuno ha sottolineato che proprio la festa dei “pignauri”, che si svolge per l’Epifania a Tarcento, anticipi, e in qualche modo ricordi, con il grande falò acceso in vetta al colle di Coia ed i cento pignauri ardenti sui colli circostanti(4), il più diffuso e praticato rito del fuoco alla vigilia o nel giorno dedicato dalla Chiesa a S. Antonio Abate. Ma i Siciliani di Palermo rinnovano il rito del fuoco nella festa di S.Giuseppe che si conclude con spettacolari falò accesi per le strade della città, così come nel Salento, a Lizzano(5), Faggiano(6) ed in altri luoghi d’origine albanese. Il fuoco ha rappresentato nella storia dell’uomo uno degli elementi vitali per la sua sopravvivenza ma anche il più temuto avendo rappresentato nel mondo degli antichi, ed ancor più nella cultura cristiana, il regno degli inferi ed il luogo dei tormenti eterni(7). In quasi tutte le regioni italiane però S. Antonio Abate è il protettore del fuoco e dal fuoco ed a lui sono dedicati i più noti falò rituali. In essi vi è la trasformazione del culto pagano del fuoco che si connota invece del simbolismo cristiano. Il fuoco rappresenta le passioni che tormentano l’animo ancor più di quanto esso riesca a tormentare il corpo. Antonio allora raffigura l’ideale dell’eroe cristiano che con la temperanza, la pazienza, la costanza e l’astinenza vince il peccato ed evita le fiamme eterne dell’inferno(8). Il rito dell’accensione dei falò, la vigilia della ricorrenza di S. Antonio, è comune a tutta l’Italia meridionale, dalla Sardegna alla Campania e alla Puglia. Nei quartieri di Napoli ed in tutta la Campania si chiamavano nella strada i cittadini al grido di: “menate, menate”; e dalle finestre piove-vano mobili vecchi e ceppi d’albero, assi di legno e vecchie sedie impagliate ad alimentare il sacro fuoco, ed ancora si usa a Vietri(9). E’ la stessa tradizione praticata dal popolo salentino, ancor viva a Gallipoli fino ad un trentennio fa, quando ancora si usava accendere le “focareddhe” in ogni quartiere della città vecchia mischiando ramaglie d’ulivo a suppellettili e legni usati, prima che questo tradizionale rito folclorico migrasse al borgo, al Largo Stazione ed in via Firenze oggi. A differenza di altri luoghi del Salento, però, la focareddha si accendeva a Gallipoli, come nella vicina Sannicola(10), il 17 gennaio festa di Sant’Antoni te lu focu, giacchè qui tutte le vigilie erano dedicate alla preghiera e alla ritualistica cattolica, culminante con la solenne processione che un tempo, in onore del Santo, curava la Confraternita di S. Antonio Abate. Il 17 gennaio rappresentava giorno di festa e nel calendario popolare scandiva l’inizio del carnevale propiziato dal suono del tamburello e dalla danza della “pizzaca” attorno al falò acceso. Di questa danza e di questa antica usanza ne ha lasciato un pregevole ricordo l’indimenticabile E. Vernole” (11). Il culto particolare per il santo del fuoco è attestato in Gallipoli fin dalla seconda metà del ‘500 dalla chiesa e dalla confraternita dedicata al Santo eremita. Mons. Cybo visitò il 6 novembre 1567 la cappella “Sancti Antoni de Cur(r)eturis sitam intus predictam civitatem iuxta domis Aloisi Maldonati et domos sororum Carmusine et Caterinelle Pirelle et Castaldine Brunce, viam pubblicam”(12). Essa aveva il maggiore altare intitolato alla SS.ma Trinità, il secondo a S. Antonio (con figura dipinta e altare in legno), il terzo intitolato a S. Antonio di Padova e S. Lucia. Vi erano altre figure dipinte di santi e “sedilia lignea circum circa et tettum ipsius copertum tabulis ligneis et pavimentum inferius erat adattatum cum cinere saponerie”.