UNA CASA DELLA CULTURA PER RICOSTRUIRE LA STORIA DEL LAVORO E DEI LAVORATORI DELLA NOSTRA CITTA’

 

Nell’autunno scorso abbiamo proposto una iniziativa culturale sulle condizioni dei lavoratori nell’epoca della globalizzazione, avendo come obiettivo la costituzione di una “Casa della cultura e della storia del lavoro" nella nostra città, non per sentirci reduci di un passato che non c'è più,   ma per avere una visione più chiara del presente e guardare al futuro, conservando la memoria delle conquiste ottenute e vittorie, come delle sconfitte e delle perdite subite.

La storia passa e il tempo non ritorna, però tutto ciò che è accadu­to non è stato per caso o per fatalità, ma perché uomini e donne lo han­no impostato, creato, costruito in quel modo, uomini contro altri e as­sieme ad altri, idee opposte che si sono confrontate o intrecciate.  Così l’agire di oggi può radicarsi in quel passato e da esso trarre insegnamento, preparando il futuro.

E’ un dovere morale e civile guardare al passato con onestà, non la­sciando che altri diano interpretazioni soggettive o distorte del vissuto; chi volesse ignorare o stravolgere la verità dei fatti, distruggerebbe non solo la storia, ma lo stesso valore della vita, annullerebbe assieme al pensiero anche se stesso.

Perciò non è lecito per nessuno assemblare soltanto le pagine più belle o più brutte di un’esperienza storica e darne una lettura parziale: non è lecito per coloro che appaiono “i vincitori” del momento, non lo è neppure per “i vinti”; e se un singolo individuo occupa uno spazio di storia superiore a quello di milioni di persone, è anche perché quei milio­ni. di persone non sono state in grado di creare una cultura alternativa capace di imporsi.

Difficile contraddire la concezione, come un tempo si diceva, “materialistica" della storia, della lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori; dove il motore è il lavoro, elemento di progresso, di civiltà da una parte, di sfruttamento dall’altro, e anche di morte, come sono le armi.

E cui si potrebbe provare persino un senso di vergogna per le caratteristiche stesse della nostra città, legata alla produzione di armi; però non possiamo tacere, perché questa è la realtà, come è bene ricordare che in molti casi le armi sono servite per liberarsi, ce lo conferma la resistenza. Insomma, come diceva qualcuno molto autorevole, le contrad­dizioni sono sotto il cielo e sotto i tetti. di tutte le case.

Il lavoro e le professionalità che nella nostra provincia l’hanno caratterizzato hanno avuto un ruolo importante, per il fatto stesso che il nostro è un territorio “dato a prestito”, o “in cessione” alle grandi scelte e strategie nazionali. Ed ecco anche qui la contraddizio­ne tra il lavoro e una qualità produttiva che distrugge e sacrifica il territorio. Però se l’Unesco assegna le Cinque Terre alla propria difesa è perché sono un patrimonio dell’umanità, questo certamente anche grazie a bellezze naturali valorizzate e mantenute dal lavoro umano.

Il lavoro, i lavoratori, sono dunque sempre stati i motori della nostra storia e della nostra vita.

Nell’epoca in cui tutto è fluido e tutto si dimentica, come se vi fos­se un complotto di forze invisibili che senza dichiarare le proprie inten­zioni hanno deciso di cancellare la civiltà del passato, noi vogliamo man­tenere la verità della nostra storia, perché esso rimanga viva, e non sol­tanto per noi, ma per tutti coloro che verranno.

Quando abbiamo fatto la nostra proposta della “Casa della cultura e del lavoro” alla Spezia, si era un po’ tentati di parlare di responsabili­tà e di colpe attribuendole tutte all’avversario di classe. Io penso che tra sfruttatori e sfruttati, tra chi comanda e chi lavora vi siano responsabilità ben diverse, e la maggior parte sono di chi sfrutta e opprime i lavoratori. Però in mezzo vi sono i tradimenti e gli egoismi personali di chi nel tempo cancella le proprie radici e finisce con lo schierarsi oggettivamente con gli sfruttatori.

La storia dei lavoratori è stata ed è una storia. di “pane e rose”, di sudore, di umiliazioni, di fatica, di lotte e di speranze, e se il “nuovo tempo” e il processo di globalizzazione tendono a cancellarne anche le tracce, noi abbiamo il compito non solo di mantenerla, ma di dare ad essa un significato per la nostra azione concreta che è a fian­co degli sfruttati.

E non è lecito “celebrare” questo passato sintetizzandolo in poche pagine di un libro, in qualche fotografia da mettere nei cassetti, non si può lasciare alle aziende, nuche rimaste In vita, la storia umana del lavoro e dei lavoratori; tanto più che molte aziende sono già chiuse e del loro passato non rimangono che i ricordi personali, magari delle testimonianze, trascritte su qualche giornale o registrate alla radio o nelle rubriche televisive.

La nostra idea progettuale è che la Casa. della cultura e della sto­ria dei lavoratori spezzini diventi non un mausoleo, ma un luogo di vita dove discutere, confrontarsi, libera. ndosi se occorre da divieti e tabù, formare una coscienza individuale e collettiva del lavoro, affermare la “cultura del lavoro".

Così sono chiamati in causa tutti i segmenti di società organizzati, dai sindacati ai partiti, dagli Enti Locali alle stesse aziende; ma assie­me ai loro archivi e al loro contributo di idee e di proposte non sareb­be sbagliato che la “Casa” raccogliesse fisicamente anche strumenti di lavoro, sino alla cassetta degli attrezzi dell’operaio. Ma sono chiamati in causa soprattutto i protagonisti in carne ed ossa: le lavoratrici e i la­voratori.

Insomma un luogo di vita. di riflessione, di progetto. e perché no di sogni per Il futuro, sulla base di una memoria che non può essere can­cellata e gettata via rimuovendone il valore e i principi

Dobbiamo costruirla in fretta questa “casa”, perché i modelli di vi­ta che i nemici dei lavoratori hanno predisposto, si fanno avanti esuberanti e sicuri della propria forza di attrazione per conquistare grandi masse.

Oggi di fronte all’avanzata impetuosa della cultura del denaro e del nulla, la capacità di resistenza e di offensiva degli sfruttati è debole e frammentata. Non esiste, direbbe Gramsci, “la convinzione ferma, diffusa. Non esiste quella preparazione di lunga mano che dà la prontezza del deliberare in qualsiasi momento, che determina gli accordi immediati. accordi effettivi, profondi che determinano l’azione”. La Casa della cultura e della storia del lavoro dovrebbe ”curare questa preparazione. dovrebbe creare queste convinzioni... Senza aspettare lo stimolo dell’attualità e dell’urgenza, in essa dovrebbe discutersi tutto ciò che interessa o potrà interessare un giorno il movimento proletario”.

 

 

LE SOCIETA’ OPERIE DI MUTUO SOCCORSO: UN’ESPERIENZA DA NON DIMENTICARE

 

Oggi in molti sono convinti che non solo i lavoratori, ma anche dirigenti sindacali di base e confederali fanno fatica a leggere la stessa semplice busta paga. Come è convinzione comune che sono ormai un ricordo lontano le piattaforme per rivendicazioni salariali, per il miglioramento delle condizioni di vita e di salute. Come si organizza uno sciopero, una manifestazione di strada, di posto di lavoro o di reparto: per molti sono problemi distanti anni—luce.

Così è facile dire che oggi non c’è più nulla da fare perché la classe operaia non esiste più o comunque si è piegata; però è anche vero che quando nei primi anni sessanta i socialisti entrarono nel governo di centro—sinistra, Nenni sosteneva che non c’erano più speranze di “conquistare il socialismo” con le lotte, mentre noi giovani sognavamo l’America seguen­do anche la moda delle magliette a stelle e a strisce,

Così io sono convinto che mentre i tempi si fanno sempre più diffici­li, mentre le trasformazioni nell’economia e della società non soltanto cercano di distruggere le conquiste, ma anche le stesse lotte che hanno ottenuto quei risultati, mentre il processo sembra inarrestabile soprattut­to per coloro che subiscono tali scelte. io sono convinto che c’è sempre qualcuno che non ci sta, che vuole riflettere sulle ragioni di quei proces­si storici, e non per trovare giustificazioni, ma perché ha chiara di fron­te a sé l’esigenza di cambiare la realtà, di alzare la testa, di ribellar­si allo sfruttamento e alle ingiustizie.

