Ayrton Senna Da Silva

 

All'inizio mi sentivo Gilles, poi ho capito che dovevo anche imparare a frenare…Se dovessi avere un incidente che potrebbe portarmi a perdere la vita, allora preferirei che questo succedesse subito: non mi piacerebbe rimanere in ospedale, ferito. Voglio vivere la mia vita pienamente, con intensità, se non fossi più in grado di farlo a causa di un incidente, vorrei morire subito

 

Dopo la sua morte nessuno di quelli che lo hanno circondato è stato all'altezza del suo ricordo. Non le sue donne, vere o presunte, che si sono affrettate a vendere emozioni e ricordi. Non i colleghi, che hanno svilito il processo, per quanto discutibile, con troppi non ricordo. Non la famiglia, che utilizza la straordinaria emozione che il suo nome suscita, per lanciare linee di occhiali da sole e di biciclette. E' rimasto suo l'adoratissimo Brasile, che non riesce a dimenticarlo né ad innamorarsi di altri piloti. Forse a lui sarebbe sufficiente.

La prima volta che abbiamo incontrato il suo nome è stato nel 1983. Stava dominando con la prepotenza e la sicurezza che sarebbero diventate una consuetudine, il Campionato Inglese di Formula 3 e utilizzava ancora il suo lunghissimo nome di brasiliano: Ayrton Senna Da Silva. Per l'arrivo in Formula 1 l'avrebbe abbreviato in Ayrton Senna, ma chissà perché in certe occasioni si ritorna a quell'Ayrton Senna Da Silva. Più epico, più incisivo, forse.

Aveva poi debuttato in Formula 1 l'anno successivo e, come tanti che seguivano la Formula 1 in quel periodo molti di noi hanno ancora un ricordo nitido del piovosissimo Gran Premio di Monaco di quell'anno. Le vetture dei concorrenti che faticavano a rimanere in pista e venivano spazzate via una ad una da sbandate, incidenti e uscite di pista. Poi quella Toleman minacciosa e arrembante sempre più vicina alla McLaren biancorossa di Alain Prost. E la bandiera rossa, inspiegabile, proprio mentre il giovanissimo Ayrton Senna era a un passo da Prost. Una vittoria scippata, si disse sui giornali di allora. Ma Ayrton era raggiante sul podio di Montecarlo.

Era arrivato alla Formula 1 con la fama del predestinato, del vincente. Nessuno si chiedeva se avrebbe mai vinto un titolo mondiale, ma quando sarebbe successo. E lui aveva la stessa certezza. Lui era un futuro Campione del Mondo. A questo concetto aveva sacrificato un matrimonio, la gioventù e il Brasile. Era determinato. E aveva costruito la sua carriera con intelligenza, passo dopo passo, scegliendo sempre le scuderie e gli uomini che potevano mettere in luce il suo talento. Una volta, quando aveva già vinto i suoi tre titoli mondiali, disse "Sono il numero 1, mi spetta la vettura numero 1" Erano gli anni in cui stava iniziando il declino della McLaren e lui voleva assolutamente la vincente Williams. Una frase del genere avrebbe irritato o fatto sorridere in bocca di qualcun altro. Ayrton Senna Da Silva poteva dirlo ed essere preso sul serio. Prima di arrivare alla McLaren aveva trascorso un paio d'anni in Lotus, dando alla vecchia scuderia di Colin Chapman gli ultimi momenti di gloria e le ultime vittorie. Guidando la vettura inglese aveva dimostrato di essere colui che faceva la differenza. Poi era arrivato alla McLaren e la sua strada aveva incrociato di nuovo Alain Prost.

Ayrton Senna e Alain Prost. Che binomio. Che tempi. I due piloti più grandi del loro tempo nella stessa scuderia. Una follia. Per qualche tempo riuscirono persino ad andare d'amore e d'accordo. Poi la lotta per il titolo, le personalità decise, i malintesi, il patto violato da Senna a Imola, scatenarono l'odio. Uno strano rapporto. Dopo il ritiro di Prost Senna arrivò a dire di sentirne la mancanza. Dopo la morte di Ayrton Alain giurò che non sarebbe mai più salito su una monoposto e ha mantenuto la promessa. Ricordo il Gran Premio di Monaco (ancora lui!) del 1988, in cui Ayrton Senna, che stava letteralmente dominando la gara, doppiando tutti ad eccezione del compagno di squadra, finì inspiegabilmente contro il guard rail. Qualche mese dopo iniziò a parlare di Dio. In quella curva monegasca, sostenne, gli era apparso Dio e lui aveva iniziato a capire tante cose. Parlava con naturalezza della sua fede. E faceva una certa impressione sentire quel ragazzo brasiliano dallo sguardo triste e dal sorriso dolce, circondato da ragazze bellissime, al centro di una vita movimentata, tra aeroplani, bolidi e contratti miliardari, parlare di Dio. Forse è stato allora che ha iniziato a dedicarsi ai bambini senza futuro della sua São Paulo. Per anni, nessuno lo ha saputo, ha seguito e aiutato i meninhos da rua. Non è un merito in un giovane uomo miliardario, è vero. Ma non l'ha detto a nessuno. E lui, che aveva bisogno di conquistare la stampa del suo Paese, che per anni gli aveva preferito il solare Nelson Piquet, non si è servito di questa attività per acquistare consensi. Poi, naturalmente, ha conquistato i media brasiliani e il cuore dei connazionali. Dicevano fosse troppo freddo, troppo calcolatore, troppo distante per esportare la vitalità e il calore dei brasiliani, ma c'era molto più Brasile nel suo sguardo malinconico e nei suoi ritorni a casa, in preda alla saudade, che in ogni stereotipo. C'era molto più Brasile in quella bandiera verde e oro raccolta e sventolata orgogliosamente lungo il giro d'onore dopo ogni vittoria che in qualunque retorica che lo riguardava. I suoi funerali, in una São Paulo paralizzata e piangente, sono il più grande omaggio di popolo mai reso a un campione. La sua tomba, su una delle colline della sua adorata città, è meta di pellegrinaggi incessanti. Il Brasile è ancora adesso di Ayrton Senna Da Silva.

