I
PARAPIOGGIA
Il
20 giugno 1750(1) di fronte al notaio Liborio Crusi si costituisce il
procuratore del Capitolo di Gallipoli, D.Domenico Rausa, da una parte.
Dall’altra, come scrive l’estensore del documento,Tommaso e Adriano Preite
di Copertino e Pasquale de Noto di Gallipoli, tutti “mastri muratori”.
Il
procuratore dichiara che il Capitolo possedeva “un compren-sorio di
case dirute sito e posto nel luogo ove si dice S.Antonio Abate alias del
fuoco”; per questo i suddetti mastri si offrirono di riedificare l’immobile
secondo il “disegno da’ medesimi formato e la pianta della fabbrica di
dette case da eriggersi... quale pianta in disegno fu l’ultima che al
rev.mo Capitolo piacque, ad esclusione di molti altri disegni formati
da altri mastri muratori”.
La
somma occorrente fu di 1050 ducati; il cantiere fu aperto all’inizio del
successivo mese di luglio e doveva concludersi, come si concluderà, nel
maggio del 1751.
Nella
convenzione fu stabilito che in facciata dovevano eseguirsi “due logge...corrispondenti
alle due scale maggiori, e che le medesime logge siano scoverte, ma che
in esse vi fusse un arco tondo all’altezza del cornicione...”. Interessante quest’annotazione di carattere tecnico:
“che
tutti l’astrichi ed intonicature si debbano fare ... di calce e tufo ...
alli quali possano frammis-chiare nozzolo di saponera; e tutte
dette case si debbano imbiancare secon-do il solito di questa città”.
I
parapioggia delle finestre sono denominati come difese; l’arma del Capitolo
doveva essere “della pietra di Daliano”.
Qualche
anno dopo, precisamente il 24
marzo 1753(2), il medesimo Capitolo affida a Tommaso, Adriano, Salvatore e Domenico Preite mastri muratori
la ricostruzione di un comprensorio di case dirute “sito e posto nell’abitato
di Gallipoli, nel luogo detto la Madonna dell’Angioli, confinanti con
la Congregazione dell’Angioli, le case di D.Mario Tredeci, strada pubblica
ed altri confini”.
I
mastri fecero i soliti disegni richiedendo 1080 ducati per l’impresa
costruttiva che iniziarono il 26 marzo e completarono nel dicembre del
1753.
Nel
tredicesimo patto della convenzione è prescritto “che alle finestre
e porte che guardano la strada debba camminare una fascia di stucco a
torno”. Nell’ultimo, il diciottesimo, è scritto: “tutte le camere
superiori ed inferiori fussero di lamia tonda a mezza botte, e quelle
inca-sciare secondo il solito di questa città, di fabrico rustico”.
Sorvoliamo
sulle maestranze che realizzarono questi edifici, a Gal-lipoli attive
già dal 1741 in occasione della ricostruzione della chiesa confraternale
del SS. Crocefisso(3).
Analizziamo
invece alcuni contenuti “tecnici” delle due “convenzioni”. In quella del
1750 il disegno di progetto prevedeva “due logge... corrispondenti alle due scale maggiori...
scoverte ...all’altezza del cornicione, ovviamente a primo piano.
E
difatti due grandi arcate a giorno, impostate su altrettantimignani(4), nonostante
le trasformazioni subìte dal prospetto, animano ancora il palazzo del
Capitolo di via Bosco.
Le
difese, ossia i parapioggia originari delle aperture, sono ora completamente
trasformate da un intervento del 1926(5).
Nell’altro
palazzo del Capitolo, quello progettato il 1753, in facciata non furono previste
logge; è invece espressamente stabilito che alle aperture si dovrà
dar risalto con una “fascia” di stucco; non erano previste le consuete
cornici ma quella che è definita
anche in questo caso “difesa”,
ossia i parapioggia. Elementi
architettonici nella fattispecie
semplicissimi: una lastra lapidea rettangolare con gli spigoli risolti
da un quarto di cerchio.
Ove
si consideri, invece, la straordinaria ricchezza a Gal-lipoli di questi
particolari, si dovrà concludere che la scelta di una loro qualificazione
formale semplificata derivava sicuramente dalla destinazione dell’edificio
medesimo: civile residenza plurifamiliare. Pertanto la forma di queste “difese” non sembra per niente casuale.
Vedremo
infatti, che la sua utilizzazione e la sua forma, rientrano invece in un complesso di scelte architettoniche
fortemente gerarchizzate anche relativamente ai suoi risvolti all’interno
della stratificazione sociale della città.
*
* *
Analizziamo
ora la funzione dei parapioggia. Da un punto di vista morfologico una
finestra si configura come un’apertura praticata nello spessore del muro
costituita da una soglia, gli stipiti e l’elemento portante superiore,
l’architrave.