(13) In questa cappella mons. Cybo ritrovò organata una confraternita laicale sotto il titolo di S. Antonio il cui priore, il nobile Bernardino Giustizieri, faceva celebrare due messe “pro quolibet ebdomada, una in diebus festivis et alia in die veneris. ..et alia per q(uondam) Franciscum Pirellum”(14) Accanto alla chiesa esisteva “domunculam unam cum uno parvo curtilio in qua incolatus facit offertus predicte Confraternitatis”(15) Che il Santo titolare, citato dal vescovo, fosse Antonio Abate è provato dalla successiva visita pastorale effettuata da mons. Capece il 9 marzo 1600 con la quale, non solo si conferma la presenza della confraternita, governata dal priore “magister” Antonio Cantalupo, ma si attesta l’esistenza dell’altare dedicato al Santo “cum immagine S. Antoni de Bienna”(16). Si sa che, nella traduzione volgare, Bienna sta per la città di Vienne(17), in Francia, dove sorse la congregazione laicale di S. Antonio Abate fondata da Gastone, nobile francese, per aver ottenuto, per intercessione del Santo, la guarigione del figlio, Guerriero, dal “fuoco sacro”(18). Tale organismo laicale fu canonicamente approvato nel concilio di Clermont nel 1095 e trasformato in Congregazione di canonici regolari, con tutti i privilegi e diritti di ordine religioso, da Onorio III nel 1218. Bonifacio VIII le impose, nel 1297, la regola benedettina. Fu riformata nel 1630 e definitivamente incorporata all’ ordine di Malta nel 1778 da papa Pio VI(19). Nel regno di Napoli tutti i benefici degli antoniani risultano, invece, trasferiti all’ordine Costantiniano nel 1775.(20) Se, perciò, in qualche modo note sono le vicende legate alla Congregazione dei Canonici regolari di S. Antonio, ampiamente lacunose risultano le notizie relative ai beni posseduti nel Salento, a parte qualche accenno relativo alla cappella di S. Antonio Abate di Novoli e alla documentata appartenenza all’ ordine Costantiniano, dopo lo scioglimento degli antoniani, di alcune cappelle intitolate al santo tra cui quelle di Arnesano, S. Pietro in Lama, Trepuzzi e Lecce. Per Nardò è tutto da chiarire il possesso, da parte della commenda di Maruggio dell’Ordine ospedaliero e militare di S. Giovanni di Gerusalemme o di Malta, della “grancia di S. Antonio Abate di Vienna” che risulta annotata nel “Nuovo Cabreo, seu inventano delli beni entrate, censi e qualsivogliano beni mobili et immobili, seu stabili dependentino da detta Comxnenda e sue Grancie”(21), oggi custodito nell’Archivio di Stato di Lecce, datato 1709-1710, molto prima che Pio VI decretasse lo scioglimento dell’ordine antoniano ed il trasferimento dei beni posseduti ai Cavalieri di Malta. Anche per Gallipoli non risulta documentata l’appartenenza della cappella e confraternita di S. Antonio di Bienna all’ordine antoniano, anche se indubbia ne è la diretta dipendenza devozionale e ritualistica. La stessa denominazione cinquecentesca data alla cappella “dei curreturis”, secondo la trascrizione fin qui conosciuta, rimanda ad una pratica curativa degli affetti dal “fuoco di S. Antonio”. Il testo originale, infatti, della visita di Mons. Filomarini, del 1715(22) a riferimento all’antica denominazione di questa cappella, correggendo implicitamente l’errore in cui certamente sarà incorso il trascrittore della visita di mons. Cybo, e citando correttamente il beneficio di S. Antonio “de curaturis” ovvero, trasposto in volgare, “delle cure”. Notorio è al riguardo che gli antoniani furono molto attivi nel curare la malattia popolarmte detta di “fuoco di Sant’Antonio”, un tempo diffusissima e che poteva provocare anche la perdita delle estremità, applicando sulla parte malata speciali unguenti ricavati dal lardo dei maiali, da loro stessi allevati e dedicati al Santo. La Percettoria di Napoli vantava il possesso di particolari privilegi circa l’esercizio esclusivo dell’allevamento dei maiali tanto da spingere l’ospedale di S.Elia di Barletta, nel 1313, a ricorrere a Re Roberto d’Angiò contro l’impedimento che ne facevano i canonici di S Antonio(23). Anche la cappella gallipolina dedicata al santo del fuoco aveva i suoi maiali allevati in “parvo curtilio” attaccato alla chiesa. Annota mons.Montoya, il 10 maggio 1660, che la confraternita “percepit quosdam porcos, qui ex devotione offeruntur Sto Antonio, et signantur cum incisione unius auricule”(24). Circostanza questa confermata nel 1715 da