UNA CASA DELLA CULTURA PER RICOSTRUIRE LA STORIA DEL LAVORO E DEI LAVORATORI DELLA NOSTRA CITTA’
Nell’autunno scorso abbiamo proposto una iniziativa culturale sulle condizioni dei lavoratori nell’epoca della globalizzazione, avendo come obiettivo la costituzione di una “Casa della cultura e della storia del lavoro" nella nostra città, non per sentirci reduci di un passato che non c'è più, ma per avere una visione più chiara del presente e guardare al futuro, conservando la memoria delle conquiste ottenute e vittorie, come delle sconfitte e delle perdite subite.
La storia passa e il tempo non ritorna, però tutto ciò che è accaduto non è stato per caso o per fatalità, ma perché uomini e donne lo hanno impostato, creato, costruito in quel modo, uomini contro altri e assieme ad altri, idee opposte che si sono confrontate o intrecciate. Così l’agire di oggi può radicarsi in quel passato e da esso trarre insegnamento, preparando il futuro.
E’ un dovere morale e civile guardare al passato con onestà, non lasciando che altri diano interpretazioni soggettive o distorte del vissuto; chi volesse ignorare o stravolgere la verità dei fatti, distruggerebbe non solo la storia, ma lo stesso valore della vita, annullerebbe assieme al pensiero anche se stesso.
Perciò non è lecito per nessuno assemblare soltanto le pagine più belle o più brutte di un’esperienza storica e darne una lettura parziale: non è lecito per coloro che appaiono “i vincitori” del momento, non lo è neppure per “i vinti”; e se un singolo individuo occupa uno spazio di storia superiore a quello di milioni di persone, è anche perché quei milioni. di persone non sono state in grado di creare una cultura alternativa capace di imporsi.
Difficile contraddire la concezione, come un tempo si diceva, “materialistica" della storia, della lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori; dove il motore è il lavoro, elemento di progresso, di civiltà da una parte, di sfruttamento dall’altro, e anche di morte, come sono le armi.
E cui si potrebbe provare persino un senso di vergogna per le caratteristiche stesse della nostra città, legata alla produzione di armi; però non possiamo tacere, perché questa è la realtà, come è bene ricordare che in molti casi le armi sono servite per liberarsi, ce lo conferma la resistenza. Insomma, come diceva qualcuno molto autorevole, le contraddizioni sono sotto il cielo e sotto i tetti. di tutte le case.
Il lavoro e le professionalità che nella nostra provincia l’hanno caratterizzato hanno avuto un ruolo importante, per il fatto stesso che il nostro è un territorio “dato a prestito”, o “in cessione” alle grandi scelte e strategie nazionali. Ed ecco anche qui la contraddizione tra il lavoro e una qualità produttiva che distrugge e sacrifica il territorio. Però se l’Unesco assegna le Cinque Terre alla propria difesa è perché sono un patrimonio dell’umanità, questo certamente anche grazie a bellezze naturali valorizzate e mantenute dal lavoro umano.
Il lavoro, i lavoratori, sono dunque sempre stati i motori della nostra storia e della nostra vita.
Nell’epoca in cui tutto è fluido e tutto si dimentica, come se vi fosse un complotto di forze invisibili che senza dichiarare le proprie intenzioni hanno deciso di cancellare la civiltà del passato, noi vogliamo mantenere la verità della nostra storia, perché esso rimanga viva, e non soltanto per noi, ma per tutti coloro che verranno.
LE SOCIETA’ OPERIE DI MUTUO SOCCORSO: UN’ESPERIENZA DA NON DIMENTICARE
Oggi in molti sono convinti che non solo i lavoratori, ma anche dirigenti sindacali di base e confederali fanno fatica a leggere la stessa semplice busta paga. Come è convinzione comune che sono ormai un ricordo lontano le piattaforme per rivendicazioni salariali, per il miglioramento delle condizioni di vita e di salute. Come si organizza uno sciopero, una manifestazione di strada, di posto di lavoro o di reparto: per molti sono problemi distanti anni—luce. Così è facile dire che oggi non c’è più nulla da fare perché la classe operaia non esiste più o comunque si è piegata; però è anche vero che quando nei primi anni sessanta i socialisti entrarono nel governo di centro—sinistra, Nenni sosteneva che non c’erano più speranze di “conquistare il socialismo” con le lotte, mentre noi giovani sognavamo l’America seguendo anche la moda delle magliette a stelle e a strisce, Così io sono convinto che mentre i tempi si fanno sempre più difficili, mentre le trasformazioni nell’economia e della società non soltanto cercano di distruggere le conquiste, ma anche le stesse lotte che hanno ottenuto quei risultati, mentre il processo sembra inarrestabile soprattutto per coloro che subiscono tali scelte. io sono convinto che c’è sempre qualcuno che non ci sta, che vuole riflettere sulle ragioni di quei processi storici, e non per trovare giustificazioni, ma perché ha chiara di fronte a sé l’esigenza di cambiare la realtà, di alzare la testa, di ribellarsi allo sfruttamento e alle ingiustizie. Può apparire strano, ma è invece questa una delle ragioni che ci ha spinto a progettare questa Casa della cultura operaia, proprio perché in un inizio di secolo dove la globalizzazione ha posto le basi per cancellare tutto il passato e rendere incontrastato il dominio del capitale, noi non ci stiamo. Noi vogliamo creare una ”memoria del presente” se così si può dire, avendo chiara la nostra realtà, guardando tutte le contraddizioni che sono al suo interno, traendo insegnamento dalle esperienze di uomini e donne, magari analfabeti e senza storia, ma che hanno lottato, hanno saputo capire come dovevano affrontare la realtà per cambiarla, e come era necessario organizzarsi per ottenere dei risultati. Così noi intendiamo offrire un contributo, seppure modesto, per una riflessione su come si sono sviluppate le prime forme organizzative del “movimento operaio” (perché davvero fu “movimento”), su quale è stato il loro significato, quale è stata la consapevolezza che avevano di se stesse, quali sono stati gli strumenti di lotta e le conquiste. Conquista e anche sconfitte, abbiamo detto, ma non da mettere all’“attaccapanni della storia”, dove i becchini di turno possono appendere il loro vestito, cercando di togliere agli altri, anche la speranza. Perché gli uomini e le donne che hanno lottato hanno lasciato a noi, non ai loro e ai nostri nemici, il compito di giudicare, correggere se necessario, ma continuare la lotta. Sarebbe sbagliato se cominciassimo a parlare di organizzazione del movimento operaio partendo dalle Camere del lavoro, anche se spetta agli storici e ai “tecnici” dare giudizi più approfonditi, perché di fatto le Società di Mutuo Soccorso sono state “le madri” di tutta la storia delle Camere del Lavoro. Non possiamo dunque limitarci ad attribuire un ruolo minimale alle Società di Mutuo Soccorso nella nostra realtà provinciale, perché non soltanto si sono estese in tutto il territorio, ma perché sono state determinanti, con la creazione di una ”mutualità”, per lo sviluppo dl una coscienza di classe, per l’affermazione di una “cultura della solidarietà”, non esercitata solo dall’esterno a favore delle classi meno abbienti, ma da queste stesse vissuta e sviluppata. Perché se è vero che i ceti dirigenti delle Società dl Mutuo Soccorso sono all’origine costituiti prevalentemente da nobili e moderati che mettono in minoranza i mazziniani considerati dei sovversivi, con il tempo i gruppi dirigenti sono in molti casi “repubblicani”, socialisti riformisti o addirittura massimalisti. La cosa più importante è che le Società di Mutuo soccorso furono una scuola di formazione di una coscienza operaia, la coscienza dei diritti che dovevano essere riconosciuti e conquistati. La prima Società di Mutuo Soccorso alla Spezia si costituisce di fatto il 4 aprile 1851, anche se poi la Società comincia ad agire il 10 luglio successivo con il versamento della scuola sociale, ed è significativo che ad appena tre mesi della sua costituzione, la Società operaia fosse invitata ad un incontro organizzato dalla Società Nazionale di Mutuo Soccorso degli Operai di Torino. Si prospettava la possibilità di creare un sistema di cooperazione a largo raggio che potesse garantire l’assistenza agli operai che emigravano da una città all’altra. Esattamente 150 anni fa nasceva dunque nella nostra città un piccolo nucleo di 77 persone (nel 52 erano già 114 con 34 contribuenti e 80 interessati) che dava vita a un vero e proprio “movimento solidaristico” che si poneva, pur nei limiti di un’“ideologia” moderata“ e diremmo, “riformista”, di fronte alla “questione sociale”. Saranno infatti l’assistenza mutualistica, le prime forme di previdenza pensionistica, la costruzione di case popolari, la creazione dl scuole “di arti e di mestieri”, l’impegno del tempo libero alcuni degli obiettivi sui quali si costruiva il sodalizio degli aderenti alle Società 0peraie.Spezia era nel 1851. niente altro se non una cittadina di cinquemila abitanti; la sua posizione geografica che confinava con il Regno Sabaudo e gli Stati Centrali ne aveva fatto un centro attivo di attività cospiratrice per la conquista di una patria imita indipendente e repubblicana tanto che, come gli storici testimonieranno, numerosi furono i perseguitati politici che trovarono rifugio e ospitalità presso i comitati dei cittadini, da Spezia a Sarzana a Lerici.
