Il Mal Ladrone di Gallipoli.
Dal Ghigno satanico all' "orrida
bellezza", ovvero:
dal misticismo secentesco all'estetismo
dannunziano.
di
Elio Pindinelli
I
dubbi e le considerazioni esposte da Vacca(i), Liaci(2) e Petraglione
(3) sono stati superati definitivamente dalla pubblicazione, nel 1976,
dei “Taccuini”(4) di Gabriele D’Annunzio, nei quali risulta annotata con
caparbio dettaglio la sosta in Gallipoli, nel luglio del 1895,
del vate prima del viaggio nell’Hellade con Scarfoglio, Masciantonio,
Hérelle e Boggiani.
Su
quei taccuini D’Annunzio descrisse la visita fatta al “Malladrone” di
Gallipoli la sera del 28 luglio, prima che cominciasse, nella festaiola
Gallipoli estiva, il “gran frastuono di banda musicale, di gran
cassa, di campanelle come in una fiera” al di la del ponte, sulla
passeggiata del corso XX Settembre dove “un
gran sedile in muratura si prolunga(va) da un capo all ‘altro; e la gente
vi sta(va) seduta, di fronte al porto”.
In
verità, a differenza del Petraglione, che aveva attribuito ad altri anonimi
autori gran parte dei riferimenti dannunziani a Gallipoli, sia Vacca che
Liaci avevano risolto senza troppe difficoltà tali questioni, dando per
scontata una certa conoscenza diretta dei luoghi e dei momenti di vita
gallipolina da parte del poeta abruzzese.
Anche
se Liaci, pervaso di euforico ardore per il natio loco, non s’accorse
di aver superato i limiti del contributo storiografico anticipando fantasiosamente
quella visita all’ “orrida bellezza”, rappresentata dal Malladrone
di Gallipoli, con l’osservare che: “essere in Gallipoli e non vedere il Malladrone per i forestieri è un
peccato imperdonabile “. Con ciò superando in fantasia la stessa realtà
descritta da Dannunzio, che a Gallipoli visitò la chiesa di S.Francesco
d’Assisi e dove il custode si offrì di mostrargli “il mal ladrone”, ripetendo
gesti antichi e abbandonati solo alla fine degli anni ‘40(5) con l’avvento dell’energia elettrica:
“Accende
una candela in cima a una canna e ci conduce in una cappella oscura. Sollevando
il moccolo illumina una figura di legno dipinto inchiodata ad un ‘alta
croce. Il fantoccio ha una strana espressione di vita atroce, nell ‘ombra
“(6).
Ma,
ciò che oggi appare eccezionalmente sorprendente, è la successiva sostanziale
adesione del poeta a quella che, per molti, sembrò postuma fantasia di
Liaci, confermando quello che fu il sentimento comune della gente del
luogo per cui, non vedere una curiosità come quella rappresentata dal
mal ladrone rappresentava per il forestiero una grande occasione mancata.
Il
29 luglio di quell’anno, infatti, il poeta annotava sul suo taccuino di
viaggio: “Scendiamo a terra per fare qualche spesa. Alcuni gallipolini ci offrono
di mostrarci “il mal ladrone “. Sembra
che questo crocifisso sia il personaggio più importante della città”
In
effetti, questo fantoccio di legno ha avuto nel tempo, e da subito, una
strepitosa fortuna, avendo infervorato la fantasia popolare più di quanto
avrebbe dovuto fare nelle intenzioni del suo ideatore, il castellano Giuseppe
Della Cueva, il gruppo ligneo della “Crocefissione”(7), di cui appunto
la statua faceva parte, nel cappellone del S.Sepolcro in S.Francesco.
Infatti,
una sostanziale adesione alle intenzioni e volontà del committente riscontriamo
nei contemporanei del castellano spagnolo, basti per tutti pensare a “La Ghirlanda interrotta “(8) di Tommaso Saverio Stradiotti in cui
è contenuta “la Pietà ingegnera
overo Il sepolcro di Christo, cappella nella Chiesa di S.Francesco d’Assisi
in Gallipoli fondata dal Signor D. Giuseppe della Cueva castellano di
detta città” ed a lui dedicata dal padre dell’autore, Filippo.