Può apparire strano, ma è invece questa una delle ragioni che ci ha spinto a progettare questa Casa della cultura operaia, proprio perché in un inizio di secolo dove la globalizzazione ha posto le basi per can­cellare tutto il passato e rendere incontrastato il dominio del capitale, noi non ci stiamo.

      Noi vogliamo creare una ”memoria del presente” se così si può dire, avendo chiara la nostra realtà, guardando tutte le contraddizioni che so­no al suo interno, traendo insegnamento dalle esperienze di uomini e donne, magari analfabeti e senza storia, ma che hanno lottato, hanno sapu­to capire come dovevano affrontare la realtà per cambiarla, e come era necessario organizzarsi per ottenere dei risultati.

Così noi intendiamo offrire un contributo, seppure modesto, per una riflessione su come si sono sviluppate le prime forme organizzative del “movimento operaio” (perché davvero fu “movimento”), su quale è stato il loro significato, quale è stata la consapevolezza che avevano di se stesse, quali sono stati gli strumenti di lotta e le conquiste.

Conquista e anche sconfitte, abbiamo detto, ma non da mettere all’“attaccapanni della storia”, dove i becchini di turno possono appendere il loro vestito, cercando di togliere agli altri, anche la speranza. Per­ché gli uomini e le donne che hanno lottato hanno lasciato a noi, non ai loro e ai nostri nemici, il compito di giudicare, correggere se necessario, ma continuare la lotta.

Sarebbe sbagliato se cominciassimo a parlare di organizzazione del movimento operaio partendo dalle Camere del lavoro, anche se spetta agli storici e ai “tecnici” dare giudizi più approfonditi, perché di fat­to le Società di Mutuo Soccorso sono state “le madri” di tutta la storia delle Camere del Lavoro.

Non possiamo dunque limitarci ad attribuire un ruolo minimale alle Società di Mutuo Soccorso nella nostra realtà provinciale, perché non soltanto si sono estese in tutto il territorio, ma perché sono state deter­minanti, con la creazione di una ”mutualità”, per lo sviluppo dl una coscien­za di classe, per l’affermazione di una “cultura della solidarietà”, non esercitata solo dall’esterno a favore delle classi meno abbienti, ma da queste stesse vissuta e sviluppata. Perché se è vero che i ceti dirigenti delle Società dl Mutuo Soccorso sono all’origine costituiti prevalentemente da nobili e moderati che mettono in minoranza i mazziniani considerati dei sovversivi, con il tempo i gruppi dirigenti sono in molti casi “repub­blicani”, socialisti riformisti o addirittura massimalisti.

La cosa più importante è che le Società di Mutuo soccorso furono una scuola di formazione di una coscienza operaia, la coscienza dei diritti che dovevano essere riconosciuti e conquistati.

La prima Società di Mutuo Soccorso alla Spezia si costituisce di fat­to il 4 aprile 1851, anche se poi la Società comincia ad agire il 10 luglio successivo con il versamento della scuola sociale, ed è significa­tivo che ad appena tre mesi della sua costituzione, la Società operaia fosse invitata ad un incontro organizzato dalla Società Nazionale di Mutuo Soccorso degli Operai di Torino. Si prospettava la possibilità di creare un sistema di cooperazione a largo raggio che potesse garantire l’assistenza agli operai che emigravano da una città all’altra.

Esattamente 150 anni fa nasceva dunque nella nostra città un picco­lo nucleo di 77 persone (nel 52 erano già 114 con 34 contribuenti e 80 in­teressati) che dava vita a un vero e proprio “movimento solidaristico” che si poneva, pur nei limiti di un’“ideologia” moderata“ e di­remmo, “riformista”, di fronte alla “questione sociale”.

Saranno infatti l’assistenza mutualistica, le prime forme di previden­za pensionistica, la costruzione di case popolari, la creazione dl scuo­le “di arti e di mestieri”, l’impegno del tempo libero alcuni degli obiet­tivi sui quali si costruiva il sodalizio degli aderenti alle Società 0peraie.

Spezia era nel 1851. niente altro se non una cittadina di cinquemila abitanti; la sua posizione geografica che confinava con il Regno Sabaudo e gli Stati Centrali ne aveva fatto un centro attivo di at­tività cospiratrice per la conquista di una patria imita indipendente e repubblicana tanto che, come gli storici testimonieranno, numerosi fu­rono i perseguitati politici che trovarono rifugio e ospitalità presso i comitati dei cittadini, da Spezia a Sarzana a Lerici.

Per tutti gli anni ‘50 la Società operaia spezzina, come le altre liguri, visse un’intensa attività solidaristica e al tempo stesso cospirativa all’insegna delle idee risorgimentali, anche se la sua “compromissio­ne” politica mazziniana e garibaldina finirà negli anni ‘60, quando lo schieramento favorevole alla apoliticità delle associazioni operaie fini­rà per prevalere, lasciando al di fuori della Società la tendenza mazziniana rivolta alla cospirazione e al movimento insurrezionale.

Intanto, mentre Spezia raggiungeva nel decennio 61/71 oltre 24 mila abitanti e iniziava la costruzione dell’Arsenale su cento ettari circa di superficie, al finire degli anni ‘60 il dramma della disoccupazione incominciò a colpire molte famiglie spezzine. La Società operaia considerò subito con preoccupazione la carenza di posti di lavoro garantendo il sus­sidio sociale giornaliero a qualunque socio malato o infortunato, un’at­tività previdenziale che assicurava ai lavoratori spezzini iscritti un modesto, ma sicuro sostegno.

Negli anni ‘70 la disoccupazione raggiunse anche alla Spezia livelli drammatici; le azioni di protesta dei lavoratori si facevano sentire, e la società operaia non poté fare a meno di denunciare lo stato di indi­genza dei lavoratori spazzini, con la richiesta di alloggi dignitosi..

E quando nel 1984 la città di Spezia ebbe le prime vittime di un terribi­le colera fu dalle società mutualistiche che si provvide alla costruzione di alloggi popolari.

 Dissensi, dissidi, hanno caratterizzato la vita interna del sodarismo mutualistico, tanto che si giunse persino a insanabili scissioni considerata la inconciliabilità tra orientamenti moderati e ”radicali” che ben presto venne a configurarsi tra i soci.

Il clima intimidatorio dei governi reazionari di fine Ottocento, le pressioni della censura e le azioni di polizia ebbero sicuramente anche un peso determinante nell’involuzione di alcune di esse che si ridussero a pure associazioni caritatevoli.

E se l’inizio del nuovo secolo, con il nuovo clima politico di ri­formismo liberale incoraggia l’estensione dell’associazionismo, delle aggregazioni sociali, delle cooperative, dei patronati, l’esistenza del­le società di mutuo soccorso nel loro pullulare, anche alla Spezia come altrove, dipendeva dalla capacità di trasformare l’impegno civile e so­ciale degli anni precedenti in precisi e puntuali interventi di vasto respiro a favore della classe lavoratrice.

Ma è a questo punto, che tali primitivi ma importanti strumenti di difesa e di rivendicazione operaia, finiscono per intrecciare la lo­ro storia con un nuovo organismo dinamico di sostegno della lotta di clas­se per la conquista dei diritti economici, sociali e civili dei mondo lavoratori: la Camera del Lavoro.

 

L’ ORGANIZZAZIONE DEL MOVIMENTO OPERAIO. LA CAMERA DEL LAVORO E LE LOTTE OPERAIE

NEL PRIMO NOVECENTO

 

Nel marzo del 1901 si costituisce alla Spezia la Camera del Lavoro. La città aveva raggiunto ormai i 65000 abitanti e si era fortemente industrializzata, l’aumento della popolazione era stato parallelo allo sviluppo e all’attività dell’Arsenale e agli impianti che nel golfo spezzi­no prendono corpo dall’industria armiera, cantieristica, siderurgica e meccanica.

Va detto che l’incremento demografico sia nel centro urbano che nel circondano non può che essere attribuito al processo di industrializzazione; una forte affluenza dalla campagna, l’immigrazione dalle regioni limitrofe (ma anche dal Sud, dalla Sardegna e dal Veneto per quanto riguarda il personale militare con le rispettive famiglie)) sono le dina­miche demografiche che più si evidenziano in questi anni.

