CAPITOLO
I
GALLIPOLI, UNA CITTÀ AFFRESCATA:
GLI ESORDI DI GIANDOMENICO CATALANO
Una informatio della seconda metà del 1624
- il Catalano era da poco scomparso o gli rimanevano pochi mesi di vita
- disposta com’era prassi, dal promotore fiscale della Curia di Gallipoli,
ci offre preziose indicazioni per ricostruire l’aspetto della locale chiesa
cattedrale prima della sua integrale ricostruzione, avviata com’è noto
dal 1629(1).
Il 20 settembre di quel 1624 l’ultrasettantenne
don Nicola Crisigiovanni, sacerdote della cattedrale, dichiara che qualche
giorno prima “essendo uscito di sua casa per venirsene nella chiesa,
sulla strada pubblica prima d’entrarvi incontrò Gio. Giacomo de Blasi
e mastro Francesco Bischetimi(2), capo mastro della fabbrica della chiesa, et li disse
il suddetto Gio. Giacomo che nello muro della chiesa, accanto alla porta
maggiore dove sta depinta l’effigie di S. Cristofaro, stava affissato
un libello in pregiudizio dell’onore di un sacerdote”.
Accostandosi alla facciata della cattedrale don
Nicola ebbe modo di accertarsi che la faccenda era vera e, letto il contenuto
del “libello”, - che altro non era se non un semplice foglietto cartaceo
- lo strappò “da detto muro con le sue proprie
mani”. Constatò quindi che quel
biglietto cominciava con queste parole “al molto infame” e così
terminava: “che solo al mondo ha se stesso simile”, ed era in versi
“detti sonetti, in numero quattordici”; turbato di tutto ciò, decise
senza indugio di consegnarlo all’autorità
religiosa.
Attraverso questa testimonianza possiamo seguire
il percorso del religioso dopo che ebbe strappato furtivamente il biglietto
affisso sotto l’immagine di S. Cristoforo : “infilò la porta maggiore
della chiesa”, piegò a destra “et uscì per la porta piccola
di detta chiesa che ha l’esito nel cortiglio del palazzo vescovile, contigua
detta portella con le carceri vescovili...”(3).
Ci piacerebbe seguire lo sviluppo della curiosa
vicenda ma qui interessa sottolineare che l’affresco di S. Cristoforo, iconograficamente collocato
secondo un’inveterata consuetudine (4), scomparve nel corso del rifacimento seicentesco della cattedrale di
Gallipoli. Uguale destino subì l’affresco originale - una copia fu eseguita
nel XIX secolo - di S. Maria della Pietà esistente sulla facciata della
chiesa della Misericordia [oggi della Madonna del Carmine], la cui esistenza
ricaviamo da una testimoniale fornita nel 1681 dal “mastro bottaro”
Antonio Tricarico nel corso di un processo a carico di tal Antonio Rocci,
entrambi di Gallipoli: “io conosco il suddetto A. R. di questa città
con l’occasione che per esser il medesimo della mia arte di bottaro, ha
fatigato con me in una medesima botega ch’è di Maurizio Pascha capo mastro
di bottari di questa città, la quale botega steva nella strada di S.ta
Maria della Misericordia e propriamente all’incontro dell’immagine della
Madonna della Pietà che sta pintata nel lato della porta della chiesa
della Misericordia...”(5).
E’ il medesimo destino di tutti gli affreschi
che decoravano interni ed esterni di chiese e cappelle di Gallipoli, come
ricaviamo dalla visita pastorale di Mons. Cybo (1563-1567): affreschi
vi erano a S. Michele, alla Trinità, a S. Giorgio (“tota depicta circum
circa diversis figuris”), a S.Nicola dei Chefas, alle due cappelle
della Nunciata, a quella degli Specolizzi e a quella dei Patitari, a S.
Maria della Misericordia (“in tota ipsa cappella erant nonnullae figure
sanctorum pitte”), a S. Stefano (“picta diversis picturis antiquis”)
a S. Giovanni Battista (“totum corpum ipsius cappelle pictum diversis
figuris sanctorum”), a S. Maria della Candelora e, ovviamente, sui
muri della cattedrale(6). Un’immagine della Madonna
di Costantinopoli risulta affrescata il 1663, per fare un altro esempio,
sulle rustiche “mura delle moline”.
Pochissime erano le tele che dovevano rappresentare
sicuramente, con la loro amovibilità, una novità all’interno di una consolidata
consuetudine locale che ancora nel ‘500 perpetuava rigogliosamente l’eredità pittorica
medievale.
E non è un caso che le poche immagini con la “nuova”
tecnica della pittura ad olio - su tavola o su tela - appartengano ad
artefici non locali.
Pensiamo al famoso
S. Francesco d’Assisi del Pordenone nella chiesa conventuale dei
riformati (7), o all’ancora conservata Vergine di Costantinopoli,
unico autografo dello Strafella (8) che il vescovo Cybo non manca
di annotare (“pulcherrima ycona lignea pitta et inaurata cum figura
gloriosissime Domine et Domini nostri
Jesu Christi”), per quanto tutte le pareti della cappella erano affrescate
“cum diversis figuris sanctorum”.
