CAPITOLO SECONDO

                                           Politeismo e monoteismo   

 

 

                                                  Premessa    

 

    Se nel capitolo precedente abbiamo esaminato il tema della religiosità sotto il profilo antropologico, etnologico e sociologico, e quindi in riferimento a quelle società umane dove è ancora possibile (o lo è stato fino a tempi recenti) un indagine di questo tipo, ci occuperemo ora di quelle società dell’area circum-mediterranea che sono state la culla di quella cultura di cui si ritiene depositariop il mondo occidentale in generale ed europeo in particolare. Cultura che si è espressa nei grandi imperi mediorientali, nella cultura ebraica, in quella ellenica ed infine in quella romana. Lo studio che qui svilupperemo costituisce il sottofondo su cui si innestano i capitolii III e IV e si articolerà nei paragrafi seguenti: 2.1) Gli dèi nell’area circum-mediterranea pre-neolitica, 2.2) Il paganesimo. Eclissi del sacro e aurora della poesia, 2.3) I concetti di “dio” nella filosofia antica, 2.4) Pluralità di dèi naturalistici, dio supremo, Dio unico, 2.5) Homo religiosus e homo ateus.    

 

 

 

                   2.1 Gli dèi nell’area circum-mediterranea pre-neolitica

 

 

    È molto difficile poter affermare che nel mondo antico (e a maggior ragione in quello preistorico) siano state le condizioni di vita a determinare le credenze religiose o viceversa, è tuttavia certo che sia esistito (come d’altra parte esiste sempre nelle culture arcaiche) un rapporto più o meno stretto tra la religione di un popolo e le caratteristiche del territorio sul quale esso è installato (includendovi ovviamente mezzi di sussistenza e clima) [1].  Così, per una popolazione montanara è probabile che gli dèi più importanti abitino le cime e i boschi, per una di pianura i fiumi e i campi, per una costiera il mare e i venti; analogamente, la mitologia ellenica (che è quella meglio documentata) presenta nelle sue leggende regionali [2] la presenza attiva di divinità che riflettono abbastanza bene (a latere delle vicende epiche che li costituiscono) anche gli aspetti naturali dei contesti abitativi e di sussistenza.  Occorre però subito aggiungere che non minore importanza hanno assunto le vicende storiche nella formazione delle singole religioni, se non nella loro nascita certamente nei loro sviluppi, e che esse, in qualche caso (come quello di Israele), siano diventate fattore assolutamente determinante [3].

    È piuttosto probabile che le società mediterranee e circum-meditteranee in epoca paleolitica presentassero, anteriormente all’avvento dell’agricoltura estensiva (X-IX millennio a.C.), caratteristiche non del tutto dissimili da quelle delle società arcaiche attualmente oggetto delle ricerche etnologiche ed antropologiche. E tuttavia si deve logicamente presumere che la loro cultura di partenza presentasse, fin dall’inizio, delle caratteristiche di dinamicità che appaiono perlopiù assenti nelle società che abbiamo chiamato arcaiche. Le quali, per un verso (nella loro rigidità) sembrano non andare soggette ad evoluzioni di sorta e per un altro, purtroppo, risultano facilmente corruttibili appena vengono a contatto con culture più evolute, forse perché risultano mancanti di una struttura ideologica sufficientemente forte da resistere alle influenze culturali di conquistatori o colonizzatori [4]. Va però precisato che la nostra è una semplice supposizione, basata su elementi storiografici approssimativi, e che non siamo in possesso di alcun elemento veramente attendibile che ci permetta di stabilire paralleli tra una fase non documentata dell’evoluzione delle società europee e mediorientali e la fase attuale delle società arcaiche, nelle quali (come abbiamo visto) predomina una rigorosa immobilità nella continuità.

    In base a riferimenti di tipo linguistico, a qualche notizia storica e ad abbastanza numerosi reperti archeologici, sembra legittimo dedurre che le religioni neolitiche del contesto europeo e circum-mediterraneo sarebbero ascrivibili a due gruppi macro-etnici principali (dei quali non esistono peraltro che elementi molto generici di definizione), quello mediterraneo-semitico e quello indoeuropeo. Dalle interazioni tra questi due gruppi, peraltro non ben definiti, sono nate tutte le religioni che intendiamo qui prendere in considerazione. D’altra parte, i nomi divini nelle varie religioni afferenti un certo gruppo linguistico, rilevati talvolta in aree abbastanza lontane, sono etimologicamente molto vicini tra loro e riferibili a connotazioni piuttosto simili, come nel caso dell’accadica Ishtar e della fenicia Astarte, oppure come nel caso del sanscrito Dyaus-Pitar, del greco Zeus e del latino Juppiter, che derivano da una radice indoeuropea comune (riferibile al mondo indiano, iranico ed europeo) [5].

    Ricordiamo che all’ultimo periodo paleolitico (13.000-15.000 a.C.) risalgono le prime pitture rupestri rinvenute in diverse località dell’Europa, uniche testimonianze culturali dell’epoca, le quali vengono interpretate come espressioni di un magismo afferente la caccia. Esse ci rinviano a una situazione religiosa probabilmente abbastanza simile a quello che modernamente viene definito sciamanesimo. Nella più tarda epoca mesolitica (10.000-3.500 a.C.) le comunità circum-mediterranee, che fonderanno in seguito le grandi civiltà agricole entro e attorno le fertili pianure tra il Tigri e l‘Eufrate e nella valle del Nilo, si caratterizzano già per l’uscita dalla condizione di sussistenza tipica della precedente epoca paleolitica, quella resa comunemente col termine “di caccia e raccolta”. Condizione, questa, connessa spesso ad un nomadismo di necessità, determinato dalla mancanza, per ragioni climatiche (periodiche) o per ragioni di esaurimento (definitive) di risorse di sussistenza animali e vegetali costanti e sicure [6].

    Una fase leggermente più evoluta della condizione umana di “caccia (o pesca) e raccolta” è quella caratterizzata dallo sviluppo di una rudimentale orticoltura e di un’iniziale addomesticamento ed allevamento di alcuni animali; attività afferenti le cosiddette società agro-pastorali [7]. Queste attività, più o meno localizzate in aree definite e recintate, dovettero coincidere con le prime scoperte relative alle leggi biologiche concernenti il mondo vegetale e animale. Esse possono essere considerate quindi forme aurorali di riflessione scientifica, o per lo meno tecnologica, ma va tuttavia rilevato che esse sono presenti, in forme più o meno evolute, anche in quelle società contemporanee che abbiamo definito arcaiche [8].  A tale epoca l’homo sapiens aveva già cominciato ad abbandonare le caverne e i rifugi naturali ed aveva iniziato a costruire approssimative e precarie strutture di abitazione, circondate o meno di una recinzione per proteggersi dalle fiere e dai nemici [9]. Ma va sottolineato che in tale epoca non mancano neppure esempi di edilizia megalitica, e quindi assai stabile, che sono stati verosimilmente costruiti a scopo di difesa contro aggressioni da parte di comunità nemiche. Ciò testimonia l’esistenza di conflitti tra differenti gruppi sociali o popoli e alla probabile presenza di gruppi particolarmente aggressivi da cui difendersi, forse dediti alla sistematica razzia [10]delle provviste di comunità diventate più ricche grazie alla fertilità della terra o alla laboriosità dei suoi componenti. Tra queste costruzioni vanno ricordate almeno le imponenti mura di Gerico, attribuibili ad un periodo collocabile tra l’8.000 e il 6.000 a.C.

    Ad un epoca tra il 9.000 e l’8.000 a.C. sono riferibili in Anatolia, Palestina, Irak, Siria ed Iran i primi insediamenti umani “fissi”, nei quali è possibile intravedere ambienti espressamente adibiti a scopi religiosi, senza essere riusciti ad avere alcuna informazione concernente i culti in essi praticati. Ad un epoca successiva (6.000 a.C.) vanno ascritti grandi insediamenti urbani come quello di Çatal Hüyük (Anatolia centrale) dove è già dato trovare l’esistenza dei riti funerari e di una vera e propria sala-santuario, nella quale risulta desumibile il culto del toro e di una primitiva dea-madre (questa, probabilmente, residuo cultuale di epoche precedenti). Ma è in Mesopotamia dove risulta meglio testimoniata, in un periodo più tardo (IV millennio a.C.), la comparsa di attività agricole estensive e la costruzione di villaggi di dimensione ragguardevole, con la costituzione di comunità che potevano raggiungere anche le mille unità ed a capo delle quali veniva insediato un re. Accanto a questo, che esercitava il potere profano, vi era sempre anche un sommo sacerdote, quale ministro di un culto spesso molto ben strutturato e organizzato, il quale operava con rituali istituzionalizzati ed assai più definiti e cogenti di quanto potesse fare lo sciamano delle fasi precedenti. Sciamano che era spesso anche il capo-branco del gruppo umano, e che quindi si presentava soltanto come un primus inter pares, vale a dire un componente della comunità accreditato di poteri speciali e investito di compiti di guida e comando sugli altri, pur rimanendo, sostanzialmente, allo stesso livello sociale dei suoi compagni. 

    Con l’avvento dell’agricoltura avanzata la struttura sociale muta però in modo decisivo, anche perché la coltivazione estensiva richiede molta mano d’opera che va controllata e guidata da strutture di potere forti e cogenti. Sorgono pertanto agglomerati estesi e molto popolosi, vere e proprie città-stato, nelle quali i  sacerdoti e i re si collocano ad un livello sociale infinitamente più elevato rispetto ai normali cittadini, in quanto legittimi rappresentanti delle divinità (e in molti casi essi stessi divinizzati) [11]. Con tali nuove strutture sociali comincia a instaurarsi un rapporto di sudditanza tra il vertice e la base, accanto al quale si va sempre più sviluppando la schiavitù di soggetti estranei al gruppo, prigionieri o comunque assoggettati attraverso operazioni belliche e di conquista, utilizzati come mezzi di lavoro allo stesso titolo delle bestie da soma. È come conseguenza dell’assetto rigorosamente gerarchizzato di tali società, a carattere prevalentemente teocratico, che la struttura del “divino” si modellerà sul sistema sociale (più o meno nei termini posti da Durkheim) con un pantheon caratterizzato dalla prevalenza di un dio su tutti, normalmente uranico, quale “essere supremo”. È abbastanza probabile che l’instaurazione delle teocrazie mesopotamiche corrisponda al passaggio concettuale e cultuale dalla femminilità dell’essere supremo, la Dea madre terrena, alla mascolinità del Dio-padre celeste, padrone del mondo e del destino degli uomini, temibile per il suo potere di infliggere punizioni meteoriche e telluriche.

    Lo scenario storico che si presenta nell’area circum-mediterranea (Mesopotamia, Anatolia, Egeo, Palestina, Creta ed Egitto) alla fine del mesolitico risulta quindi già caratterizzato dal prevalere delle divinità uraniche e dall’eclissi del culto principale della Dea Madre, che sopravvive in figure spesso collaterali all’essere supremo (che è sempre celeste e sempre maschio [12]) come la babilonese Tiamat, la siriaca Atargatis e la fenicia Anath. Ma si verificano anche vere e proprie palingenesi della Dea Madre in figure più complesse, come l’accadica-babilonese Ishtar, signora delle stelle e degli inferi, dea dell’amore, della fertilità e del piacere. E tuttavia, in epoca mesolitica (ultima metà del II millennio a.C.), è dato rilevare anche qualche dominio religioso “a coppie”, dove gli esseri supremi sono uno maschile e uno femminile, come nel caso della coppia sumerica costituita da An (cielo) e da Ki (terra), nella quale si coglie tuttavia ancora la presenza della Grande Madre nella figura di Nammu, che è la loro comune progenitrice. Ma nella successiva epoca neolitica vanno sempre più prendendo il sopravvento i supremi dèi del fulmine e del tuono, della tempesta e dell’uragano: il sumero Enlil, l’hittita Tesup, il cananeo Baal e il giudeo Jahvè, il quale assumerà anche un super-ruolo di creatore ex nihilo del cosmo, che sul piano dottrinario risulterà convincente e determinante per il suo affermarsi, anche fuori dei confini storici del mondo ebraico.

 

 

 

                 2.2 Il paganesimo. Eclissi del sacro e aurora della poesia.

 

    Allo scenario teocratico instauratosi in Mesopotamia, in Egitto e più tardi in Palestina, rimarrà completamente estraneo il mondo ellenico, il quale, a partire dal II millennio a.C., elaborerà invece la sua religiosità in direzione completamente diversa, attribuendo caratteri divini al mondo naturale nei suoi vari aspetti, attraverso la invenzione di una moltitudine di dèi con ben poco di spirituale e con diverso rango e collocazione, dando così luogo a un politeismo composito e multiforme, spesso caratterizzato da processi mitici di metamorfosi o di suddivisione/condensazione. Ma la caratteristica più straordinaria e importante di tale politeismo è certamente la sua prevalente antropomorfizzazione: ogni elemento, forza od aspetto della natura viene divinizzato in forme antropomorfe nei ranghi superiori (dèi olimpici) ed in forme antropomorfe-teriomorfe (anche con metamorfosi verso il mondo vegetale) nei ranghi inferiori.

    Tale sistema politeistico naturalistico, fortemente antropizzato, ha dato così luogo a quella forma di religione (peraltro molto simile a quella del mondo latino) che è stata chiamata in seguito paganesimo. Un’esplosione di fantasia creativa e poetica che darà luogo, attraverso la scrittura e le arti manuali, a una straordinaria fioritura letteraria e artistica che attraverserà tutto il primo millennio a.C. e che lascerà all’umanità un patrimonio culturale ricchissimo e multiforme. Una forma di religione che per quello che potremmo chiamare il suo “basso contenuto di spiritualità e trascendentalità” ha potuto essere fonte dello scatenamento della creatività umana, avendo per contro uno scarsissimo riscontro fideistico nella coscienza del pagano in genere. Sarà questa  la ragione per cui, perdute le ingenuità fideistiche iniziali, finirà per diventare soltanto una religione “civica”, di carattere eminentemente formale.

    La struttura mitica di tale religione compare per la prima volta in forma scritta nell’Iliade omerica, ma è con Esiodo che si procede alla sistematizzazione cosmogonica e genealogica dei vari miti esistenti [13]. Una religione, quindi, caratterizzata da una struttura fortemente pluralistica e da una grande complessità rappresentativo-narrativa, la quale, per la sua ricchezza poetica e per la sua corrispondente debolezza ideologica, non poteva che cedere il passo alla potente struttura concettuale e salvifica offerta da un Cristianesimo strutturato e modellato dalle Lettere paoline e arricchito dagli apporti filosofici di grandi e coltissimi teologi come Giustino, Clemente, Origene ed Agostino.  

    Di fronte agli straordinari sviluppi del messaggio cristiano-paolino, ad un coerente sistema ideologico costruito a suon di concilii, ad una accattivante escatologia salvifica, il mondo pagano manteneva ancora i suoi principali riferimenti nei poemi epici e cosmogonici di poeti vissuti tanto tempo prima. Recita la Teogonia di Esiodo:

 

Dunque, per primo fu Chaos, e poi

Gaia dall’ampio petto, sede sicura per sempre di tutti

Gli immortali che tengono le vette d’Olimpo nevoso,

E Tartaro nebbioso nei recessi della terra dalle ampie strade,

poi Eros, il più bello fra gli dèi immortali,

che rompe le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini

doma nel petto il cuore e il saggio consiglio.

Da Chaos nacquero Erebo e nera Nyx.