Se si pensa che l’arsenale occupava circa 5000 lavoratori civili, mentre il personale militare, a terra o a bordo, era costituito da diverse migliaia, se si pensa che alla consistenza dell’industria cantieristica (Muggiano). che trovava il suo spazio tra lo stabilimento militare di San Bartolomeo e la fonderia di Pertusola, se si considera tutta la rete di piccole e medie imprese collegate all’arsenale, come gli altri pic­coli cantieri, o l’industria di cavi elettrici sottomarini nella zona di Pagliari , da tutto questo quadro si ricava già l’idea di come la nostra città sia nata con una forte connotazione industriale—militare.

Del resto anche il “circondano” (la provincia) vedeva lo sviluppo di piccole e medie industrie, da quelle alimentari, a quelle della lavorazione del vetro (vetreria di Sarzana) a quelle chimiche, alla Ceramica Vaccari.

Ma qual’è il dato strutturale che accomuna tutta la grande industria spezzina , e che costituisce l’elemento motore del suo sviluppo co­me poi della sua crisi? Non è altro che il suo stretto legame con le grandi organizzazioni del capitalismo italiano la Fiat, l’Ansaldo, la Pirelli, la Terni, dalle quali lo Stato italiano dipende per le forniture militari di cui ha bisogno. E’ questo un nodo strutturale che va tenuto costantemente presente, se si vuole comprendere la crisi industriale di Spezia dei nostri giorni, per progettare alcune soluzioni.

E come gli studiosi e gli storici confermano, soltanto dalla situazione industriale spezzina derivava lo stretto nesso tra sviluppo economico e spese dello Stato, ma l’amministrazione civile e gli appara­ti militari finivano spesso per interagire.

La costituzione della Camera del lavoro a Spezia si colloca dunque nel quadro di questo imponente sviluppo industriale e in una situazione di fermento, di vivacità e di lotta della classe lavoratrice, che ebbe un momento significativo con le agitazioni e gli scioperi, conseguenti anche a un’ondata di licenziamenti, nella vetreria di Sarzana. Una lot­ta anche esemplare, sia per il suo protrarsi nel tempo, sia per gli obiet­tivi rivendicativi, sia per gli insegnamenti che scaturirono ai fini della ricerca di prospettive unitarie nelle lotte future.

Avrebbe poco senso riassumere in poche pagine, riprendendo, e mala­mente, dai lavoro di vari studiosi la storia del movimento operaio e del­la Camera del Lavoro di Spezia nei primi decenni del ‘900. Ci sembra allo­ra più onesto e più efficace rinviare alla lettura del testo “La Camera del Lavoro della Spezia dal 1901 al 1909” di Silvana Arcara (ed Ediesse, 1993) e al bel libro di Antonio Bianchi “Storia del movimento operaio del­la Spezia e della Lunigiana ( (Editori Riuniti, 1975), di cui ci permettiamo riportare ampi stralci. (dal cap.):

‘4

”… La Camera del Lavoro di La Spezia, intanto, aveva iniziato l’opera di riorganizzazione per raggruppare le numerose leghe cittadine, nell’in­tento di far uscire dal guscio corporativo le società di m.s.. Veniva organizzata una tipografia autonoma della CdL con i fondi dei lavoratori e dal 1902 il sindacato era in grado di far uscire la propria propaganda e anche un giornale: Il Pensiero, …

Il 1903 iniziava con uno sciopero. La CdL e la propaganda dl sinistra avevano incoraggiato gli operai della Pertusola, che erano giunti ad un momento critico. Sin dalla fondazione della fabbrica questi operai avevano lavorato in condizioni particolarmente dure. Dopo lo sciopero del 1890 ed i licenziamenti in massa delle due squadre addette ai forni, i salari erano aumentati a lire 2,50: nel 1887 però, in seguito ad un grosso dissesto finanziario, la fabbrica era stata sul punto di chiudere, con un passivo di 4 milioni. Venivano allora intensificati i ritmi di lavoro e la produzione saliva da 9 a ben 17 tonnellate al giorno. Ciò era stato possibile ancora una volta col sacrificio operaio: ad ogni forno cinque operai si alternavano infatti giorno e notte per tutte le 24 ore. A partire dal 1899, mutata la direzione, la produzione era diminuita e da Londra si deliberava di ridurre il numero degli operai, oppure di imporre ad essi la decurtazione dei salari. Così iniziava lo sciopero, il 30 gennaio 1903. 

La CdL faceva uscire un numero unico " pro scioperanti " e l’iniziativa dei numeri unici in occasione di scioperi sarà poi ripetuta in altre occasioni, devolvendo il ricavato a favore dei lavoratori. La domenica 15 febbraio al Politeama si teneva un comizio e le notizie dello sciopero venivano riportate sull’Avanti! e sul Secolo di Milano. Gli scioperanti chiedevano un rappresentante di Londra per discutere sulle attrezzature, sui sistemi di lavoro e la produttività. La direzione si guardò bene dall’intavolare trattative con i lavoratori, tuttavia gli operai dopo ‘20’ giorni di sciopero rientravano in fabbrica, riuscendo a salvare il livello occupazionale e i salari.

Si era appena chiusa questa vertenza e ne iniziava subito un’altra, ossia la nota e massiccia agitazione degli operai dell’arsenale, che do­veva sconvolgere la vita dell’intera città di La Spezia per un anno intero. Già dal 1901 la CdL, il comitato operaio dell’arsenale e gli operai iscritti alle società di m.s. avevano avanzato rivendicazioni e premevano presso il ministero per la questione delle promozioni e delle carriere, circa la retroattività della pensione per i lavoratori entrati al lavoro prima del 1901 e su altre numerose questioni che riguardavano il lavoro degli arsenali. Il 31 marzo si spargeva la voce in città che, il ministero aveva deciso per il blocco delle promozioni nell’arsenale, seguendo l’abituale metodo discriminatorio e non tenendo conto delle richieste operaie. Un vivo malcontento serpeggiava in tutti gli arsenalot­ti e la mattina del 31 una commissione era ricevuta dal vice direttore, senza però nulla ottenere. Nel pomeriggio la campana posta all’ingresso dell’arsenale doveva suonare per ben tre volte la ripresa del lavoro agli operai che, a gruppi, rientravano di malavoglia, mentre spontaneamente in molti reparti si iniziava l’ostruzionismo col rifiuto di lavorare. All’uscita gli operai trovarono una circolare sui portoni d’ingresso con l’ordine di chiusura dell’arsenale. Le autorità erano decise a dare una lezione col gesto di forza della serrata. La sera stessa i rappresentanti operai, di concerto con la CdL, in una tumultuosa riunione all’Unione fraterna decidevano per lo sciopero. Il mattino successivo, 1° aprile, una immensa folla si radunava per un comizio a porta Rocca; venivano distribuiti volantini ai circa 6.000 operai presenti, che, malgrado la sospensione dei treni del mattino, decisa dalle autorità, avvertiti dalle associazioni, erano affluiti dal circondano con ogni mezzo.

Era una prima grande manifestazione di massa e nello stesso tempo una inattesa prova della forza della classe operaia spezzina. L’operaio Pasquale Binazzi, anarchico autodidatta, informava l’assemblea, tra urla di indignazione, che le autorità rifiutavano di trattare sui punti rivendicati dai lavoratori: promozioni senza distinzioni di classi, retroattività delle pensioni per i pensionati prima del 1901, diritto di anzianità per prestazione del servizio militare. Nei giorni successivi le assemblee si susseguirono con la stessa partecipazione, mentre l’on. De Nobili veniva attaccato nei comizi come complice del ministero; il declino del suo partito personale si può affermare iniziasse da quel momento. Si spezzavano insomma i vecchi legami clientelistici con le società di m.s. e i dirigenti trasformisti perdevano prestigio presso l’elettorato operaio. La CdL, i socialisti, i repubblicani e gli anarchici appoggiavano la lotta degli arsenalotti, isolando i pochi crumiri che si recavano aI lavoro.

Di fronte alla decisione e all’unità operaia, dopo cinque giorni di sciopero completo, il governo, tramite il sindaco di La Spezia, si impegnava con la commissione operaia a migliorare le condizioni degli arsenalotti, allora pagati con salari che andavano da 1,30 a 2,25 lire al giorno (contro le 64 lire al giorno di un ammiraglio!) La classe operaia di La Spezia aveva ottenuto una prima vittoria malgrado le difficoltà della lotta; infatti la stampa borghese, per isolare la sinistra, sosteneva che questa era responsabile dei mancati aumenti perché con­traria alle spese militari; a questi avevano risposto i socialisti, afferman­do che la loro politica non mirava a far mancare i finanziamenti e chiudere gli arsenali, ma a fare di questi dei cantieri marittimi per sviluppare i traffici commerciali e aumentare l’occupazione.