La memoria va alle lacrime sotto il casco dopo la prima vittoria mondiale, a Suzuka, nel 1988. All'urlo sotto il casco per la prima vittoria nell'amatissimo Brasile, il cui Gran Premio gli sembrava stregato. E ai litigi con Prost in quella doppia Suzuka del 1989 e 1990. E alla cattiveria inaudita con cui nel 1990 aveva buttato fuori Alain Prost, alla prima curva di Suzuka, privandolo dell'ultima opportunità di riportare il titolo mondiale a Maranello. Fece più o meno quello che ha tentato di fare Michael Schumacher nel 1997, a Jerez, contro Jacques Villeneuve. Michael l'ha pagata duramente in termini di immagine e di risultato finale nel Campionato. Ayrton è stato perdonato dagli stessi ferraristi quasi subito. In gara capita, disse con durezza. Senza neanche sorridere per il titolo conquistato. Poi ammise, un anno dopo, che lo aveva fatto apposta, che aveva scientificamente studiato come vendicarsi dell'ingiustizia subita nel 1989. Nessuno ha pensato di punirlo. In Italia nessuno lo ha odiato, molti lo sognavano sulla Ferrari, l'unica vettura prestigiosa che è mancata alla sua carriera straordinaria.

Ayrton Senna Da Silva non lasciava mai indifferenti. Tutto quel parlare di Dio, di miliardi, di contratti, del Brasile. Tutte quelle pretese, quelle certezze che sconfinavano nell'arroganza, quell'orgoglio che finiva nella presunzione. E quell'aria triste in fondo agli occhi, quella malinconia che lo accompagnava, quell'attenzione per i meno fortunati. E quella determinazione da fare paura. O lo si amava o lo si odiava. Poi saliva in macchina e aveva ragione lui. Anche quando era troppo plateale, troppo lamentoso, troppo vittimista. Aveva ragione lui. Non so quanti lo abbiano davvero amato quando correva . E' certo che tutti lo rimpiangono e, anche in questo, aveva ragione lui.

Mentre nasceva la stella di Michael Schumacher, Ayrton Senna era rimasto l'unico campione del mondo ancora in attività. Qualcuno disse che iniziava a sentirne il peso, chissà se è vero. Ricordo un Gran Premio del Belgio, sulla griglia di partenza. Non ricordo cosa avesse "combinato" il tedesco, ma Ayrton, che aveva già individuato in lui il rivale prossimo venturo, gli andò incontro con il dito alzato dicendogli, "Vedi tu hai fatto così, ma impara..." Il tutto sotto le telecamere, perché Ayrton sapeva essere un ottimo manipolatore dei media.

E poi arrivò il 1994. Il Brasile, chissà perché, era convinto che avrebbe festeggiato il suo Ayrton Senna "Tetra Campeão" in Formula 1 e la sua squadra di calcio "Tetra Campeão" nei Mondiali degli Stati Uniti. Era una convinzione diffusissima. Il 1994 sembrava davvero un anno perfetto per il Brasile, patria del pilota più ambizioso e più forte del suo tempo, tornato finalmente nell'abitacolo di una vettura competitiva, e della nazionale di calcio più bella del mondo, senza la quale avrebbe poco senso un Mondiale. Ayrton mancò l'appuntamento, il Brasile calcistico no. E il nostro ricordo di Pasadena non è il rigore sbagliato di Baggio, ma quello striscione tenuto alto da tutti i giocatori sul campo di calcio, con cui il Brasile neo-Campione del Mondo si inchinava al ricordo di Ayrton Senna Da Silva, che aveva incontrato la morte in un incidente maledetto, mentre stava conducendo il Gran Premio di San Marino, il 1° maggio del 1994. E' stato quell'"Ayrton, anche tu 4 volte campione del mondo", orgogliosamente mostrato alle telecamere, affinché tutti noi che lo avevamo amato potessimo sapere dove stava battendo il cuore del Brasile in quel momento di festa, il primo gesto della Nazionale brasiliana. Abbiamo tutti fatto il tifo per il Brasile quel giorno…nel nome di Ayrton Senna Da Silva.