Vorrei aprire il mio intervento con una
parola di speranza, raccontando il percorso iniziato dalle chiese protestanti
a livello mondiale di riflessione teologica sulla giustizia economica.
Nel filone dell’impegno su questo tema del Consiglio ecumenico delle chiese,
nel 1997 l’Assemblea dell’Alleanza riformata mondiale ha indetto una consultazione
continentale finalizzata a decidere se la globalizzazione è materia
o meno di fede. La formula tecnica latina è “status confessionis”,
termine inventato nel 1500 dalle chiese della riforma per distinguere fra
elementi essenziali e non essenziali della tradizione cristiana, ripreso
da Bonhoeffer verso il nazismo e più recentemente dal Consiglio
ecumenico verso l’apartheid in Sud Africa.
Con riferimento ad una predicazione tenutasi
in Olanda lo scorso giugno in occasione della consultazione delle chiese
dell’Europa occidentale, vorrei argomentare in tre punti perché
la globalizzazione non è materia di etica ma di teologia e di fede
cristiana.
In primo luogo perché pianifica
un’esclusione ed uno sfruttamento sistemici negando i bisogni di base delle
persone. E inoltre perché si ravvisa un’idolatria nel culto del
profitto e dell’efficienza economica, caratteristica e priorità
delle economie occidentali. Il dito viene puntato non solo sulle imprese
ma anche sui governi nazionali e sovranazionali che hanno abdicato al ruolo
di garanti del benessere della società mettendo a rischio la fede
in Dio creatore e fonte di dignità e diritti umani, l’amore di Dio
per tutti i/le viventi, il messaggio di liberazione per i poveri e gli
oppressi portato da Gesù, la fede nell’azione dello spirito santo
che ristora e guarisce le comunità e le persone, oltre all’integrità
della chiesa come corpo di Cristo.
Quando l’intervento politico fallisce le
chiese non sono solo chiamate a parlare ma ad alzarsi in piedi, perché,
come è stato ricordato nel documento uscito dalla consultazione
delle chiese dell’Europa centro orientale del giugno 2000, dobbiamo scegliere
se servire il Dio vivente o Mammona, rappresentato dal denaro divenuto
bene in sé e non più solo mezzo di scambio di beni e servizi.
Quando le chiese si appiattiscono sulle ragioni dei potenti si presenta
un caso di status confessionis.
Il nocciolo dell’idea del Giubileo è
che nessun sistema economico è perfetto e che è possibile
correggerne le distorsioni, raddrizzare l’ingiustizia, introdurre
riforme radicali. Il Giubileo non promette un sistema economico perfetto
ma introduce un paradigma per cui chi perde può avere nuove opportunità
di vita soddisfacente e dignitosa – remissione di debiti e di peccati -.
Per vivere di sola grazia e di sola fede in comunità con Dio.
La Conferenza delle chiese protestanti
europee contribuisce a tenere alto l’impegno civile delle chiese, fra l’altro
attraverso un piccolo ufficio sito nel quartiere degli uffici comunitari
a Bruxelles allo scopo di fare lobby, mentre intorno ad essa gravitano
una rete di studio per l’economia ed il lavoro (WEN) e una rete ecumenica
per l’ambiente (ECEN).
Le chiese, dunque, attraverso i loro organismi
internazionali, si candidano ad essere “isole della speranza” attraverso
una riflessione sulla loro identità sociale e sulla loro predicazione,
anche se uno sguardo impietoso sullo stato delle realtà locali particolarmente
in Europa rivela la distanza e fa temere la velleità di queste ottime
intenzioni.
Una fotografia della base delle chiese,
infatti, mostra una generale chiusura difensiva in se stesse ed in una
predicazione consolatoria ed edificante, lontana dalle domande circostanziate
di impegno e presa di posizione proveniente dal sud del mondo e dalla prassi
di Gesù.
Ben vengano allora iniziative come questa
che collegano esperienze dando forza e prospettiva comune a quanti/e fondano
in un trascendente laico o religioso il proprio impegno quotidiano
Antonella Visintin
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