Anche
L.A. Micetti, nelle sue manoscritte “Memorie storiche”, descrivendo i
meriti di Giuseppe Della Cueva(9), che gli fu contemporaneo, menziona
doverosamente il cappellone del S.Sepolcro senza farsi però condizionare
dalla presenza del mal ladrone, che non cita, soffermandosi invece sul
consistente apparato epigrafico approntato a corredo dei due sepolcri,
costruiti per sè e per i futuri castellani spagnoli di Gallipoli(l0).
Chi
ne scrisse dopo, accreditò una valenza artistica e di catechesi ben lungi
da ciò che fu la cultura e la mistica secentesca.
Anzi
a ben riflettere, lo stesso Tommaso Stradiotti, nella sua opera dedicata
al Della Cueva, sembra dettare le linee originarie di un’idea di salvezza
umana esaltando 1’ “opra immortale” eretta dalla “pietà
ingegnere, fabro lo zelo, e le virtù 1 ‘artiere” in cui scolpito è
raffigurato “vivo pur troppo il
già defonto Dio”(ll).
E’,
cioè, l’umanità salvifica di Cristo Dio redentore ad essere al centro
di un profonda riflessione umana e cristiana, trasfusa in alcune odi e
canzoni non per caso dedicate all’amore di Maria Maddalena presso la tomba
di Cristo “onde dolente! versava
Maddalena! lacrime luttuose/ e sotto fosco e tenebroso velo! per la morte
d’un Dio piangeva il Cielo”(12), o “all’Huomo morto...che sù breve respiro! d’una vita fugace! quasi fatto
immortale! eterno il viver tuo folle lusinghi “(13).Ma è soprattutto
il Buon Ladrone, che accanto al Crocefisso fu illuminato dalla fede, ad
attrarre la vena poetica dello Stradiotti condensando nel concetto dell’amore
divino l’unica via di salvezza attraverso cui l’uomo “tuo lucifero splenda in paradiso”(14).
Non
diversamente dal testo delle quattro iscrizioni marmoree, dalla chiara
funzione celebrativa delle virtù del castellano e di sua moglie, la duchessa
Anna Massa Capece, e “para gloria del Altissimo y devocion de los
fieles “.
L’apparato
decorativo, quindi, fu tutto affidato alla rappresentazione teatralizzata
della Passione di Cristo, nel solco di una tradizione devozionistica francescana,
consolidatasi alla fine del Seicento soprattutto con le numerose riproduzioni
plastiche del Calvario francescano e i crocefissi lignei lavorati da frate
Angelo da Pietrafitta(15), con ai lati l’Addolorata e S.Giovanni, così
come li aveva raffigurati, dipinti in tela, uno dei i primi pittori francescani
riformati, fr. Giacomo da San Vito(16).
Anche
se la “sacra rappresentazione” di Gallipoli,
rispetto a questa iconografia francescana, appare piu complessa con la
presenza dei ladroni giustiziati accanto al Redentore e nella variante
non già del Cristo Crocefisso, bensì del Cristo Morto.
In
effetti, il riferimento ai due ladroni, nel panorama iconografico pittorico
salentino, è tanto raro da potersi fare appena due citazioni: la Crocefissione
di D.A.D’Qrlando, nella chiesa matrice di Galatone, e quella esistente
in S.Niccolò dei Greci, a Lecce.
Per
poter comprendere a pieno 1’ “animus
pietatis” del committente gallipolino, occorre osservare che nel mondo
cattolico del tempo la mistica critologica è sempre presente, accanto
alla Mariologia, e l’immagine divina del Cristo sofferente è oggetto spesso
di un devozionismo esasperato che costringeva molti direttori spirituali
ad interventi prudenziali nei confronti di fenomeni mistici prodotti dall”’ebbrezza
d’amore” suscitata dalla contemplazione delle piaghe del Signore.
E
l’ambiente religioso salentino risentiva dell’azione culturale svolta
da una schiera di letterati, tra i quali, e solo per citarne alcuni per
i loro documentati rapporti con l’ambiente francescano gallipolino, padre
Bonaventura Morone(17), che pubblicò nel 1611 il Mortorio
di Cristo, e padre Francesco da Seclì( 18) con i suoi opuscoli mistici
e le opere di teologia ascetica, così intimamente legati all’ascetismo
di S.Bonaventura e che, come ha sottolineato P.Benigno Perrone(19), contribuirono
a rendere familiare, in ambito saientino, la meditazione sulla passione
di Cristo.