Da Nyx provennero Etere e Hemere

Che lei partorì concepiti con Erebo unita in amore.

Gaia per primo generò, simile a sé,

Urano stellato, che l’avvolgesse tutta d’intorno,

che fosse agli dèi beati sede sicura per sempre. [14]

 

Esiodo pone Caos (il vuoto primitivo) all’origine del mondo, da cui nasce (prima divinità in assoluto) Gea, la terra, da cui si staccò poi il Tartaro, quindi Eros, la forza attrattiva che unisce, che genera il tutto e che “rompe le membra” (e di cui Saffo dirà “che squassa l’anima”) [15] . È importante notare che il caos esiodeo non è identificabile col disordine, con cui più tardi verrà ad indentificarsi, bensì con una voragine immensa, sede di un puro nulla, ma che in quanto tale contiene la forza della generazione del “tutto”. Poi sorgono a poco a poco l’Erebo, il crepuscolo, e la Notte, quindi Etere (pressappoco: la luce diffusa del cielo) e il Giorno. Poi Gea genera Urano (il cielo), il Ponto (il mare) e le  montagne.

    È veramente straordinario come fino a questo punto l’universo religioso greco, ormai completo in ogni sua parte, manchi completamente di entità divine vere e proprie, portanti i significati e i connotati che caratterizzano la sfera del sacro in tutte le altre religioni storiche [16]. Non lo è il Caos, un puro nulla, e non può esserlo Gea, una materia solida, che da esso si è generata, e tanto meno l’Erebo, concernente “il profondo” fisico. Forse potrebbe esserlo Eros, ma Esiodo non dice altro su di lui, e naturalmente non possono esserlo il giorno, la notte, il cielo e il mare. Ma in seguito cominciano i connubi e allora Eros viene implicitamente coinvolto quale causa prima generativa e creativa. Così Gea si unisce ad Urano e ne nascono i Titani, i Ciclopi e gli Ecatonchiri (i giganti dalle cento braccia). Queste tre categorie di giganti primordiali sono i primi esseri con caratteri antropomorfi e quindi potenziali progenitori sia degli uomini che degli dèi. Ma solo i primi sono prolifici poiché si presentano come costituiti da coppie sessuate: infatti si tratta di sei maschi e di sei femmine. Così Oceano si accoppia con Teti e ne nascono le Oceanine, Iperione (dio della luce) e Thea (l’irradiante) da cui nascono le tre fonti di luce, poi Elio (il sole), Selene (la luna) e Febe (il firmamento), infine Leto (la notte buia) e Asteria (la notte stellata).

    Nel citato incipit di Esiodo vi è probabilmente il tentativo di mettere, all’alba del VII sec.a.C., un po’ d’ordine nei poliedrici miti cosmogonici ellenici, integrando in qualche modo il panorama omerico, il quale (data la natura epica dell’Iliade e dell’Odissea), aveva portato sulla scena dei superuomini divini capricciosi e rancorosi, da blandire e placare, a fronte della loro possibilità di agire sui destini e sulle vicende degli uomini. Il fatto che in Esiodo le prime divinità siano in realtà delle entità fisiche rivela una concezione del mondo in cui gli dèi non sono altro che degli abitanti del mondo visibile, così come lo sono gli uomini, se pure ad un livello superiore di natura e di potere. La Teogonia appare quindi come un poema essenzialmente irreligioso nel senso moderno del termine, all’interno del quale le uniche entità divine a cui il poeta appare devoto sono le Muse, alle quali chiede ispirazione.

    Come si è detto, prima di Esiodo, lo ionio Omero aveva già reso un’immagine prevalentemente antropomorfa della divinità, la quale, rispetto ad una concezione più sacrale di essa, non può che essere considerata decisamente irriverente e persino blasfema. L’Iliade ci rappresenta un coacervo olimpico diviso in fazioni, prevalentemente impegnato a combattersi e a combattere a fianco di Achei e Troiani a causa di una poco commendevole (e terrena) “questione di corna”, in seguito alla quale il marito offeso Menelao scatena una guerra perché il troiano Paride gli ha portato via la moglie dopo averla sedotta. Così, in termini ben poco “divini” si pongono anche i coniugali battibecchi tra la gelosa Hera e il sommo (e donnaiolo) Zeus. Si lagna la moglie già tradita e che teme un nuovo tradimento:

 

[…] Or grave un dubbio mi molesta il core,

che Teti, del marin vecchio la figlia,

non ti seduca; ch’io la vidi, io stessa,

sul mattin arrivar, sederti accanto,

abbracciarti i ginocchi […]

   E a riscontro il signor delle tempeste:

Sempre sospetti, né celarmi io posso,

spirto maligno, agli occhi tuoi. Ma indarno

la tua cura uscirà, ch’anzi più sempre

tu mi costringi a disamarti, e questo

a peggio ti verrà. S’al ver t’apponi

che al ver t’apponga ho caro. Or siedi, e taci,

e m’obbedisci; ché giovarti invano

potrìan quanti in Olimpo a tua difesa

accorresser Celesti, allor che poste

le invitte mani nelle chiome io t’abbia.

 

Il padre divino, colto con le mani nel sacco, non trova di meglio che far uso della sua autorità maritale, aggiungendovi la minaccia e costringendo la moglie al silenzio:

 

    Disse; e chinò la veneranda Giuno

I suoi grand’occhi paurosa e muta,

e in cor premendo il suo livor s’assise, […] [17]

 

    Da poche battute si evince subito come la base letteraria della religione greca sia, nei termini già enunciati, eminentemente “irreligiosa” (soprattutto se confrontata con quella ebraica ad essa contemporanea) e si manifesta attraverso la libera creazione dei miti e la loro tematizzazione da parte dei poeti (e non già dei profeti) che li testimoniano e nello stesso tempo li rivificano e li ricreano, in un processo continuo e mutevole che genera una poesia che si espande e si riconcentra, per riprendere sempre il suo cammino nel regno della fantasia. Ma ciò avviene anche attraverso l’accoglimento di favole relativamente “straniere”, che vengono integrate e razionalizzate in racconti coerenti e significativi, fino a dar luogo (attraverso un procedimento di assimilazione ed proliferazione) a una miriade di entità divine che afferiscono praticamente ogni elemento del mondo ed ogni suo aspetto, ogni area del mondo conosciuto o fantasticato, collocate in un divenire mitico che parte dalle origini e giunge al presente. In questa frammentazione-effusione della divinità viene perso, seppure poteva qua e là esserci, ogni elemento di trascendentalità e tutto l’insieme pluralistico delle entità divine viene ad identificarsi con la poliedrica immanenza delle forze e degli aspetti della natura secondo una collocazione topologica definita. È difficile quindi non cogliere la differenza abissale che separa questo tipo di religione, che in quanto libera poesia della natura e non chiusa ideologia del divino renderà possibile la nascita della scienza, rispetto al mito chiuso e trascendentalistico che ci riporta la Genesi biblica («In principio Dio creò il cielo e la terra […]».

    Il mondo politeistico ellenico, nel suo riferirsi ad aspetti definiti del mondo reale, risulta pertanto suddiviso in vari contesti: ctonio (sotterraneo), terrestre, marino, celeste. Anche ad Oriente, nel mondo iranico e in quello indiano, si possono ravvisare caratteristiche simili, sia pure con debite differenze imputabili a ragioni storiche o forse anche di carattere geografico e climatico. Là, però, vi sarà un’evoluzione in direzioni specificamente mistiche, dalle quali il politeismo greco resterà invece lontano, ma con l’eccezione dei culti misterici orfici ed eleusini. Tutto il coacervo di entità naturali divinizzate viene inserito all’interno di una lussureggiante mitologia, complessa struttura narrativa dell’immanenza che determina (almeno fino all’epoca classica) strutture variabili di credenza, sulle quali riposerà l’identità di quei gruppi umani definiti e riconosciuti che sono le polis. Il mito si presenta anche qui come storia “reale” e ritualmente ripetibile della nascita della comunità o del mondo stesso, con cui essa si identifica o del quale si considera comunque al centro. Si tratta di una fase culturale assai simile a quello delle nostre contemporanee culture arcaiche, in cui l’uomo vive di un eterno presente, in cui muore e rinasce insieme con la vegetazione, secondo un ritmo scandito solamente dalle fasi lunari o dalle stagioni, ma vi si contrappone per una dinamicità intrinseca dovuta al pensiero filosofico e scientifico che vi si accompagna, che è per contro totalmente assente nelle società “strutturalmente” caratterizzate da una cultura di tipo arcaico. Sono infatti gli sviluppi, e non l’origine comune, a determinare la facies culturale che ogni singolo contesto umano presenta.

    Nella complessa personalizzazione e definizione di aspetti o forze del mondo visibile e della natura il fulmine e il tuono diventano Zeus, i flutti marini Posidone, i venti Eolo, il sole Apollo, la luna Artemide, ecc., con la costituzione di gerarchie sostanzialmente analoghe a quelle di altri contesti del mondo mediterraneo ed europeo, dove però la sacralità è molto più spiccata. A questo pantheon primario e principale si affiancano numerosissime altre entità extra-umane o sovra-umane, che vanno dagli spiriti della foresta (satiri e naiadi) a quelli delle acque (tritoni, oceanine, ninfe, ecc.). In questo scenario vi è anche una sorta di stratificazione in base alla quota, o per meglio dire in base alla presenza più o meno ravvicinata della divinità all’uomo che la pone: le deità terresti e quelle marine, in quanto più vicine all’uomo, sono di rango inferiore, quelle uraniche (celesti) stanno più in alto e quindi si collocano ad un livello ontologico-religioso più elevato. A questo proposito va osservato che tale gerarchizzazione sembra confermata a livello antropologico generale e ciò spiega perché quasi in tutti i contesti le divinità celesti siano sempre ritenute di rango più elevato rispetto alle altre ed abbiano sede nel cielo oppure, come nel caso del Tien cinese, con esso si identifichino.  

    Il mondo neolitico circum-mediterraneo però presentava già una base politeistica autoctona molto ricca, su cui poteva innestarsi e fondersi l’apporto indoeropeo (l’invasione dei Dori sarebbe avvenuta intorno al 1200 a.C.) dando così luogo ad un panorama politeistico di tale ampiezza da riuscire a contare centinaia di tipologie divine. Nasce pertanto il problema euristico di districarsi tra evoluzioni, corrispondenze, sovrapposizioni, in contesti differenti o in differenti epoche di uno stesso contesto. Secondo Fritz Graf già nel III millennio a.C. e quindi nei territori d’origeine, esiste, molto prima della fioritura micenea, un corpus di miti indoeuropei relativamente omogeneo [18]. La mitologia greca nella sua forma più evoluta e complessa, tuttavia, quale frutto sincretico e armonico di preesistenti miti [19] e di nuovi apporti dei popoli nomadi invasori, è caratterizzata da una sua particolare e specifica dinamicità, tutta ellenica, che determina un arricchimento continuo di nuovi aspetti narrativi e poetici [20]. Questo carattere della mitologia greca, che pone seri problemi interpretativi agli studiosi del settore offre tuttavia uno scenario di estrema variabilità, quasi che le credenze religiose politeistiche, basate su miti in relativa evoluzione, abbiano potuto seguire nei vari contesti i mutamenti sociali, politici e culturali dei popoli che ne erano interpreti e depositari. Ciò offre al ricercatore spunti d’indagine assai interessanti, soprattutto ove si confronti la mitologia politeistica, poeticamente e narrativamente pluralistica e dinamica, con il contemporaneo monotesimo giudaico, quale religione rivelata una volta per tutte, ferma alla lettera dei testi sacri, bloccata nei suoi miti e nei suoi dogmi. Ciò è con tutta probabilità imputabile al fatto che, seppure ogni comunità del mondo ellenico avesse in illo tempore elaborato una “propria” mitologia, man mano che avvenivano fusioni politiche tra più comunità si verificava l’allargamento del pantheon comune, allo scopo di comprendere democraticamente tutto l’apparato religioso concernente classi di individui di varia estrazione e appartenenti a comunità molto differenti, ma tutte confluenti nella più vasta koinè culturale che si determinerà successivamente, con le conquiste di Alessandro  Magno.

    Ma va ancora notato un altro aspetto: essendo gli dèi arcaici quasi sempre espressione di un’identità etnica, quindi in un certo senso degli dèi “nazionali”, si venne a determinare più tardi (con la già citata conquista di Alessandro) una tale pluralità e complessità del mondo religioso antico da renderlo, infine, “inconsistente”; e ciò proprio a causa della sua abbondanza e della ridondanza conseguente, il ché costituisce un’importante concausa del crollo del politeismo e dell’affermazione del monoteismo. Ma ciò avvenne anche per l’eccessivo formalismo assunto dalla religione classica, quale affermazione di un puro ritualismo cerimoniale che il cittadino (indipendentemente dalle sue credenze) era tenuto ad osservare e praticare in circostanze determinate, pena l’incorrere nei rigori della legge. Ciò risponde, a grandi linee, all’esigenza conservativa teorizzata della scuola etnologica francese, e segnatamente da Durkheim, che ha identificato nella società stessa l’essenza della sacralità, in quanto “forma” protetta dell’unità e identità sociale stessa. D’altra parte, la condanna di Socrate per empietà è un caso classico di uso della religione per fini politici. L’avvento quindi di una religione soteriologica fortemente ideologizzata, che privilegia l’intimità e il rapporto diretto uomo-Dio (come si dà nel Cristianesimo), appena vinte le resistenze del potere costituito, non poteva che spazzare via un politeismo diventato ormai metafisicamente tanto fragile e inconsistente da diventare estraneo alle coscienze [21]. Successo, quello della religione cristiana, che si trasformerà in vero e proprio trionfo, quando, superato il periodo in cui era stata alternativamente tollerata e combattuta (nei primi due secoli della nostra éra), essa verrà poi adottata (e per motivi eminentemente politici) dallo stesso potere imperiale [22].

    È sullo sfondo di una religiosità così debole e di una fantasia poetica così fervida che è possibile un orizzonte religioso decisamente anomalo, tanto blasfemo e irriverente da caricare gli dèi olimpici dei vizi più frequenti nei comuni mortali: l’avidità, l’egoismo, l’ambizione, l’invidia, l’adulterio, la lussuria, la vendicatività [23]. Zeus è infatti un dio-padre rancoroso e vendicativo come può esserlo soltanto un patriarca privo di etica e dedito solamente alla conservazione del suo potere.  Ed è solo da una religiosità così “irreligiosa” e priva di struttura ideologica che poteva nascere una filosofia come quella di Talete, che sottraeva al “sacro” il principio dell’universo per conferirlo al “fisico”, e con essa una poesia come quella di Alceo e di Saffo, una scultura come quella dell’Hera di Samo e del kouros del Dipylon.  Con la cultura ellenica nasceva quindi un orizzonte completamente nuovo nella storia del mondo e per molti versi quella stessa cultura è ancora oggi alla base di tutto ciò che vi è di dinamico e di innovativo nell’evoluzione culturale della specie homo sapiens.