Verso la fine dei 1903 riprendeva intanto l’agitazione degli ar­senalotti, spinti dalla grave situazione economica a rivendicazioni salariali. La CdL di La Spezia (negli anni 1903-1904, unica, con quella di Ancona, diretta dagli anarco-sindacalisti) spingeva, per una radicalizzazione della lotta, chiedendo tra l’altro l’eliminazione del lavoro festivo. Le autorità militari, appoggiate dal governo, usavano la maniera forte. Mentre gli arsenalotti erano in sciopero, ai primi di marzo 1904, la direzione dell’arsenale Licenziava in blocco ben 782 operai. Un cen­tinaio di essi saranno poi definitivamente espulsi dal lavoro e denunciati ,.

 

Il primo sciopero generaIe nella storia d’Italia si verificò nel settembre 1904. lI giorno 4 si spargeva In tutto il paese la notizia del nuovo eccidio avvenuto a Buggerru, in Sardegna, il giorno prima…‘

A La Spezia il sabato 17 si riuniva d’urgenza il comitato pro vittime politiche, composto da anarchici, socialisti, repubblicani e radicali, che indiceva Io sciopero generale. La mattina della domenica 18, un’accalorata manifestazione si svolgeva al Politeama di fronte a 2.000 persone, alla presenza dei dirigenti politici cittadini, Binazzi, Angelo Sommovlgo, repubblicano, l’avv. Formentini, Binazzi, con un altro anarchico, Giovanni Gavilli, fiorentino, intervenivano, incitando gli operai a scendere In piazza per "‘distruggere il capitale ". Anche gli operai dell’arsenale aderivano allo sciopero e in città avvenivano incidenti con i dimostranti che davano l’assalto alle vetture dei tram. Il giorno dopo tutte le fabbriche erano ferme e solo una parte degli arsenaIotti entrava al lavoro, mentre i tram non circolavano, e picchetti di dimostranti si trovavano nella zone industriale; davanti alle porte dell’arsenale era fatta schierare una compagnia di artiglieri che fronteggiava i dimostranti. Lo sciopero era totale; alla Pertusola erano fermi 400 operai; fermi il cantiere Ansaldo e il Pirelli, dove lo sciopero proseguì anche il martedì. I manifesti del generale Mayo erano stati stracciati, mentre i negozi cori le saracinesche abbassate portavano cartelli con su scritto “chiuso per lutto proletario” e “ abbasso il in ministero per infrazione alla legge ". Un ordine del giorno di protesta era infine emesso dal comitato delle sinistre, in cui si deplorava i! silenzio dell’amministra­zione comunale, che aveva rifiutato di associarsi al lutto proclamato dai lavoratori.

Anche nel circondario lo sciopero era stato totale;. a Sarzana, il giorno 18, il palazzo civico era presidiato dalla truppa, mentre un folto gruppo di dimostranti protestava chiedendo che fosse apposto il lutto al tricolore esposto in occasione della nascita del principe Umberto; anche le fornaci Fillppi di Castelnovo erano ferme. Ad Arcola il sindaco democratico, Ghilardoni, faceva esporre la bandiera a mezz’asta è portava alla CdL l’adesione del Comune allo sciopero generale facendo affiggere un manifesto di solidarietà con i lavoratori di Muggiano e Pertusola. Era un fatto nuovo nella storia del circondario; alcune assemblee elettive degli enti locali soste­nute dalle popolazioni; ribaltavano il concetto clientelare liberale e, In modo autonomo, assieme alle altre organizzazioni di massa democra­tiche, scendevano in appoggio ad una battaglia in difesa della democrazia …

…Ai primi di luglio del 1903, un’altra importante lotta sindacale attendeva alla prova la classe operaia spezzina. Da parecchi mesi gli operai del cantiere navale di Muggiano reclamavano aumenti salariali, appoggiati dalla CdL, mentre la direzione ignorava volutamente la richiesta. La mattina del 6 luglio i manovali del cantiere, che percepi­vano I salari più bassi e svolgevano i lavori più gravosi, come quelli di scaldare i chiodi e ribattere e trasportare le lamiere, entravano in i sciopero, trascinando tutti i 1.300 operai del cantiere. Quali rivendica­zioni avanzavano gli operai? Essi reclamavano la consegna dei libretti prescritti dalla legge sugli infortuni sul lavoro, una razionale costruzione del ponti di sicurezza, la suddivisione dei. cottimi, la possibilità di poter bere, durante il lavoro, dell’acqua che fosse potabile e un aumento   di 23 cent. al giorno sul salario medio di lire 3. Si chiedeva inoltre, per i garzoni, un aumento di lire 0,10 all’ora per quelli dai 14 ai 16 anni e di lire 0,13 per quelli dai 16 ai 18; infine si chiedeva un orario dl lavoro non superiore alle 10 ore. Il tipo delle richieste dice già di per se stesso quali fossero le condizioni degli operai navalmeccanici, al primi del secolo, quando il lavoro minorile e le 10 ore giorna­liere appena retribuite erano la normalità di ogni cantiere.

La risposta del direttore del cantiere, ing. .Mainara, era la proclamazione della serrata per tre giorni, e poiché i lavoratori reagivano compatti con lo sciopero, la serrata veniva prolungata sino ai 24 luglio, con l’avvertimento che chi non si fosse presentato al lavoro per quella data doveva considerarsi licenziato. Per tutta risposta il luned[ 24, alla riapertura dei cantiere, fatto presidiare dalla truppa, si presentavano al lavoro soltanto 42 operai su 1.300, mentre gli scioperanti si riunivano all’Unione fraterna.

Di fronte alla resistenza operaia l’ultimatum della direzione veniva portato al 31 luglio. Si sviluppava allora in tutto il circondano una gara dl solidarietà proletaria attorno alla lotta degli operai del Muggia­no; la CdL apriva una sottoscrizione, così i vetrai di Sarzana e gli arsenalotti, venivano pubblicati numeri unici pro scioperanti, mentre l’on. Todeschini del PSI presenziava ad un comizio di 4.000 persone al Politeama. Da ogni lega operaia del circondano venivano versati fondi di resistenza, che provocavano l’irritata reazione delle classi “dir­ingentI”.

Ma dietro il livore padronale si celava l’ansia di riprendere le costruzioni del bastimenti in ferro fermi sugli scali in un momento di trasformazione della marina mercanzie dai bastimenti in legno agli scafi in ferro. Gli azionisti del cantiere facevano muovete l’ammini­strazione De Nobili, che mai era intervenuta nelle lotte per il lavoro; si formava quindi una commissione operaia, che con la mediazione dei sindaco e del sottoprefetto Oliva si incontrava con la direzione, Alcune rivendicazioni erano accolte, con il patto che tutti gli operai sarebbero stati riammessi al lavoro. Lo sciopero termInava così dopo ben 40 giorni di lotta, affrontati nelle condizioni più difficili, ma anche col valido sostegno dei lavoratori e delle popolazioni dl tutto il circondario, che avevano permesso di sostenere una lotta tanto dura e pro­lungata...

Era intanto scoppiata la guerra di Libia a La Spezia la festa del Primo maggio si trasformava in una spontanea manifestazione contro la guerra; senza che il PSI avesse fatto gran che per mobilitare le masse. 4.000 persone circa con 30 ban­diere sfilavano in città, arringate dal segretario della sezione socialista di Sarzana, Ciotti, e dal’avv. Giovanni Miceli, repubblicano che avevano gia assunto una posizione decisa sulla aggressione alla Libia. Nella sezione so­cialista di La Spezia il silenzio ufficiale del partito provocava vivaci rea­zioni da parte dei giovani socialisti Arturo Paita e Agostino Bronzi, che polemizzavano con i dirigenti riformisti, a loro volta attaccati duramente anche sul foglio degli anarchici. La guerra coloniale insomma metteva in movimento tutta la situazione politica generale, faceva scoppiare le contraddizioni all’interno del PSI attorno ai grandi temi dell’inter­nazionalismo proletario e dell’imperialismo. Al congresso di Reggio Emilia la sezione socialista spezzina aveva una impennata e i delegati votavano l’ordine del giorno degli intransigenti sulla questione della guerra coloniale, mentre il foglio socialista chiedeva il ritorno all’in­transigenza per far uscire il partito dalla crisi, dichiarando che era incompatibile con i principi e le finalità socialiste la presenza nel partito di coloro che accettavano la partecipazione dei socialisti dl potere in regime borghese. Ma intanto a La Spezia il PSI continuava nella colla­borazione con i democratici costituzionali, Favorevoli alla guerra, addu­cendo la necessità di impedire il ritorno del gruppo denobiliano sulla scena politica...”