mons. Filomanini(25). Quindi i maiali erano offerte devozionali al Santo protettore ed a lui dedicate mediante una particolare incisione (il segno del Tau o croce greca?) ad una delle orecchie. Angelo D‘Ambroio afferma che l’allevamento dei porci rappresentava la fonte principale dei proventi della casa antoniana di Napoli, presso cui aveva sede la percettoria napoletana dell’ordine(26). A Napoli l’allevamento di questi animali, tenuti liberi per le strade della città, già nel ‘600 aveva provocato non pochi inconvenienti, soprattutto sanitari, tanto da costringere le autorità ad emanare provvedimenti restrittivi, nell’estate del 1655, perchè allarmate dal rischio del diffondersi di una nuova epidemia(27). Anche a Gallipoli i maiali si allevavano liberamente per strada, ma nell’ottobre del 1715 la situazione igienica, divenuta insostenibile, aveva determinato il fermo intervento del sindaco della città volto ad eliminare il “cattivo abuso che ogni persona vuole tenere porci camminando in essa città facendo molti danni e sporchizie per lo che si sono avuti molti ricorsi”. Ed in vero l’abuso fu dal decurionato eliminato deliberando il 23 di quello stesso mese di vietare a tutti i cittadini di tenere porci in città, con esclusione del Priore della confraternita di 5. Antonio, il quale venne autorizzato ad allevare “solo diece mascoli”(28). Non ci è dato sapere se la Confraternita avesse invocato particolari concessioni o privilegi e se il decurionato abbia così deciso considerando la “sacralità” di quei maiali in quanto dedicati ad un Santo o ad uno specifico servizio. Fatto sta che quei maiali continuarono a grufolare nell’abitato della città senza alcuna restrizione fino a qualche decennio dopo, quando la confraternita, priva di beni, fu dismessa per non aver potuto richiedere la regia approvazione sull’erezione e sulle regole, a seguito del dispaccio regio emanato d’ordine del re di Napoli da Bernardo Tanucci il 19.6.1769.(29) Nè d’altra parte essa compare nell’elenco dei contribuenti nel catasto onciario dove, invece, figurano ancora due benefici, il primo, di antica fondazione, intestato a S. Antonio de curaturis e retto dal sacerdote Bonaventura de Santis, il secondo intestato a S. Antonio Abate e retto da don Giacinto Chirelli(30). Proprio grazie a questi due benefici si continuò probabilmente a festeggiare il Santo fin dopo il 1836, anno in cui Bartolomeo Ravenna attestò la celebrazione del rito nella chiesa ex confraternale(31). Dismesso definitivamente l’uso della cappella, la proprietà passò al Comune che inutilmente cercò, nel 1925, di alienarlat(32). Successivamente demolita, sopravvive oggi la grande tela dipinta, da Gian Domenico Catalano, tra la fine del ‘500 ed i primissimi mesi del ‘600, come è dimostrato dalla visita pastorale di mons. Capece che il 10 marzo di quell’anno la vide e la segnalò. Essa fu conservata fino al 1949 nella locale biblioteca comunale di Gallipoli, anno in cui il sindaco Cazzella, su richiesta del parroco don Vincenzo Liaci, la destinò alla chiesa parrocchiale di S. Francesco con la motivazione, suggerita dall’allora bibliotecario Mazzarella, “che la tela non aveva alcun pregio particolare”(33). Con quanta colpevole leggerezza e deprecabile incompetenza lascio giudicare ai lettori. 1) Cfr. J. O. FRAZER, il Ramo d’oro. i sacrifici
e le feste del fuoco, Einaudi, Torino 1959; F. D’ELlA, il falò di S.Antonio. Note di folclore salentino, Martina Franca 1912 2) Tradizioni
e costumi d’italia, De
Agostini, 1983, p. 3 3) Cfr. C. DEMITRI, Feste riti e tradizioni
di Maruggio, Ed.Nuovi Orientamenti, Gallipoli, 1985 4) O. PERUSINI, i fuochi dell’Epifania, in Conoscere
l’italia, Novara 1982, p. 215. 5) C. DEMITRI, Feste
cit.~ p.l4 nota
4. 6) Cfr. Santi. Il regno dei cieli raccontato dalla terra (a cura diA. Maglio),
Lecce 1992, p. 108. 7) Uno dei dogmi della Chiesa cattolica è quello
relativo all’esistenza dell’inferno. Scrive O. Bonornelli, vescovo
di Cremona; che annota le conferenze pubblicate nel 1911 da M. L.