Ma,
con la cristologia, il motivo della “buona morte” restò centrale nella
spiritualità sei-settecentesca, tutta pervasa dalla meditazione della
morte e con grande richiamo nell’iconografia religiosa. Non bisogna dimenticare
al riguardo il grande influsso esercitato dai De
arte bene moriendi dei Bellarmino, la trattatistica dei Bartoli e
l’oratoria sacra del Segneri.
Ecco
allora che il monumento galiipolino, collocato nel suo tempo e nel suo
ambiente culturale, si ricompone come per incanto in una prospettiva di
meditazione a tutto campo sulla missione saivifica di Cristo, morto per
la redenzione dell’uomo. In ciò assumendo un ruolo di grande potenza drammatica,
fondendo insieme componenti allegoriche, dogmatiche e religiose; trasfigurando,
con grande senso dei contrasti, i simboli dell’amore e del dolore, del
pentimento e della ingiuriosa ironia, della redenzione umana e della dannazione
eterna.
E’
così che alla fine emerge nell’immaginario collettivo, coltivato nelle
temperie della cultura sei-settecentesca, più che le simbologie mistiche
e le ritualità devozionistiche per il Cristo morto, l’affascinante contrasto
figurativo e di grande capacità comunicativa tra la serenità celestiale
dei santo buon ladrone Disma(20), convertito per forza di fede dal Dio
Crocefisso, e l’ira tormentata e tormentosa di Misma, il mal ladrone,
simbolo del peccato e testimonianza visibile di attributi, che il Segneri,
in una delle sue note prediche, assegnò a “un voito sì spaventoso a mirarsi,
che ben vi si potea leggere sulla fronte descritta la dannazione”(21).
Come
meravigliarsi allora che tali fattezze, tanto orripilanti da somigliare
all’orridezza stessa del peccato, non abbiano potuto valicare la barriera
culturale religiosa del tempo in cui nacque, per affermarsi ancor più
in pieno positivismo e rilanciarsi in pieno romanticismo, quando l’uomo
veniva rappresentato (basti la citazione ai “Dualismi” di Boito) “Librato
fra un sogno di peccato e un sogno di virtù” in una concezione della
vita in continuo contrasto fra aspirazioni angeliche e tendenze demoniache,
rese quasi sempre mediante visioni truculente, mostruose e sepolcrali.
Gabriele
D’Annunzio superò il romanticismo in una visone classicistica del bello
tanto da far azzardare 1’ ardita definizione di “orrida bellezza”, che
il Liaci(22) diede, attribuendola al poeta abruzzese, al volto di Misma.
Una
definizione legata all’estetismo dannunziano, tale da far trasfigurare
nelle sembianze luciferine del mal ladrone un’ affascinante attrattiva
nell’ immaginario collettivo popolare, vivacizzato dalle immagini poetiche
rese, fino a qualche decennio fa, da una sparuta schiera di letterati
locali che sul tema del “malladrone”, in più riprese, si vollero cimentare.
F.Saverio
Buccarella, che fu non spregevole poeta dialettale gallipolino e che,
dopo una intensa esperienza conventuale(Padre Gabriele) e di prete secolare,
gettò l’abito talare alle ortiche, dedicò al Misma gallipolino un componimento
dialettale che ancor oggi si recita: “Puh...
ci si bruttu ci te cascia ‘utta. . .!ci
te vidia de notte, largu sia,!cu sta facce rrignata e cusì brutta,! sarà
ca me cacava pe’ la via...!Cazza! ca stringi li tienti, e mosci tutta!
la raggia ci de l’anima te ‘ssia... “(23).
A
tale richiamo non resistè neppure Luigi Sansò(24) che nella sua Kallipolis
dedicò il XXVIII sonetto a “Misma, il Mal ladrone” in cui, individuando
il segno del suo spirito pravo “nel
biancor dei (s)uoi denti lo scherno!satanico col riso aspro e beffa rdo!del
mal che pugna contro il Ben superno” lo raffigura con “... il capo giù, verso l’Inferno!che già ti chiama, ed il tuo andare è tardo;
con perduta ombra il bistro dell’eterno livore infosca il tuo sinistro
sguardo “.