Per tutti gli anni ‘50 la Società operaia spezzina, come le altre liguri, visse un’intensa attività solidaristica e al tempo stesso cospirativa all’insegna delle idee risorgimentali, anche se la sua “compromissione” politica mazziniana e garibaldina finirà negli anni ‘60, quando lo schieramento favorevole alla apoliticità delle associazioni operaie finirà per prevalere, lasciando al di fuori della Società la tendenza mazziniana rivolta alla cospirazione e al movimento insurrezionale. Intanto, mentre Spezia raggiungeva nel decennio 61/71 oltre 24 mila abitanti e iniziava la costruzione dell’Arsenale su cento ettari circa di superficie, al finire degli anni ‘60 il dramma della disoccupazione incominciò a colpire molte famiglie spezzine. La Società operaia considerò subito con preoccupazione la carenza di posti di lavoro garantendo il sussidio sociale giornaliero a qualunque socio malato o infortunato, un’attività previdenziale che assicurava ai lavoratori spezzini iscritti un modesto, ma sicuro sostegno. Negli anni ‘70 la disoccupazione raggiunse anche alla Spezia livelli drammatici; le azioni di protesta dei lavoratori si facevano sentire, e la società operaia non poté fare a meno di denunciare lo stato di indigenza dei lavoratori spazzini, con la richiesta di alloggi dignitosi.. E quando nel 1984 la città di Spezia ebbe le prime vittime di un terribile colera fu dalle società mutualistiche che si provvide alla costruzione di alloggi popolari. Dissensi, dissidi, hanno caratterizzato la vita interna del sodarismo mutualistico, tanto che si giunse persino a insanabili scissioni considerata la inconciliabilità tra orientamenti moderati e ”radicali” che ben presto venne a configurarsi tra i soci. Il clima intimidatorio dei governi reazionari di fine Ottocento, le pressioni della censura e le azioni di polizia ebbero sicuramente anche un peso determinante nell’involuzione di alcune di esse che si ridussero a pure associazioni caritatevoli. E se l’inizio del nuovo secolo, con il nuovo clima politico di riformismo liberale incoraggia l’estensione dell’associazionismo, delle aggregazioni sociali, delle cooperative, dei patronati, l’esistenza delle società di mutuo soccorso nel loro pullulare, anche alla Spezia come altrove, dipendeva dalla capacità di trasformare l’impegno civile e sociale degli anni precedenti in precisi e puntuali interventi di vasto respiro a favore della classe lavoratrice. Ma è a questo punto, che tali primitivi ma importanti strumenti di difesa e di rivendicazione operaia, finiscono per intrecciare la loro storia con un nuovo organismo dinamico di sostegno della lotta di classe per la conquista dei diritti economici, sociali e civili dei mondo lavoratori: la Camera del Lavoro.
L’ ORGANIZZAZIONE DEL MOVIMENTO OPERAIO. LA CAMERA DEL LAVORO E LE LOTTE OPERAIE
NEL PRIMO NOVECENTO
Nel marzo del 1901 si costituisce alla Spezia la Camera del Lavoro. La città aveva raggiunto ormai i 65000 abitanti e si era fortemente industrializzata, l’aumento della popolazione era stato parallelo allo sviluppo e all’attività dell’Arsenale e agli impianti che nel golfo spezzino prendono corpo dall’industria armiera, cantieristica, siderurgica e meccanica.
Va detto che l’incremento demografico sia nel centro urbano che nel circondano non può che essere attribuito al processo di industrializzazione; una forte affluenza dalla campagna, l’immigrazione dalle regioni limitrofe (ma anche dal Sud, dalla Sardegna e dal Veneto per quanto riguarda il personale militare con le rispettive famiglie)) sono le dinamiche demografiche che più si evidenziano in questi anni.
Se si pensa che l’arsenale occupava circa 5000 lavoratori civili, mentre il personale militare, a terra o a bordo, era costituito da diverse migliaia, se si pensa che alla consistenza dell’industria cantieristica (Muggiano). che trovava il suo spazio tra lo stabilimento militare di San Bartolomeo e la fonderia di Pertusola, se si considera tutta la rete di piccole e medie imprese collegate all’arsenale, come gli altri piccoli cantieri, o l’industria di cavi elettrici sottomarini nella zona di Pagliari , da tutto questo quadro si ricava già l’idea di come la nostra città sia nata con una forte connotazione industriale—militare.
Del resto anche il “circondano” (la provincia) vedeva lo sviluppo di piccole e medie industrie, da quelle alimentari, a quelle della lavorazione del vetro (vetreria di Sarzana) a quelle chimiche, alla Ceramica Vaccari.