Ed affrescato era, ancora, l’interno medievale
di S. Maria della Lizza (9) .
In questi ambienti dove proliferava uno stuolo
di affrescatori - e uno “stuolo” doveva essere vista l’estensione del
fenomeno che interessava pure l’edilizia civile - si educò, almeno all’inizio,
nella fase formativa, il giovane Catalano.
D’altra parte in patria non potè certo apprendere
la tecnica della pittura ad olio; ma se qui può averla conosciuta dalle rare testimonianze esistenti
negli anni della sua formazione tecnico-artistica, sarà stato un insegnamento
dovuto ad un interesse strettamente personale, perché è fuor di dubbio
che un suo alunnato presso lo Strafella - pur autorevolmente avanzato
(10) - è improponibile non tanto
per questioni stilistiche quanto per la cronologia. Verificheremo, infatti,
come il Catalano non sia nato prima del 1560 circa, mentre lo Strafella
era già scomparso, in età matura, avanti l’agosto del 1573 (11).
Perciò l’ipotesi di un primo alunnato presso la
“bottega” di uno degli affrescatori locali appare assai plausibile. Ma
poche il Catalano, per indubbie qualità innate, si elevò ben presto dal
livello di queste maestranze anonime che pure continueranno la loro tradizione
fin oltre il XVII secolo (12), tra gli anni del suo apprendistato locale e quello
della sua prima opera conosciuta (1584; cfr. Appendice, documento n.2)
dovrà essere collocata un’esperienza
artistica che sarà decisiva per il suo futuro di pittore e che costituì
la sua notevole fortuna - anche economica -egli ancora in vita.
Esperienza che, come ha correttamente osservato
la Belli D’Elia, si svolse “lontano dalla terra natale, quasi
certamente tutta nell’ambiente tardo-manieristico della Napoli dell’ultimo
Cinquecento”(13).
Se questo avvenne - ma qualcosa del genere sicuramente
avvenne - ciò si verificò probabilmente tra il 1578 - data del primo documento
che nomina il nostro pittore - e il 1584, quando, pittore già affermato,
l’Università di Gallipoli gli commissiona la dispersa tela di S. Sebastiano
(con S. Agata e S.Rocco) per l’omonima cappella addossata alla Cattedrale
prebarocca (“icon predicta est decens cum cornicibus ligneis et columnis
sculptis in quorum calce sunt insculpta insignia civitatis”) (14).
Può essersi assentato anche dopo il 1584 per qualche
periodo napoletano di “aggiornamento”, ma il 1590 è di nuovo a Gallipoli
dove esegue la grande tela dei SS. Pietro e Paolo per l’altare maggiore
delle clarisse locali (15).
E’ possibile che si sia assentato anche successivamente,
e per qualche periodo, dopo il 1590, ma già dal 1594 il Catalano sembra
non essersi spostato più oltre i confini provinciali: la sua formazione
artistica costituiva ormai un problema che si era lasciato definitivamente
alle spalle.
L’ultima sua assenza, probabilmente brevissima,
si verificò nel 1603 quando a Napoli morì Alfonso de Errera (o de Ferrera),
già vescovo di Gallipoli e “maestro” di Stefano Catalano, congiunto, come
si vedrà, di Giandomenico(16).
La spia, risolutiva, di quest’avvenimento è fornita
dalla seguente constatazione. Qualche anno prima della morte questo prelato
si eresse un sepolcro nella cappella della Passione nella chiesa
napoletana di S. Maria di Piedigrotta, ornato con la grande pala dell’Andata
al Calvario nel quale il pittore
anversate Wenzel Cobergher - giunto a Napoli il 1580(17) - raffigurò proprio l’Errera
orante con mozzetta vescovile ed in età avanzata(18).
Ebbene il Catalano replicò questa tela del Cobergher
in quella di soggetto analogo che, probabilmente verso il 1604, rea- lizzò
per i domenicani di Gallipoli.
Naturalmente non si tratta di una trasposizione
letteraria; c’è qualcosa di più e qualcosa di meno; identico è lo schema
che divide per gruppi la scena: a sinistra il Cristo patiens, a
destra la Vergine dolente. Sui lati sono i due ladroni crocefissi: uno
profilato sullo sfondo di aspre rocce, l’altro contro un cielo livido
e cupo.
E se il Catalano in questa tela si ritaglia momenti
di autonomia inventiva, analoga appare la tetra atmosfera illuminata a
tratti dal bagliore dei corpi: insomma, questa volta, il Catalano ha certamente
visto l’originale e non si è affidato, come vedremo per altri soggetti,
a prototipi incisi a stampa.
E’ sicuro che dopo quest’ennesima esperienza non
si sia più recato a Napoli, almeno per questioni “artistiche”.
1) Per l’esatta cronologia della ricostruzione
barocca della cattedrale cfr. F. D’ELIA, La chiesa cattedrale di Gallipoli,
Gallipoli 1906; una messa a punto del ruolo delle maestranze è in M. CAZZATO,
Note documentarie sull’architettura di Gallipoli tra ‘500 e ‘600,
in: “Nuovi Orientamenti”, XIV, n. 79-80, 1983.