E
sul tema si volle misurare anche il nostro Giulio Pagliano(25), proprio
quando Arnaldo Mondadori andava pubblicando l’edizione di tutte le opere
di Gabriele D’Annunzio e riecheggiava nelle pagine della “Beffa di Buccari”
il nome di Umberto Biancamano che fu uno dei “trenta
in una sorte! e trentuno con la morte~~ e “concittadino
dei vecchi crocefissi Misma e Disma. . . nato
nella bianca Gallipoli all’ombra dei più pingui ulivi salentini”(26).
Scrisse
un sonetto, attribuendolo con schersoso inganno al vate abruzzese in cui
inserì il riferimento alla ferocia del ladrone “col
volto scellerato e belluino! che mastro Vespasiano Genuino(27)!con maschia
possa nel suo legno pinse “. Inganno che lo stesso Pagliano dovette
subito svelare di fronte alla facile credulità del gallipolino.
Il
Malladrone, d’altra parte, aveva culturalmente stratificato, come la salsedine
del loco natio, la cultura ed il fervore localistico del Pagliano che
in un’altro suo sonetto(28) immaginò di lenire l’ardore del suo animo
inquieto rifugiandosi “ansioso d’ombra e difrescura!nei silenzi del bel tuo San Francesco!ove
non brucia questo solleone” e dove sperò di trovare “re quie per cotanta arsura;!scende dall ‘alto come vento fresco!la risata
di Misma Malladrone “.
Cosa
sia alla fine rimasto di questa tradizione e di questa cultura, che attraversa
tre secoli di storia cittadina, ce lo descrive lo stesso Vincenzo Liaci(29)
in un suo raro scritto del 1956: “La
lebbra del peccato-dice il popolo di Gallipoli- gli sbrindella le vesti.
Al malladrone non gli duran più di un anno! E quando di un uomo rotto
ad ogni vizio, con gli abiti segni evidenti d’incurabile lerciume si vuol
dare espressivo riscontro, sibila feroce staffilata: “ssamlj allu mallatrone
de Caddipuli”.
1) N.VACCA, D’Annunzio a Gallipoli “verso 1 ‘Ellade santa “, In “La Gazzetta del Mezzogiorno”,
15.6.1948; IDEM, IL ghigno del “Malladrone” colpì la fantasia
di D ‘Annunzio, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 28.6.1952.
2) V. LIACI, D ‘Annunzio a Gallipoli.
Il contributo della fontana greco romana all’ispirazione del Poeta, In
“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 8.8.1948.
3) G.PETRAGLIONE,
Gabriele D ‘Annunzio e la Puglia,
in
“Japigia”, a.IX (1949) n.2.
4) G.D’ANNUNZIO, Taccuini, a
cura di E.Bianchetti e R. Forcella, Milano 1976.
5) L’impianto elettrico nel tempio francescano, in “Il Giornale d’Italia”,
23.3. 1949
6) Un riferimento diretto a questa esperienza del poeta in Gallipoli
ècontenuta in. G.D’ANNUNZIO, La Seconda amante di Lucrezia Buti, in
Tutte le opere di Gabriele D ‘Annunzio, Ed.Arnoldo
Mondadori, 1929, p.222: “E mi ricordo
del Pugliese di Gallipoli che mi raccontò come una sera entrasse nella
chiesa dòpo i vespri per vedere “il mal ladrone” e accendesse un moccolo
in cima a una canna e s ‘arrischiasse nella cappella buia e sollevando
il moccolo scoprisse in cima alla croce l’uomo; che si mise a sollevare
le palpebre, a roteare gli occhi, ad ansimare, e a dibattere le mani confisse
con tanta furia che gli rimasero entrambe nei chiodi come due nottole
mentre i moncherini gli ricascavano giù
7) Bonaventura Da Lama, Cronica dei minori osservanti della Provincia di S.Niccolò, Lecce,
O.Chiriatti, 1724, parte Il p. 143: “...vi
pose Cristo morto dentro una tomba, due statoe di Maria, e Giovanni in
mezzo della cappella, che piangono la morte di Cristo, ed i due ladroni
Disma, e Misma scolpiti al vivo su ‘1 legno
8) T.S.STRADIOTTI,
La Ghirlanda interrotta, Appresso Pietro Micheli, Lecce
1684.