 

                                    

 

 

                        2.3 Il concetto di “dio” nella filosofia greca.

 

    La nascita del “concetto di Dio” nella filosofia non va confuso col “senso del divino”, che è alla base del sentimento religioso, indipendentemente dal significato che ad esso si intenda dare. Il “senso del divino” nasce dalla non-conoscenza del reale e dal percepimento di forze e aspetti della natura che eccedono il controllo umano, i quali rivelano quei caratteri di “forza” e “potenza”, che sono i corrispettivi di ciò che viene posto come “divino” [24]. Un fenomeno reattivo irrazionale, quindi, ovvero il bisogno esistenziale di un approccio pre-cognitivo ad un ignoto “potente” e “incombente” con cui bisogna intrattenere un rapporto pragmatico. Potenze di cui (realisticamente o illusoriamente) si avverte o si percepisce la presenza (e ciò indipendentemente dal fatto che tale “senso” venga considerato innato o culturalmente indotto). Il concetto di Dio nella filosofia (e sono numerose le assonanze tra cultura greca, indiana e cinese) è anch’esso un fatto reattivo, ma invece razionale, e non già di carattere intellettivo-pragmatico, bensì speculativo. In altre parole, se la nascita del senso del divino sta all’origine del pensiero religioso, in quanto effetto dell’esigenza psichica di rapportarsi sul terreno esistenziale ad una potenza ignota che si manifesta “qui ed ora” e con cui bisogna rapportarsi, la nascita del concetto di Dio nella filosofia è anch’esso l’effetto di una causa, ma non già di carattere pratico-esistenziale, bensì astratto-teoretico. Questa causa sta principalmente nel disagio intellettuale di fronte ad aspetti casuali e caotici del reale, che si tratta di ricondurre all’ordine di un mondo che “deve” essere intelligibile, omogeneo ed unitario. In altre parole, il compito della filosofia tradizionale è quello di fornire spiegazioni razionali in presenza di realtà non-razionali e di pervenire a risposte metafisiche (ultra-fisiche) alle domande poste dal percepimento del “caos” in rapporto al pre-concetto di “ordine”.

    In realtà il concetto di caos è quanto di più astratto di possa immaginare, almeno quanto quello di “ordine”. Entrambi i concetti paiono avere una base meramente psicologica, che genera una connotazione razionalistico-strumentale, utile nella lettura della realtà, ma a questa sostanzialmente estranea. Intendiamo dire che la realtà è caotica ed ordinata insieme a seconda del paramentro assunto per definirla. Caos e ordine trapassano l’uno nell’altro e sono, nel contempo, pure determinazioni psicologiche e puri strumenti intellettivi coi quali interpretare, spiegare e classificare i vari aspetti dell’universo, che ci appaiono alternativamente ordinati o caotici, deterministi o indetermati, necessitati o casuali.

    E tuttavia sembra non improbabile che sia proprio a partire dall’ipostasi metafisica di caos che sia nato un principio metafisico che vi si opponga e l’annulli: quello di “ordine divino”. Dove l’ordine è l’essenza ideale di tutto ciò che è “perfezione del mondo” o “causa del mondo”, poiché il mondo e la realtà percepibile che ci fonda e ci concerne e in rapporto al quale noi “ci percepiamo” come entità reali inserite in un contesto di realtà più vasta che ci comprende. Ma di questa realtà onnicomprensiva, che ci circonda e ci condiziona, e con cui dobbiamo quindi confrontarci in qualche modo (sia che la si ponga in termini irrazionali, religiosamente, o invece razionali, filosoficamente), non possiamo esimerci dall’elaborare una qualche spiegazione. Ciò che però generalmente ci sfugge è che quello di caos non è concetto unitario bensì bicipite, infatti la parola indica per un verso il nulla che precede un “tutto” (accezione più antica) e per altro verso un tutto pluralistico e disordinato (accezione moderna). Il concetto filosofico di Dio è pertanto chiamato ad assumere ad un tempo una doppia funzione: quella di creare un mondo e quella di conferirgli ordine. Funzioni le quali, unite o separate, sono riscontrabili in tutta la speculazione filosofica di ogni tempo e di ogni luogo del mondo antico, ma anche nei miti di un mondo contemporaneo arcaico pre-filosofico o a-filosofico (e che ancora oggi si offre alla nostra indagine), dove la religione divora sul nascere ogni filosofia e ogni scienza, annullandole o rendendole inutili. 

   Se pure nel mondo greco, tra il VII e il VI secolo a.C., vi sono stati tentativi, con Talete, Anassimandro, Anassimene ed Eraclito, di trovare nel mondo materiale (ma nel caso di Eraclito con caratteri metafisico-mistici) un metonimico principio primo del tutto, come parte generatrice dell’insieme, è con Senofane che si delinea in modo netto lo spostamento del principio unico verso il divino. Il concetto di un Dio unico e astratto, che Senofane (oppositore del politeismo antromopomorfo) introduce nel pensiero greco, è un’entità metafisica unica e totalizzante, ingenerata, perfetta e immutabile, principio e causa del tutto. La ben nota polemica di Senofane contro la pluralità degli dèi [25] costituisce il nucleo primario di tutti i concetti di divinità unica e trascendentale fioriti nella posteriore filosofia occidentale.

    Pressapoco nella stessa epoca, in India, le Upanishad proponevano una visione del mondo panenteistica che poneva il brahman come unità e totalità dell’essere del mondo, più o meno coincidente con l’ātman, inteso come anima del mondo. Queste concezioni sfoceranno più tardi, intorno al 300.a.C., nel sistema Vedānta, col quale l’identità brahman-ātman  verrà sancita in modo definitivo. Il brahman-ātman della filosofia vedantica verrà nell’VIII secolo radicalizzato col monismo acosmistico di Shankāra [26] (e ripreso più tardi in senso monoteistico dal vishnuita Rāmānuja) [27]. Va comunque notato che il concetto di brahman era già presente, sia pure come concetto vago, fin dall’epoca vedica (e quindi precedente la nascita della filosofia greca). È solo più tardi però che esso viene via via affermandosi fino a diventare elemento assolutamente dominante di tutta la filosofia indiana (essendo in seguito, nell’Induismo più recente, assorbito nelle personificazioni di Shiva e di Vishnu). Il brāhman-ātman (l“uno-tutto” vedāntico) presenta anche qualche analogia con l’essere parmenideo, come pure una decisa assonanza col Dio neoplatonico, nonché, molto più tardi, una certa corrispondenza in una filosofia panteistica come quella di Spinoza.

    Con Senofane la divinità perde le connotazioni presenti nei vari rappresentanti del pantheon olimpico e si afferma definitivamente come trascendente tutti gli aspetti materiali del mondo nella loro percepibilità e nella relazione empirica che con essi l’uomo possa instaurare. Il Dio di Senofane, come l’essere di Parmenide (di cui sarebbe stato maestro) e i più tardi Demiurgo-Bene di Platone e Uno-Tutto di Plotino, si caricano pertanto di un essenza immateriale che si estrinseca come puri intelletto o ragione, esenti da ogni scoria materialistica, come anche da ogni elemento antropico che mal si concili con tale essenza. Il Dio di Platone però va ben oltre quello di Senofane, in quanto ne accentua sia il carattere intellettuale sia quello morale, assumendo i caratteri del bene razionale assoluto, conferendo quindi legittimità metafisica a quello che Socrate aveva soltanto posto come “virtù”, quale principio positivo comportamentale e pragmatico. Ma Platone, per caricare Dio di significato etico, è costretto a delegittimarlo come principio fisico; perciò il Dio di Platone è unificatore, ordinatore e principio significante del cosmo, ma non suo creatore.

    Platone opera una scissione che sarà gravida di conseguenze nella definizione del concetto di Dio in tutta la filosofia occidentale successiva (contemperate soltanto dal panteismo stoico prima e più tardi da quello spinoziano), operando una netta dicotomia tra ciò che è intellettuale-spirituale, eterno ed immutabile, e ciò è corporeo-materiale, contingente e mutevole.  La dicotomia asettica che in Parmenide si estrinsecava in un essere stabile e reale e in un divenire apparente e irreale, diventa in Platone la dicotomia tra il vero e il falso, tra ciò che “innalza” e ciò che “abbassa”, tra ciò che va perseguito e ciò che va evitato, prefigurando così la dicotomia etica bene/male (Dio/Satana nel Cristianesimo, Allah/Iblìs nell’Islam) che dominerà la cultura europea e mediorientale almeno fino al XVII secolo. L’antinomia vero/falso si sposta così in Platone in una seconda dicotomia parallela, che ha come termini di riferimento non più il bene e il male morali, bensì le idee e loro degradate realtà materiali, che si offrono ai nostri sensi corporei allontanandoci dalla verità.

    Platone risulta essere pertanto un filosofo determinante per tutti gli ulteriori sviluppi della filosofia occidentale nei quali venga operata una distinzione metafisica tra ciò che è “originale” e immutabile ciò che è “copia” precaria, rivitalizzando altresì, nel suo idealismo, la coppia ontologico-esistenziale arcaica sacro/profano. Infatti, oltre che anticipatore di ogni spiritualismo etico-religioso (neoplatonismo ed agostinismo cristiano), lo è del realismo dicotomico cartesiano (res cogitans/res extensa), del criticismo kantiano (noumeno/fenomeno) e anche dell’idealismo hegeliano, che di questo costituisce il superamento attraverso l’ipostasi dello spirito assoluto (una specie di noumeno globale) che si manifesta storicamente nella realtà dell’universo (come totalità dei fenomeni). Ma il Dio platonico non è creatore del cosmo, poiché, se pure gli conferisce ordine (il bene) allontanandolo dal disordine (il male), non è onnipotente e non può agire sulla realtà materiale, che esiste indipendentemente da lui. Il Dio di Platone risulta essere pertanto una sorta di rappresentante unitario e ideale delle idee eterne, che trascende le loro copie costituenti la realtà materiale e ne rimane estraneo.       

    Con Aristotele si afferma un nuovo “modo” di filosofare (ma non per questo una nuova filosofia), dove si sostituisce all’intuizione intellettuale e al mito (a cui fa ancora largamente riferimento Platone) l’analisi della realtà sensibile e la scienza della natura. Conseguentemente anche l’idea di Dio, che nella filosofia platonica era di carattere spiritualistico e morale, assume in Aristotele le connotazione di una “causa prima” a cui far risalire tutta una serie di aspetti ed effetti del mondo reale, soprattutto evidenti sul piano fisico-cosmologico. Anche il Dio di Aristotele non è creatore, ma anziché essere un “ideale” e metaforico ordinatore e conservatore dell’universo nel suo unitario e perfetto “essere” ne diventa un “reale“ primo motore che lo determina e lo ordina dinamicamente. Intelletto puro e modello di perfezione, che regola il “muoversi” delle sfere celesti e il divenire dell’universo, esso è, in quanto intelletto divino, accessibile (nella sua intelligibilità) all’intelletto umano che da esso deriva. E tuttavia anche il Dio aristotelico risulta trascendente rispetto al mondo, rinnovando così un dualismo ontologico (se pure non oppositivo come in Platone) tra forma trascendente (Dio) e materia immanente (universo).

   La prima esplicita forma di panteismo, dove Dio è l’unità attiva che tutto comprende, che è in continua trasformazione e che tutto ricrea periodicamente in una totale rigenerazione si ha nella cosmologia stoica. In essa, alla fine di ogni ”anno cosmico”, il mondo si distrugge e riparte un nuovo ciclo generativo, assolutamente identico a quello precedente. Il monismo stoico pone pertanto un Dio-Cosmo, dove la mente di Dio è nello stesso tempo anima e principio generatore, mentre il suo corpo è la materia dell’universo. Ma la mente-anima si determina solo facendosi corpo (materia) e quindi si crea un legame necessitaristico in cui la provvidenza divina genera il mondo, ma il mondo la retro-determina in quanto ne diventa sostanza necessaria. In questo quadro di determinismo assoluto l’ammissione del libero arbitrio umano è una pura enunciazione di principio fortemente contraddittoria; infatti, siccome tutto è già predeterminato, la divinazione è per la filosofia stoica un’attività veridica, la quale non fa altro che anticipare, come pre-conoscenza, ciò che avverrà necessariamente.

    Una forma un po’ differente di panteismo la troviamo nel neoplatonismo di Plotino, per il quale il mondo materiale è un “emanazione” di Dio che la comprende senza tuttavia esserne compreso [28]. Il Dio neoplatonico è il puro essere che contiene tutto l’esser possibile e addirittura possiede una “sovrabbondanza d’essere”, quella che genera la materia allo stesso modo con cui la luce crea la visibilità o il calore scalda. In tal senso Dio (l’Uno) è un’unità assoluta e perfetta in se stessa, al di fuori della quale nulla è, ma è nello stesso tempo la molteplicità del tutto che viene ricompresa nell’unità. Dio è infatti un tutto unitario che genera il tutto e lo riassume in sé, attraverso un processo di “andata e ritorno” che procede per gradi. Al vertice e all’origine del processo stanno le tre ipostasi divine, l’Uno, l’Intelletto e l’Anima; dal primo si genera il secondo, dal secondo la terza e dalla terza per stadi discendenti successivi tutto il resto. Ci troviamo pertanto di fronte a una trinità che per molti versi ricorda quella cristiana, ma Plotino (che opera semmai in senso anticristiano) pone un Dio che opera con l’intelletto e non già con la volontà; esso quindi opera quasi “logicamente” per il “meglio” e in altro senso, possedendo l’essere, non può fare a meno di produrlo e di trasmetterlo. Ne deriva che l’Uno non può esimersi dal creare un “altro” da sé da ricomprendere poi in sé; quindi la molteplicità, che è pur sempre un aspetto del suo essere, predetermina l’unità (come in un processo di retroazione) a realizzarsi anche attraverso la molteplicità stessa. Ma questo rapporto necessario tra emanante e emanato (non privo di contraddizioni interne) viene negato da Plotino: infatti Dio, essendo già perfezione unitaria realizzata, non è affatto necessitato a ri-realizzarsi attraverso la propria emanazione, essendo già realizzato e perfetto in se stesso e indipendentemente da essa. L’identità dell’Uno è pertanto compiuta e immutabile; quindi ogni sua emanazione è un’estrinsecazione e nel contempo un ritorno a se stessa. 

    Strettamente connessa all’idea di Dio è nella filosofia antica quella di “anima”, che tuttavia (forse con la sola eccezione di Plotino) non è mai riferibile al principio divino in quanto presente in ogni singolo uomo, ma piuttosto come principio vitale, o “soffio” della vita, come d’altra parte etimologicamente significano sia i termini greci ánemos, pněuma e psyché, sia il latino spiritus, con un significato simile a quello dei biblici rŭach e nèfesh. Il concetto di anima in senso cristiano, in quanto elemento divino calato nell’uomo, va ricercato piuttosto nel Pitagorismo e nell’Orfismo, nei quali peraltro non risulta definita un’entità divina unitaria e trascendente. L’anima, nella concezione cristiana, è pertanto una specificità concettuale solo vagamente implicata nella filosofia greca, i cui concetti giudicati “utili” sono stati piuttosto utilizzati a posteriori per giustificare “anche” razionalmente tale concezione.   

    Abbiamo esposto in sintesi le varie forme in cui nella filosofia occidentale è stato affrontato il problema di Dio, poiché, in varia misura e in modo più o meno esplicito, esse si ritrovano nelle formulazioni teologiche, ufficiali e non, del Cristianesimo.  Per quanto la divinità della filosofia venga definita come un “Dio” unitario e razionale  (e più o meno trascendente la materia), in opposizione alle divinità antropomorfiche espresse nel politeismo della mitologia, tuttavia esso, in quanto intelletto puro, non è mai assimilabile al Dio-persona giudaico-cristiano, che opera secondo la propria volontà, sia che essa si presenti come insindacabilmente arbitraria e sia che si presenti  come affettuosamente amorevole. E tuttavia, se non nella formulazione canonica (espressa dalla teologia ufficiale determinata dai vari concili), le varie formulazione del dio filosofico sono eccheggiate nelle varie correnti della filosofia cristiana patristica e scolastica, creando spesso equivoci che persistono anche in molta filosofia moderna.