2) Questa acquisizione è di particolare rilievo
perché individua in mastro
Francesco Bischetimi l’artefice già impegnato nella “fabbrica della chiesa”
prima della ricostruzione del 1629; non a tutti è noto che questa ricostruzione
si rese necessaria perchè la preesistente struttura era insufficiente
(“parvae capacitatis”) e staticamente pericolosa come attestò mons. Montoya
nella visita del 1660 (in ACVG, c. 46 r.)
3) ACVG, Contro il clerico Salvatore Allegretto
trovato che leggeva un cartello affisso nel muro di S.Agata, 1624,
n.860.
4) L’immagine di S.Cristoforo, spesso di proporzioni
gigantesche, veniva raffigurata
normalmente anche accanto alle porte urbiche.
5) ACVG, Processo contro Antonio Roccio de
Gallipoli, 1681, n.2738.
6) Cfr. Visita di mons. Cybo,( trascrizione postuma presso E. Pindinelli per la
quale cfr. Civitas Confraternalis cit. p.11, n.12)
7) Per la bibliografia relativa a quest’opera cfr. M.S.CALO’, La pittura
del Cinquecento e del primo Seicento in Terra di Bari, Bari 1969,
p.76; la pala era stata attribuita già da Bonaventura da Lama (1724) a
Tiziano; sulle sue vicende più antiche cfr. B. RAVENNA, Memorie istoriche
della città di Gallipoli, Napoli 1836 e Alezio 2000, pp.361-62.
8) L’autografia di quest’opera fu per la prima
volta sciolta correttamente da N. VACCA in Per Gianserio Strafella,
estr. da “Arte antica e moderna”, n.6, 1959 p.230; inoltre L. GALANTE,
Sintonia e varianti della pittura salentina nell’incontro con la cultura
metropolitana, in “Barocco” leccese, Milano 1979, p. 254; una
buona scheda e un’altrettanto ottima riproduzione a colori è in G. GRECO,
Gianserio Strafella (XVI sec.) pittore copertinese, Galatina 1990,
pp.67-9.
9) Per gli affreschi venuti alla luce nel corso
dei restauri degli anni ‘60 cfr. G. NONGIELLO, Il restauro della chiesa di Santa Maria dell’Alizza in Alezio,
estr. da “Arte Cristiana”, 1974, n.613, pp.225-36.
10) Avanzata da M. D’ELIA in Mostra dell’arte
in Puglia ecc.(Catalogo), Roma 1964, pp.138-41; è di questo avviso
L. GALANTE in Sintonia e varianti
cit., p.263. Tesi non più sostenuta nel saggio La pittura barocca in
La Puglia tra barocco e rococò, Milano 1982, p.170.
11) La scomparsa dello Strafella avvenuta dopo
il 29 dicembre 1571 e prima del 6 agosto 1573, probabilmente nel 1572,
è stata stabilita da N. VACCA in Nuove ricerche su Gian Serio Strafella
da Copertino, in “Archivio Storico Pugliese”, 1964, p.21; cfr. inoltre
G. GRECO, Gianserio Strafella cit., p.29.
12) In alcune residenze civili di Gallipoli si
scorgono ancora, all’esterno, superfici affrescate (cfr. palazzo Leopizzi,
loggia a primo piano); è una tradizione della quale esistono ancora notevoli
esempi nei centri dell’hinterland gallipolino come Parabita e soprattutto
Matino. Sui settecenteschi affreschi araldici nel Palazzo della Regia
Corte di Gallipoli cfr. M.CAZZATO-E.PINDINELLI, Dal particolare
alla città. Edilizia architettura e urbanistica nell’area gallipolina
in età barocca, Alezio 2000, pp.135-6, con relativa bibliografia.
Da un documento del 1717 si ricava il nome di tre affrescatori locali:
Pietro Pacella, Vito Occhilupo e Carmelo Marraffa, attivi proprio nel
palazzo della Regia Corte. Da segnalare gli affreschi residui del chiostro
del convento dei domenicani di Gallipoli e quelli successivi del chiostro
dei francescani. Le superfici maiolicate delle facciate di alcune chiese
confraternali (Purità, Crocifisso e Angeli) sostituiscono sicuramente,
dalla seconda metà del XIX secolo, precedenti affreschi.
13) Nella voce dedicata al pittore nel volume
22, Roma 1979, del Dizionario biografico degli italiani, p. 282.
14) Visita di Mons. Montoya cit., 1660,
c.46r.
15) Cfr. Appendice, doc. n. 3.
16) B. RAVENNA, Memorie cit., p.531.
17) Cfr. P. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento
a Napoli. 1573-1606 l’ultima
maniera, Napoli 1991.
18) Cfr. L.M. LOSCHIAVO, Storia di Piedigrotta,
Roma 1975; L. GALANTE, Sintonia e varianti cit., p.164; sulla tela
del Cobergher cfr. G. PREVITALI, La pittura del Cinquecento a Napoli
e nel Viceregno, Torino 1978, tav. 84; inoltre B. RAVENNA, Memorie
cit., p.465 (per le vicende della tela del Catalano).
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