Nell’architettura
colta questi elementi sono sottolineati da mostre e cornici il cui risalto
maggiore è dato proprio dall’architrave anche per la sua funzione di proteggere
l’apertura sottostante dagli agenti meteorici e dai raggi solari.Questi
elementi compongono un insieme archi-tettonico le cui varianti decorative,
specialmente in periodo barocco, saranno praticamente infinite: la loro
alternanza, il ritmo della loro successione e sovrapposizione caratterizzerà
lo “stile” dell’edificio.
Viceversa
può determinarsi un fenomeno di esemplificazione di questa unità architettonica
fino a realizzare una semplice apertura provvista, come elemento accessorio
di carattere decorativo-funzionale, unicamente del parapioggia.
E’
il caso dell’architettura civile di Gallipoli che viene caratterizzata
proprio dalla straordinaria varietà formale di questi elementi: ed è singolare
che questa evidentissima particolarità non sia stata mai notata, tantomeno
valutata, in sede critica(6).
Urge
pertanto evidenziare l’articolazione formale di questi elementi architettonici
per intraprendere poi quell’analisi storica che fin qui è mancata.
Per
affrontare tutto ciò è opportuno
partire dalle forme più semplici verso quelle più complesse, avvertendo
che non si tratta di pura e semplice evoluzione formale.
Il
prototipo di parapioggia è chiaramente la semplice lastra rettangolare - composta da mattoni e di altro
materiale lapideo tenero - posta a circa 25-30 cm. dal bordo superiore
dell’apertura, altrettanto sporgente e largo poco più della luce dell’apertura
medesima.
E’
significativa la circostanza che il suo impiego è confinato quasi esclusivamente,
ma non è una regola, sulle facciate di modeste abitazioni.
Il
prototipo si arricchisce poi con una serie di tagli operati agli angoli - vedi il caso del palazzo del Capitolo di via
Briganti - fino ad investire il lato lungo che si anima di curve e controcurve di gusto pienamente barocco.
Così
da semplice riparo contro l’acqua e il sole il parapioggia diventa un
autonomo elemento architettonico che anima e caratterizza non soltanto la facciata dell’edificio ma pure la spazialità stessa della strada che assume aspetti
sempre diversi col variare delle ombre proiettate dalla luce diurna.
Che
il parapioggia diventi così un elemento autonomo, esaltato nella sua dimensione
formale, è confermato dall’eccezionale esasperazione geometrica e dalla
dimensione degli esemplari più significativi rintracciabili, ovviamente,
nelle residenze aristocratiche: anche in queste unità minime di significato
si è voluto imprimere lo status della committenza.
E
qui è appena il caso di accennare alle aspre lotte che coinvolsero, specialmente
nel sec. XVIII, i vari “ceti” che componevano la società gallipolina;
ceti che non tralasciavano nessuna occasione per dimostrare anche visivamente la loro priorità: in
gioco era il controllo politico ed economico di una delle città economicamente
più prosperose del Viceregno.
L’architettura
servì egregiamente a questo scopo, insieme a tutti quegli altri attributi
che connotavano il vivere aristocratico e che G. Labrot ha efficacemente
definito segni di riconoscimento(7). E inequivocabili segni di riconoscimento devono essere
considerati i parapioggia di Gallipoli:
basti osservare quelli del grandioso
palazzo de Tomasi, Muzi o Pasca.
E
tuttavia a questi segni, tranne in casi marginali, non si conferì mai
quella dignità architettonica capace di giustificare l’impiego loro sulle
facciate principali delle residenze aristocratiche.
Se
sono utilizzati sulla facciata di palazzo
de Tomasi - questa ricchissima famiglia, intorno al 1717 intentò una causa
contro l’università di Gallipoli perchè il suo stemma era stato dipinto
“nella sala della regia Corte... senza corona ma so-lo con elmo e cimie-ro”,
in dispregio, si riteneva, della loro nobiltà e del “titolo di conte
palatino” e delle “molte concessioni e grazie... da’ Serenissimi Regnanti
in questo Regno oltre del costume comune”(8)- è perchè sono inseriti in delle mostre di stucco che
ripropongono lo schema classico della finestra come quello delle aperture
cinquecentesche a piano terra del medesimo palazzo; sul lato di via Crispo
i parapioggia sono non solo isolati ma addirittura semplificati come sul
lato di via de Tomasi.
Sulle
facciate secondarie il parapioggia è utilizzato sul celebre palazzo Tafuri
(via Nizza), “arricchito” qui da sinuose mostre in stucco, realizzate
su progetto dell’architetto ales-sanese Felice De Palma, uno degli esemplari
più riusciti della produzione rocaille salentina(9); sui palazzi Pasca, Monittola,
D’Ospina, Briganti ecc. ecc.
A
questo rigido schema di selezione gerarchizzata di questi elementi si
oppongono poche ma significative eccezioni. La prima è costituita dal
lunghissimo prospetto di palazzo Muzio
(via Micetti) che si articola in nove aperture al piano nobile
e cinque sul lato di via Celso tutte sormontate dal medesimo parapioggia
dal profilo articolatissimo e probabilmente costruito con l’uso di una
ingegnosa geometria combinatoria.