Ma qual’è il dato strutturale che accomuna tutta la grande industria spezzina , e che costituisce l’elemento motore del suo sviluppo come poi della sua crisi? Non è altro che il suo stretto legame con le grandi organizzazioni del capitalismo italiano la Fiat, l’Ansaldo, la Pirelli, la Terni, dalle quali lo Stato italiano dipende per le forniture militari di cui ha bisogno. E’ questo un nodo strutturale che va tenuto costantemente presente, se si vuole comprendere la crisi industriale di Spezia dei nostri giorni, per progettare alcune soluzioni. E come gli studiosi e gli storici confermano, soltanto dalla situazione industriale spezzina derivava lo stretto nesso tra sviluppo economico e spese dello Stato, ma l’amministrazione civile e gli apparati militari finivano spesso per interagire. La costituzione della Camera del lavoro a Spezia si colloca dunque nel quadro di questo imponente sviluppo industriale e in una situazione di fermento, di vivacità e di lotta della classe lavoratrice, che ebbe un momento significativo con le agitazioni e gli scioperi, conseguenti anche a un’ondata di licenziamenti, nella vetreria di Sarzana. Una lotta anche esemplare, sia per il suo protrarsi nel tempo, sia per gli obiettivi rivendicativi, sia per gli insegnamenti che scaturirono ai fini della ricerca di prospettive unitarie nelle lotte future. Avrebbe poco senso riassumere in poche pagine, riprendendo, e malamente, dai lavoro di vari studiosi la storia del movimento operaio e della Camera del Lavoro di Spezia nei primi decenni del ‘900. Ci sembra allora più onesto e più efficace rinviare alla lettura del testo “La Camera del Lavoro della Spezia dal 1901 al 1909” di Silvana Arcara (ed Ediesse, 1993) e al bel libro di Antonio Bianchi “Storia del movimento operaio della Spezia e della Lunigiana ( (Editori Riuniti, 1975), di cui ci permettiamo riportare ampi stralci. (dal 3° cap.):‘4
”… La Camera del Lavoro di La Spezia, intanto, aveva iniziato l’opera di riorganizzazione per raggruppare le numerose leghe cittadine, nell’intento di far uscire dal guscio corporativo le società di m.s.. Veniva organizzata una tipografia autonoma della CdL con i fondi dei lavoratori e dal 1902 il sindacato era in grado di far uscire la propria propaganda e anche un giornale: Il Pensiero, … Il 1903 iniziava con uno sciopero. La CdL e la propaganda dl sinistra avevano incoraggiato gli operai della Pertusola, che erano giunti ad un momento critico. Sin dalla fondazione della fabbrica questi operai avevano lavorato in condizioni particolarmente dure. Dopo lo sciopero del 1890 ed i licenziamenti in massa delle due squadre addette ai forni, i salari erano aumentati a lire 2,50: nel 1887 però, in seguito ad un grosso dissesto finanziario, la fabbrica era stata sul punto di chiudere, con un passivo di 4 milioni. Venivano allora intensificati i ritmi di lavoro e la produzione saliva da 9 a ben 17 tonnellate al giorno. Ciò era stato possibile ancora una volta col sacrificio operaio: ad ogni forno cinque operai si alternavano infatti giorno e notte per tutte le 24 ore. A partire dal 1899, mutata la direzione, la produzione era diminuita e da Londra si deliberava di ridurre il numero degli operai, oppure di imporre ad essi la decurtazione dei salari. Così iniziava lo sciopero, il 30 gennaio 1903. La CdL faceva uscire un numero unico " pro scioperanti " e l’iniziativa dei numeri unici in occasione di scioperi sarà poi ripetuta in altre occasioni, devolvendo il ricavato a favore dei lavoratori. La domenica 15 febbraio al Politeama si teneva un comizio e le notizie dello sciopero venivano riportate sull’Avanti! e sul Secolo di Milano. Gli scioperanti chiedevano un rappresentante di Londra per discutere sulle attrezzature, sui sistemi di lavoro e la produttività. La direzione si guardò bene dall’intavolare trattative con i lavoratori, tuttavia gli operai dopo ‘20’ giorni di sciopero rientravano in fabbrica, riuscendo a salvare il livello occupazionale e i salari. Si era appena chiusa questa vertenza e ne iniziava subito un’altra, ossia la nota e massiccia agitazione degli operai dell’arsenale, che doveva sconvolgere la vita dell’intera città di La Spezia per un anno intero. Già dal 1901 la CdL, il comitato operaio dell’arsenale e gli operai iscritti alle società di m.s. avevano avanzato rivendicazioni e premevano presso il ministero per la questione delle promozioni e delle carriere, circa la retroattività della pensione per i lavoratori entrati al lavoro prima del 1901 e su altre numerose questioni che riguardavano il lavoro degli arsenali. Il 31 marzo si spargeva la voce in città che, il ministero aveva deciso per il blocco delle promozioni nell’arsenale, seguendo l’abituale metodo discriminatorio e non tenendo conto delle richieste operaie. Un vivo malcontento serpeggiava in tutti gli arsenalotti e la mattina del 31 una commissione era ricevuta dal vice direttore, senza però nulla ottenere. Nel pomeriggio la campana posta all’ingresso dell’arsenale doveva suonare per ben tre volte la ripresa del lavoro agli operai che, a gruppi, rientravano di malavoglia, mentre spontaneamente in molti reparti si iniziava l’ostruzionismo col rifiuto di lavorare. All’uscita gli operai trovarono una circolare sui portoni d’ingresso con l’ordine di chiusura dell’arsenale. Le autorità erano decise a dare una lezione col gesto di forza della serrata. La sera stessa i rappresentanti operai, di concerto con la CdL, in una tumultuosa riunione all’Unione fraterna decidevano per lo sciopero. Il mattino successivo, 1° aprile, una immensa folla si radunava per un comizio a porta Rocca; venivano distribuiti volantini ai circa 6.000 operai presenti, che, malgrado la sospensione dei treni del mattino, decisa dalle autorità, avvertiti dalle associazioni, erano affluiti dal circondano con ogni mezzo. Era una prima grande manifestazione di massa e nello stesso tempo una inattesa prova della forza della classe operaia spezzina. L’operaio Pasquale Binazzi, anarchico autodidatta, informava l’assemblea, tra urla di indignazione, che le autorità rifiutavano di trattare sui punti rivendicati dai lavoratori: promozioni senza distinzioni di classi, retroattività delle pensioni per i pensionati prima del 1901, diritto di anzianità per prestazione del servizio militare. Nei giorni successivi le assemblee si susseguirono con la stessa partecipazione, mentre l’on. De Nobili veniva attaccato nei comizi come complice del ministero; il declino del suo partito personale si può affermare iniziasse da quel momento. Si spezzavano insomma i vecchi legami clientelistici con le società di m.s. e i dirigenti trasformisti perdevano prestigio presso l’elettorato operaio. La CdL, i socialisti, i repubblicani e gli anarchici appoggiavano la lotta degli arsenalotti, isolando i pochi crumiri che si recavano aI lavoro. Di fronte alla decisione e all’unità operaia, dopo cinque giorni di sciopero completo, il governo, tramite il sindaco di La Spezia, si impegnava con la commissione operaia a migliorare le condizioni degli arsenalotti, allora pagati con salari che andavano da 1,30 a 2,25 lire al giorno (contro le 64 lire al giorno di un ammiraglio!) La classe operaia di La Spezia aveva ottenuto una prima vittoria malgrado le difficoltà della lotta; infatti la stampa borghese, per isolare la sinistra, sosteneva che questa era responsabile dei mancati aumenti perché contraria alle spese militari; a questi avevano risposto i socialisti, affermando che la loro politica non mirava a far mancare i finanziamenti e chiudere gli arsenali, ma a fare di questi dei cantieri marittimi per sviluppare i traffici commerciali e aumentare l’occupazione. Verso la fine dei 1903 riprendeva intanto l’agitazione degli arsenalotti, spinti dalla grave situazione economica a rivendicazioni salariali. La CdL di La Spezia (negli anni 1903-1904, unica, con