 

 

IL MOVIMENTO OPERAIO NELLA LOTTA ANTIFASCISTA

E NELLA RESISTENZA

 

All‘indomani della prima guerra mondiale esisteva nella nostra provin­cia un forte movimento operaio, organizzato sindacalmente e aderente per la maggior parte al Partito Socialista, anche se forte era nella classe lavoratrice l’influenza degli anarchici che disponevano di organizzazioni politiche e sindacali.

Era un movimento operaio molto politicizzato. se si pensa che il settimanale del Partito Socialista “La Libera Parola”. stampato a Sarzana veniva diffuso non soltanto nella Vallata del Magra, ma anche alla Spezia, con alte percentuali dì vendita in Arsenale, al Cantiere di Muggiano e nello stabilimento Vichers Terni, dove si fabbricavano cannoni.

E così nel primo dopoguerra la nostra città assistette a forti agitazioni e manifestazioni contro il “carovita” nelle quali l’esasperazio­ne popolare si esprimeva qualche volta in maniera incontrollata con inva­sioni e saccheggi di negozi; sotto il peso della disoccupazione e delle sempre più difficili condizioni economiche, la classe operaia andava radicalizzando le proprie lotte, mentre le classi dominanti rispondevano con le più brutali repressioni.

Non si comprenderebbe lo straordinario contributo che il movimento dei lavoratori spezzino ha dato alla lotta di liberazione se non si rivolgesse l’attenzione a quel “tirocinio” che furono le agitazioni, gli scioperi1 le lotte di fabbrica e di piazza - negli anni immediatamènte precedenti all’avvento del fascismo - e all’attività clandestina, che sfo­ciò talora in aperta opposizione anche nel periodo più duro del regime fa­scista.

Indimenticabili restano le giornate di occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920, quando in ogni fabbrica gli operai inalberavano le bandiere rosse, tanto che avevano “contagiato” persino i marinai della caserma Duca degli Abruzzi, i quali tennero issata per parecchi giorni la bandiera rossa, senza che i loro superiori potessero reagire.

Il 21 luglio del l921 è una data simbolica per il movimento di oppo­sizione all’avvento del fascismo: i noti “fatti di Sarzana” appena pre­ceduti da uno scontro tra squadristi e militanti delle organizzazioni ope­raie. Lavoratori, Arditi del popolo, un’intera popolazione cacciò i fascisti giunti da tutta la Toscana per mettere in ginocchio “la città perdu­ta”. E fu proprio per la unanime reazione popolare che le forze dell’ordi­ne furono costrette a sparare sui fascisti attaccanti che lasciarono sul terreno una ventina di morti.

Per chi non si vergogna della propria storia e delle radici Ideali della propria militanza politica non.può che essere motivo di orgoglio e al tempo stesso dì riflessione il fatto che il Partito comunista sorto nel ‘21 avesse subito acquisito una grande influenza nelle fabbriche del­la città. Il partito continuerà clandestinamente la lotta anche dopo le leggi eccezionali e negli anni del regime. La Spezia sarà uno dei centri antifascisti più attivi.

Basta pensare che nel 1931 scioperarono i lavoratori della filanda della Montecatini e quelli dello stabilimento OTO—Melara. Un rapporto dell’Ovra descrive l’organizzazione antifascista clandestina nello spezzino come una”macchina” molto efficiente, divisa in zone e settori, con a capo alcuni operai delle fabbriche, responsabili di vari compiti delicati come ad esempio la stampa clandestina mensile e quindicinale de “L’Unità”, l’“Avanguardia”, “Il Proletario”, organo della Federazione Comu­nista.

La stampa veniva distribuita al Reale Arsenale Marittimo, come allo­ra era definito, ai Cantieri Riuniti Odero Terni Orlando, allo stabilimen­to Fiat, come in altre aziende minori della cit­tà e della provincia.

Di qui poi gli arresti che le polizia operò sul gruppo dirigente spez­zino “risulta evidente — testimonia Arturo Colombi —anche lui arrestato assieme ai suoi compagni — che la causa prima degli arresti deve ricercarsi nell’attività, nel fatto che il Partito era presente e operante in grandi fabbriche, come l’Arsenale, l‘Odero Terni, la Cerpelli. ed era riu­scito a provocare un’intensa agitazione di rivendicazioni sentite dalle masse e contro la prepotenza dei fascisti”.

Il  1943 si apre anche per la nostra città all’insegna dei bombardamenti, con gli aerei alleati che puntano il fuoco sull’Arsenale, le navi del golfo e i cantieri navali. I bombardamenti si ripetono, con nu­merose vittime in città ed è in questo clima che, nonostante la censura di guerra, compaiono sui muri le scritte contro il Duce e contro il fascismo e inneggianti alla Russia mentre in fabbrica si organizza l’ascolto delle radio clandestine e viene impostata la lotta politica.

Nel luglio 1943 alla notizia dello sbarco alleato in Sicilia, nelle grandi fabbriche spezzine i comunisti tengono assemblee ai lavoratori, mentre si fanno apertamente sentire le voci degli operai contro i cottimi, il lavoro notturno, il vitto scadente. Insomma il 25 luglio del ‘43 trova nella nostra provincia una già compatta unità antifascista1 con alla testa la classe lavoratrice e il partito comunista.

Ed è proprio all’indomani della caduta di Mussolini che si svolge la grande manifestazione del 29 luglio. Dalle fabbriche affluiscono a migliaia gli operai, dalla città arriva la popolazione che non era sfollata a cau­sa dei bombardamenti. L’esultanza popolare è grandissima, il corteo percor­re la città senza temere la repressione che fa già le prime vittime, fino ad arrivare sul Viale Regina Margherita dove i manife­stanti tentano di penetrare nella caserma dove era acquartierata la mili­zia fascista, i militi fanno fuoco dal tetto.

Tra le persone cadute, è colpita a morte la giovane comunista Lina Frattoni, operaia delle officine Motosi, che stava sventolando il tricolore alla testa del corteo. La sua figura diventava il simbolo di una lotta operaia che non fu messa mai a tacere anche nei momenti più duri,quando i nazifascisti pongono sotto controllo militare le grandi fab­briche impegnate nella produzione bellica.

All’OTO Melara, all’Ansaldo, alla Termomeccanica, allo Iutificio Montecatini i tedeschi hanno posto infatti un dispositivo di controllo per impedire ogni agitazione. In un quadro così triste, aggravato dalle condizioni alimentari della popolazione estremamente dure, le notizie del­le agitazioni in corso nel triangolo industriale non fanno che rafforzare la volontà di lotta dei lavoratori.

 

Tanto che nel gennaio ‘44, mentre veniva diffuso tra gli operai un appello clandestino del PCI e quello della tipografia clandestina del CLN, le tre grandi fabbriche Ansaldo, Termomeccanica e Melara riuscirono a fermarsi. Uno sciopero che terminava con un successo della classe operaia spezzina: non soltanto aveva dato un colpo alla produzione bellica, ma oltre agli obiettivi economici, aveva realizzato quello stabi­lito dal comitato di agitazione interregionale, che prevedeva la mobilitazione della classe lavoratrice fino alla proclamazione dello sciopero ge­nerale di tutto il Nord.

Così la mattina del 1° marzo tutto è pronto per lo sciopero. Nelle grandi fabbriche come nelle piccole aziende i lavoratori incrociano le braccia, nonostante le intimidazioni, i ricatti, i mitra spianati dei tedeschi. Lo sciopero si rivela imponente, continua compatto in tutti gli stabilimenti, nonostante gli arresti e la repressione che aveva fatto le sue vittime.

E ci sembra importante riportare un comunicato, uscito dalla tipografia clandestina di Lerici, in cui si diceva:

 

La lotta non è cessata! La lotta per il pane, per la libertà e l’indipendenza del nostro paese, continua! Mentre in altri centri si lotta e si resiste ancora, sappiano i nemici che non abbiamo rinunciato alle nostre rivendicazioni, alle quali aggiungiamo, oggi, la scarcerazione immediata degli operai arrestati durante lo sciopero.

Lavoratori tutti!