    Il Dio di Platone risulta pertanto presente, attraverso il neoplatonismo di Plotino e di Porfirio, sia in San’Agostino [29] sia in tutte le correnti teologiche che si esprimeranno nel misticismo di Bonaventura da Bagnoregio e, più in generale, nel francescanesimo, fino a risultare determinante nell’atteggiamento teologico assunto da Lutero nel propugnare la sua Riforma. Per altro verso il pensiero aristotelico è risultato fondamentale per la formazione della filosofia di Alberto Magno, di Tommaso d’Aquino e di Ruggero Bacone. Ma va ricordato che anche nella teologia islamica, parallelamente a quella cristiana, le filosofie di Platone e di Aristotele sono risultate determinanti per la formazione, da un lato, del pensiero di Avicenna, e dall’altro, del pensiero di Averroè, peraltro rifluiti (e per alcuni versi veri veicoli della filosofia greca) nella Scolastica cristiana. Va tuttavia notato che il Cristianesimo (attraverso lo Jahvé biblico), con la sua ipostasi del Dio-persona, reintroduce nella concezione della divinità gli attributi di ogni singolarità divina antropomorfa. La volontà  e l’arbitrio, che i filosofi greci seguaci di Senofane avevano cercato di espungere, proprio perché presenti in ogni concezione antropomorfica e quindi volgare della divinità, risulta rintracciabile, all’ennesima potenza, nel Dio dell’Ebraismo e in quello del Cristianesimo. 

 

 

 

 

                   2.4) Pluralità di dèi naturalistici, dio supremo, Dio unico.

 

    La tesi di etnologi come Tylor, che vedevano il monoteismo abramitico come l’ultimo stadio di un processo evolutivo della religiosità era poco convincente già quando venne formulata, ma col prosieguo delle ricerche etnologiche ed antropologiche è diventata oggi del tutto insostenibile. Come d’altra parte lo era quella di Lang e Schmidt, che ipotizzava la credenza originaria dell’uomo primitivo in un dio unico, quale innata e veritativa intuizione del reale Dio unico. Non si puo’ tuttavia negare che, da un punto di vista strettamente storico, relativamente alle società che si sono poi più meno consolidate nel monoteismo (la più parte) la successione parrebbe confermare la tesi evoluzionistica. Si consideri, infatti, che a partire dal VII secolo le conquista arabe e più tardi ottomane, in Africa e nell’Asia occidentale, hanno determinato un’ampia conversione all’Islam (il quale ha largamente sostituito le religioni preesistenti) e che, a partire dal XVI secolo, il Cristianesimo ha praticamente evangelizzato tutto il continente americano e parte di quello africano. Si potrebbe discutere sul fatto che, in molti casi si sia trattato più di una sovrapposizione che di una sostituzione, ma questo esula dai nostri compiti euristici. Quello su cui di solito non ci si sofferma adeguatamente è sul concetto di “forza” di una religione, quale causa determinante per il passaggio da una credenza religiosa ad un'altra. Forza che deve essere intesa in due sensi, uno più estrinseco ed evidente, che è quello militare-politico-amministrativo, e un secondo, più intrinseco e sfuggente, che è quello ideologico. 

    Abbiamo già trattato in altra sede delle tipologie della credenza religiosa e della loro forza o debolezza [30], ci limiteremo pertanto qui a ricordare che il monoteismo è vincente perché offre risorse e garanzie che le più antiche religioni non potevano offrire, soprattutto per quanto riguarda l’unitaria e definita concezione del mondo e  per l’aspetto salvifico ed escatologico. Il monoteismo risponde egregiamente alla incoercibile tendenza della psiche umana [31] a privilegiare l’unità rispetto alla pluralità, in quanto l’unità del tutto e l’unità dell’ente che determina il tutto offrono quelle garanzie di “senso” e di “ordine” compiuti che le visioni pluralistiche dei politeismi non potevano offrire.

    Per l’argomento di questo paragrafo, che rappresenta uno dei temi più interessanti della storia delle religioni, è di rigore fare riferimento allo studioso che più si è occupato di questo problema: alludiamo a Raffaele Pettazzoni, al quale già abbiamo accennato nel §1.1.  Nel suo saggio, pubblicato nel 1955, dal titolo L’essere supremo nelle religioni primitive (L’onnscienza di Dio) viene ripreso, riassumendolo, il lavoro che egli aveva già sviluppato sull’argomento (a partire dal 1920) e che doveva essere la prima parte di una ricerca di più vasta mole rimasta incompiuta, il cui titolo avrebbe dovuto essere Dio: Formazione e sviluppo del monoteismo nella storia delle religioni. A tale saggio quindi ci riferiremo nel nostro cercare di capire i motivi per i quali dalla spontaneità ingenua del politeismo “naturale” abbia potuto affacciarsi alla mente umana dapprima la supremazia delle divinità celesti rispetto a quelle terrene e marine, e perché poi, tra queste, il dio del fulmine e della tempesta sia assurto in un primo tempo al vertice della sfera divina, per dar luogo in seguito a quell’ipostasi artificiosa ed astratta che è il Dio del monoteismo.

    Pettazzoni inizia il suo saggio rilevando che la teoria del “monoteismo primordiale” è viziata dalla confusione che viene fatta con la nozione di “essere supremo”, poiché la capacità di creare si connette strettamente a un sapere che è un “saper fare assoluto”, e che il dio stesso che “crea dal nulla” è una “sublimazione ideale del mago, operante per sola virtù cogitativa e potenza di volontà”.  L’autore continua la sua analisi mettendo il evidenza il fatto che in tutte le religioni, dal giudaico Jahvé, al vedico Varuna, al cinese Tien, l’essere supremo è anche sempre onnisciente, e che l’onniscienza si connette al vento, alla luce, all’acqua meteorica e a tutto ciò che è afferente il cielo. L’essere supremo è perciò sempre un dio uranico, che sa tutto degli uomini [32], che ne scruta le anime e li giudica, che manifesta la sua riprovazione col fulmine e con la tempesta. L’essere supremo, infatti, in quanto onnisciente, onnipotente e deputato a giudicare le azioni degli uomini, dispone del mezzo formidabile della “sanzione meteorica”, che lo rende molto temibile, in quanto i suoi interventi possono mettere a repentaglio la vita dell’uomo e dei suoi animali, ma soprattutto l’abbondanza dei suoi raccolti. Nell’osservare tuttavia che il dio creatore è molto spesso un deus otiosus, che crea il mondo e poi si ritira nella usa beatitudine lasciando il campo al “dio della tempesta”, Pettazzoni rileva due categorie di esseri supremi, quella in cui prevale l’onniveggenza e quella in cui prevale la creatività, e ne deduce una distinzione piuttosto importante:

 

[…] Questo dualismo non è puramente ideologico, esso è anche religioso, e religiosamente rispecchia due istanze diverse. All’attributo  dell’onniscienza corrisponde un’esperienza religiosa specifica che non è la stessa che sta sotto all’attributo della creatività. Non c’è dietro la struttura dell’onniscienza divina quella elementare angoscia esistenziale che si esprime nei miti delle origini in genere e in quelli della creazione in ispecie. È una esperienza sui generis, nella quale sul sentimento della precaria condizione umana trema l’ombra di un’altra angoscia, il senso di una diffusa immanente presenza che incombe su l’uomo in ogni luogo e in ogni momento, senza tregua e senza scampo, senza rifugio e senza evasione, di uno sguardo cui nulla sfugge e cui nessuno può sottrarsi, di un mistero che circonda l’uomo, lo fascia e lo imprigiona, e a volte subitamente prorompe nella violenza grandiosa dei fenomeni meteorici [33].

 

Abbiamo così un quadro esistenziale drammatico, che riguarda anche culture arcaiche come quelle degli Apache o degli Eschimesi, ma che è indubbiamente determinante in culture più evolute come quella giudaica, in riferimento alla figura e alle prerogative dello Jahvé biblico.  

    Venendo al dio del monoteismo vero e proprio, Pettazzoni rileva che esso è sostanzialmente omogeneo con tutti gli altri precedenti dei uranici onniscienti-onniveggenti-giudici di ogni altra religione e operanti con lo strumento della punizione meteorica:

 

Se Jahve è il dio unico di una religione monoteistica e Zeus il dio supremo di una religione politeistica, ciò riguarda il diverso destino storico delle rispettive religioni, l’ebraica e la greca, e non dirime l’originaria omogeneità dei due iddii, inerente alla loro pertinenza – in ultima istanza – a civiltà omogenee. Il dio degli ebrei nomadi non è un Dio unico pel fatto che «il deserto è monoteistico (Renan)»; egli diventa un Dio unico per il messaggio di Mosè potenziato dallo sforzo assiduo dei Profeti. Jahve non diventa un dio del cielo soltanto dopo l’esilio per influenza del persiano Ahura Mazda, ma molto probabilmente risale ad un primitivo iddio del cielo dalle teofanie meteorologiche violente, quali sono proprie di tanti esseri di popoli civili e meno civili. L’onniscienza di Jahve non è un riflesso di idee egiziane e babilonesi, come si potrebbe a maggiore ragione sostenere per l’onniscienza demiurgica dei testi sapienziali (Hempel); la sua onniscienza – onniscienza visiva applicata alle azioni umane e associata a una sanzione punitiva di carattere meteorico – è più antica dei Salmi (contro Gunkel), più antica di Amos (contro Gressmann), più antica, in un certo senso, di Mosè: nello stesso senso onde anche l’onniscienza di Ahura Mazda è probabilmente più antica di Zarathustra e quella di Allah forse più antica di Maometto. Dietro il dio unico onnisciente di una religione monoteistica spunta il sommo onnisciente di una religione politeistica, come dietro a questo si affaccia sovente il supremo onniveggente essere celeste di una religione primitivistica [34].

 

Forse qui Pettazzoni non si rende conto di finire per dare ragione all’evoluzionista Tylor, a cui il suo storicismo intende contrapporsi, ma indubbiamente rende un quadro credibile dell’arcaicità dell’idea dell’onniscienza-onniveggenza divina connessa con la punizione atmosferica, sia essa la tempesta e la grandine, oppure il caso estremo del diluvio. Il Nostro rileva però più oltre un altro aspetto comune dei monoteismi: quello che l’avvento di essi è sempre coincidente con una riforma religiosa rispetto a una religione precedente, e che a determinarla vi è sempre una figura specifica, che è il riformatore di quella vecchia e fondatore di quella nuova. Vi è però ancora un’altro aspetto da rilevare ed è quello che riguarda l’intolleranza religiosa dei monoteismi nei confronti non soltanto di ogni politeismo ma anche di ogni altro monoteismo, con la dicotomia tra l’eletto superiore e lo straniero inferiore, tra il credente nella verità e lo schiavo della menzogna idolatra, tra il fedele e l’infedele. Ma l’instaurazione del dio unico rappresenta la cassazione di tutte le divinità precedenti o la loro immediata riqualificazione come demoni. Il caso più evidente, specialmente per i suoi aspetti linguistici, è riscontrabile nel Mazdeismo. Zarathustra rifonda la religione persiana cominciando col dire che gli dèi tradizionali (i daêva) si sono votati alla falsità e all’inganno e facendoli perciò diventare demoni. Tuttavia essi mantengono il loro nome, che significa appunto dèi, ma si tratta di dèi che sono diventati “falsi”; allora Ahura Mazdā riceve una nuova qualifica come “dio vero” e unico che essi combatte. Con questa degradazione degli dèi a demoni il Mazdeismo si presenta apparentemente come dualistico, in realtà il vero Dio è unico. D’altra parte anche nel Giudaismo e nel Cristianesimo i demoni sono angeli ribelli; il loro capo, Satana (corrispondente all’Angra Mainyu del Mazdeismo), è passato dalla condizione divina a quella demonica. Osserva il Pettazzoni:

 

    Di questo dio supremo dell’antica religione politeistica Zarathustra fece il suo Dio unico. Quanto agli altri dèi, egli non negò la loro esistenza; li negò come dèi, ma li mantenne nella forma che sola era compatibile con la dottrina monoteistica, cioè come demoni. In ciò noi abbiamo in certo qual modo un’anticipazione di quel che accadde più tardi nella religione cristiana. Anche il Cristianesimo non poteva che negare le antiche divinità del politeismo greco e romano; e tuttavia non negò la loro esistenza, bensì  e fece dei démoni: omnes dii gentium daemonia, secondo la formula di sant’Agostino, «tutti gli dèi dei gentili sono démoni» (Enarrat. in Psalm. XCV-XCVI) [35] 

 

    Relativamente agli influssi della religione persiana (Mazdeismo prima e Manicheismo poi) sul mondo giudaico e successivamente su quello cristiano è piuttosto interessante l’analisi che ne fa Dario Sabbatucci. Secondo questo studioso contemporaneo, appartenente anch’esso alla scuola storicistica; il Mazdeismo (o Zoroastrismo) compare già con Dario, che regna dal 522 al 486 a.C.. Esso risulterebbe perciò precedere (anche se non di molto) la formalizzazione della religione di Jahvé [36] in terra ebraica; ciò avverrà infatti soltanto dopo la cattività babilonese e quindi certamente in tempi posteriori al 520 a.C. [37]. Sottolinea lapidariamente questo autore:

 

    Certo è che Isaia parla di Dario, ma Dario non parla d’Isaia. Certo è che nella sacra scrittura ebraica si parla dei Persiani, ma nel libro sacro persiano, l’Avesta, non si parla degli Ebrei.

 

    L’antropomorfismo di Dio fu l’elemento dottrinario che i filosofi tardo-antichi rimproveravano al Cristianesimo, in quanto veniva considerato il negativo recupero di un volgare antropomorfismo pagano che consideravano ormai superato. Ma è già in tale situazione che la teologia cristiana mostra quella grande plasticità concettuale che rimarrà esemplare nei secoli, quella di adattare sempre la dottrina alle necessità contingenti poste da obbiezioni logiche o da evidenze scientifiche non espungibili provenienti dall “esterno”. Salvo poi colpire in modo feroce e intollerante ogni alternativa dottrinaria proveniente dall”interno”, bollarla col termine di eresia e ricorrere, se necessario, anche alla violenza. Ma va precisato che ciò è regola e prassi di ogni ideologia, anche laica, come la storia, in ogni tempo e occasione, ci insegna. Il problema dell’antropomorfismo di Dio è stato abilmente e intelligentemente risolto portando ogni attributo divino di derivazione umana all’ennesima potenza, quindi ad un livello ontologico del tutto trascendente l’uomo, sancendo inoltre l’inversione creativa narrata nel Vecchio Testamento, per cui sarebbe stato Dio a creato l’uomo a propria immagine e somiglianza e non (Feuerbach insegna) il contrario. In tal modo la concezione del Dio unico ebraico-cristiano risulta ineccepibile e inattaccabile, in quanto l’uomo è copia della divinità (come per Platone lo erano le realtà sensibili rispetto alle idee), la quale rimane trascendente, nella sua suprema perfezione di onniscienza e onnipotenza, all’umanità stessa che l’ha posta. Il Dio cristiano (ma non meno l’Allah islamico) rivivifica lo Jahvé giudaico, ma nello stesso tempo lo spoglia delle sue indubbie rozzezze arcaiche, perfezionandolo alla luce della filosofia greca (platonica, aristotelica, e stoica). Di essa il monoteismo mutua e ingloba gli aspetti compatibili con se stesso e nel contempo rende inoffensivi (presentandoli come  concettualmente superati) quelli non compatibili o superflui. In tal modo la geniale macchina teologica che Paolo da Tarso aveva messo in marcia con la sua interpretazione della figura di Gesù (e con la sua indefessa e quasi eroica predicazione) veniva perfezionata e rodata dalla teologia posteriore, facendone una splendida ideologia di consenso e di gratificazione psichica, prima ancora che espressione di autorità spirituale e morale.