quella di Ancona, diretta dagli anarco-sindacalisti) spingeva, per una radicalizzazione della lotta, chiedendo tra l’altro l’eliminazione del lavoro festivo. Le autorità militari, appoggiate dal governo, usavano la maniera forte. Mentre gli arsenalotti erano in sciopero, ai primi di marzo 1904, la direzione dell’arsenale Licenziava in blocco ben 782 operai. Un centinaio di essi saranno poi definitivamente espulsi dal lavoro e denunciati ,. Il primo sciopero generaIe nella storia d’Italia si verificò nel settembre 1904. lI giorno 4 si spargeva In tutto il paese la notizia del nuovo eccidio avvenuto a Buggerru, in Sardegna, il giorno prima…‘ A La Spezia il sabato 17 si riuniva d’urgenza il comitato pro vittime politiche, composto da anarchici, socialisti, repubblicani e radicali, che indiceva Io sciopero generale. La mattina della domenica 18, un’accalorata manifestazione si svolgeva al Politeama di fronte a 2.000 persone, alla presenza dei dirigenti politici cittadini, Binazzi, Angelo Sommovlgo, repubblicano, l’avv. Formentini, Binazzi, con un altro anarchico, Giovanni Gavilli, fiorentino, intervenivano, incitando gli operai a scendere In piazza per "‘distruggere il capitale ". Anche gli operai dell’arsenale aderivano allo sciopero e in città avvenivano incidenti con i dimostranti che davano l’assalto alle vetture dei tram. Il giorno dopo tutte le fabbriche erano ferme e solo una parte degli arsenaIotti entrava al lavoro, mentre i tram non circolavano, e picchetti di dimostranti si trovavano nella zone industriale; davanti alle porte dell’arsenale era fatta schierare una compagnia di artiglieri che fronteggiava i dimostranti. Lo sciopero era totale; alla Pertusola erano fermi 400 operai; fermi il cantiere Ansaldo e il Pirelli, dove lo sciopero proseguì anche il martedì. I manifesti del generale Mayo erano stati stracciati, mentre i negozi cori le saracinesche abbassate portavano cartelli con su scritto “chiuso per lutto proletario” e “ abbasso il in ministero per infrazione alla legge ". Un ordine del giorno di protesta era infine emesso dal comitato delle sinistre, in cui si deplorava i! silenzio dell’amministrazione comunale, che aveva rifiutato di associarsi al lutto proclamato dai lavoratori. Anche nel circondario lo sciopero era stato totale;. a Sarzana, il giorno 18, il palazzo civico era presidiato dalla truppa, mentre un folto gruppo di dimostranti protestava chiedendo che fosse apposto il lutto al tricolore esposto in occasione della nascita del principe Umberto; anche le fornaci Fillppi di Castelnovo erano ferme. Ad Arcola il sindaco democratico, Ghilardoni, faceva esporre la bandiera a mezz’asta è portava alla CdL l’adesione del Comune allo sciopero generale facendo affiggere un manifesto di solidarietà con i lavoratori di Muggiano e Pertusola. Era un fatto nuovo nella storia del circondario; alcune assemblee elettive degli enti locali sostenute dalle popolazioni; ribaltavano il concetto clientelare liberale e, In modo autonomo, assieme alle altre organizzazioni di massa democratiche, scendevano in appoggio ad una battaglia in difesa della democrazia … …Ai primi di luglio del 1903, un’altra importante lotta sindacale attendeva alla prova la classe operaia spezzina. Da parecchi mesi gli operai del cantiere navale di Muggiano reclamavano aumenti salariali, appoggiati dalla CdL, mentre la direzione ignorava volutamente la richiesta. La mattina del 6 luglio i manovali del cantiere, che percepivano I salari più bassi e svolgevano i lavori più gravosi, come quelli di scaldare i chiodi e ribattere e trasportare le lamiere, entravano in i sciopero, trascinando tutti i 1.300 operai del cantiere. Quali rivendicazioni avanzavano gli operai? Essi reclamavano la consegna dei libretti prescritti dalla legge sugli infortuni sul lavoro, una razionale costruzione del ponti di sicurezza, la suddivisione dei. cottimi, la possibilità di poter bere, durante il lavoro, dell’acqua che fosse potabile e un aumento di 23 cent. al giorno sul salario medio di lire 3. Si chiedeva inoltre, per i garzoni, un aumento di lire 0,10 all’ora per quelli dai 14 ai 16 anni e di lire 0,13 per quelli dai 16 ai 18; infine si chiedeva un orario dl lavoro non superiore alle 10 ore. Il tipo delle richieste dice già di per se stesso quali fossero le condizioni degli operai navalmeccanici, al primi del secolo, quando il lavoro minorile e le 10 ore giornaliere appena retribuite erano la normalità di ogni cantiere. La risposta del direttore del cantiere, ing. .Mainara, era la proclamazione della serrata per tre giorni, e poiché i lavoratori reagivano compatti con lo sciopero, la serrata veniva prolungata sino ai 24 luglio, con l’avvertimento che chi non si fosse presentato al lavoro per quella data doveva considerarsi licenziato. Per tutta risposta il luned[ 24, alla riapertura dei cantiere, fatto presidiare dalla truppa, si presentavano al lavoro soltanto 42 operai su 1.300, mentre gli scioperanti si riunivano all’Unione fraterna. Di fronte alla resistenza operaia l’ultimatum della direzione veniva portato al 31 luglio. Si sviluppava allora in tutto il circondano una gara dl solidarietà proletaria attorno alla lotta degli operai del Muggiano; la CdL apriva una sottoscrizione, così i vetrai di Sarzana e gli arsenalotti, venivano pubblicati numeri unici pro scioperanti, mentre l’on. Todeschini del PSI presenziava ad un comizio di 4.000 persone al Politeama. Da ogni lega operaia del circondano venivano versati fondi di resistenza, che provocavano l’irritata reazione delle classi “diringentI”. Ma dietro il livore padronale si celava l’ansia di riprendere le costruzioni del bastimenti in ferro fermi sugli scali in un momento di trasformazione della marina mercanzie dai bastimenti in legno agli scafi in ferro. Gli azionisti del cantiere facevano muovete l’amministrazione De Nobili, che mai era intervenuta nelle lotte per il lavoro; si formava quindi una commissione operaia, che con la mediazione dei sindaco e del sottoprefetto Oliva si incontrava con la direzione, Alcune rivendicazioni erano accolte, con il patto che tutti gli operai sarebbero stati riammessi al lavoro. Lo sciopero termInava così dopo ben 40 giorni di lotta, affrontati nelle condizioni più difficili, ma anche col valido sostegno dei lavoratori e delle popolazioni dl tutto il circondario, che avevano permesso di sostenere una lotta tanto dura e prolungata... Era intanto scoppiata la guerra di Libia a La Spezia la festa del Primo maggio si trasformava in una spontanea manifestazione contro la guerra; senza che il PSI avesse fatto gran che per mobilitare le masse. 4.000 persone circa con 30 bandiere sfilavano in città, arringate dal segretario della sezione socialista di Sarzana, Ciotti, e dal’avv. Giovanni Miceli, repubblicano che avevano gia assunto una posizione decisa sulla aggressione alla Libia. Nella sezione socialista di La Spezia il silenzio ufficiale del partito provocava vivaci reazioni da parte dei giovani socialisti Arturo Paita e Agostino Bronzi, che polemizzavano con i dirigenti riformisti, a loro volta attaccati duramente anche sul foglio degli anarchici. La guerra coloniale insomma metteva in movimento tutta la situazione politica generale, faceva scoppiare le contraddizioni all’interno del PSI attorno ai grandi temi dell’internazionalismo proletario e dell’imperialismo. Al congresso di Reggio Emilia la sezione socialista spezzina aveva una impennata e i delegati votavano l’ordine del giorno degli intransigenti sulla questione della guerra coloniale, mentre il foglio socialista chiedeva il ritorno all’intransigenza per far uscire il partito dalla crisi, dichiarando che era incompatibile con i principi e le finalità socialiste la presenza nel partito di coloro che accettavano la partecipazione dei socialisti dl potere in regime borghese. Ma intanto a La Spezia il PSI continuava nella collaborazione con i democratici costituzionali, Favorevoli alla guerra, adducendo la necessità di impedire il ritorno del gruppo denobiliano sulla scena politica...”E NELLA RESISTENZA