Come
spesso accade, anche quando l’edificio ha subìto, nel corso degli anni
diversi frazionamenti, la serie continua dei parapioggia permette di ricostruire
il suo originario sviluppo volumetrico.
Infatti
le due aperture terminali del lato destro di questo palazzo appartengono
ad un altro edificio che ha l’accesso da via Coppola, appartenuto nella
seconda metà del ‘700 al ricco negoziante di nobili natali Filippo Coppola;
qui ai parapioggia è applicata una sorta di nappatura che arricchisce
questa tipo-logia in direzione del fenomeno dell’effimero che a Gallipoli
ha una buona tradizione anche per l’uso in facciata dello stucco che permette notevoli variazioni e commistioni decorative(10).
Per
palazzo Muzi è probabile, tuttavia, che la persistenza in facciata dei
parapioggia derivi da un’interruzione forzata di un progetto di ristrutturazione
dell’edificio: così farebbe pensare l’interessante portale in stucco,
tipologicamente da assimilare a quelli di palazzo Romito (1751-1770) e
di palazzo Pasca, il cui asse è spostato rispetto alla soprastante apertura
.
Un’altra
eccezione è costituita dal cinquecentesco palazzo Pantaleo (via A.De Pace)
sopraelevato nei primi anni del XVI secolo ma evidentemente ristrutturato
nel ‘700; ma questa famiglia non poteva certamente
essere considerata doviziosa(11), anche se in un documento del 1790 che testimonia gli
elementi strutturali che costituiscono
il prestigio della nobiltà gallipolina, così è scritto: “la famiglia
di Don Francesco Panta-leo si è sempre mantenuta con lustro e decoro.
Attualmente si mantiene con un ser-vidore e donne di servizio”; situazione
molto diversa da quella della famiglia di “D.Oronzo Serafinisauli,
barone di Tiggiano, che si è sempre mantenuto con lustro e decoro,
ed attualmente si mantiene con sei mule per uso di carrozze, e con servitù
composta di cocchiere, due cavalcanti, due servitori di livrea, un volante
e più donne di servizio”(12).
D’altra
parte esistono edifici nobiliari dove l’uso del parapioggia è sui lati
secondari. Si tratta di interventi collocabili nella seconda metà del
‘700 e caratterizzati dalla totale trasformazione delle preesistenze.
Gli
esempi più eclatanti sono quelli di palazzo Doxi costruito intorno al
1760 dal clan dei Preite che nel decennio precedente, a partire dal 1748,
era attivo nel cantiere del vicino palazzo del Seminario: se non ci fossero,
in merito, documenti(13), il ricorso ai medesimi partiti formali testimonierebbe
da solo la comune paternità progettuale.
L’altro
esempio è rappresentato dal monumentale palazzo Romito, innalzato tra
il 1751 e il 1770 dall’omonima famiglia di ricchi commercianti oleari
di origine napoletana, forse su disegni forniti dall’architetto Emanuele
Manieri(14), che
qui declina ancora un linguaggio derivato dalle incisioni delle opere
del Borromini: senza questi illustri
ascendenti sarebbe veramente difficile capire l’origine dell’alta capacità
di caratterizzazione espressiva di alcuni particolari di questo palazzo
com’è, sui lati, la fusione delle architravi curve di due finestre affiancate(15).
In
entrambi i casi, tuttavia, si tratta di opere ideate e realizzate da artefici
esterni alla tradizione costruttiva di Gallipoli; si potrebbe così spiegare
la totale assenza del parapioggia che dunque si configura, anche a questo
punto della nostra analisi, come peculiare dell’architettura civile locale.
Siffatta
peculiarità è confermata - diversamente da quanto accadeva per esempio
a Lecce - dalla mancanza di rapporti tra architettura civile e architettura
religiosa nonostante l’identità di maestranze e committenti: neanche nel
più modesto edificio religioso, neppure in posizione defilata appare il
parapioggia, neppure nella versione curva come appare in palazzo Zacheo.
E’
possibile storicamente determinare quando si fece ricorso all’uso del
parapioggia? In verità è più facile
stabilire quando, invece, quell’uso fu negletto.
Non
compare nel neoclassico palazzo Ravenna disegnato nella prima metà dell’800
dall’architetto gallipolino Gregorio Consiglio; non compare sulle ottocentesche
facciate dei palazzi che si affacciano sulle riviere; non
compare sull’edilizia del nuovo borgo realizzato
a partire dalla seconda metà dell’800, lontano dal centro antico(16).
L’omologazione
alle vicende nazionali dell’architettura, il ruolo delle nuove professionalità,
accantonarono le tradizioni locali che sopravvissero soltanto nei piccoli
edifici e in quelli rurali.