    Il Cristianesimo opera così una sintesi tra il concetto di divinità espresso dal (per molti versi irrazionale) biblico Jahvé e il Dio (tutto razionalità e perfezione) della filosofia platonica. Ma la gestione di questa sintesi, proprio in quanto connubio di differenti (e per qualche verso opposte) concezioni della divinità, costringe la teologia a continui aggiustamenti e la espone inoltre al rischio di contestazioni e divisioni al proprio interno. Dio, infatti, in quanto onnipotente, potrebbe anche fare il male, ma ciò risulta inconciliabile con la sua perfezione. E allora il male diventa presente nel mondo sia come conseguenza del peccato originale e sia per la continua attività corruttrice di Satana. E tuttavia l’esistenza del mondo, in quanto regno del male, mal si concilia con l’assoluta bontà di Dio, la quale, si noti, non è più la benevolenza interessata di Zeus e neppure l’atto d’amore di Jahvé verso il “suo” popolo, ma è l’essenza del puro amore all’estrema potenza, che si rivolge indifferentemente a tutti gli uomini di buona volontà sulla faccia della terra. E tuttavia la conciliazione c’è nella figura del Cristo, ed è tale che porta, in realtà, proprio all’apoteosi di un Dio trinitario non solo amorevole ma che fa dell’amore e della pietà i massimi comandamenti. Non per nulla il suo amore è tanto grande da averlo condotto alla kenosi [38] e al sacrificio di se stesso sulla croce (sia pure solo come “figlio”), redimendo con ciò l’umanità dalle conseguenze della trasgressione dei suoi edenici progenitori.

    Ma come può un Dio che manifesta la sua bontà infinità nel creare l’uomo prima e nel soffrire poi sulla croce per salvarlo dalla terribile condanna (che in quanto giudice ha pur dovuto infliggergli) permettere che il male continui a trionfare nel mondo? Problema dottrinario non da poco. Ma anche qui la teologia cristiana compie il suo miracolo; infatti il male del mondo non è fine a se stesso, ma col suo imperversare esplica la funzione di mettere alla prova la fede degli uomini. Il “grande ribelle” Satana ridiventa così, nella sua veste di biblico tentatore, un divino strumento nelle mani di Dio, assumendo e nel contempo superando il sottile dualismo zoroastriano [39], di cui certamente il cristianesimo è tributario. Come Satana ha tentato paradigmaticamente e strumentalmente Gesù nel deserto per metterlo alla prova e (implicitamente) per dimostrarne la divinità, così il male (in generale) appare come lo strumento mandato da Dio per mettere alla prova la fede del cristiano, dimostrare la sua dignità di creatura privilegiata e consentirgli di conseguire il premio supremo di accedere alla paradisiaca comunione con lui.               

    Il meccanismo teologico-politico che viene messo in atto dalla teologia cristiana dei primi secoli, e almeno fino al tardo medioevo, consiste soprattutto nel determinare la lettera e la forma delle sacre scritture e nel fissare nei ricorrenti concilii i dogmi inappellabili in cui la fede si estrinseca come credenza e come culto, proprio per far fronte a tutte le aporie che la complessità di una dottrina sincretistica aveva generato. Complessità derivante dal voler conciliare il Dio della filosofia con quello della fede, il Dio della ragione con quello dell’amore, il Dio onnipotente con quello che deve ammettere il male per realizzare il suo fine salvifico.

    Aporie che si incontrano molto meno nell’ebraismo, dove la divinità è tutta autosufficiente e compiutamente espressa nella lettera biblica, che ne è epifania compiuta nella “giustizia”, secondo il patto di alleanza, e non secondo “bontà”. Jahvé mette alla prova Isacco, chiedendogli il sacrificio del figlio, ma non si sognerebbe mai di mettere a repentaglio la sua integrità unitaria di creatore del mondo (neppure simbolicamente o metaforicamente) per amore del popolo che ha scelto ed eletto. Nell’ebraismo l’esegesi opera all’interno di una concezione della divinità assoluta, autosufficiente e monolitica, mentre nel cristianesimo essa deve fare i conti con denotazioni complesse e articolate della divinità, che includono, tra l’altro, anche elementi dell’orfismo e dell’essenismo, oltre a quelli (già citati) dello zoroastrismo, e più tardi (a III secolo inoltrato) anche del neoplatonismo.

    Anche il Dio dell’Islam è per molti versi un Dio semplice, un Dio che impone poche regole, ma una al disopra di tutte: quella dell’obbedienza. Pur avendo praticato per diversi secoli (culturalmente “luminosi” e contemporanei a quelli “bui” del Cristianesimo) la filosofia greca, l’Islam non ha mai preteso di fare di Allah un Dio di perfezione razionale e per ciò stesso di perfetta bontà (aspetti peraltro estranei al Dio di Abramo), ma si è preoccupato di farne un Dio onnipotente e temibile, che impone regole inappellabili sia sul piano cultuale, sia su quello etico, sia su quello civile. Vincolando in tal modo non solo il singolo maomettano, ma ogni comunità islamica a fare proprio il comando inappellabile della divinità in tutta la  sua estensione e in ogni suo dettaglio, senza che possano avere spazio atteggiamenti dubbiosi o arbitri interpretativi.

    Si potrebbe aggiungere che, in un certo senso, il Cristianesimo, con la sua intrinseca complessità dottrinale, ricca di un sincretismo che ingloba aspetti del misticismo ellenico, della religione iranica, della filosofa greca e della gnosi, mescolando il tutto col messaggio biblico, abbia finito per determinare una fortezza che giganteggia per la sua mole concettuale, ma che presenta numerose soluzioni di continuità nelle sue muraglie. Punti di fragilità che si evidenziano specialmente dove essa pretende di conciliare la fede con la ragione, per cui le aporie interpretative e le contraddizioni diventano tali, e così evidenti, da consentire al pensiero scientifico (e all’ateismo che lo segue da vicino) di insinuare i cunei di una razionalità vera, che mette in mora (e spesso ridicolizza) la pretesa razionalità “d’acquisto” della teologia cristiana.

    Per contro, sia l’Ebraismo sia l’Islam non soffrono (se non in modo molto marginale) gli attacchi del pensiero scientifico, proprio perché Dio è in essi “il fuori scala”, ineffabile e irrapresentabile, ma soprattutto ininterpretabile da parte della mente umana. Jahvé e Allah, intrattengono con il fedele un rapporto di sudditanza severo ed assoluto, che esclude ogni concessione adattativa alle modalità operative della ragione umana in termini di approccio intepretativo di carattere filosofico razionalistico. I loro attributi possono anch’essi venire considerati quelli umani positivi portati all’estremo limite di perfezione, ma non comprendono quelli dell’amore del dio cristiano, bensì quelli, per alcuni versi ad esso antitetici, della giustizia e dell’intransigenza; attributi che conferiscono a Dio una potenza e un livello di trascendenza che lo allontanano ontologicamente in modo netto dall’uomo e dalle sue possibilità di un rapporto razionale. D’altra parte, il Dio di questi due monoteismi, come abbiamo visto, non solo non si qualifica come razionale, ma espunge la razionalità stessa dagli orizzonti umani concernenti il “sacro”. Per essi tutte le conquiste della ragione e dell’intelletto umani gli sono completamente estranei, o almeno indifferenti, e soprattutto irrilevanti sul piano dell’acquisizione di meriti validi sul piano del sacro. Per altri versi resta ad essi inapplicabile un concetto come quello della cristiana teodicea, la loro giustizia è oltre ogni motivazione antropica e inavvicinabile per la comprensione umana. In definitiva il rapporto dell’uomo col Dio ebraico ed islamico non è mai un rapporto d’amore, ma solo ed esclusivamente di pura dipendenza. Allah non è né razionale né buono, ma semplicemente “grande”; al cospetto della sua grandezza l’uomo può soltanto prostrarsi, adorarlo e ubbidirlo; nient’altro. Non ci si stupirà quindi, se riteniamo di poter affermare che nell’Islam il monoteismo raggiunge il suo livello più alto di evoluzione e di concreta realizzazione nella coerenza. 

                              

 

 

 

                              2.5)  Homo religiosus e homo ateus.

 

    La contrapposizione offerta nel titolo di questo paragrafo potrà forse far pensare all’atteggiamento preconcetto di chi voglia contrapporre il negativo al positivo. Questa sarebbe una posizione tipicamente ideologica, della quale le religioni sono la più perfetta espressione (in buona compagnia con ideologie che si richiamavano proprio all’ateismo!), ma non è certamente la nostra. Ciò che a noi interessa è l’aspetto critico della contrapposizione e il problema teorico posto da essa; ovvero del perché esistano due situazioni antropiche “limite”, la prima rappresentata dall’uomo “totalmente religioso” e la seconda dall’uomo per niente religioso, cioè l’“ateo”. La nostra esposizione non potrà pertanto esimersi dal ritornare all’uomo arcaico per sviluppare adeguatamente la nostra indagine. Egli, infatti, possiede strumenti concettuali indefettibili per spiegare e sistematizzare il mondo e l’esistenza a partire dalla sacralità, strumenti che gli pervengono dal possedere una religiosità onnipervadente, che realizza il “sacro” nel modo più perfetto.

    Ricordiamo che, come aveva già concluso Levy-Bruhl, la visione del mondo dell’uomo arcaico è fondamentalmente mistica e pertanto prevalentemente sganciata dalla realtà fisica in cui si trova immerso. Ci pare quindi che l’elemento determinante e qualificante risulti il seguente: le sue categorie interpretative, con le quali vede e giudica il mondo, sono una proiezione della sua psiche sul mondo e non provengono da un’introiezione delle connotazioni del mondo reale su di sé; ciò determina una “creazione” poetica ed esplicativa di esso attraverso il mito, che è un immagine del mondo alternativa a quella scientifica e che per molti versi “funziona” persino meglio.   Con tale operazione creativa l’uomo arcaico soltanto molto marginalmente traduce la sua percezione fisica del mondo in termini reali, poiché gli aspetti del mondo perdono immediatamente la loro qualità di oggetti percepibili, utili o dannosi, manipolabili o soltanto subibili, per diventare elementi sacrali di un mondo sacralizzato. Non è quindi la percezione l’elemento che fonda la sua visione del mondo, ma l’invenzione della sua nascosta natura e delle sue cause. Il mondo così “inventato” si struttura in un “sistema” che spiega se stesso e nel contempo spiega la posizione che l’uomo assume all’interno di esso e i suoi rapporti cogli enti che con lui lo formano. L’uomo arcaico infatti, avendo già spiegato attraverso il mito la struttura del mondo e le ragioni del suo essere, non ha altro fare che “leggerlo” come un libro già da sempre aperto e può dedicare la sua attività intellettuale non solo alla sua descrizione, ma ad un’attività classificatoria delle entità (soprattutto viventi) concernenti il territorio di sussistenza nella quale rivela dei livelli di sofisticazione osservativa e catalogativa straordinari.  

   Passa probabilmente da tale punto cruciale il discrimine tra il destino di quelle comunità che in alcune aree del pianeta hanno vissuto la religiosità arcaica come una fase temporanea e quello di altre che invece vi si sono attestate, come una condizione soddisfacente, da conservare e da preservare da ogni turbativa culturale esterna e da ogni variazione interna. Ma va precisato che mentre Levy-Bruhl aveva definito la mentalità arcaica “pre-logica”, intendendo con ciò un “non ancora” rispetto al “nostro” pensiero logico, in realtà essa possiede una “sua” logica particolare e specifica di grande interesse antropologico, tanto è vero che il “sistema” del mondo che la religiosità arcaica realizza “funziona” benissimo e assicura continuità e prosperità alle poche comunità che ancora vi si attengono, sempre che l’uomo “tecnologico” non irrompa ad alterarne il territorio e turbarne la struttura sociale [40]. In altre parole, l’uomo arcaico non sa che farsene della nostra logica, non gli serve, avendone elaborata nei millenni una, di carattere esclusivamente religioso, che risulta per lui del tutto soddisfacente. Infatti, è largamente testimoniato come l’uomo arcaico per un verso tema gli strumenti dell’uomo tecnologico (come oggetti di una magia che non conosce) e per un altro disconosca e disprezzi la scienza da cui traggono origine. Teme i primi  perché non ne capisce il funzionamento e disprezza la seconda perché non ne percepisce l’utilità. In altre parole: egli teme e disprezza le nostre nozioni e le risorse strumentali che ne derivano, che non capisce (ma ciò è anche, dal più al meno e di converso, ciò che solitamente facciamo noi nei confronti delle sue).

    Per l’uomo arcaico tra scienza e produzione di cose non può esistere alcun rapporto, così come non esiste tra concetti ed oggetti. Solo questi sono reali e la spiegazione del fatto che esistano non è suscettibile di indagine, per la semplice ragione che di essi, come del “tutto” in generale, egli “sa già tutto”. La nostra attività scientifica, come inarrestabile ricerca delle cause gli pare un gioco inconcludente, e soprattutto inutile. La ricerca delle cause è infatti l’operazione di uno che “non sa” mentre l’arcaico “sa” a priori come stanno e vanno le cose, e ciò forse anche perché le cose nella realtà arcaica non sono un “altro da me”, ma entità integrate “come me” in un sistema che ci comprende tutti e il cui funzionamento avviene secondo leggi immutabili fissate illo tempore.

    A questo proposito è estremamente significativo il modo con cui l’uomo arcaico classifica le cose del mondo e le inserisce in uno schema di corrispondenze e di dipendenze. In un famoso saggio del 1902 [41] Emile Durkheim e il suo (allora) allievo Marcel Mauss hanno reso esplicito il sistema classificatorio di alcune popolazioni dell’Oceania e dell’America, rinvenendo diffuse coincidenze nelle modalità con le quali anche altrove si “sistematizza” il mondo. E questa sistematizzazione, secondo le loro ricerche, ha come modello non già la struttura del mondo stesso, ma la struttura sociale del gruppo di appartenenza nel quale avviene il suo rispecchiamento. I rapporti esistenti tra gli individui all’interno della comunità arcaica determinano i rapporti tra le cose del mondo ed esse vengono sistematizzate secondo il modello dei rapporti sociali, quindi in maniera relazionale e gerarchica a prescindere dalla loro realtà fisica. Il sistema primitivo di classificazione e gerarchizzazione prescinde in misura così radicale dal mondo stesso che il sole, in un certo sistema totemico, può essere fatto derivare dal pellicano, dove questo è il totem e quello uno dei suoi sotto-totem.  L’assimilazione di un animale che calca la terra con un astro che sta nel cielo non deve stupire, infatti non è la “natura” dell’elemento a contare, ma la sua “funzione” religiosa. Questa classificazione, per noi illogica, è invece per l’uomo arcaico perfettamente logica, secondo la prospettiva religioso-pragmatica in cui vive e si realizza. Il concetto astratto utilizzato nel pensiero scientifico, che estrae le proprie enunciazioni dall’empiria della prassi, nella mentalità primitiva non esiste; il pensiero è sempre ”pragmaticamente” una classificazione di esseri e funzioni all’interno di un sistema “sacrale”, perfetto e immutabile, che funziona indipendentemente dalle evidenze fisiche.