All‘indomani della prima guerra mondiale esisteva nella nostra provincia un forte movimento operaio, organizzato sindacalmente e aderente per la maggior parte al Partito Socialista, anche se forte era nella classe lavoratrice l’influenza degli anarchici che disponevano di organizzazioni politiche e sindacali. Era un movimento operaio molto politicizzato. se si pensa che il settimanale del Partito Socialista “La Libera Parola”. stampato a Sarzana veniva diffuso non soltanto nella Vallata del Magra, ma anche alla Spezia, con alte percentuali dì vendita in Arsenale, al Cantiere di Muggiano e nello stabilimento Vichers Terni, dove si fabbricavano cannoni. E così nel primo dopoguerra la nostra città assistette a forti agitazioni e manifestazioni contro il “carovita” nelle quali l’esasperazione popolare si esprimeva qualche volta in maniera incontrollata con invasioni e saccheggi di negozi; sotto il peso della disoccupazione e delle sempre più difficili condizioni economiche, la classe operaia andava radicalizzando le proprie lotte, mentre le classi dominanti rispondevano con le più brutali repressioni. Non si comprenderebbe lo straordinario contributo che il movimento dei lavoratori spezzino ha dato alla lotta di liberazione se non si rivolgesse l’attenzione a quel “tirocinio” che furono le agitazioni, gli scioperi1 le lotte di fabbrica e di piazza - negli anni immediatamènte precedenti all’avvento del fascismo - e all’attività clandestina, che sfociò talora in aperta opposizione anche nel periodo più duro del regime fascista. Indimenticabili restano le giornate di occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920, quando in ogni fabbrica gli operai inalberavano le bandiere rosse, tanto che avevano “contagiato” persino i marinai della caserma Duca degli Abruzzi, i quali tennero issata per parecchi giorni la bandiera rossa, senza che i loro superiori potessero reagire. Il 21 luglio del l921 è una data simbolica per il movimento di opposizione all’avvento del fascismo: i noti “fatti di Sarzana” appena preceduti da uno scontro tra squadristi e militanti delle organizzazioni operaie. Lavoratori, Arditi del popolo, un’intera popolazione cacciò i fascisti giunti da tutta la Toscana per mettere in ginocchio “la città perduta”. E fu proprio per la unanime reazione popolare che le forze dell’ordine furono costrette a sparare sui fascisti attaccanti che lasciarono sul terreno una ventina di morti. Per chi non si vergogna della propria storia e delle radici Ideali della propria militanza politica non.può che essere motivo di orgoglio e al tempo stesso dì riflessione il fatto che il Partito comunista sorto nel ‘21 avesse subito acquisito una grande influenza nelle fabbriche della città. Il partito continuerà clandestinamente la lotta anche dopo le leggi eccezionali e negli anni del regime. La Spezia sarà uno dei centri antifascisti più attivi. Basta pensare che nel 1931 scioperarono i lavoratori della filanda della Montecatini e quelli dello stabilimento OTO—Melara. Un rapporto dell’Ovra descrive l’organizzazione antifascista clandestina nello spezzino come una”macchina” molto efficiente, divisa in zone e settori, con a capo alcuni operai delle fabbriche, responsabili di vari compiti delicati come ad esempio la stampa clandestina mensile e quindicinale de “L’Unità”, l’“Avanguardia”, “Il Proletario”, organo della Federazione Comunista. La stampa veniva distribuita al Reale Arsenale Marittimo, come allora era definito, ai Cantieri Riuniti Odero Terni Orlando, allo stabilimento Fiat, come in altre aziende minori della città e della provincia. Di qui poi gli arresti che le polizia operò sul gruppo dirigente spezzino “risulta evidente — testimonia Arturo Colombi —anche lui arrestato assieme ai suoi compagni — che la causa prima degli arresti deve ricercarsi nell’attività, nel fatto che il Partito era presente e operante in grandi fabbriche, come l’Arsenale, l‘Odero Terni, la Cerpelli. ed era riuscito a provocare un’intensa agitazione di rivendicazioni sentite dalle masse e contro la prepotenza dei fascisti”. Il 1943 si apre anche per la nostra città all’insegna dei bombardamenti, con gli aerei alleati che puntano il fuoco sull’Arsenale, le navi del golfo e i cantieri navali. I bombardamenti si ripetono, con numerose vittime in città ed è in questo clima che, nonostante la censura di guerra, compaiono sui muri le scritte contro il Duce e contro il fascismo e inneggianti alla Russia mentre in fabbrica si organizza l’ascolto delle radio clandestine e viene impostata la lotta politica. Nel luglio 1943 alla notizia dello sbarco alleato in Sicilia, nelle grandi fabbriche spezzine i comunisti tengono assemblee ai lavoratori, mentre si fanno apertamente sentire le voci degli operai contro i cottimi, il lavoro notturno, il vitto scadente. Insomma il 25 luglio del ‘43 trova nella nostra provincia una già compatta unità antifascista1 con alla testa la classe lavoratrice e il partito comunista. Ed è proprio all’indomani della caduta di Mussolini che si svolge la grande manifestazione del 29 luglio. Dalle fabbriche affluiscono a migliaia gli operai, dalla città arriva la popolazione che non era sfollata a causa dei bombardamenti. L’esultanza popolare è grandissima, il corteo percorre la città senza temere la repressione che fa già le prime vittime, fino ad arrivare sul Viale Regina Margherita dove i manifestanti tentano di penetrare nella caserma dove era acquartierata la milizia fascista, i militi fanno fuoco dal tetto. Tra le persone cadute, è colpita a morte la giovane comunista Lina Frattoni, operaia delle officine Motosi, che stava sventolando il tricolore alla testa del corteo. La sua figura diventava il simbolo di una lotta operaia che non fu messa mai a tacere anche nei momenti più duri,quando i nazifascisti pongono sotto controllo militare le grandi fabbriche impegnate nella produzione bellica. All’OTO Melara, all’Ansaldo, alla Termomeccanica, allo Iutificio Montecatini i tedeschi hanno posto infatti un dispositivo di controllo per impedire ogni agitazione. In un quadro così triste, aggravato dalle condizioni alimentari della popolazione estremamente dure, le notizie delle agitazioni in corso nel triangolo industriale non fanno che rafforzare la volontà di lotta dei lavoratori. Tanto che nel gennaio ‘44, mentre veniva diffuso tra gli operai un appello clandestino del PCI e quello della tipografia clandestina del CLN, le tre grandi fabbriche Ansaldo, Termomeccanica e Melara riuscirono a fermarsi. Uno sciopero che terminava con un successo della classe operaia spezzina: non soltanto aveva dato un colpo alla produzione bellica, ma oltre agli obiettivi economici, aveva realizzato quello stabilito dal comitato di agitazione interregionale, che prevedeva la mobilitazione della classe lavoratrice fino alla proclamazione dello sciopero generale di tutto il Nord. Così la mattina del 1° marzo tutto è pronto per lo sciopero. Nelle grandi fabbriche come nelle piccole aziende i lavoratori incrociano le braccia, nonostante le intimidazioni, i ricatti, i mitra spianati dei tedeschi. Lo sciopero si rivela imponente, continua compatto in tutti gli stabilimenti, nonostante gli arresti e la repressione che aveva fatto le sue vittime. E ci sembra importante riportare un comunicato, uscito dalla tipografia clandestina di Lerici, in cui si diceva:
