L'indovinello veronese

La Biblioteca Capitolare in piazza Duomo

"Se pareba boves

alba pratalia araba

albo versorio(2) teneba

negro semen seminaba"

"Faceva avanzare i buoi (1)

arava bianchi prati

usava un bianco aratro

spargeva un seme nero"

I buoi sono le dita, i bianchi prati sono i figli di carta, il bianco aratro è la penna d'oca e il nero seme è l'inchiostro. La risposta é la scrittura.

(1) Alcuni traducono "Li faceva somigliare ai buoi)

(2) Nel dialetto veneto, ancora oggi, l'aratro è chiamato versòr

Questi quattro versi appaiono su un codice di origine spagnola giunto a Verona, alla Biblioteca Capitolare, nel corso del IX secolo. E' opinione diffusa fra gli studiosi che siano stati scritti verso la fine dello stesso secolo. Sono conosciuti come indovinello veronese e rappresentano la più antica testimonianza scritta della lingua italiana. Ovviamente non è ancora l'italiano che parliamo oggi, ma la struttura complessiva si discosta molto dal latino, all'epoca ancora lingua colta ufficiale. Si tratta del cosiddetto volgare (da volgo = popolo) linguaggio intermedio fra il latino classico e il nostro attuale idioma. La Biblioteca Capitolare fu fondata nel V secolo; con i suoi 1600 anni di ininterrotta attività può a buon diritto fregiarsi del titolo di biblioteca più vecchia fra quelle ancora in attività. Il nome le deriva dal fatto che era gestita dai sacerdoti che costituivano il Capitolo della cattedrale. In apposite stanze blindate e dotate di sistemi che mantengono costanti temperatura ed umidità, sono conservati circa 1200 manoscritti e numerosissimi incunaboli. Originariamente i testi erano assai più numerosi, ma la raccolta è stata spesso decimata da eventi accidentali (dopo l'unità d'Italia una buona parte della raccolta fu trasferita a Torino, la nuova capitale, ma andò quasi completamente distrutta nel 1911 in seguito ad un incendio), "prelievi" più o meno legali (Napoleone si portò 47 libri in Francia), alluvioni (nel 1882 si riuscì a salvare solo la metà dei manoscritti dopo un lavoro durato circa venti anni) e guerre (i bombardamenti anglo-americani nel 43/45 distrussero completamente l'edificio: mons. Turrini e i ragazzi del quartiere, i "butei del domo" girarono a lungo fra le rovine raccogliendo e sistemando pazientemente gli antichi codici; la Biblioteca venne riaperta nel 1948). Sempre a proposito di guerre: nel 1630 il veronese fu invaso dai mercenari imperiali che si recavano ad assediare Mantova nel quadro della guerra di successione spagnola; il bibliotecario di allora decise di nascondere i 99 volumi più preziosi affinché non fossero oggetto di saccheggio da parte dei lanzichenecchi. Le soldatesche risparmiarono i libri, ma portarono una disgrazia ben più grande, la peste! Anche il povero bibliotecario morì portando con se il segreto del nascondiglio. Un secolo dopo lo studioso veronese Scipione Maffei, nel corso delle sue ricerche, si accorse della mancanza dei famosi 99 libri. Iniziò quindi lunga ricerca che durò sei mesi: alla fine il bibliotecario del tempo riuscì a trovarli (erano in un buco occultato da un armadio) e li diede in prestito al Maffei. Questi casualmente scoprì che i fogli di pergamena più antichi erano stati raschiati grossolanamente per poter essere riutilizzati: erano i cosiddetti palinsesti; con il metodo della noce di galla fu possibile recuperare anche i testi primitivi.

Giovanni Paolo II in visita alla Biblioteca

Il chiostro della Capitolare