    La società dell’ homo religiosus per eccellenza, quella arcaica, è basata su una “macchina divina” immutabile e alla quale nessuno può attentare, che dispone della vita di ogni persona e impone ruoli, riti, tabù, rapporti e azioni definite, con possibilità di scelte individuale praticamente nulle e dove il concetto di individualità è quasi ignorato, poiché, solo l’insieme è “soggetto” umano “reale”. Non si può non cogliere qui il rapporto esistente tra le società arcaiche e la società brahmanica, nella quale l’appartenenza ad una casta determina posizione, compiti e possibilità di vita di ogni singolo individuo. Ma la società castale ci offre anche un altro elemento importante per il nostro studio, in quanto incarna, con maggiore evidenza di qualunque altra, il “blocco” religioso di ogni dinamica sociale, al fine di assicurare una stabilità assoluta di ruoli e di prospettive esistenziali. In tale situazione anche chi appartiene alla casta più bassa, quella dei paria, e soffre le peggiori condizioni del sistema, se ne sente nel contempo totalmente rassicurato e garantito, in quanto sa che se osserverà diligentemente il dharma (il dovere-ruolo) che gli compete accadrà che nella prossima reincarnazione assumerà automaticamente lo status sociale di una casta superiore. Ciò poiché è solo la legge samsarica che determina il destino dell’uomo: con essa nulla è indeterminato e nulla è casuale. Il sistema brahmanico rappresenta la più perfetta struttura sociale esistente, in quanto esso ha espunto alla radice l’indeterminazione e la variabilità dall’orizzonte del mondo, istituzionalizzandone i loro opposti. Il meccanismo vedico, attraverso una rigorosa sistematizzazione ontologica di ogni entità vivente e del suo destino, realizza ordine e stabilità, per cui garantisce ai propri appartenenti, anche nelle peggiori condizioni di esistenza, un quadro concettuale “certo” e immutabile del mondo e della vita. Entro la sua cornice è sempre possibile la sofferenza fisica e psichica, ma risulta escluso ogni elemento concettuale che possa turbare lo schema di riferimento in cui la psiche si riconosce. Una realtà umana spesso stupefacente, e sempre affascinante, che l’uomo “tecnologico” europeo o americano sperimenta con sorpresa da diversi secoli ogni qual volta viene a contatto con la mentalità induista. 

    Per quanto si possano avere dei dubbi sulla opportunità antropica di uno status come quello dell’homo religiosus ci vediamo costretti ad ammettere che si tratta di una condizione umana che presenta i suoi innegabili vantaggi, dal momento che rende un immagine del mondo rassicurante e gratificante, con l’estirpazione radicale del disordine e della casualità. È per questa ragione che l’ateismo appare anche, e per molti versi, del tutto prematuro (e persino inopportuno) rispetto a quel contesto, anche per il fatto che la religiosità (come interiorizzazione, tematizzazione e organizzazione della sacralità) risulta largamente vincente a tutte le latitudini e continua ad impregnare la maggior parte dell’umanità, dimostrando così una sua innegabile funzionalità antropica. Essa infatti riesce a stigmatizzare ideologicamente il caos e il caso come espressioni del “male”; un male metafisico eliminabile soltanto col ricorso al “bene” metafisico, ovvero all’entità trascentendentale che si realizza nella “divinità” che conferisce ordine e senso al mondo.

    L’homo religiosus si sente a suo agio (potremmo dire che “sta bene”),  quando può fare riferimento ad un “sacro” istituzionalizzato e garantito dalla chiesa-comunità di cui fa parte; che è poi la vera “sostanza” di esso. Sostanza che è nello stesso tempo storia sacra che si ripete e si conferma all’infinito, in quanto realizzazione della storia divina (nei moderni monoteismi) o del mito ciclico (nelle religioni arcaiche). Anzi, il “bene” e lo “star bene” si identificano con l’epifania del “sacro” (la ierofania di Eliade) e questo, come fulcro dell’esistenza umana, diventa il “centro” della realtà autentica, rispetto alla quale la realtà fisica ed effettuale non è semmai che una sua imperfetta copia degradata e reietta. Questo centro, d’altra parte, è origine e fine della comunità stessa nel suo essere mondo. Il mito in cui l’homo religiosus arcaico riconferma il “sacro”, crea e ricrea continuamente un mondo fuso con la trascendenza, e quindi col “bene” assoluto.  Dunque la religiosità primitiva realizza una circolarità di proiezioni psichiche che nasce dal centro di gravità del sacro e determina gli ambiti del bene e del male (il sacro e il profano), ovvero l’ordine dell’immutabile contro il disordine del diveniente. 

    Tuttavia, se il mondo arcaico ci disvela l’essenza della religione, affondando questa il suo sorgere nella notte dei tempi, non è ancora per nulla chiarito perché il mondo arcaico sia rimasto completamente “dentro” il sacro, mentre quello che abbiamo chiamato “antico” (concernente il passato delle società tecnologiche) se ne sia distaccato in buona parte. Ma una prima parziale conclusione possiamo trarla, osservando che, evidentemente, l’homo religiosus arcaico ha ritenuto conveniente il dominio della sacralità per gli innegabili vantaggi che essa garantisce in termini di “identità” individuali sempre ricomprese in una totalità unitaria.  Perdere la propria identità (ovvero il “centro”) è tutt’uno col perdere la vita, e quando ciò accade sopravviene la morte civile dell’individuo e ciò conduce anche, abbastanza spesso, anche quella biologica [42].  

    Il termine di homo religiosus allude allo status antropico di quella parte di umanità non ancora contaminata dal pensiero scientifico e, secondo un’intepretazione laica, tale status consiste nell’essere immerso in una weltanschauung caratterizzata dal prevalere di un modo irrazionale e ingenuo di pensare il mondo e l’esistenza, profondamente pervaso dalla credenza in una realtà illusoria. Questa viene determinata dalla sovrapposizione alla realtà effettuale di una realtà sacra onnipervadente che la mette in ombra e la svilisce. Tale lettura laica della weltanschauung arcaica contrasta nettamente con quella che ne ha dato Eliade, per il quale (come abbiamo già visto) l’homo religiosus, al contrario, sperimentando autenticamente il “sacro”, vive immerso nel “vero” essere. Un essere, che si estrinseca in uno spazio [43] e in un tempo sacri, nettamente contrapposti a quelli profani.

    Ricordiamo che tale contrapposizione è altrettanto netta di quella che operava Durkheim e in termini analoghi; ma mentre in questo la chiave di lettura è sociologica nello studioso rumeno essa è invece ontologica; ne deriva che quella di Eliade si presenta come la più chiara, coerente ed universale antitesi alla weltanschauung atea. Questa lettura non ci offre soltanto una definizione di religiosità che vale per il contesto arcaico, ma che può valere in generale per ogni religione, anche per quella che nei contesti in cui è presente il pensiero scientifico ha assunto una forma meno rigida, ma proprio per questo, dal più al meno, “degradata”. Nell’interpretazione di Eliade il tempo sacro, come sospensione del tempo profano, e lo spazio sacro, come luogo “separato” e privilegiato, mettono l’uomo in rapporto diretto con la trascendenza. Ma a ben vedere si può legittimamente concludere che essi sono tipici ed indispensabili elementi di ogni religiosità, sia essa politeistica, panteistica o monoteistica. Non esiste infatti nessuna religione priva di un calendario liturgico, di rituali periodici, di occasioni liete o tristi in cui ritualizzare e riattualizzare la storia sacra o il mito, così come ogni fede religiosa trova il proprio “centro” in uno spazio dove abita la divinità, determinato e separato dal mondo profano; sia esso il tempio egiziano, la cattedrale cristiana o il bosco sacro dei pagani. Sembra tuttavia fuori discussione che, in termini di “autenticità”, la religiosità arcaica si presenti al livello più alto di “fede” e di interiorizzazione della credenza nel sacro. Che il cristiano creda nel Dio “vero” e che l’uomo arcaico creda in uno “falso” fa la differenza soltanto ove si esprima un giudizio assiologico dall “interno” di una fede e di una credenza, ma dal punto di vista delle denotazioni religiose (o meglio sacrali) che abbiamo delineato è indubitabile che la religiosità arcaica si presenti come “superiore” a quella cristiana.

    Ma se l’homo religiosus trova il suo humus ideale nel contesto arcaico ciò non significa che anche in un contesto contemporaneo altamente permeato dal pensiero scientifico non sia possibile vivere una religiosità profonda ed autentica. La monaca di clausura di un convento posto all’interno di una grande metropoli è, in linea di principio, nelle condizioni di riuscire a vivere la sua fede in modo non meno autentico dell’uomo arcaico. Ma è assai probabile che un biologo cristiano, che lavori all’interno di un laboratorio altamente tecnologico, incontrerà maggiori difficoltà a vivere la propria fede con la stessa intensità e gli stessi livelli “qualitativi” della monaca di clausura. Va tuttavia aggiunto che, se risulta possibile che un cristiano moderno riesca a vivere pienamente e intensamente la propria fede anche in un contesto fortemente laicizzato e profano, ciò costituisce la riprova di quanto la religione a cui aderisce vanti una struttura concettuale straordinariamente “plastica”, e quindi in grado di adattarsi ad ogni temperie senza perdere la sua sostanziale efficacia. Questo va a tutto merito del sistema dottrinario cristiano sul piano dell’efficienza, ma rimane il fatto, quasi inevitabile, che la religiosità cristiana, in generale, abbia perduto negli ultimi tre secoli, sul piano cultuale e rituale, la condizione “ideale” e auspicabile che era riuscita a mantenere ben oltre la fine del Medioevo, che era stato indubbiamente il periodo più glorioso del Cristianesimo in termini di autenticità religiosa. Infatti, se il rapporto con la divinità è l “essenza” dell’esistenza umana, è evidente che quanto più stretto, coinvolgente e costante esso può essere, tanto più “santa” risulterà la vita del fedele. Da questo punto di vista la condizione arcaica risulta quindi privilegiata in termini, ci pare, indiscutibili.

    Diventa però qui necessario tentare un confronto tra la religiosità arcaica e quella dei monoteismi abramitici, prese entrambe nella loro generalità, per capire in che cosa esse differiscano. Ciò dal momento che, sia l’una che l’altra, sono riuscite sia a sopravvivere attraverso i millenni, sia a mantenere fondamentalmente inalterata la loro weltanschauung; la cui validità, su un piano che definiremo “funzionalistico”, non ha quasi subito cedimenti. Senza alcuna pretesa di lasciarci andare a valutazioni etno-antropologicche sofisticate la nostra riflessione ci conduce però a ravvisare un elemento comune tra esse, che ci pare essere quello relativo al fatto che entrambe le tipologie religiose si presentano come “sistemiche”. Non erano infatti sistemi i politeismi pagani fioriti in ambito medio-orientale ed europeo precedentemente all’avvento del Cristianesimo, con la loro indeterminazione e l’estrema variabilità dei miti e delle loro personificazioni. Tanto è vero che non hanno retto all’impatto del messaggio dei monoteismi cristiano ed islamico, i quali (con la loro visione del mondo, la loro dottrina soteriologica e la loro escatologia) colmavano un vuoto esistenziale che i paganesimi antichi con la loro debolezza (in termini concettuali e dottrinari) non potevano certo riempire. Non vorremmo però dare la sensazione di voler qui equiparare la religiosità arcaica a quella monoteistica, poiché le differenze restano enormi, specialmente in termini di “forza [44]. Dove per forza intendiamo non già la religiosità in sé, in termini di autenticità, ma la “macchina” di persuasione che essa supporta. Ed è indubitabile che una macchina di persuasione si basa non soltanto su una migliore struttura dottrinaria e una maggior capacità dialettica nell’esporla, ma anche in quegli strumenti “al contorno”, offerti dalla tecnologia, dalle arti e dalla letteratura, che le catechesi cristiana ed islamica possono utilizzare.  

    Quasi tutte le religioni arcaiche (sia pure con sopravvivenze sincretiche nei monoteismi ad esse subentrati) sono state via via spazzate via da Cristianesimo e Islam, attraverso la conquista o la colonizzazione, in un vasto areale che va dalla penisola indiana, all’Africa e alle Americhe. D’altra parte, sia le religioni arcaiche sia quelle abramitiche sono, pur possedendo caratteristiche molto differenti, religioni assolutamente “sistemiche”, dove nelle prime il sistema si presenta piuttosto semplice e nelle seconde più complesso. Questa relativa equivalenza è riconoscibile quantunque quelle arcaiche non posseggano la struttura ideologica di quelle monoteistiche e soprattutto la loro universalità, che è un elemento fondamentale per il superamento di localizzazioni ed etnicizzazioni. L’elemento che rende quindi comprensibile la sopravvivenza delle religioni mitiche nei contesti arcaici non è soltanto la loro sistemicità, ma soprattutto il loro “isolamento”. Infatti, solamente questo le ha preservate e difese dall’irruzione della weltanschauung monoteistica, la quale, qualora si fosse affacciata ai loro orizzonti, le avrebbe annullate completamente con la sua forza religiosa. La tesi che noi sosteniamo è che il successo o l’insuccesso di una religione dipende sì anche da ragioni storiche ed ambientali, ma soprattutto dalla sua forza, che è costituita da un aspetto intrinseco, che è la sua weltanschauung in termini di appagamento psichico, e da uno estrinseco, che è il più elevato livello intellettuale e tecnologico di chi la propone o la impone [45].   

    Tornando al nostro discorso principale, dobbiamo ora rilevare che la dicotomia tra homo religiosus ed homo ateus indica allora la contrapposizione estrema che può verificarsi tra due atteggiamenti esistenziali reciprocamente incompatibili, che dal punto di vista antropologico costituiscono due limiti, per ragioni opposte, difficilmente raggiungibili. Nel nostro mondo, infatti, quello più o meno tecnologico nel quale il pensiero scientifico ha inferto duri colpi alla religiosità, è veramente difficile, oggi, essere portatori e testimoni di una credenza religiosa assoluta e priva di dubbi. E se pure è già meno facile accettare in tutto e per tutto il nucleo di una dottrina risalente a molti secoli fa è tuttavia nel campo cultuale e ritualistico dove il cristiano moderno si trova a marcare il proprio distacco dai precetti e dai sacramenti afferenti, di rigore, l’impianto dottrinario. Ma per altro verso non è neppure facile far propria una filosofia, quella atea, che azzeri venti secoli di Cristianesimo, intendendo riallacciarsi ad un pensiero filosofico che ne ha preceduto l’avvento di cinque secoli, ma che poi è stato quasi dimenticato durante quindici secoli di dominio teologico. Dominio il quale, non facciamoci illusioni, ha permeato in modo così profondo e totale la nostra cultura che non è possibile dl tutto prescinderne, neanche per chi si proclami ateo e senta profondamente il proprio distacco da essa nella realizzazione della propria libertà metafisica.