La lotta non è cessata! La lotta per il pane, per la libertà e l’indipendenza del nostro paese, continua! Mentre in altri centri si lotta e si resiste ancora, sappiano i nemici che non abbiamo rinunciato alle nostre rivendicazioni, alle quali aggiungiamo, oggi, la scarcerazione immediata degli operai arrestati durante lo sciopero. Lavoratori tutti! Il nemico ha ricevuto un duro colpo! I lavoratori italiani hanno incrociato le braccia malgrado il terrore nazifascista. Lo sciopero generale è stato un‘affermazione e una vittoria dei lavoratori italiani, degni di essere l’avanguardia nella lotta per la liberazione e l’indipendenza del proprio paese. La classe lavoratrice ha dimostrato di possedere una forza e un’organizzazione; mentre, incrociando le braccia, migliaia e migliaia di giornate lavorative sono andate perdute per l’occupante nazista: né armi né munizioni, né mezzi bellici, tanto necessari all’invasore che all’est vacilla sotto i colpi dell’Armata rossa, sono stati prodotti. Lavoratori! Per la realizzazione delle nostre rivendicazioni stringiamoci sempre più compatti attorno ai nostri comitati d’agitazione dl officina; eliminiamo le deficienze riscontrate; miglioriamo i nostri metodi e forme di lotta; prepariamo meglio la resistenza e l’offesa al nemico; manteniamo e realizziamo attorno a noi la solidarietà di tutti i lavoratori. Formiamo un unico blocco senza defezione e incertezze e questa sarà la via che ci condurrà alla vittoria; alla fine delle nostre sofferenze, alla liberazione e all’indipendenza del nostro paese. Ed è da questo momento che migliaia di lavoratori e di giovani entreranno nella Resistenza che, organizzandosi in distaccamenti e brigate, si stava estendendo e intensificando. Così la guerra partigiana vedrà anche alla Spezia quotidiani episodi di grande sacrificio ed eroismo e battaglie indimenticabili. Una sintesi di ciò che è stato il movimento di lotta partigiana nel nostro territorio non darebbe neppure lontanamente l’immagine di quella storia memorabile. Noi non facciamo né nomi di luoghi né nomi di persone, perché sarebbe grave e ingiusto dimenticarcene qualcuno. Protagonista principale della lotta partigiana è stata la classe operaia e il contributo maggiore assieme a tutte le altre forze democratiche è stato dato dal Partito Comunista. Questo va detto, perché questa è la verità. Se forniamo alcune cifre non è per amore dei numeri, ma per dare un elemento di riflessione: accanto alla classe lavoratrice 3.400 sono stati i partigiani combattenti; i partigiani caduti in provincia sono stati 509, i mutilati 417; 257 i caduti nei campi di sterminio nazisti e alcune decine morti nei campi di lavoro in Germania. I caduti nella provincia sono stati in totale 835. Per la lotta di Liberazione 9 sono state le medaglie d’oro alla memoria di partigiani della provincia caduti combattendo, otto le medaglie d’argento assegnate a partigiani allora viventi. La recente consegna della medaglia d’oro alla Provincia di La Spezia, l’impegno, mai venuto meno, dell’ANPI sono la prova che la memoria non è andata perduta. Eppure oggi i valori dell’antifascismo e della Resistenza hanno bisogno di una grande difesa collettiva. Mentre anche nel nostro Paese stanno tornando con virulenza sulla scena ideologie e politiche apertamente reazionarie e mentre correnti storiche revisioniste cercano di cancellare dalla memoria e dalla coscienza persino la mostruosità del nazifascismo, mentre ora qualcuno cerca di dare una rilettura della Resistenza e del fascismo come scontro e resa di conti tra gruppi contrapposti, e i partigiani sono messi sullo stesso piano dei repubblichini di Salò, ebbene oggi non basta la denuncia, non è sufficiente la condanna, oggi occorre l’iniziativa e la lotta. Il compito dei democratici non è solo quello di difendere e ristabilire la verità del passato, ma anche quello di affrontare la sfida del presente.
RECUPERARE TUTTA LA STAMPA DEI LAVORATORI
Il convegno nazionale della stampa dei lavoratori svoltosi a Milano il 12/13 dicembre del 1954, testimonia che anche nella nostra provincia si sono sviluppati i giornali dei lavoratori nei vari settori produttivi, tanto da essere un grande fatto di politica e di cultura che compie il suo ingresso ufficiale nei quadri del giornalismo democratico,
LE LOTTE OPERAIE A LA SPEZIA NEL ’68 – ‘69
Il biennio ’68 – ’69, che anche nelle fabbriche spezzine apre il grande ciclo di lotte operaie che attraversa tutti gli anni ’70, non esplode all’improvviso, ma è piuttosto il risultato di un percorso di accumulazione di forze e di esperienze che segna le grandi fabbriche nel corso di tutti gli anni ’60.
La repressione antioperaia e la discriminazione anticomunista degli anni 50, infatti, non avevano completamente raggiunto l’obiettivo della normalizzazione totale delle fabbriche.
Nella cantieristica, per esempio, non era stata estirpata una coscienza di classe ampiamente diffusa e l’organizzazione ben radicata della FIOM (e del PCI). Gli operai del Muggiano erano stati protagonisti, già dall’inizio degli anni ’60, di una memorabile battaglia grazie alla quale, fra i primi, avevano conquistato, tra l’altro, la trattenuta della quota sindacale direttamente in busta paga (prima di allora essa veniva periodicamente ritirata dai collettori dei vari reparti). Più difficile si presentava invece la situazione in altri stabilimenti. All’OTO Melara, per esempio, sopravviveva un ridotto nucleo di quadri del PCI e della CGIL scampati alla decimazione degli anni 50. Ma il clima generale della fabbrica, ancora nel corso degli anni 60, era fortemente condizionato dall’egemonia della CISL. Vi è qualcosa di “eroico” nella storia di questi compagni che, sottoposti a discriminazioni e vessazioni, spesso isolati anche dagli altri lavoratori, hanno avuto la forza di non piegarsi e, con il loro comportamento esemplare, sono riusciti a tenere aperta una prospettiva di classe, come sarà ben chiaro quando, con il biennio 68/69, anche le fabbriche pacificate, come l’OTO Melara, saranno protagoniste della nuova stagione di conflittualità operaia. Il cambiamento del clima politico e culturale del paese, che caratterizza gli anni 60, favorisce indubbiamente le grandi lotte operaie che, anche nelle fabbriche spezzine, raggiungono il loro punto più alto con l’autunno caldo del ’69. Il 1968, anche a La Spezia, è l’anno degli studenti. Gli universitari, che fanno la spola tra Spezia e l’Università di Pisa, nei primi mesi del ’68 cominciano a “portare” in città quelle idee “nuove”, libertarie, antiautoritarie ed antimperialiste, che incendiano gli Atenei. Già nel corso dell’estate prendono il via alcune iniziative contro l’aggressione americana al popolo del Vietnam, che porteranno nei mesi successivi alla diffusione di un volantino, scritto in inglese, rivolto ai militari USA imbarcati nelle navi che avevano fatto sosta nella rada. La mobilitazione al fianco del Vietnam, alimentata anche da alcuni scioperi simbolici di solidarietà che i sindacati metalmeccanici hanno proclamato nelle fabbriche, troverà poi il suo “sbocco” in una grande manifestazione che, in autunno, vede per la prima volta insieme operai e studenti. Nell’autunno del ’68, con l’inizio dell’anno scolastico, il “contagio” si estende agli studenti medi. Il movimento ha il proprio battesimo già dai primi giorni di ottobre. Gli studenti intendono manifestare contro la strage di Città del Messico (dove l’esercito ha sparato sui giovani che manifestavano in occasione delle Olimpiadi) ed al Liceo Classico respingono l’aggressione preordinata di una squadraccia missina. Le scuole superiori sono investite dal movimento che raggiunge il proprio apice con l’occupazione di tutti gli istituti cittadini. Nei mesi successivi non mancheranno occasioni di confronto, di unità ed anche di parziale contaminazione reciproca tra il movimento degli studenti e gli operai delle fabbriche. Il rapporto tra operai e studenti, anche a La Spezia, non sempre è scontato e non è privo di contraddizioni e di difficoltà. Da parte degli studenti c’è la tendenza “all’ideologizzazione” che cozza con il “realismo” operaio e la critica alla sinistra