Si trattò di un forzato mutamento del gusto che
preferiva una lingua nazionale riconoscibile, determinando la scomparsa
o la radicale trasformazione di secolari espressioni formali.
Fissato
il suo declino - comune come vedremo ad altri elementi ar-chitettonici
- cerchiamo ora di verificare la genesi del parapioggia. Ad un impianto
urbano ancora profondamente medievale le cui caratteristiche notava già
il Galateo al principio del ‘500(17), corrisponde un’edilizia che archi-tettonicamente parlando,
nei suoi esiti più antichi è impossibile retrodatare alla prima metà del
XVI secolo; lacerti di cornici e mensole su beccatelli ritenuti “medievali”
si rintracciano in qualche angolo dell’abitato, ma si tratta chiaramente
di residui di costruzioni che al massimo possono appartenere alla fine
del XV secolo, come a questo periodo appartiene il più antico esemplare
di arco acuto catalano-durazzesco, in corte Reggi.
Tutto
questo dipende, ovviamente, dalle vicende storiche della città che nel
corso dell’occupazione veneziana del 1484 sopportò un ennesimo, tragico
saccheggio; così scrissero i cittadini di Gallipoli al re Ferdinando,
per la concessione di grazie all’indomani del tragico evento: “...entrarono
li nemici [veneziani], amazando et ferendo omne persona che trovavano
et entrati posero detta città a sacco universalmente, non lassando cosa
alcuna e quello non posseano tol-lere spaccavano et abru-sciavano... città
... quale tennero circa mesi quattro trattandoci come cani ... non meno
posero a sacco la detta città, non solum dentro ma de fora... ruinando
li muri...! et lo castello, tollendo le campane dell’ecclesie...”(18).
Tragico
evento che se non ebbe - probabilmente - le devastanti conseguenze dell’assedio
angioino del 1268-69, quando la città venne quasi completamente rasa al suolo, condizionò comunque un periodo di estrema
precarietà nell’organizzazione del tessuto edilizio e nella struttura
edilizia delle stesse abitazioni.
Nacque
probabilmente in questo periodo, la
tipologia della casa-torre visibilissima ancora - ma in esiti pienamente
cinquecenteschi - in tutto l’abitato (via Ferrai, via Contarini, via Bosco,
via Fontò ecc.).
E
della seconda metà del ‘500 sono alcuni grandi edifici che proprio per
la loro dimensione razionalizzarono
i precedenti tracciati della città medioevale; è il caso del lungo prospetto
di palazzo Balsamo (via A.De Pace, di fronte al Seminario e alla Cattedrale)
ampliato nel 1781(19); del vicino palazzo Pirelli, proprio di fronte alla
cattedrale e, come il precedente, provvisto di un robusto arco catalano-durazzesco(20), del palazzo d’Acugna ecc.
Del
primo ‘600 è il palazzo Venneri. Su questo edificio, neppure sui
lati secondari, si rintraccia l’uso del parapioggia; le aperture sono
tutte realizzate secondo lo schema classico.
Ma
c’è un esempio che può essere risolutivo della questione. Alla fine di
via Ferrai, angolo con via Rosario, c’è un modesto esemplare di casa-torre
cinquecentesco in parte conservato, in corrispondenza del civico 4; l’apertura
a primo piano ha subiìto un significativo
intervento: tra il fregio e l’architrave tipicamente cinquecenteschi è
stato incastrato un elaborato parapioggia tipicamente settecentesco.
Questo
episodio rende visivamente chiara la riflessione che si è maturata nel
corso di questa analisi: il parapioggia è un elemento che soltanto nel XVIII secolo
ha avuto un’applicazione costante e tanto diffusa da promuoverlo da semplice elemento funzionale ad autonomo
particolare architettonico dalle spiccate valenze urbanistiche, capace
di caratterizzare l’invaso spaziale della strada.
Che
quest’osservazione sia veritiera risulta inoltre dalla diffusione di siffatto
elemento all’interno dell’abitato della città storica. Questo è bipartito
trasversalmente dall’unica arteria ad andamento rettilineo (via A.De Pace)
da est ad ovest che, grossomodo, ritaglia due settori, quello di tramontana
e l’altro di scirocco(21). Ad una prima
indagine la diffusione del parapioggia sembra uniforme, tuttavia la situazione
è ben più complessa, e nel valutarla è necessario considerare più fattori,
primo fra tutti il diffuso fenomeno di sostituzione edilizia che specialmente
dalla seconda metà del XIX secolo ha interessato interi isolatie in modo
particolare l’edilizia che si affaccia sul mare, completamente omologata,
da un punto di vista formale, a quella che contemporaneamente nasceva nel Borgo:
la prova più significativa dell’abbandono definitivo, almeno nell’edilizia
di qualità, delle caratteristiche architettoniche tradizionali.