Monsabré che secondo il dogma cristiano “il piacere indebito della
colpa dcc essere espiato col dolore, e perciò al dolore, che deriva
dalla privazione del sommo Bene, vuolsi aggiungere un dolore positivo”
rappresentato appunto dalle fiamme eterne. Cfr. M. L. MONSABRÉ, Esposizione
del dogma cattolico, vol.XVII, p.97, nota 1. L’inferno è locum tormentorum. Ed il fuoco eterno è anticipato nel Deuteronomio
“lgnis succensus est in furore meo... ardebit usque ad inferni novissiina”(XXXII,22)
e in Isaia “Quis poterit hnbitare de vobis cure igne devorante?”(XXXIII,
14) 8) “Nec vero frequens de satana triunphus securum
reddebat Antonium, qui diabuli innumerabiles artes nocendi noverat...
ac saepe discipulos suos excitans ad pugnan4um contra diabolum, docensque
quibus arrnis vincereteur” in Officium
“in festo S.Antoni Abbatis”, lectio V. Cft. Breviarium
Ro,nanwn, Venetiis, apud Pezzanam, venezia 1747, p.127 9) Tradizioni
cit., p.l58 10) Cfr. M. MUSCA, Un anno a Sannicola (Pmverbi.Usanze.TradizioniJvotizie)
Galatina I990,
p. 16. 11) E. VERNOLE, Dai falò alla caremma, dattiloscritto inedito in BCG; E. vERN0LE,
Tersico re. Talia-Melpomene nelle tradizioni
popolari salentine, in: Salento.
Arte e storia, Ed. Nuovi Orientamenti
oggi, Gallipoli 1987, pp. 187-198. 12) Visita
pastorale di Mons. Cybo, trascrizione medita sec.XIX, p.5l. Per
questa trascrizione e
per quella di Mons. Capece cfr. quanto annotato in E. PINDINELLI,
Confraternite ed oratori laicali a Gallipoli tra XVI
e XIX secolo, in:
M.CAZZATO-E.PINDINELLI, Civitas Confraternalis.Le confraternite
a Gallipoli in età barocca, Galatina 1997, p.l I 13) Visita
pastorale di Mons. Cybo cit., pp.52-53 14) ibidem, p.53. Nella trascrizione della visita
di mons. Capece è annotato nella chiesa cattedrale, ad nonum arcum, l’altare intitolato a 5. Maria dello Riso di patronato della famiglia Giustizieri ed in quell’anno
tenuto dagli eredi di Bemardino, priore della confraternita di S.Antonio de Curaturis al tempo della visita
di mons. Cybo. Nella cappella dei Giustizieri mons. Capece notò “in
pariete a fronte depittam imaginem Sante Marie dello Riso et subter
ipsam tres imagines parvulas, unarn Crucifixi in medio, altera a parte
dextera Sancte Lucie virginis, a parte sinistra Sancti Antoni de
Bienna, et in pilastris ipsius Arcus in uno imago S.ti Leonardi et
in alio Santi Antoni de Padua”. Cfr. Visita
pastorale di mons. Capece, trascrizione cit., pp. 9-10 15) Ibidem, p.53 16) Visita
pastorale di Mons. Capece, trascrizione medita, p. 17) A. Ortelio, Synonymia geografica, Antuerpiae, apud Cristofarum Plantinum, 1578,
p.344. “Biennus vide Vienna. Vienna = Tolomeo; Allobrogum urbs, sub
Medulis; Vienne Joanni Poldo, Senatiam aliquam appellatam, scribit
Paradinus. Biennus,
Bienna,
Stefano dicitur 18) E. BRUCK, Manuale di storia ecclesiastica, Bergamo 1906, p.446 19) Al riguardo cfr. la vasta bibliografia disponibile
riportata da I. RUFPINO, Canonici
regolari di Sant’Agostino di Sant’Antonio di Vienne (Francia) in
“Dizionario degli istituti di istruzione”, li, Roma 1975, coll.140-I. 20) A. D’AMBROSIO, I Canonici Regolari di Sant’Antonio Abate di
Vienne e la Percettoria Generale di Napoli in alcuni documenti inediti
del XVIII secolo (1733-1735), in “Archivio storico per le Provincie
napoletane”, Napoli 1984, p. 279. 21) “Presens Cabreum hoc, seu inventarium omnium bonorum tam propriorum quam decimalium enfiteus de reddituum, jurisdictionum Commendae Terrae Marrubii Provinciae Hydruntinae, Camerae Magistralis S.Religionis lerosolimitanae, confectum per me Simonem De Simone Terrae Nucum Provinciae Bari per totum Regnurn Notariurn, subdelegatum a Domino Blasio Altimare Milite utrius iuris Doctore Regio Consiliario et Delegato omnium causarum Sacre Religionis Sancti loannis Ierosolitani. Inceptum vero sub die nono mensis Septembris Secundae Lndictionis millesimo septingentesimo nono in Terra Marrubi et compIeturn Dei gratia sub die decima teflia mensis maij tenia Inditionis millesimo septingentesimo decimo
in casale Savae, ad requisitionem tam lllustrissimi et Eccellentissimi
Pratris Domini Prancisci di Capua Militis Ordinis Sancti Ioannis lerosolimitani,
ac Commendatari Commendae Terrae Marrubii”. Documento pubblicato in
E. TANZI, L’Archivio
di Stato di Lecce (Note e documenti), Lecce 1902, pp.l54-172.