    Ma se l’homo religiosus è sempre più difficilmente realizzabile nel mondo moderno delle società tecnologiche anche quello l’homo ateus rappresenta un limite esistenziale assai problematico, se non altro perché gli strumenti culturali e di supporto messi a disposizione dalla cultura religiosa sono sconfinati, mentre quelli sulla teoresi atea attualmente disponibili sono pochissimi e perlopiù assenti dalla sfera pubblica. Questa differenza abissale tra il corpus della cultura religiosa (o di quella che indirettamente vi è riconducibile) e quella che (in qualche modo) reca un messaggio e dei contenuti atei non è priva di peso e significato, laddove si ponga il problema del “dubbio” sulle proprie convinzioni, nella prospettiva, se non di una conferma, almeno di un rafforzamento di esse. Ciò è assai importante proprio in riferimento a un ateismo di tipo non semplicemente “pratico” ma “teoretico”, cioè concettuale e non soltanto comportamentale. Dove per ateismo teoretico intendiamo quello che si fa interprete di una teoresi filosofica che si basa su di una totale libertà metafisica e che implica la totale espunzione del sacro dai suoi orizzonti ontologici. Ciò significa che rimane sempre facile, sia per ragioni filogenetiche che di imprinting (ma soprattutto per ragioni di disponibilità e presenza culturale) essere religiosi, mentre è assai difficile essere atei nel senso da noi posto che, lo ribadiamo, è quello che storicizza la religione e con essa si confronta sul piano etico. Se sul piano teoretico, infatti, nessun confronto è possibile tra ateismo e religione, non così sul piano etico, in quanto molti aspetti della morale religiosa (quelli che potremmo definire di carattere “naturale-universale”) sono perfettamente condivisibili anche da parte dell’ateo. Il confronto perciò si sviluppa, semmai, sulle alternative esistenziali che l’homo liberato dai vincoli metafisici è in grado di proporre e non sui comportamenti individuali e sociali realmente “virtuosi”.

    Il fulcro delle nostre tesi sulla religiosità e sulla sua funzione esistenziale (prima ancora che sociale) riposa fondamentalmente sul concetto di omeostasi [46] psichica, a cui abbiamo poco sopra accennato. Essa consiste, secondo il nostro punto di vista, in uno stato di rilassamento della psiche che è condizione basilare per la buona salute dell’uomo in generale. Tale esigenza omeostatica, che soltanto eccezionalmente può risultare assente [47], determina l’orizzonte esistenziale in cui ogni individuo tende a collocarsi ai fini della sua sopravvivenza e del miglior modo di affrontare l’esistenza. Se la nostra tesi è plausibile ne deriva che l’attuale stato evolutivo dell’homo sapiens sembra testimoniare una selezione filogenetica che ha privilegiato, attraverso le generazioni, gli individui che posseggono una buona omeostasi psichica e non solamente chi è più dotato di forza e di intelligenza. D’altra parte, è quasi una banalità ricordarlo, chi possiede un ottima omeostasi psichica ha migliori possibilità di utilizzare al meglio le proprie risorse fisiche ed intellettuali, mentre, al contrario, ogni stato psichico perturbato rende scarsamente o malamente utilizzabili le proprie facoltà.

    Quanto sopra significa quindi che, a livello filogenetico, chi gode di omeostasi psichica ha migliori probabilità non solo di sopravvivere e di affrontare al meglio i casi della vita, ma soprattutto di avere una progenie più sana e numerosa [48]; ciò nel senso che l’omeostasi favorisce la “tonicità” delle proprie risorse psico-fisiche e rende quindi  più probabile essere dei “vincenti” anche in termini generativi. Tuttavia, se ciò è facilmente riscontrabile in una condizione umana caratterizzata dalla precarietà e dall’indigenza, per una (come la nostra) che abbia invece risolto i problemi esistentivi elementari e che abbia ampliato gli orizzonti della propria cultura è difficile dire se ciò rimanga vero.  Va comunque considerato che la nascita della specie homo sapiens non supera in ogni caso i duecentomila anni e che quindi la sua evoluzione va riferita ad un tempo brevissimo in termini cosmologici. Ciò significa che nei prossimi millenni la nostra specie potrebbe subire delle alterazioni per noi ora inimmaginabili, sempre che il sapiens (come è già accaduto per il neanderthalensis) non si estingua lasciando il posto a una specie più evoluta e vincente.

    Se, pertanto, l’esigenza dell’omeostasi psichica caratterizza diffusamente e prevalentemente l’attuale stadio evolutivo dell’uomo, nulla vieta di pensare che questo, mutando il suo rapporto col mondo, possa, in uno stadio evolutivo futuro, trovare omeostasi in weltanschauungen differenti, che potrebbe avere a proprio fondamento proprio l’abbandono di ogni religiosità, ovvero la conquista di quella libertà metafisica che l’ateismo prefigura. È in questo senso che l’ateismo potrebbe risultare quindi “oggi” persino antropologicamente prematuro, in quanto realizzabile soltanto da parte di più o meno numerosi “fuori schema”, limitatamente a quella piccola parte del pianeta la cui cultura è pervasa di pensiero scientifico e dove può venir messa in discussione la struttura mentale dell’homo religiosus. Struttura tipica, che determina (per lo più inconsapevolmente) la sistematica eliminazione dal proprio orizzonte esistenziale di ogni elemento di carattere turbativo che possa insinuare disordine e casualità. Non deve quindi stupire che il caos ed il caso risultino due connotazioni cosmologiche e filosofiche che da sempre vengono combattute, ed in modo implacabile, da tutte le religioni. Una delle prime funzioni del “sacro” è infatti di recare ordine e definizione nel cosmo contro il disordine e l’indeterminazione.

    Di fronte alle difficoltà dell’esistenza, che devono essere affrontate col massimo apporto di energia psico-fisica, solamente una perfetta omeostasi della psiche (quale fondamentale “funzione” mentale) garantisce un’adeguata tonicità, con la più alta resa sul piano funzionale di ogni azione necessitata dalle circostanze o determinata dal desiderio. Qualunque “credenza”, indipendentemente dalla sua origine e dalla sua veridicità, che “stabilizzi” la psiche, permette allora di disporre compiutamente delle energie assorbibili dall’attività mentale. In altre parole, secondo la nostra tesi, il “sacro” è funzionale al miglior equilibrio psichico, in quanto protettivo e gratificante, mentre il “profano” è un territorio conflittuale dove la psiche è sottoposta a continui stress, che ne mettono a repentaglio lo stato di quiete o che (freudianamente) richiede un elevato dispendio energetico. Se l’homo ateus riesce a convivere col caos e col caso deve essere perché si è operata in lui una modificazione strutturale della psiche che glieli rende tollerabili, o almeno affrontabili, attraverso strumenti concettuali che il religiosus non possiede o rifiuta.  

    In definitiva, possiamo dire che ciò che caratterizza precipuamente l’homo ateus rispetto al religiosus suo contemporaneo è il fatto di riuscire a conseguire la sua omeostasi psichica senza far ricorso ad una weltanschauung religiosa. L’homo ateus rappresenta quindi quello status esistenziale nel quale, da un punto di vista ontologico, viene ammesso e tollerato un universo casuale e privo di fini, nonché l’accettazione del fatto che il fenomeno “vita” (in un suo piccolo e insignificante pianeta) sia una realtà assolutamente casuale e priva di significati nell’economia del cosmo nella sua generalità. Nell’ateismo teoretico, quindi, il “senso” dell’esistere non può venire cercato né in un supposto essere finalistico dell’universo né nella presenza del fenomeno vita sul nostro pianeta, ma esclusivamente nell’immanenza dell’esistere che concerne ogni singolo uomo in rapporto ai propri simili, in rapporto alla vita nel suo complesso e in riferimento alla struttura di un universo che l’ha resa possibile. Ma è anche in riferimento al retaggio religioso, di cui ogni uomo ateo (consapevolmente o no) è comunque ed in qualche modo interprete, che non è tanto il rifiuto di esso a qualificare l’ateismo ma l’affermazione della libertà metafisica in termini teorici. Solo questo salto di qualità dell’ateismo rende coerente la scelta di esso quale orizzonte ontologico ed esistenziale foriero di quell’autodeterminazione anti-metafisica che soltanto la libertà metafisica rende, per l’appunto, possibile.

 

 



[1] Un interessante contributo a questo problema è fornito, sia pure per linee esterne al problema stesso, da Jared Diamond nel suo Armi, acciaio e malattie (Einaudi 1998). Secondo questo studioso le diversità culturali sono da attribuire in primo luogo alle differenze ambientali (morfologia e clima), ma ancor più alla presenza sul territoriodi di specie vegetali ed animali ricche di elementi nutrizionali per qualità e dimensione e soprattutto facilmente addomesticabili. L’autore amplia poi la propria analisi e le proprie considerazioni al problema della prevalenza o alla sottomissione (o addirittura all’estinzione) di vari ceppi etnici attribuendolo allo stile di vita, all’impatto (positivo o negativo) del progresso tecnologico e al sistema immunitario. Le popolazioni che hanno sviluppato fin dalla preistoria attività agricole e di allevamento avrebbero, attraverso la promiscuità con gli animali, contratto malattie alle quali, attraverso le generazioni, sarebbero divenute resistenti, mentre la difesa del territorio e delle derrate avrebbe determinato l’organizzazione di specialisti della guerra mettendo in atto la conversione degli attrezzi agricoli in armi di offesa. Questi guerrieri, in un secondo tempo, quando l’incremento demografico avesse determinato densità di popolazione incompatibili con le risorse locali, potevano essere adibiti ad attività di conquista e razzia per compensare tale mancanza. Il successo di tali operazioni, genericamente imperialistiche, sarebbero state determinate dal fatto che le popolazioni dedite alla caccia e alla raccolta sarebbero state più deboli sia fisiologicamente (malnutrizione) sia organizzativamente (comunità poco gerarchizzate) sia strumentalmente (assenza di metallurgia avanzata).

[2] Ricordiamo che, ad esempio, quella dei Lapiti e dei Centauri è una leggenda della Tessaglia, che le storie di Cadmo ed Edipo sono ambientate in Beozia e Tebe, che Sisifo è il fondatore di Corinto e che Bellerofonte è suo conterraneo, che Teseo è eroe della Ionia e dell’Attica, che Minosse e il Minotauro sono relativi a Creta, e così via. Tuttavia, dal periodo classico in poi, ci troviamo ormai di fronte a una koiné ellenica ben definita, nella quale, sia pur con un certo frazionamento politico e amministrativo, il pantheon greco risulta sufficientemente unitario, sì da poterlo considerare relativamente omogeneo e senza distinzioni di luogo.

[3] Le testimonianze e gli atteggiamenti degli autori biblici posteriori alla conquista di Gerusalemme, avvenuta nel 586 a.C. da parte di Nabuccodonosor (con la deportazione a Babilonia del re e della classe dirigente) sono sicuramente condizionate da questo evento tragico nella storia del popolo ebraico. Ma d’altra parte avvilenti saranno anche le più tarde annessioni al regno dei Tolomei prima (323-198 a.C.) e a quello dei Seleucidi poi (198-142 a.C.). Fortemente traumatica sarà inoltre, nel 142 a.C., l’introduzione con la forza dei culti ellenistici nel Tempio di Gerusalemme, avvertita come un’abominevole violazione della sacralità del luogo. Ciò darà luogo alla rivolta guidata dai Maccabei, che si concluse con la riconquista dell’autonomia politica e l’insediamento di Simone Maccabeo come re e sommo sacerdote.  

[4] Cfr. nota 54 (su Jared Diamond)

[5] Sarvepalli Radhakrishnan, uno studioso indiano docente di Etica e Religioni orientali all’Università di Oxford, nel suo Religioni orientali e pensiero occidentale (Bompiani 1966 – p.22), così si esprime sui rapporti tra religione vedica e greca: «La religione olimpica dei greci e le credenze vediche hanno avuto un’origine comune.  C’è anche una straordinaria somiglianza tra la vita sociale come è descritta nei poemi omerici e quella dei Veda. Entrambe sono patriarcali e tribali. Queste consonanze dimostrano che i due popoli dovevano essere stati in stretto contatto in un’epoca più antica, ma nessuno dei due conservò memoria alcuna di quei tempi, e in seno all’Impero persiano si incontrarono come estranei. Gli europei troveranno dunque nel Rig-Veda reminiscenze della propria eredità razziale.».

[6] Interessante il saggio di Uwe Wesel Il mito del patriarcato (Il Saggiatore 1985), che mentre rende giustizia di tante teorie arbitrarie sul patriarcato preistorico delinea la società di cacciatori-pastori “puri” (orda) come una società basata su di una “mobilità” e un’”agilità” assolute, tali da far sì che i vecchi e gli infemi venissero uccisi per non doverli trasferire nei continui spostamenti. La stesso destino poteva essere riservato ai bambini molto piccoli qualora venissero a costituire delle “eccedenze negative”.

[7] Alcuni dati relativi all’addomesticamento sono particolarmente interessanti. La capra è stato il primo animale a venire addomesticato, verso l’8.000 a.C. Seguono la pecora e il maiale (VIII millennio a.C.), i bovini (VI millennio a.C.), l’asino (V millennio a.C.) e infine il cavallo (IV millennio a.C.).

[8] A questo proposito sottolinea Malinowski: «Il successo della loro agricoltura [dei Melanesiani] dipende – oltre che dalle eccellenti condizioni naturali da cui sono favoriti – dalla loro estesa conoscenza dei tipi di suolo, delle varie piante coltivate, del reciproco adattamento di questi due fattori e, ultima ma non meno importante, dalla loro conoscenza dell’importanza di un lavoro duro e accurato.» (Magia, scienza e religione – Newton Compton Editori 1976 – p.38).

[9] Le prime società stanziali di cui sono stati rinvenuti reperti risalirebbero al XII-X millennio a.C. sono quelle della valle del Giordano (Gerico) e del Kurdistan (Ganj Dareh).

[10] Vedi nota 57 a p.30 sull’estrema mobilità e sui costumi spietati delle cosiddette “orde” (dal turco urdu = esercito).

[11] In tempi molto più recenti una situazione analoga venne a determinarsi col Sacro Romano Impero, quando l’autorità religiosa, il papa, investiva l’imperatore del potere a nome della divinità.

[12] Non mancano tuttavia dee celesti molto importanti come la sumerica Inanna, regina del cielo, della fertilità e dell’amore. E vi è anche un caso di vera inversione, come quello dell’egiziana Nut, che è la dea del cielo ed è sposa sposa di Geb, che è invece dio della terra.

[13] Osserva il Gomperz (Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, vol. I, p.53): «La moltitudine dei miti, la folla delle divinità dovettero finire per sconcertare e stancare lo spirito ai credenti. Nel suo acrrescersi e moltiplicarsi, il mondo della favola assomiglia all’intrico di una foresta vergine, nella quale, senza alcun ordine, i vecchi ceppi non facciano che produrre con inesausta abbondanza sempre nuovi rami. Occorreva una scure per praticare in essa dei passaggi, ed un braccio vigoroso per maneggiarla. La robusta energia e l’intelligenza di un contadino ha compiuto l’opera gravosa. Coltivatore fu infatti il più antico poeta didascalico dell’Occidente, Esiodo da Ascra in Beozia.».

[14] Esiodo Opere  Einaudi-Gallimard 1998 – Teogonia, versi 123-128 - p.9.

[15] Il frammento di Saffo recita (Diehl 50, Lobel-Page 47): «1)…Eros mi squassa l’anima, 2) come vento che al monte su le querce s’abbatte.» (Poeti greci – a cura di Raffaele Cantarella – Rizzoli 1993 – p.193).

[16] Secondo Fritz Graf (Il mito in Grecia – Laterza ’85 – p.66-67) Esiodo  doveva essere a conoscenza di precedenti miti anatolici o mesopotamici (probabilmente hittiti) ignorati, o non presi in considerazione, da Omero.

[17] Omero Iliade (nella traduzione di Vincenzo Monti) Rizzoli 1990 – Libro I, versi 735-755 –pp.162-163.