Il nemico ha ricevuto un duro colpo! I lavoratori italiani hanno incrociato le braccia malgrado il terrore nazifascista. Lo sciopero generale è stato un‘affermazione e una vittoria dei lavoratori italiani, degni di essere l’avan­guardia nella lotta per la liberazione e l’indipendenza del proprio paese. La classe lavoratrice ha dimostrato di possedere una forza e un’organizza­zione; mentre, incrociando le braccia, migliaia e migliaia di giornate lavo­rative sono andate perdute per l’occupante nazista: né armi né munizioni, né mezzi bellici, tanto necessari all’invasore che all’est vacilla sotto i colpi dell’Armata rossa, sono stati prodotti.

Lavoratori!

Per la realizzazione delle nostre rivendicazioni stringiamoci sempre più com­patti attorno ai nostri comitati d’agitazione dl officina; eliminiamo le deficienze riscontrate; miglioriamo i nostri metodi e forme di lotta; prepariamo meglio la resistenza e l’offesa al nemico; manteniamo e realizziamo attorno a noi la solidarietà di tutti i lavoratori. Formiamo un unico blocco senza defezione e incertezze e questa sarà la via che ci condurrà alla vittoria; alla fine delle nostre sofferenze, alla liberazione e all’indipendenza del nostro paese.

 

Ed è da questo momento che migliaia di lavoratori e di giovani en­treranno nella Resistenza che, organizzandosi in distaccamenti e brigate, si stava estendendo e intensificando. Così la guerra partigiana vedrà an­che alla Spezia quotidiani episodi di grande sacrificio ed eroismo e bat­taglie indimenticabili.

Una sintesi di ciò che è stato il movimento di lotta partigiana nel nostro territorio non darebbe neppure lontanamente l’immagine di quella sto­ria memorabile. Noi non facciamo né nomi di luoghi né nomi di persone, perché sarebbe grave e ingiusto dimenticarcene qualcuno.

Protagonista principale della lotta partigiana è stata la classe operaia e il contributo maggiore assieme a tutte le altre forze democrati­che è stato dato dal Partito Comunista. Questo va detto, perché questa è la verità.

Se forniamo alcune cifre non è per amore dei numeri, ma per dare un elemento di riflessione: accanto alla classe lavoratrice 3.400 sono stati i partigiani combattenti; i partigiani caduti in provincia sono stati 509, i mutilati 417; 257 i caduti nei campi di sterminio nazisti e alcune decine morti nei campi di lavoro in Germania. I caduti nella provincia sono stati in totale 835.

Per la lotta di Liberazione 9 sono state le medaglie d’oro alla me­moria di partigiani della provincia caduti combattendo, otto le medaglie d’argento assegnate a partigiani allora viventi. La recente consegna del­la medaglia d’oro alla Provincia di La Spezia, l’impegno, mai venuto meno, dell’ANPI sono la prova che la memoria non è andata perduta.

 

 

Eppure oggi i valori dell’antifascismo e della Resistenza hanno biso­gno di una grande difesa collettiva. Mentre anche nel nostro Paese stan­no tornando con virulenza sulla scena ideologie e politiche apertamente reazionarie e mentre correnti storiche revisioniste cercano di cancella­re dalla memoria e dalla coscienza persino la mostruosità del nazifascismo, mentre ora qualcuno cerca di dare una rilettura della Resistenza e del fascismo come  scontro e resa di conti tra gruppi contrapposti, e i partigiani sono messi sullo stesso piano dei repubblichini di Salò, ebbene oggi non basta la denuncia, non è sufficiente la condanna, oggi occorre l’iniziativa e la lotta. Il compito dei demo­cratici non è solo quello di difendere e ristabilire la verità del passa­to, ma anche quello di affrontare la sfida del presente.

 

 

RECUPERARE TUTTA LA STAMPA DEI LAVORATORI

 

Il convegno nazionale della stampa dei lavoratori svoltosi a Milano il 12/13 dicembre del 1954, testimonia che anche nella nostra provincia si sono sviluppati i giornali dei lavoratori nei vari settori produttivi, tanto da essere un grande fatto di politica e di cultura che compie il suo ingresso ufficiale nei quadri del giornalismo democratico,

Noi non elencheremo questi giornali, che furono tanti, ebbero vita più o meno lunga e una “veste” più o meno accurata; non lo facciamo anche per il ti­more di dimenticarcene qualcuno. E’ certo che essi si intitolavano a temi cari ai lavoratori: le condizioni della classe operaia, la democrazia, la lotta.

I giornali di fabbrica hanno una gloriosa tradizione. Essi sono nati e si sono sviluppati spontaneamente, nei luoghi di lavoro, sotto il fascismo, come fogli clande­stini animatori delle dure lotte politiche, sociali e sin­dacali contro l’oppressione e la tirannide fascista. Dopo la Liberazione, i giornali sorti nei luoghi di lavoro sono divenuti lo strumento della lotta unitaria degli operai, degli impiegati e dei tecnici, per la difesa e l’applica­zione della Costituzione Repubblicana, per lo sviluppo in­dustriale e agricolo del paese, per l’attuazione delle ri­forme sociali, per il progresso economico e civile, per il rispetto dell’indipendenza nazionale, per la pace.

I giornali di fabbrica infatti, muovendo dalle lotte per la difesa dei particolari e immediati interessi economici dei lavoratori, delle loro rivendicazioni professionali, con­trattuali, salariali e sindacali, della libertà e dei diritti dei lavoratori, sia come tali, sia come cittadini, hanno via via arricchito ed esteso la loro funzione e il loro campo di intervento affrontando e dibattendo problemi di interesse più generale, chiedendo e prospettando per essi quelle soluzioni che, come afferma la Costituzione, devono imprimere un indirizzo nuovo di politica econo­mica e realizzare le necessarie trasformazioni ed inno­vazioni del sistema sociale italiano.

I giornali dl fabbrica si presentano di fronte al mo­vimento operaio, al padronato e alla nazione come una nuova istituzione, unitaria e permanente, che vive nelle imprese private e pubbliche, presente accanto agli altri organismi unitari e tradizionali dei lavoratori, consoli­datasi e rinnovatasi nel clima di unità nazionale e pa­triottica creato dalla lotta antifascista della Resistenza, dall’opera concorde di tutte le forze che hanno ridato al­l’Italia la libertà, la democrazia e l’indipendenza nazionale,

I giornali dei lavoratori hanno testimoniato e testimoniano l’alto livello di maturità e di coscienza nazio­nale dei lavoratori perché non hanno mai limitato la loro azione per contribuire a risolvere i problemi presenti al­l’interno della fabbrica, dell’ufficio o dell’azienda, ma si sono resi interpreti delle aspirazioni e delle esigenze del­la popolazione e di tutti gli strati interessati alla vita e allo sviluppo dei fattori di produzione. Allo stesso modo I giornali del lavoratori sono stati promotori dell’unità e dell’alleanza degli operai e dei contadini, dei ceti me­di e degli altri strati popolari, e assertori della solidarietà tra lavoratori occupati e disoccupati.

Per queste ragioni i giornali di fabbrica sono diventati organi indispensabili e insostituibili per i lavoratori: per la condotta di ogni azione sindacale, sociale e politica all’interno dei luoghi di la­voro; per la difesa della integrità fisica e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro; per combattere e arrestare la politica smobilitatrice delle attrezzature industriali; per aumentare l’occupa­zione, stimolare la produzione, elevare i consumi e promuovere il pro­gresso civile, economico e sociale del Paese.

La Costituzione italiana riconosce ai lavoratori il diritto di colla­borare e di intervenire nella gestione delle aziende; ed è alla Costituzio­ne che si richiama con forza il Convegno dei giornali dei lavoratori, quando afferma che uno dei modi per realizzare questi diritti consiste nella critica svolta dai giornali di fabbrica nella conduzione delle imprese e nell’indicazione delle soluzioni migliori nell’interesse delle imprese stesse e dell’economia del Paese. Ed è così che l’assemblea dei giornali di fabbrica rinnova l’appello a tutti i lavoratori di tutte le categorie al di sopra di ogni tendenza ideologica e appartenenza ad organizzazioni sindacali e politiche, perché si realiz­zi in tutto il territorio nazionale la parola d’ordine “in ogni luogo di lavoro, in ogni azienda privata o pubblica, un giornale unitario di tutti i lavoratori”.