Ora,
se il parapioggia, come singola unità architettonica significante, non
compare nell’edilizia cinquecentesca - vedi, per esempio palazzo Balsamo
su via De Pace - ed è bandito da quella ottocentesca - vedi il neoclassico
palazzo Ravenna - ne deriva, come abbiamo già osservato, che la sua utilizzazione e la sua diffusione si verificò nei due secoli barocchi(XVII-XVIII).
Di più. Il parapioggia non compare nelle ricostruzioni ex novo
di edifici barocchi “aulici” sia pubblici che privati (il Seminario, palazzo
Tafuri, palazzo Romito, palazzo Doxi ecc.).
La
sua presenza, perciò, misura quelle porzioni di tessuto che non sono state
interessate da questi fenomeni. Allora noi possiamo riconoscere nel settore
a tramontana quello che, complessivamente riguardato, conserva meno testimonianze
cinquecentesche che operazioni di sostituzione edilizia.
In
altri termini, la maggiore o minore ricorrenza del parapioggia individua
la presenza di maggiori o minori interventi edilizi sei-settecenteschi.
Una
strada come via Ron-cella è stata chiaramente ristrutturata, nelle sue
quinte edilizie nel XVIII secolo; lo stesso può dirsi per la parallela
via Zacheo, con i suoi prolungamenti laterali di corte Patitari e di Corte
S.Giuseppe, e questo fino a via Monacelle che si prolunga in via Presta.
Qui
un’ariosa bifora indica la casa “borghese”(al civico 7) del borghese più
importante della Gallipoli settecentesca, appunto Giovanni Presta (1720-17907),
medico e scienziato(22).
La
sua è la tipica abitazione altoborghese, a due livelli, spaziosa, con
“officine” a piano terra e l’appartamento in quello superiore. Se l’esterno
non presentava, come non presenta, particolari connotazioni formali, è
l’interno invece a organizzarsi come quello degli interni aristocratici.
Vediamo
perciò come appariva dai documenti
appena indicati. Morto ab intestato il 18 agosto 1797 nella sua
abitazione alla “strada detta di S.Giorgio delli Venneri” (attuale Via
Presta), gli eredi procedettero
il 13 settembre successivo all’inventario dei beni, cominciando proprio
dalla sua residenza; qui nella “sala superiore” ritrovarono “12 quadri
mezzani bislunghi di fiori e frutti...altri 7 quadri di carta piccoli...6
sedie indorate e parte colorate, una banca rotonda, un casciabanco...”;
dopo la cucina, nelle due stanze a “mano destra della sala” furono
inventariati “29 quadri grandi e 4 quadri mezzani di paesaggi; 4 piccoli
con fiori, 13 tondini, otto quadretti alla cinese, 4 altri tondini indorati;
due quantiere di legno alla cinese, 2 specchi grandi e 6 placche; 8 sedie
alla cinese; un canapè, due boffettine indorate con la veste di pelle;
un cantarano... con 15 bicchieri di cristallo, 10 chicchere”; nella
stanza seguente “un quadro con la Coronazione di spine, un Crocefisso,
S.Giuseppe, S.Vincenzo; due altri con S.Francesco di Paola e S. Francesco
d’Assisi; la Salutazione dei Magi; 9 tondini con figure, 2 placche; la
Vergine e S.Giovanni; 2 quadri mezzani; 13 sedie alla cinese e un orologio;
questa era la camera da letto.
Nello
studio c’erano due quadri grandi,
6 tondini, “il ritratto del medico Ruberti, 2 quadri di fiori; 19 vasi
di creta di tabacco”(23).
Dal
soggetto dei quadri si nota chiaramente come
fossero propri del gusto settecentesco; in questo ci conforta un documento del 1761 dal quale
si ricava che il “magnifico fisico Giovanni Presta” aveva incaricato
il pittore di Gallipoli Gaspare Lenti “a fargli alcuni quadri”,
come infatti furono eseguiti.
Dopo
lo studio un’altra camera era arredata con “8 quadri grandi, 6 quadretti
e 4 tondini”; nella “stanza laterale all’anticamera c’erano “6
quadri grandi, 4 quadri piccoli, 5 quadretti, 12 tondini, 3 specchi piccoli
e 9 sedie indorate”; seguiva un camerino. Ma la parte più interessante
era contenuta nelle “sette scanzie di libri” dello studio. Qui
eranoi conservati oltre mille volumi che costituivano, probabilmente,
la più importante biblioteca di carattere medico-scientifico di Terra
d’Otranto; in gran parte, com’era ovvio, di medicina pratica, stampati
tra il 1735 e il 1790; ma c’erano pure edizioni cinquecentesche
come la Materia medicinale di Dioscoride nell’edizione veneziana
del 1544. Il timore delle malattie veneree è testimoniato da un consistente
nucleo di edizioni stampate nel XVIII secolo, nel quale non mancava uno
dei testi sacri sull’argomento, la Lue aphrodisiaca del Boerhaave(25): nè mancava un Trattato delle scrofole(Napoli
1785), malattia endemica a Gallipoli; povera di letteratura, la biblioteca
del Presta possedeva tutti i testi degli illuministi suoi contemporanei
a cominciare da Filippo e Tommaso Briganti. In un ambiente e pian terreno
funzionava un “trappeto alla genovese”.