ufficiale, che contraddistingue larga parte del movimento studentesco, suscita in settori della classe operaia diffidenza e, talvolta, anche chiusura. Gli studenti tendono a costruire un rapporto diretto con gli operai (sull’esempio della assemblea operai e studenti di Torino che innescò la lotta, durissima dell’estate del ’69 alla FIAT, culminata, nel luglio, negli scontri di C.so Traiano: il vero inizio dell’autunno caldo). Questo tentativo non è certo ben visto da larga parte del gruppo dirigente della sinistra ufficiale; malgrado ciò, un po’ in ogni fabbrica, emergono gruppi di operai che interloquiscono con il movimento studentesco. Saranno questi operai, per esempio, che, assieme a molti studenti spezzini, parteciperanno alla famosa contestazione alla Bussola il 31 dicembre 1968. Malgrado le difficoltà sempre più spesso, gli studenti, si ritrovano al fianco degli operai. Il 2 dicembre 1968, in Sicilia, la polizia spara su una manifestazione di braccianti, uccidendo due lavoratori. La risposta anche a Spezia è immediata: la mattina del giorno dopo gli studenti organizzano una manifestazione e, nel pomeriggio, la città è attraversata da un forte e rabbioso corteo di operai e studenti. E ancora: operai e studenti si ritrovano insieme, nei mesi successivi, nelle grandi manifestazioni per le pensioni, contro una nuova strage poliziesca accaduta a Battipaglia, per il diritto alla casa o di solidarietà antimperialista ed internazionale, per il Vietnam, contro la condanna a morte di Panagulis da parte del regime dei Colonelli greci. Negli ultimi mesi del ’68 e nei primi mesi del ’69 si realizza un intreccio tra battaglie generali (pensioni, solidarietà internazionale ecc. ecc.) ed iniziative di fabbrica. Dalla primavera del ’69 in poi, e ancora nei mesi estivi, esplodono lotte importanti un po’ in tutte le fabbriche. Gli operai del Muggiano, per esempio, ancora una volta, danno vita ad una vertenza aziendale per il premio di produzione, una nuova contrattazione del sistema dei cottimi e contro la nocività che porta ad un accordo che è un primo importante successo per i lavoratori. Particolarmente significative sono le forme di lotta scelte dai lavoratori: il conflitto non resta chiuso in fabbrica e viale San Bartolomeo è frequentemente bloccata dalle tute blu in sciopero. Nei mesi precedenti, prima di loro, erano state le operaie della Montedison ad inscenare una serie di manifestazioni in difesa del posto di lavoro che cominciava ad essere minacciato (la fabbrica verrà, infatti, chiusa qualche anno dopo). Con l’estate si muove, dopo anni di silenzio, anche l’OTO Melara. I giovani operai sono protagonisti di una memorabile vertenza che, partita contro il sistema di cottimo vigente, finisce per contestare alla radice la gerarchia di fabbrica ed il suo autoritarismo (in particolare l’odiosa consuetudine di cronometrare gli operai per tagliare i tempi delle varie lavorazioni). La vertenza è, sul piano sindacale, una vittoria, ma è soprattutto una vittoria sul piano politico: gli operai hanno rialzato la testa e la FIOM, che prima della vertenza aveva, in tutta la fabbrica, solo una dozzina di iscritti, dopo la lotta arriva a contarne oltre 120!!! Nei mesi precedenti c’erano state in città, altre due significative esperienze di lotta operaia, particolarmente importanti per la radicalità dei contenuti e delle forme. La prima è la lotta degli allievi operai dell’Arsenale sviluppatasi negli ultimi mesi del 1968. Di fronte ai continui rinvii nell’assunzione in Arsenale, i giovani del corso degli ex allievi della scuola operai decidono di rompere gli indugi e danno vita ad assemblee e proteste. L’avvenimento è particolarmente rilevante perché la lotta che ha come controparte i vertici dell’Arsenale e della M.M., rompe la passività che, dopo le epurazioni degli anni ’50, aveva caratterizzato il clima sindacale dell’Arsenale e riesce a realizzare momenti di reale unità con il movimento degli studenti e con le “avanguardie operaie” che, anche al di fuori delle tradizionali organizzazioni sindacali, cominciano ad emergere nelle varie situazioni. La lotta, che si conclude vittoriosamente con l’assunzione degli allievi operai, conosce anche momenti particolarmente aspri: una pacifica assemblea di operai, studenti e militanti della sinistra che si stava svolgendo in piazza Europa davanti al Comune veniva caricata a freddo dalla polizia e dispersa a colpi di manganello. La seconda esperienza è la lotta degli operai della SAIPEM che sfocia nell’occupazione della SNAM di Panigaglia. I contenuti di questa lotta stravolgono le consuetudini, anche sindacali dell’epoca. Gli operai della SAIPEM, società collegata alla SNAM, una volta terminata la costruzione del terminal di Panigaglia, nella quale erano impegnati, sarebbero stati utilizzati dalla società per costruire altri cantieri e la SNAM avrebbe fatto funzionare il terminal spezzino facendo ricorso ad altra mano d’opera, in particolare trasfertista. Questa era la consuetudine, ma questa volta gli operai della SAIPEM non ci stanno. “Siccome questo terminal l’abbiamo costruito noi, e siamo quasi tutti spezzini, è giusto che sia qui il nostro posto di lavoro” dicono. Comincia così la lotta che, in un crescendo di iniziative, sfocia nell’occupazione del terminal di Panigaglia. La mattina dell’occupazione un lungo corteo di studenti parte dalla città e, dopo una “lunga marcia” di qualche chilometro, arriva davanti al cantiere occupato dove ha luogo una memorabile assemblea operai e studenti. La lotta si conclude con un accordo che rappresenta, indubbiamente, un parziale successo per i lavoratori, che ottengono anche il diritto a partecipare a corsi di riqualificazione professionale pagati dalla SNAM (!!!), ma che lascia l’amaro in bocca a molti di loro che avevano intravisto la possibilità di una vittoria completa. Come “conseguenza “ della lotta, la SNAM di Panigaglia sarà una delle prime realtà operaie in Italia a superare la vecchia Commissione Interna e dar vita ad un Consiglio di fabbrica che rappresenterà, fino ai primi anni ’70, un’esperienza particolarmente avanzata. La battaglia per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, che i sindacati, pressati dalla ripresa di forti scioperi alla FIAT, sono costretti ad anticipare al settembre del ’69, trova quindi la classe operaia spezzina già in pieno movimento. La partecipazione degli operai spezzini alla lotta è esaltante. OTO Melara, INMA, Muggiano, Termomeccanica, San Giorgio sono scosse da un’ondata senza precedenti di scioperi, di manifestazioni e di assemblee. Più volte i metalmeccanici, con immensi cortei partiti dalle fabbriche, si prendono il centro della città. Tutti i giorni la lotta si articola e si radica sul terreno della fabbrica e gli operai spezzini partecipano in massa alla manifestazione nazionale di Torino che da il via alla lotta e a quella di Roma che vuole dare la “spallata finale”. Con l’autunno riprendono il via anche le lotte degli studenti che spesso manifestano in città assieme agli operai e che, a pochi giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico, danno vita ad un riuscito corteo di protesta per l’intervento della polizia contro una manifestazione antifascista a Pisa, che ha causato l’uccisione di uno studente. Le lotte dell’autunno caldo nelle fabbriche spezzine portano a piena maturazione i processi innescati nei mesi precedenti. Lo scontro è certo per il contratto, ma va oltre il contratto. L’intera condizione operaia in fabbrica e la stessa organizzazione capitalistica del lavoro sono messe in discussione e il terreno del conflitto tende a diventare quello del potere, in fabbrica e, in prospettiva, nella società. Gli operai rompono l’isolamento sociale e cominciano a costruire “egemonie”, si rompono gli steccati: nelle fabbriche spezzine cominciano a scioperare