Il    Convegno nazionale della stampa dei lavoratori, esaminando il proble­ma delle libertà democratiche all’interno delle aziende, non può che con­statare un vero e proprio regime di oppressione contro l’esercizio delle libertà democratiche e dei diritti civili dei lavoratori, e gli ostacoli frapposti alla libertà di circolazione dei giornali democratici all’inter­no delle aziende e alla diffusione dei giornali aziendali scritti dai lavoratori.

Oggi i giornali di fabbrica non esistono più, ma si potrebbero usare le parole di quel Convegno per dire come la circolazione della stam­pa “alternativa” locale o nazionale, sia di fatto impossibile nelle azien­de. O come gli stessi redattori, collaboratori della stampa cittadina siano, se va bene, sottoposti a pressioni dai proprietari delle aziende e dai loro rappresentanti per dare un orientamento e creare un clima poli­tico e culturale di un certo tipo.

E’ davvero interessante notare come il Convegno della Stampa dei lavoratori ricorda che in base alla Costituzione tutti I cittadini, e quindi anche i lavoratori all’interno delle aziende e delle fattorie, hanno il pieno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola e con lo scritto. A quegli imprenditori che vogliono arrogarsi il diritto di censu­ra sui giornali di fabbrica e accampano la pretesa della necessità di una preventiva autorizzazione delle direzio­ni aziendali perché possano entrare nello stabilimento i giornali dei lavoratori adducendo il motivo che la fab­brica è “proprietà privata”, il Convegno risponde con l’art. 2 della Costituzione che suona: “La Repubblica ri­conosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e con l’art. 41 che dice: “L’iniziativa econo­mica privata…, non può svolgersi in contrasto con L’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

E mentre INVITA la Federazione della Stampa e tutti i giornalisti pro­fessionisti ad unirsi con tutti i lavoratori nella difesa del­l’indivisibile principio della libertà dl stampa (e a stu­diare le forme dl una tutela specifica da parte delle Associazioni della Stampa dei giornalisti operai), vengono chiamati TUTTI I LAVORATORI a sostenere sui giornali dl fabbrica, e sulla stampa quotidiana la proposta dl legge che poi verrà presentata dall’On. Di Vittorio per garantire ai lavoratori il libero esercizio dei diritti civili all’interno delle aziende:

 

- ad intensificare la lotta unitaria affinché in tutti i luoghi di lavoro siano rispettate la libertà di stampa e tutte le altre libertà costituzionali, obiettivo e interesse comune a tutti i Sindacati e a tutti gli organismi rappre­sentativi delle maestranze all’interno delle aziende;

- a resistere sempre più tenacemente e sempre più uniti contro i soprusi e le intimidazionI padronali a danno del redattori e dei diffusori dei giornali dei lavoratori, per Imporre il rispetto della Costituzione, delle leggi ordi­narie vigenti e degli accordi sindacali.

Certamente la pubblicazione dei giornali scritti e diretti da operai e lavoratori che su di essi discutono i problemi della produzione e della vita nelle fabbriche, sono un fatto cultura di grande importanza.

Le proposte che i lavoratori avanzano attraverso i loro giornali per un rinnovamento del sistema sociale Italiano, la denun­cia delle condizioni di arretratezza della nostra economia e le indicazioni dl misure e di azioni da condurre sia in sede aziendale sia in sede nazionale per lo sviluppo economico e civile del Paese sono indice eloquente dello alto grado di coscienza civile della classe operaia e dei lavoratori italiani.

Attraverso l’elaborazione di nuove po­sizioni di progresso hanno dimostrato una capacità culturale e una maturità politica che davano loro pieno diritto di partecipare alla direzione dl tutta la vita della Nazione, per difenderne e svilupparne le istituzioni de­mocratiche, per avviarla sulla strada di un maggiore be­nessere, nella libertà e nella pace.

Un esame particolare del contenuto dei giornali di fabbrica ha mostrato quale grande funzione essi svolgessero per la diffusione della cultura fra larghi strati della po­polazione. Il modo in cui venivano discussi i problemi dell’organizzazione della cultura e della sua diffusione, lo spazio dato alla recensione di libri, alla critica teatrale e cinematografica, alle arti figurative, alla divulgazione scientifica e tecnica, all’informazione sulle condizioni dl vita e sui successi raggiunti dai lavoratori degli altri paesi, nonché la partecipazione di tutti i lavoratori della fabbrica alla discussione dl questi problemi dimostrata da dibattiti e referendum, indicano come il giornale dl azienda potesse continuamente svilupparsi come fon­damentale veicolo dl diffusione culturale, come efficace strumento di lotta per una cultura nuova.

Grande interesse hanno le iniziative prese da alcuni giornali di fabbrica .che hanno invitato a collaborare alle loro pagine uomini di cultura, artisti, e con essi hanno discusso e avviato un dibattito utile al rinnovamento e allo sviluppo di tutta la cultura nazionale.

Ed ancora negli anni sessanta numerose sono state le iniziative di quei giornali che oltre alla stampa hanno curato l’organizzazione di mostre, biblioteche, circoli, hanno promosso manifestazioni, conferenze, dibattiti.

Gli anni sessanta sono anche quelli in cui sempre più profonda si faceva la discussione nella classe lavoratrice dei problemi della pro­duzione aziendale, del rinnovamento della struttura economica del Paese, dell’organizzazione complessiva della cultura, del rapporto tra scuola e lavoro.

E se oggi risulta difficile per sino fare un’inchiesta sulle condizio­ni di vita e di lavoro, in quegli anni si estendeva e si approfondiva tra i lavoratori il dibattito su qualsiasi questione che riguardava l’orien­tamento politico e ideale nel Paese, come la vita e la storia della fabbrica, i problemi del lavoro e della produzione.

Così la classe lavoratrice aveva saputo “tenere aperti i cancelli” agli uomini di cultura, ai giornalisti, agli artisti agli scienziati, ri­cercando — e reciprocamente — un terreno di incontro e di dibattito con il mondo fuori della fabbrica, fonte di esperienze e preziose indicazioni per il rinnovamento complessivo del Paese.

Era come se fossero state profondamente vissute le parole che Di Vit­torio aveva pronunciato a quel primo Convegno Nazionale della Stampa dei lavoratori.

Il discorso di Di Vittorio

 

" La funzione della stampa operaia è altissima, sia ai fini educativi che essa persegue attraverso il dibatti­to dei problemi sindacali ed economici dell’azienda, del­la fabbrica, dell’ufficio, sia per il controllo democratico che attraverso di essa i lavoratori esercitano sulle di­rezioni e sulla loro politica sociale, sia soprattutto perché essi sono uno strumento insostituibile per rafforzare l’unità di tutti i lavoratori che vivono e lottano all’in­terno dei luoghi di lavoro.

Questo Convegno è quindi di un’importanza che non esitiamo a definire storica, non solo perché è la prima volta che un evento di questo genere si produce nella vita del movimento operaio e sindacale italiano, ma an­che perché la relazione e gli interventi hanno dato an­cora una volto la dimostrazione che la classe operaia e i lavoratori svolgono un ruolo dirigente nella vita della nazione, perché nell’impostare e nel dibattere le que­stioni sindacali, professionali, particolari dell’azienda do­ve lavorano, nel proporre le misure e nell’avanzare le rIvendicazioni per risolverli, si fanno iniziatori e pro­motori del progresso generale di tutta l’economia del Paese, di tutta la società italiana.

E’ quindi per il bene della nazione che noi esigiamo la più ampia libertà di stampa, di circolazione e di dif­fusione dei giornali del lavoratori all’interno delle a­ziende, perché con l’attività che essi hanno svolto durante le dure lotte che le masse lavoratrici italiane hanno sostenuto durante questi ultimi anni per difendere e per sviluppare l’economia nazionale, essi hanno giocato un ruolo importantissimo nella battaglia fra le forze di progresso e le forze reazionarie, per il rispetto e l’applica­zione della Costituzione Repubblicana, per la difesa e lo sviluppo delle nostre istituzioni democratiche.

Funzione quindi di civiltà1 e perciò stesso di cultura, quella che assolvono i giornali dl fabbrica. Per fare sem­pre meglio ciò, essi debbono rafforzare il loro carattere unitario, bandire ogni settarismo, perché il settarismo è esso stesso un indice di arretratezza, di incultura, di Inciviltà politica.

Si sviluppi, si estenda e si rafforzi, dunque, il movimento dei giornali di fabbrica, divenga sempre più un potente alleato di tutta la stampa democratica, quoti­diana e periodica, della stampa dei sindacati e delle Ca­mere del Lavoro; illustri, sostenga e porti avanti le lot­te che nel Parlamento e nel Paese la CGIL, Insieme agli altri sindacati, e tutte le formazioni politiche che vo­gliono l’emancipazione dei lavoratori, conducono per il rispetto dei diritti e le libertà dei lavoratori.