9)L.A. MICETTI,
Memorie storiche di Gallipoli,
Ms.n.
347, fol.425, presso la Biblioteca Provinciale di Lecce:” Reggio Castellano per S.M. di detto castello è il Capitano di cavalli
e corazze spagnole D. Gioseppe della Cueva Cavaliere spagnolo, naturale
del Porto di S.Maria, che trenta tre anni sono in età d’anni ventisei,
venne in esso, mandato dall’Invittissimo Monarca Felippo Quarto di gloriosa
memoria, il quale avendo conosciuto il suo gran merito, e serviggi fatti
alla Real Corona, li confidò in tal ‘età, tale fortezza per discanzo alle
sue molte, e gloriose fatighe... (fol.33) . ..Per
morte del Bragamont venne per interim d. Francesco De Castro, che governò
due anni et mesi questo castello, et nel 1657 venne per castellano in
capite d. Giuseppe della Cueva, che hoggi ancor vive: egli è stato un
buon cavagliero, Padre veramente della città, amico di opere pie, molto
caritativo a segno, che la maggior parte delle sue entrate ha dispensato’sempre
à poveri; difensore acerrimo della città e dell ‘Innocenza; si casò con
la signora d. Anna Massa Capece, chefù duchessa di Lizzano, con la quale
visse vent’un ‘anno, essendosi morta à 23 giugno 1689; passò poi alle
seconde nozze con la signora d.Laura Guarini, che fù marchesa di trepuzze:
Dama di qualità non ordinarie, di bellezza singolare, et di bontà di vita
impareggiabile, con la quale vive, nè con la prima, nè con la seconda
moglie, hàfattofigli”(fol.425)
10) IBIDEM, fol.443v.-444r. “Di conspicio in detta chiesa vi si trova un quadro del glorioso Patriarca
S.Francesco pittato sopra legno di cipresso dal famosissimo Tiziano opra
veramente eccelsa, che muove che ci sia ad ammirarla. Egli si trova dentro
la nuova gran cappella del Santo Sepolcro, fatta insin dalle fondamenta
dal signor D. Gioseppe della Gueva regio Castellano per S.M. in questo
Regio Castello, in mezzo la quale vi è il sepolcro fatto fare dal medesimo
per sé, e tutti suoi futuri castellani con la seguente inscritione in
lingua spagnola
Sono tre le iscrizioni riportate dal Micetti
di cui due oggi scomparse. Una quarta iscrizione in lingua spagnola esiste
ancora, il cui testo èriportato da B.PERRONE, I Conventi della seraflca riforma di S.Niccolò in Puglia (1590-1835),
Congedo ed., Galatina 1981, pp.32-33. 11)T.S.STRADIOTTI, La Pietà ingegnera, in La Ghirlanda
interrotta, cit., p.83
12) IDEM, Maddalena presso la tomba di Giesù morto, in
La Ghirlanda cit., p.100
13)IDEM, L’Huomo morto, in La Ghirlanda cit., p.lO6
14) IDEM, Il buon ladrone in croce a Christo spirante, in La Ghirlanda cit., p.l41
15) Tra le opere di questo artista,
fatto venire appositamente nel Salento dalla Calabria tra il 1693 ed il
1696, si segnalano in particolare il Calvario francescano nella Chiesa
di S.Giovanni Battista di Turi e nella chiesa di S.Maria di Loreto di
Mesagne, e il Crocefisso ligneo sullo sfondo della tela dipinta con Maria,
Maria Magdala e Giovanni, in S.Maria delle Grazie di Altamura.
16) Questo artista dipinse per
la chiesa francescana di Gallipoli la tela di S.Anna e ci ha lasciato
alcune Crocefissioni tra le quali, quella oggi
conservata a Lecce presso la pinacoteca francescana, con in primo piano
Maria, Marià Magdala e Giovanni e sullo sfondo S.Francesco d’Assisi.
17) Padre Bonaventura Morone rievocò
in una delle sue opere gli anni
del noviziato ed una tempestosa traversata in
barca, affrontata in quegli
anni, da Gallipoli a Taranto. Cfr.B.MORONE,
Rime sacre, Napoli
1619, pp.2T7-331.