Un
aspetto che accomunava gli esponenti di questa classe a quella borghese
aristocratica era il possesso del “casino di villeggiatura”. La ristrettezza
del sito, le pessime condizioni igieniche, l’impossibilità, come in altri
centri, di un giardino urbano, motivazioni economiche ecc., spinsero questi
gallipolini a realizzare in campagna strutture residenziali di estremo
prestigio.
Il
fenomeno, già significativamente studiato(26), assunse nel XVIII secolo
aspetti qualitativi e quantitativi mai raggiunti fino a configurarsi come
fattore di distinzione cetuale.
E’
dichiarato infatti nel già citato documento dell’8 settembre 1790 come
le “famiglie di antichi nobili padrizi...sono altresì tutte ab immemorabili
provvedute di speciosi palagi... e di commodi casini di villeggiatura
nel feudo della medesima città, nei quali annualmente si trasferiscono
nei mesi di maggio ed ottobre, per respirar l’aere campestre”(27).
Il
casino del Presta era in località Camerelle, e risultava, come in parte
si può vedere ancora, composto di numerosi ambienti, con cappella e “giardino
serrato... con il cafeaus a poppa di nave che conduce ad un giardino di
limoni”(28).
In
questo tipo di architettura rurale compaiono tutte le gerarchie architettoniche
che invece abbiamo riscontrato in quella urbana.
L’unica
differenza è soltanto d’ordine quantitativo e decorativo. In campagna
saltano le convenzioni edilizie come momenti di differenziazione cetuale;
e questo vale, come vedremo, anche nei piccoli centri dell’hinterland
gallipolino( Alezio, Tuglie, Taviano ecc.).
Per
esempio sulla facciata del piccolo castello di Tuglie, integralmente ristrutturato
nella seconda metà del ‘700, fanno bella mostra di sè elaboratissimi parapioggia.
Ma
il patrimonio immobiliare del Presta, la struttura interna degli ambienti,
il loro arredamento, il rapporto di residenza urbana-residenza rurale
ci spinge ad altre interessanti considerazioni.
Il
Presta non aveva un oratorio privato che sembra appannaggio del ceto aristocratico,
a differenza invece, delle cappelle rurali.
E
intorno agli oratori privati, di cui possediamo un’ottima documentazione
archivistica, lo spirito aristocratico
costruisce un altro simbolo del proprio status; privilegi, legati.
officiature, cerimoniali e soprattutto l’esclusività dell’uso, ne fanno
uno spazio architettonico tipico della residenza aristocratica.
La
stessa dedicazione dell’edificio poteva legare l’oratorio al pantheon
dei protettori civici.
La
cappella rurale, aveva invece la sua principale ragione nel non pn privare
“gli addetti al coltivo di territori ed al governo delle greggi”
del conforto, almeno festivo della santa Messa, come testualmente dichiarava
il 1782 il marchese Giuseppe Palmieri che intendeva innalzare un edificio
del genere nella sua masseria “nominata l’Itri in tenimento della città
di Gallipoli”(29).
1) Archivio
di Stato di Lecce (ASL),
notar Liborio Crusi, 40/22, Conventio del 20 giugno 1750 alle cc.
107t.-113r; su quell’edificio ubicato in via Bosco cfr. E.PINDINELLI,
Architettura civile in Gallipoli tra nobiltà e borghesia, in
AA.VV., Paesi e Figure del vecchio Salento, vol.III, a cura di
A.De Bernart, Galatina 1989, p.263. L’immobile risulta quasi compiuto
l’anno successivo: cfr. ASL, 40/22, atto del 24 aprile 1751.
2)
ASL, 40/22, atto del 24 marzo 1753 alle cc. 143r.-147v.;
l’edificio in questione, un secondo
Palazzo del capitolo, è in Via Briganti: sarebbe interessante studiare
la tipologia di questi che sono, a quanto sembra, i primi edifici appositamente
realizzati per essere dati in affitto; potrebbero essere gli antesignani
dell’attuale edilizia economico-popolare.
3)
Cfr. E. PINDINELLI - M. CAZZATO, Civitas
confraternalis cit., nell’introduzione, pp.81-84; si tratta del clan
dei Preite, originari di Copertino. A loro spetta la costruzione - che
documenteremo più avanti - del seminario sul quale cfr. V.LIACI,
Un pò di storia, in “Annuario e calendario scolastico 1945-46”,
integralmente riportato, senza citare la fonte, in S. VERONA, Guida pratica. Gallipoli e
i suoi monumenti, Gallipoli 1983, pp.37-42.