anche gli impiegati. Il padrone non riesce più ad “usare” i “colletti bianchi” contro gli operai. E’ la conseguenza del clima nel paese che sta cambiando e dell’ingresso nelle fabbriche di una nuova generazione di tecnici, figli di operai, usciti dalla scuola che, negli anni ’60, è diventata di massa e non è più un privilegio per pochi. Anche le forme di lotta sono cambiate: lo sciopero articolato e a scacchiera, per provocare più danno possibile alla produzione, intaccando il meno possibile la busta paga, diventa quella più praticata. E’ una nuova generazione di operai che scende in campo e spesso travolge ogni consuetudine. Anche i sindacati sono in difficoltà: pressati dalla spinta operaia vengono frequentemente scavalcati. “Sono le lotte a fare l’unità e non le mediazioni dei vertici sindacali” grida un operaio dal microfono dopo che i lavoratori della SAIPEM hanno “conquistato” il palco di un comizio sindacale in p.za del Mercato. Le lotte “cambiano” anche il sindacato. La CGIL è investita da contraddizioni, talvolta anche aspre, tra che intende riaffermare le tradizionali modalità di iniziativa sindacale e i quadri che invece vogliono aprire l’organizzazione al rinnovamento espresso dal movimento. Nella CISL lo scontro si fa lacerante: molti quadri operai provenienti dalle fabbriche si confrontano duramente con l’impostazione stile anni ’50 che ancora caratterizza pezzi consistenti dell’organizzazione, in particolare le categorie dei lavoratori del pubblico impiego. E’ attraverso questi processi, che in modo tortuoso e talvolta anche contraddittorio, comincia a nascere quel sindacato di consigli che sarà, pur con molti limiti, la spina dorsale dell’organizzazione di classe negli anni ’70. L’autunno caldo finisce nel dicembre del ’69 con la firma del contratto dei metalmeccanici che rappresenta una conquista storica per il movimento operaio italiano e con la Strage di Stato del 12 dicembre del 1969 che inaugura quella strategia della tensione messa in atto dalle classi dominanti, da settori dello Stato e dei servizi e dalla CIA per fermare l’avanzata dei lavoratori e delle masse popolari che, ancora per tutti gli anni ’70, faranno tremare i polsi a “lor signori”.- NUOVO SVILUPPO E TIMIDE TRASFORMAZIONI -
Per verificare qual’è stata nel nostro territorio ed è la politica del lavoro e qual’è la condizione dei lavoratori, è sufficiente andare nelle aree industriali e vedere i cimiteri industriali, dove gli insediamenti sono definitivamente sepolti o ristrutturati e riconvertiti. Le ragioni di questa situazione sono, come detto, molteplici; noi riteniamo che non aver lottato a difesa dell‘industria per le sua trasformazione e riconversione, può aver lasciato, come si dice, la città in pace e può al limite giustificare la linea di coloro che sostenevano l’inesistenza di una classe dirigente e così via; però ha lasciato il posto a quella che. noi di Rifondazione Comunista. abbiamo schematicamente definitivo come “economia del Galles”. Negli anni ‘90 il movimento si è venuto man mano affievolendo, anche se ogni tanto dei “colpi di frusta” davano fuoco alle polveri con azioni che molti speravano dessero gambe ad un nuovo movimento, e che nel ‘94 trovano i lavoratori pronti alle grandi manifestazioni contro il governo Berlusconi, sino a farlo cadere. Spezia era tra le prime città dove il movimento di lotta si era espresso spontaneamente, opponendosi, di fatto, anche alle ristrutturazioni che i vari governi, prima e dopo Berlusconi, stavano portando avanti. In crisi erano già i settori della cantieristica civile e militare, la Termomeccanica, l‘OTO Melara, l’Arsenale, La crisi si trasmette subito al fragile indotto che trascina piccole e medie aziende, molte messe sul lastrico. Così per la questione ambientale, l’IP rimane chiusa. Le scelte vengono avanti dirompenti, i governi dicono che “il cavallo non beve più”, si salva al ribasso la Termomeccanica, con un operazione per molti buona, per noi assai mediocre, dato che ancora oggi pensiamo che potessero essere scelte strade più redditizie per i lavoratori. Lo stesso Porto va in crisi, Messina abbandona Spezia e si trasferisce a Genova, la Tarros è anch’ essa in crisi, la compagnia portuale regge nel suo piccolo, ma incomincia quella politica che noi abbiamo definito da “rnandriani del porto”, non in chiave offensiva per nessuno, ma perché il Porto occupa ogni spazio possibile, a partire dal fronte a mare sino dentro il quartiere della Pianta, in modo disordinato e abusivo, per non parlare della zona di Santo Stefano. Nasce intanto lo scandalo della discarica di Pitelli e, per rimediare, da molte parti viene invocato il forno inceneritore, poi battuto dalla lotta di Rifondazione Comunista e dei comitati ambientalisti. Si diffonde comunque la coscienza che la città è in crisi, che anche le infrastrutture costituiscono un grosso problema. I rimedi noi di Rifondazione Comunista li abbiamo con forza contestati, per questo alla fine del 1999 abbiamo presentato il Progetto-Spezia chiedendo una profonda svolta economica con un risarcimento alla città che è stata nella sua storia sacrificata alle servitù militari, al polo armiero e con un carico energetico che è tra i più alti del mondo, se si pensa alla collina di Vezzano, alla Centrale Enel con il fossile, alla IP, a Panigaglia, all’Arsenale, al nucleare, alla polveriera di Pitelli, al depositi dei container. Insomma di fronte ad una pesantissima crisi, nessuno — fatta eccezione per Rifondazione Comunista - chiama in causa lo Stato, si lancia la politica del “fai da te”, e così nascono piccole occasioni di lavoro, per la grande parte precario, dal commercio al servizi. Si mantiene qualche “commessina” di lavoro all’Intermarine, all’OTO, perché si sceglie la strada della ristrutturazione e dismissione graduale, togliendo di volta in volta un pezzo della produzione: e così è per la Termomeccanica, per l’OTO. per l’ex INMA, mentre il futuro della produzione industriale sembra essere quello del far posto, in immense aree, a piccole aziende, ad artigiani e a piccole industrie che occupano sì e no 40 lavoratori. E’ il caso per es. dell’area OTO. Qui siamo al totale cambiamento strutturale e, come direbbe qualcuno, subito e non contrattato; o meglio: si tratta la dismissione e le aree industriali e demaniali diventano un vero affare. La storia, come si dice, nasce da lontano, le responsabilità sono di tanti, ora però si stanno chiudendo i cerchi attorno all’OTO, all’Arsenale, all’Ocean, all’Intermarine, mentre si privatizza l’energia, la sanità, i trasporti e tutto il resto. Di fronte alla crisi noi abbiamo lanciato una proposta complessiva che abbiamo esposto in convegni, in dibattiti, in iniziative, in interviste e nei molteplici documenti scritti, a cominciare dal Progetto/Spezia. Non è questa la sede per entrare nel merito dì tali proposte: esse possono essere sintetizzate nella richiesta di un risarcimento alla città - per il disastro ambientale subito e per essere stata asservita agli interessi dello Stato italiano - e nella conseguente richiesta di una legge speciale, come è stata fatta per Venezia per la riconversione e lo sviluppo della nostra economia. E qui abbiamo indicato come simbolo possibile di questa riconversione, il caso della Ruhr (con la speranza che gli altri la smettano di “copiare” le nostre idee nel tentativo di togliere spazi a Rifondazione Comunista). Anche le esperienze che dovranno vivere andranno, mi auguro, nella “Casa della Cultura” e sono sicuro che i lavoratori non si faranno sfuggire questa possibilità di un loro contributo con azioni di lotta, idee e progetti. Così la “Casa” e il suo archivio saranno costruiti da tante mani, di uomini e donne di cui magari non si ricorderà il nome, ma che renderanno grande e viva la storia del mondo del lavoro.
“GUARDATE IN SU:IL CAMINO FUMA”
(B. BRECHT)