18) Padre da Seclì pubblicò nel 1639 un Viaggio di Gierusalemme
iniziato dal porto di Gallipoli il 31.5.1628.
Durante questo viaggio si
fece tatuare sul braccio, a Betlem, l’immagine
del Santo Sepolcro. Dal
1645 dimorò nel convento gallipolino di S.Francesco
dove mori in odore
di santità il 14.7.1672.
19) Cfr. B.PERRONE,
Storia della Serafica riforma
di S.Niccolò in Puglia, Ed.Soc.Storia Patria per la Puglia, Bari 1981, pp.275.
20) Il
Buon Ladrone è venerato come Santo dalla Chiesa Cattolica.
Papa Sisto V approvò nel 1587 l’ufficio proprio e la messa del Santo con
ricorrenza il 24 aprile.
21) P.SEGNERI,
Quaresimale, Napoli 1836, p.66. Paolo Segneri, fu notissimo predicatore
gesuita, morto nel 1694 ed autore di molte opere tra cui il Quaresimale che ebbe innumerevoli edizioni
fino all’ 800, come dimostra l’edizione citata.
22) V. LIACI, D ‘Annunzio a Gallipoli,
cit.
23) Cfr. E.VERNOLE, Poeti dialettali,
in “Rinascenza Salentina”,
A.IX
(1941), n.2, p.99.
24) L. SANSO’, KALLIPOLIS, Tip. Stefanelli, Gallipoli, 1933, p.313.
25) Cfr. G. FRANCO, Uno scherzo poetico. D ‘Annunzio a GallipoliUna beffa di... G.Pagliano,
in “1 8~ Meridiano”, Numero di saggio,
Alezio 28.4.1963.
26) G.D’Annunzio,
La Beffa di Buccari, In Tutte le opere di Gabriele
D’Annunzio, Ed.A.Mondadori, 1932, p. 176.
27) Il primo ad attribuire l’opera
al gallipolino Vespasiano Genuino fu B.Patitari che nel suo manoscritto, oggi custodito dalla Biblioteca
comunale di Gallipoli, e databile attorno al 1789, così annotò: “Il Cappellone del S.Sepolcro, fu fatto in
sin dalle fondamenta del sig. D. Giuseppe della Queva, regio castellano,
in mezzo del quale vi è il Sepolcro per se, e tutti li futuri castellani
con molte iscrizioni: sopra del Sepolcro vi è un immagine di S.Franc.co
dipinto sopra legno di cipresso, opera del fu famosissimo Tiziano, ed
alli lati vi sono il buono e mal ladrone, che veramente sono il non plusultra
della scoltura, fatiga del fu Genoino nostro paesano “. Tale (a nostro
parere) acritica attribuzione, fu poi ripresa ed accreditata dal L.Riccio
e da P.Maisen. In altra sede andranno definite le questioni aperte, non
solo sulle singole attribuzioni, ma anche sui dati biografici dei componenti
della famiglia Genuino, che annovera non meno di tre Vespasiano. Tranne
Francesco, che fu cappuccino e morì nel 1667, non risultano altri frati
di questa famiglia.
Circa le attribuzioni delle statue superstiti
del Santo Sepolcro occorre sottolineare che il Cristo morto è opera certamente
contemporanea al Castellano Della Cueva essendo firmata da Diego Villeros,
lo stesso che, nel 1678, scolpì, per l’altare della Confraternita delle
Anime, le statue dell’Angelo Custode e di S.Teresa. Sopravvivono inoltre
i busti delle statue lignèe di Maria, di Giuseppe d’Arimatea, di Maria
Magdala e di Giovanni, che adornavano fino a qualche decennio fa la cappella
del Santo Sepolcro. Anche se tali reperti aprono nuove ed interessanti
questioni sul problema délle attribuzioni. Sul retro del busto della statua
di 5. Giovanni (?) vi è inciso il nome dell’artefice , il gallipolino
Vincenzo De Vittorio e la data 1791.
28) O.CATALDINI, Giulio Pagliano
poeta, in AA.VV., Cultura salentina. Proposte, Congedo ed.,
Galatina 1983, pp.17-24.
29) V. LIACI, Il Malladrone di Gallipoli,
in Poesie storie e leggende,
a cura del Patronato scolastico di Lecce, Tip.Pajano,
Galatina, 1956, n.29.
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