[18] Fritz Graf  Il mito in Grecia Laterza 1985 – p.56. In particolare Graf osserva che le metafore  alla base della creazione poetica sono le stesse presso i greci, presso gli iranici e presso gli indiani.

[19] Dice William K.C. Guthrie nel suo I greci e i loro dei (Il Mulino 1987 – p.51): «I termini ‘primitivo’ ed ‘evoluto’, indipendentemente dai pregiudizi soggettivi che inevitabilmente li pervadono, sono insoddisfacenti in quanto non vi è in essi accenno di spiegazione del perché una forma religiosa differisce dall’altra. In questo caso è più utile ricordare che un popolo invasore non ha radici. Durante le sue migrazioni e per qualche tempo anche dopo, mentre costituisce la classe dominante, esso vive della sua spada, dei suoi cavalli e del suo ingegno, come gli Achei a Troia. Gli dei di questa stirpe di guerrieri nomadi dovevano esser probabilmente diversi da quelli dei popoli che vivevano coltivando la stessa terra  sulla quale i loro avi avevano dimorato da innumerevoli generazioni. Vedere il contrasto tra un popolo il cui interesse è il mantenimento della continua fertilità, e un altro che è coinvolto solo dalla battaglia, dalla conquista e dal dominio, è di maggiore aiuto che parlare di culture primitive ed evolute. Ricordiamoci infine che in nessun documento storico possiamo probabilmente trovare la testimonianza di alcuno di questi due tipi di religione, in quanto esistenti in una forma pura e incontaminata.» Nello stesso libro Guthrie (p.53) riporta un passo di H.J.Rose nel suo Handbook of Greek Mytology (London 1928 – p.18 ss.) che ci pare un’eccellente sintesi esegetica sullo stesso problema.

[20] E questa è forse una delle differenze più importanti rispetto a contemporanee mitologie europee, mediorientali ed indiane; ma soprattutto rispetto alle mitologie delle attuali società arcaiche. Vanno tuttavia fatte tre considerazioni importanti: 1) La penisola ellenica era aperta, attraverso i commerci, a tutto il mondo antico allora raggiungibile via mare e via terra, mentre le società arcaiche sono per lo più chiuse in un loro territorio che procura le risorse per la sopravvivenza, 2) il mondo greco, estremamente parcellizzato all’inizio, è andato via assumendo (già in epoca classica, ma specialmente in epoca ellenistica) un carattere sempre più multietnico, che ha portato alla integrazione in un pantheon unico di numerose tradizioni mitiche di varia provenienza; 3) mentre nel mondo ellenico la scrittura della storia (sia pure in forma aurorale e mitizzata) è un attività già presente in una vivace letteratura epica (basti pensare ai poemi omerici), nelle società arcaiche la trasmissione soltanto orale non permetterebbe comunque di storicizzare gli avvenimenti e le eventuali trasformazioni del tessuto sociale.  

[21] Secondo Karkheinz Deschner i teologi protocristiani (Op.cit. vol. I pp.172-180) nella fase critica di ascesa del cristianesimo hanno messo in opera una sistematica diffamazione della cosmologia, della cultura e della religione pagana. Infatti (p.177): «Dopo la sua definitiva vittoria sul paganesimo, i toni cambiarono completamente: La prima grande svolta nel conflitto con i pagani si ebbe nel 311, quando l’imperatore Galerio, seppur con riluttanza, rse il Cristianesimo “religio licita” (cfr.p.182) e, soprattutto, nel 313, allorché l’imperatore Costantino  venne manifestando una crescente simpatia per il Cristianesimo, cui concesse una ampio ventaglio di privilegi (cfr.pp. 200 e pp 208 ss.). ».

[22] Come è noto Costantino, con l’Editto di Milano del 313, riconosceva il Cristianesimo, concedendo alla Chiesa una cospicua serie di privilegi, e nel 380 Teodosio lo imponeva come religione di stato in tutto l’impero. Una lettura anticonvenzionale e ricca di dettagli di quel periodo storico è resa ancora da Deschner nel suo già citato saggio, con un’attenta analisis storica che svela numerosi retroscena della storia del Cristianesimo solitamente tenuti celati.

[23] È noto, a questo proposito, l’atteggiamento censorio di Senofane di Colofone, il quale, come risulta da varie testimonianze e frammenti (Sesto E. in Adv.math I, 289 e IX, 193, Clemente A. in Stremata, V, 110 e VII, 22, e altri) aveva stigmatizzato la bassezza morale degli dèi olimpici a sostegno della sua tesi dell’unico “dio-tutto” eterno ed immutabile. Egli portava con ciò un attacco diretto all’antropomorfismo della religione greca (forse sulle orme del monismo induista e di quello ebraico) e determinava, secondo la tradizione dossografica, la nascita della Scuola di Elea e l’origine del monismo metafisico. 

[24] Cfr. § 1.1 (il luminoso nell’interpretazione della religione di Rudolf Otto).  

[25] Numerose sono le testimonianze sull’argomento. Clemente Alessandrino riferisce le seguenti affermazioni di Senofane: «Ma se i bovi i cavalli e i leoni avessero le mani o potessero disegnare con le mani, e far opere come quelle degli uomini, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dèi, e simili ai bovi il bove, e farebbero loro dei corpi come quelli che ha ciascuno di loro.» (Stromata,V, 110). E ancora: «Gli etiopi dicono che i loro dèi hanno il naso camuso e sono neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi.» (Ivi VII, 22). Da parte sua Sesto Empirico riporta la seguente rampogna : «Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto ciò che per gli uomini è onta e biasimo: e rubare e fare adulterio e ingannarsi a vicenda(Adversus mathematicos, IX, 193).

[26] Šankāra  (VIII sec.) sarà il primo teorizzatore del monismo assoluto nel sistema vedānta, largamente ispirato ai testi delle Upanişad. Per Šankara l’unica realtà è il brahman (il principio cosmico da cui tutto deriva e che il tutto pervade) che si identifica con l’ ātman (l’anima generale del cosmo).     

[27] Rāmānuja (1017 ca –1137) si oppose all’acosmismo di Šankāra ed elabora una dottrina vedānta in senso monoteista, con Vishnu quale divinità reale di riferimento.

[28] Questo tipo di concezione viene definita panteismo acosmistico e anche come panenteismo. Si tratta di una concezione filosofica che realizza una sorta di saldatura tra la filosofia occidentale e quella orientale, poiché il rapporto che il brahman-atman vedāntico intrattiene col mondo percepibile (attraverso la maya che ne è potere creativo) un  rapporto col mondo percepibile che è lo stesso esistente tra il Dio neoplatonico e il mondo materiale.     

[29] Traiamo da La città di Dio (Rusconi 1984) di Sant’Agostino qualche riferimento a Platone: (VIII, 4, p.386) « Perciò Platone ha la gloria di aver portato la filosofia alla perfezione […]», (VIII, 5, p.387: «[…] Platone, che è di gran lunga e meritatamente superiore a tutti gli altri filosofi gentili […] » (Ibidem): «Se dunque Platone ha deto che sapiente è chi imita, conosce, ama questo Dio e trova la felicità partecipando alla sua vita, che bisogno c’è di passare in rassegna altri filosofi? Nessuno è più vicino a noi dei platonici.»  (VIII, 11, p.397) «Alcuni, che la grazia di Cristo unisce a noi, si sorprendono quando sentono o leggono che Platone ha avuto intorno a Dio idee riconosciute in armonia con la verità della nostra religione ».

[30] Necessità e libertà (Clinamen 2004) pp.89-90

[31] Ivi – § 1.5, 4.1, 10.5.

[32] Un’interessante eccezione a questa prerogativa dell’essere supremo è quella rappresentata dal greco Zeus, il quale in realtà non conosce le azioni e le intenzioni umane per virtù propria, ma perché dispone di una rete di trentamila informatori invisibili che osservano gli uomini e le loro azioni. Come sempre la religione greca, lontana dalle astrazioni, detrascendentalizza la divinità per riportarla alla concreta realtà umana sia pure in forma iper-umana.

[33] Raffaele Pettazzoni  L’essere supremo nelle religioni primitive - Einaudi 1957 – pp.93-94.

[34] Ivi – pp.107-108.

[35] Ivi p.160.

[36] Relativamente alle ascendenze del monoteismo ebraico va segnalato che un già molto anziano Sigmund Freud pubblicava tra il 1934 e 1938 tre saggi relativi a una sua lunga ricerca storica sfociata nell’ipotesi che Mosé non fosse ebreo ma un funzionario egiziano altolocato al servizio di Ekhnatòn. Alla luce di ciò la religione di Jahvè avrebbe origine, attraverso Mosé, nel monoteismo imposto da Ekhnatòn per combattere lo strapotere della classe sacerdotale egizia verso la metà del XIV secolo a.C. Il dio unico Atòn, imposto dal faraone per rafforzare la propria posizione, dominò la scena religiosa egizia per un pugno di anni finché il suo creatore non usci di scena (probabilmente assassinato) permettendo così il ritorno alla religione tradizionale. Mosè avrebbe in seguito lasciato l’Egitto e in terra ebraica, sulla base della religione del dio Atòn, da lui abbracciata, avrebbe dato vita (attraverso la fusione con elementi preesistenti) alla religione di Jahvé. Il dato di partenza di Freud sta nel fatto che il nome “Mosé” sarebbe una corruzione della parola egizia mose (lett. bambino), che compare come suffisso di numerosi nomi egizi dell’epoca (Ahmose, Tutmosi, Ramose). L’ipotesi freudiana non ha mai avuto molto eco e molto credito, ma ciò (indipendentemente dalla sua reale consistenza) è abbastanza comprensibile dato il fuoco di sbarramento ideologico che la contrasta, poiché se si configurasse come tesi avrebbe un’impatto devastante sulla dottrina ebraica.    

[37] Dario Sabbatucci  Monoteismo – Bulzoni 2001 – p.25.

[38] Il termine, di origine greca (lett. svuotamento) indica la rinuncia di Dio, nella persona del Figlio, alle prerogative divine, con l’accettazione della condizione umana in tutta la sua fragilità e sensibilità alla sofferenza. Il concetto prende origine dalla Lettera ai Filippesi (2, 6-8) nella quale San Paolo afferma: «Egli, pur possedendo la natura divina, non pensò di valersi della sua eguaglianza con Dio, ma preferì annientare se stesso prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini […]». 

[39] Lo zoroastrismo (o mazdeismo) è un monoteismo che contiene forti elementi dualistici.  Ahura Mazda, il supremo dio creatore e reggitore del mondo, per conservarlo nel bene è costretto a dover combattere continuamente l’azione devastante di Angra Mainyu (lo Spirito Malvagio) che domina e gestisce le forze del male.

[40] Ma occorre aggiungere che ciò accade finché l’uomo delle società avanzate non arriva a turbare il suo “edenico” equilibrio. Quando tale equilibrio si rompe i risultati culturali sono devastanti, poiché l’uomo arcaico non possiede l’elasticità mentale per elaborare una weltanschauung alternativa o adattata al nuovo orizzonte gnoseologico. Venendo messi in crisi i punti di riferimento della religiosità (vedi i § 1.1, 1.2 e 1.3) le società impregnate dalla  weltanschauung mistica si frantumano e alla cultura dell’immobilità subentra quella della competizione su base irrazionalistica. Rimanendo il pensiero arcaico sostanzialmente a livello pre-razionale, malgrado le iniezioni di razionalità mal assimilata implicita nell’addestramento all’uso di strumenti e apparecchi (dalle armi, alla televisione, al telefono, ecc) realizzati in un contesto estraneo, come è quello razionale e tecnologico, esso si trova a cavallo tra un mondo che “sta perdendo” ed un altro che “usa”, ma che non capisce. L’abbandono della weltanschauung religiosa costituisce allora un dramma epocale, poiché, da un lato, l’uomo arcaico non può abbandonare (senza perdere la propria identità individuale e sociale) la weltanschauung religiosa, ma nello stesso tempo essa nella sua mente si de-struttura, decadendo così a pura superstizione disordinata e arbitraria, e perde quindi tutti quegli aspetti positivi (conferimento di regola e di ordine) che la rendevano monolitica e perfetta.       

[41] Su alcune forme primitive di classificazione in E.Durkheim, H.Hubert, M.Mauss  Le origini dei poteri magici Bollati Boringhieri – Torino 1991.

[42] Mauss, in Teoria generale della magia (Einaudi 1991, p.330-347), analizza i tipi di suicidio che l’uomo arcaico mette in opera quando ritiene di aver commesso una trasgressione irreparabile alle regole religiose del gruppo. 

[43] Ci sembra interessante ribadire il punto di vista di Eliade con le sue stesse parole (Il sacro e il profano Bollati Boringheri 1995, p.45): «Se dovessimo riassumere il risultato delle precedenti descrizioni, diremmo che l’esperienza dello spazio sacro rende possibile la “fondazione del Mondo”; nello spazio ove il sacro si manifesta, là si rivela il reale, ha origine il Mondo. L’irruzione del sacro non proietta solo un  punto fisso in mezzo all’amorfa fluidità dello spazio profano, un “Centro” nel “Caos”; essa dà luogo inoltre a una rottura di livello, apre la via di comunicazione tra i livelli cosmici (Terra e Cielo) facilita il passaggio ,ontologicamente, da un modo di esser all’altro. Questa rottura nell’eterogeneità dello spazio profano crea il “Centro” attraverso il quale si può comunicare con il “trascendente”; il quale,rendendo possibile l’orientatio, fonda conseguentemente il “Mondo”. La manifestazione del sacro nello spazio ha quindi una validità cosmologica: ogni ierofania spaziale, ogni consacrazione di uno spazio, equivale a una “cosmogonia”.».

[44] Abbiamo già introdotto questo concetto all’inizio del § 1.7 con riferimento al testo di Necessità e Libertà. In questo, al capitolo IV, noi supponevamo una sorta di “selezione naturale” concernente l’avvicendamento delle religioni, rispondente al concetto di ragione biologica, che avevamo posto come essenza originaria dell’evoluzione del mondo vivente, in ogni suo aspetto ed espressione.

[45] Non prendiamo qui in considerazione l’elemento più propriamente “politico”, ovvero il rapporto che si instaura tra una religione e il potere temporale, la cui importanza è fuori discussione. E’ però oggetto della sociologia e non della filosofia determinare gli strumenti attraverso i quali i poteri si scontrano e si alleano in vista del proprio successo, con reciproco rafforzamento delle differenti posizioni mediante collaborazione ideologica sul piano delle istituzioni, dell’etica, dell’istruzione e della cultura.

[46] Cfr. Necessità e Libertà Cap.IV.

[47] Come si sa vi sono individui che sfuggono sistematicamente ogni situazione esistenziale ripetitiva e che cercano costantemente la novità e il rischio proprio per rompere la monotonia della vita; essi realizzano pertanto se stessi attraverso la dinamicità esistenziale e non attraverso la stabilizzazione.  Non è però chiaro se tale comportamento risulti dettato da una “scelta di vita” o non invece da una “pulsionalità” conseguente a specifici elementi caratteriali. Se di ciò si tratta, l’anticonvenzionalità e la trasgressione (rispetto ai moduli comportamentali comuni) sarebbero allora conseguenti ad una certa struttura della psiche individuale e non ad una scelta dettata da una razionalità consapevole. 

[48] Una tesi collaterale, facilmente verificabile dai dati demografici, potrebbe enunciare che i contesti culturali che favoriscono l’omeostasi psichica (molto spesso quelli ad alto tenore di religiosità) favoriscano anche indirettamente i tassi di natalità.