Il documento è oggi riscontrabile in ASL, Atti
dell ‘Intendenza di Finanza, Platee dei Monasteri soppressi, Maruggio,
Commentla dell ‘Ordine ospedaliero e militare
di £ Giovanni di Gerusalemme, o di Malta, 1709-1710, voI.18. Cfr.
P. PALMA, Scritture delle
Università e Feudi, poi Comuni. Intendenza di Terra d’Otranto. lntendenza
di Finanza, in Ordini religiosi e società nel Mezzogiorno
moderno, vol.Ill, Galatina 1987. Per Maruggio si segnala ad ogni
buon fine l’esistenza di un beneficio posseduto dall’ordine di Malta
e segnalato nel cit. Cabreum. 22)
ACVG, Visita pastorale
di Mons. Filomarini, a.17l5, c.301v: “In hoc altari ben. Abatis
D. Bonaventura de Sanctis habet onus celebrandi Missam-quolibet Dominice
uti possessor beneficij sub titulo 5. Antonij de Curaturis”. 23)F.
DE BLASIIS, Le disgrazie
del cardinale d’Aragona, vicerè di Napoli, in “Archivio storico
delle Provincie Napoletane”, Napoli 1903, p.4l I 24)
ACG, Visita pastorale
di mons. Montoya, a. 1660, c. 118v. 25) ACG, Visita pastorale di mons. Filotnarini, cit., c.301v “Percipit etiam
quosdarn porcos, qui ex devotione offeruntur S.Antonio, et signantur
cunì incisione un~us auricule”. 26)
A. D’AMBROSIO, I canonici
regolari cit., p.270. 27)
F. DE BLASIIS, Le disgrazie
cit., p.4l4. Passo riportato anche da A. D’AMBRoSIo, I canonici regolari cit., p.274: “troie e verri avevano riavuto licenza
d’andare attorno, di propagarsi, di ridurre le strade quasi impraticabili.
E i sozzi animali d’anno in anno s’erano resi sempre più insoffribili
per la loro sporcizia, per gli urti che all’impensata davano al trafticanti,
per le fughe che facevano quando erano perseguitati dai cani”. La
prima segnalazione in letteratura italiana del maialino di 5. Antonio
si ritrova in Dante: “Di questo ingrassa il porco sant’Antonio/ e
altri assai che sono ancor più porci,/ pagando di moneta senza conio”.
Paradiso, XXIX, 124-26. 28)
ASL, Scritture delle
Università e feudi di Terra d’Otranto, Conclusioni decurionali,
Gallipoli, Verbale del 23.10.17 15, fol.126v. 29)
Cfr. E. PINDINELLI, Confraternite
cit., p. 14. 30)
ASL, Catasto onciario,
Gallipoli, volli, Collettiva
generate dell’oncie, c.765r e c.866v. 31)
B. RAVENNA, Memorie istoriche
della città di Gallipoli, Napoli 1836, p.4O3. vi è anche attestata
la festa il 17 gennaio. 32)
Cfr. ASCG, Atti di Amministrazione,
delibera del Consiglio comunale n. 21 del 16.5.1925. “il Comune
è proprietario di un locale posto alla via Ribera, denominato cx cappella
8. Antonio,
che tiene affittato per L. 84 annue...qual locale trovasi in tale
uno stato di deperimento per
cui se dovesse ripararsi convenientemente occorrerebbe una spesa di
circa L. 3600”. 33)
ASCG, cat. IX, ci 5A, fasc. 2, Museo
e biblioteca, busta 145. |