4) Sull’evoluzione
e il significato di questo elemento architettonico cfr. A. COSTANTINI,
La casa a corte nel Salento leccese, Lecce 1979.
5) E. PINDINELLI,
Architettura civile cit., p.263 e fig.419.
6) Cfr., p.es., C. M. SALADINI, Gallipoli,
nell’VIII volume dell’einaudiana “Storia dell’arte italiana”, Inchiesta
sui centri minori, Torino 1980, pp.343-361. Bisogna notare, invece
che un certo interesse sui parapioggia è in Vicoli e balconi, volume
pubblicato nel 1990, a cura della Scuola Media Statale “E. Barba” di Gallipoli,
con buona documentazione fotografica.
7) Cfr. G. LABROT, Palazzi napoletani.
Storie di nobili e cortigiani 1520-1750, Napoli 1993, p.13 (specificatamente
tutto il capitolo Un sistema gerarchizzato di dimore).
8) La questione, ben più vasta e che interessò
anche la famiglia Pievesauli, è in ASL, 40/13, atto del 17 giugno
1717; alle due famiglie patrizie non fu però riconosciuto questo privilegio
per cui le loro insegne rimasero “senza corone e senza elmo ma solamente
collo scudo semplice, o ornamento che li spetta e compete, nell’istessa
forma che stanno descritte l’imprese delle famiglie nobili nel Seggio
di Nido nella fedelissima città di Napoli”.
9) Sul De
Palma e sulla sua presenza a Gallipoli cfr. M. CAZZATO, Artisti
alessanesi tra ‘700 e ‘800. Contributo alla storia civile e alla storia
dell’architettura salentina in periodo tardobarocco, nel II vol. di
Oronzo Gabriele Costa e la tradizione scientifica ecc.,
Galatina 1993, pp.91-118. In un’opera recentemente pubblicata (Parabita.
Memorie e sue antichità di Giuseppe Serino, a cura di A. D’Antico,
Parabita 1998, p.54) è scritto che i mastri Giuseppe Negro e Paolo de
Salve di Parabita costruirono il palazzo di Nicola Tafuri a Gallipoli.
Su questo palazzo, comunque, cfr. E. PINDINELLI, Architettura
civile cit., p.271-72.
10) Su questo aspetto dell’architettura civile di
Gallipoli cfr. Civitas Confraternalis cit. pp. 60-61.
11) Cfr. E. PINDINELLI, Architettura civile
cit., pp.254-55.
12) Cfr. ASL, 30/35, atto dell’8 settembre
1790, alle cc. 54r.-61r., trascritto in Appendice. Questo è l’elenco delle
famiglie nobili elencate nell’atto: Balsamo, D’Aprile, Rocci Cerasoli,
Doxi Stracca, Muzi, Tafuri, Sergio, Coppola, d’Ospina, Grumesi, Serafini
Sauli, Palmieri, De Tomasi, Aragona, Raymondo, Valentini, Frisulli, Monittola,
Zacheo, Briganti, Castiglione, Pirelli, Vasquez d’Acugna, Margiotta, Martini,
Patitari, Morelli, Tricarico, Mazzuci, Castriota, Stiso, Pizzarro, Pantaleo.
Tutte sono indicate come “famiglie di antichi nobili patrizi”.
La storia di alcune di queste famiglie è in V. TAFURI, Della
nobiltà e delle sue leggi e dei suoi istituti nel già Reame delle Due
Sicilie, con particolari notizie intorno alle città di Napoli e di Gallipoli,
Napoli 1869 (parte III, da p.73). Sulle
vicende giudiziarie che contrappose il ceto borghese al patrizio sono
riassunte in Civitas confraternalis, cit., pp. 15 e 52-53.
13) Per una storia della fabbrica del Seminario
si offrono qui i primi dati documentari sulla sua realizzazione; le operazioni
di ricostruzione hanno inizio nel 1748 quando l’arciprete di Gallipoli
è nominato dal vescovo “deputato del nuovo seminario erigendo” (Cfr.
ASL, 40/22, atto del 6 marzo) e in questa funzione acquista un “comprensorio di case... nel luogo detto la strada di S.Agata
che si va dalla pubblica piazza,,, confinanti con la sacristia della cattedrale”;
l’anno successivo, l’11 aprile, si compra per lo stesso motivo il sottostante
“basso lamiato per uso di bottega... dal chirurgo Giuseppe Martinez”;
in entrambi i casi i “mastri apprezzatori” furono Tommaso Preite, fratello
del più famoso Adriano, e Paolino Redi di Gallipoli (Cfr. ASL,
40/22, atto dell’11 aprile 1749, da c. 1342). Tommaso Preite operava
a Gallipoli almeno dal 1739 , da quando cioè,
insieme al conterraneo Domenico Toma (coautore, il 1746, della
torre dell’orologio) ebbe inizio “la nuova fabbrica... del signor don
Giuseppe Grumesi, pubblico negoziante, ... nel luogo detto vicinato di
S. Chiara”, (Cfr. 40/22, 1740, da c. 1v.; i due vi lavoravano da novembre
del 1739); la prima pietra del Seminario fu posta il 16 marzo 1752 “da
Monsignor Branconi... fatto a sue spese, parte dello spoglio del fu monsignor
Pescatori che ascese in tremila e più ducati, e parte dell’intrate del
lascio del quondam Biagio Sansonetti tesoriere di questa nostra cattedrale;
fu fabbricato nel fondo delle case del suddetto D. Biaggio , e d’altre
case ivi convicine di Oronzio Martinez comprate da detto vescovo... Lo
suddetto Seminario fu compito nella fabbrica in aprile del 1756, ed in
detto anno si fecero li due portoni venuti da Napoli, e si fecero le porte
e finestre dal P.F. Francesco da Nardò de’ PP. Riformati; tutte le ferriate
ed altri ferri per detto Seminario si fecero da mastro Cordella da Nardò
qui accasato” (Cfr. Memoria dell’antichità di Gallipoli ecc.
di Antonello ROCCIO (Trascritto e annotato dal parroco Occhilupo),
manoscritto n.76 nella Biblioteca Provinciale di Lecce, f.92. Un atto
rogato dal notaio Giuseppe Piccioli il 20.1.1759, assente il vescovo Brancone,
riporta in dettaglio la descrizione dell’intero immobile con “nel terzo
piano... in una camera... ritrovasi 4 porte una della cappella e tre delli
cameroni tutte di noce interziate
di marangia, e radica di noce con pomi, ò siano maniglie di ottone. Di
poi nel refettorio con 5 mense di noce sedili e spalliere di noce con
cornici e finimenti. L’antrone tutto guarnito di banchi con spalliere
tinti verdi” (cfr. ASL, 40/27, 1759, fol.67).
14) Attribuzione già proposta in E. PINDINELLI,
Architettura civile, cit. pp.267.68.
15) Più che alle incisioni dell’Opus architectonicum
del 1725, all’Opera del cavaliere
F. Borromini cavata dai suoi disegni originali ecc., dello stesso
anno; si veda la tav. XLIV.
16) Cfr. A. PERRELLA, Gallipoli. Vicende
urbanistiche del “nuovo borgo”. Aradeo, 1993.
17)
Nell’epistola Callipolis descriptio, del
1512-13, pubblicata, com’è noto, nel 1558 sui cui modelli cfr. M. CAZZATO,
La tarantola, l’Alberti e il Galateo, Lecce 1996.
18) Cfr il diploma del 9 dicembre 1484, nel Libro
rosso di Gallipoli, trascritto da G. BARLETTA, negli Atti del Congresso nazionale su “La presa
di gallipoli del 1484 ed i rapporti tra Venezia e Terra d’Otranto”,
Bari 1986, pp. 197-202, già pubblicato, tuttavia, da C.MASSA, Venezia
e Gallipoli ed altri scritti, n. ed., Gallipoli 1984, pp.164-70.
19) Cfr. E. PINDINELLI, Architetura civile
cit., pp.246-48.
20) Anche quest’edificio fu ristrutturato verso
la metà del XVIII sec.; cfr. Architettura civile cit., pp.249-251
21) E’ la strada maestra del Castiglione (1853),
ovvero “la strada principale” che “s’inoltra nella piazza di
S.Agata, ornata di buoni edifizi”, di L.Riccio (Descrizione istorica
della città di Gallipoli, manoscritto elaborato tra primo e secondo
decennio del secolo, più volte
edito).
22) Sul Presta è ancora fondamentale il profilo
pubblicato da A.VALLONE, in Illuministi e riformatori salentini.
T. e F. Briganti e altri minori, Lecce 1983, pp.471-507.
23) Il Ravenna in Memorie istoriche
cit., documenta l’interesse del Presta per la coltura del tabacco. In
totale la biblioteca era composta di 595 opere per un totale di 1124 tomi.
Tra queste 76 erano le cinquecentine, 44 le secentine e 452 le edizioni
contemporanea al Presta.
25) Precisamente: E. BOERHAAVE, Tractatus
medico-practicus de lue aphrodisiaca, continens huius affectionis,
ecc., Venezia, 1765
26) Cfr. Guida di Gallipoli. La città il territorio
l’ambiente, Galatina 1992, specialmente i saggi di A. COSTANTINI
su “I dintorni di Gallipoli” da p. 103; dello stesso autore cfr.
Guida alle ville del Salento, Galatina 1993, specialmente il cap.
“Casini e ville dell’area di Gallipoli”, da p. 129.
27)
ASL, 40/35, atto cit. a cc. 60r.-60v.
29)
Cfr. M.CAZZATO, Artisti alessanesi
tra ‘700 e ‘800, in Alessano alla fine dell’antico regime,
vol.II, Galatina 1993, documento riportato alle pp. 112-113
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