Sono quindi orgoglioso dl annunciare qui — ha termi­nato Di Vittorio — la presentazioni di un disegno di leg­ge che sancisca le garanzie mediante le quali si devono tutelare e proteggere i diritti di libertà del lavoratore all’interno dell’azienda ".

 

LE LOTTE OPERAIE A LA SPEZIA NEL ’68 – ‘69

 

Il biennio ’68 – ’69, che anche nelle fabbriche spezzine apre il grande ciclo di lotte operaie che attraversa tutti gli anni ’70, non esplode all’improvviso, ma è piuttosto il risultato di un percorso di accumulazione di forze e di esperienze che segna le grandi fabbriche nel corso di tutti gli anni ’60.

La repressione antioperaia e la discriminazione anticomunista degli anni 50, infatti, non avevano completamente raggiunto l’obiettivo della normalizzazione totale delle fabbriche.

Nella cantieristica, per esempio, non era stata estirpata una coscienza di classe ampiamente diffusa e l’organizzazione ben radicata della FIOM (e del PCI).

Gli operai del Muggiano erano stati protagonisti, già dall’inizio degli anni ’60, di una memorabile battaglia grazie alla quale, fra i primi, avevano conquistato, tra l’altro, la trattenuta della quota sindacale direttamente in busta paga (prima di allora essa veniva periodicamente ritirata dai collettori dei vari reparti).

Più difficile si presentava invece la situazione in altri stabilimenti.

All’OTO Melara, per esempio, sopravviveva un ridotto nucleo di quadri del PCI e della CGIL scampati alla decimazione degli anni 50.

Ma il clima generale della fabbrica, ancora nel corso degli anni 60, era fortemente condizionato dall’egemonia della CISL.

Vi è qualcosa di “eroico” nella storia di questi compagni che, sottoposti a discriminazioni e vessazioni, spesso isolati anche dagli altri lavoratori, hanno avuto la forza di non piegarsi e, con il loro comportamento esemplare, sono riusciti a tenere aperta una prospettiva di classe, come sarà ben chiaro quando, con il biennio 68/69, anche le fabbriche pacificate, come l’OTO Melara, saranno protagoniste della nuova stagione di conflittualità operaia.

 Il cambiamento del clima politico e culturale del paese, che caratterizza gli anni 60, favorisce indubbiamente le grandi lotte operaie che, anche nelle fabbriche spezzine, raggiungono il loro punto più alto con l’autunno caldo del ’69.

Il 1968, anche a La Spezia, è l’anno degli studenti.

Gli universitari, che fanno la spola tra Spezia e l’Università di Pisa, nei primi mesi del ’68 cominciano a “portare” in città quelle idee “nuove”, libertarie, antiautoritarie ed antimperialiste, che incendiano gli Atenei.

Già nel corso dell’estate prendono il via alcune iniziative contro l’aggressione americana al popolo del Vietnam, che porteranno nei mesi successivi alla diffusione di un volantino, scritto in inglese, rivolto ai militari USA imbarcati nelle navi che avevano fatto sosta nella rada.

La mobilitazione al fianco del Vietnam, alimentata anche da alcuni scioperi simbolici di solidarietà che i sindacati metalmeccanici hanno proclamato nelle fabbriche, troverà poi il suo “sbocco” in una grande manifestazione che, in autunno, vede per la prima volta insieme operai e studenti.

Nell’autunno del ’68, con l’inizio dell’anno scolastico, il “contagio” si estende agli studenti medi.

Il movimento ha il proprio battesimo già dai primi giorni di ottobre.

Gli studenti intendono manifestare contro la strage di Città del Messico (dove l’esercito ha sparato sui giovani che manifestavano in occasione delle Olimpiadi) ed al Liceo Classico respingono l’aggressione preordinata di una squadraccia missina.

Le scuole superiori sono investite dal movimento che raggiunge il proprio apice con l’occupazione di tutti gli istituti cittadini.

Nei mesi successivi non mancheranno occasioni di confronto, di unità ed anche di parziale contaminazione reciproca tra il movimento degli studenti e gli operai delle fabbriche.

Il rapporto tra operai e studenti, anche a La Spezia, non sempre è scontato e non è privo di contraddizioni e di difficoltà.

Da parte degli studenti c’è la tendenza “all’ideologizzazione” che cozza con il “realismo” operaio e la critica alla sinistra ufficiale, che contraddistingue larga parte del movimento studentesco, suscita in settori della classe operaia diffidenza e, talvolta, anche chiusura.

Gli studenti tendono a costruire un rapporto diretto con gli operai (sull’esempio della assemblea operai e studenti di Torino che innescò la lotta, durissima dell’estate del ’69 alla FIAT, culminata, nel luglio, negli scontri di C.so Traiano: il vero inizio dell’autunno caldo).

Questo tentativo non è certo ben visto da larga parte del gruppo dirigente della sinistra ufficiale; malgrado ciò, un po’ in ogni fabbrica, emergono gruppi di operai che interloquiscono con il movimento studentesco.

Saranno questi operai, per esempio, che, assieme a molti studenti spezzini, parteciperanno alla famosa contestazione alla Bussola il 31 dicembre 1968.

Malgrado le difficoltà sempre più spesso, gli studenti, si ritrovano al fianco degli operai.

Il 2 dicembre 1968, in Sicilia, la polizia spara su una manifestazione di braccianti, uccidendo due lavoratori.

La risposta anche a Spezia è immediata: la mattina del giorno dopo gli studenti organizzano una manifestazione e, nel pomeriggio, la città è attraversata da un forte e rabbioso corteo di operai e studenti.

E ancora: operai e studenti si ritrovano insieme, nei mesi successivi, nelle grandi manifestazioni per le pensioni, contro una nuova strage poliziesca accaduta a Battipaglia, per il diritto alla casa o di solidarietà antimperialista ed internazionale, per il Vietnam, contro la condanna a morte di Panagulis da parte del regime dei Colonelli greci.

Negli ultimi mesi del ’68 e nei primi mesi del ’69 si realizza un intreccio tra battaglie generali (pensioni, solidarietà internazionale ecc. ecc.) ed iniziative di fabbrica.

Dalla primavera del ’69 in poi, e ancora nei mesi estivi, esplodono lotte importanti un po’ in tutte le fabbriche.

Gli operai del Muggiano, per esempio, ancora una volta, danno vita ad una vertenza aziendale per il premio di produzione, una nuova contrattazione del sistema dei cottimi e contro la nocività che porta ad un accordo che è un primo importante successo per i lavoratori.

Particolarmente significative sono le forme di lotta scelte dai lavoratori: il conflitto non resta chiuso in fabbrica e viale San Bartolomeo è frequentemente bloccata dalle tute blu in sciopero.

Nei mesi precedenti, prima di loro, erano state le operaie della Montedison ad inscenare una serie di manifestazioni in difesa del posto di lavoro che cominciava ad essere minacciato (la fabbrica verrà, infatti, chiusa qualche anno dopo).

Con l’estate si muove, dopo anni di silenzio, anche l’OTO Melara.

I giovani operai sono protagonisti di una memorabile vertenza che, partita contro il sistema di cottimo vigente, finisce per contestare alla radice la gerarchia di fabbrica ed il suo autoritarismo (in particolare l’odiosa consuetudine di cronometrare gli operai per tagliare i tempi delle varie lavorazioni).

La vertenza è, sul piano sindacale, una vittoria, ma è soprattutto una vittoria sul piano politico: gli operai hanno rialzato la testa e la FIOM, che prima della vertenza aveva, in tutta la fabbrica, solo una dozzina di iscritti, dopo la lotta arriva a contarne oltre 120!!!

Nei mesi precedenti c’erano state in città, altre due significative esperienze di lotta operaia, particolarmente importanti per la radicalità dei contenuti e delle forme.

La prima è la lotta degli allievi operai dell’Arsenale sviluppatasi negli ultimi mesi del 1968.

Di fronte ai continui rinvii nell’assunzione in Arsenale, i giovani del corso degli ex allievi della scuola operai decidono di rompere gli indugi e danno vita ad assemblee e proteste.

L’avvenimento è particolarmente rilevante perché la lotta che ha come controparte i vertici dell’Arsenale e della M.M., rompe la passività che, dopo le epurazioni degli anni ’50, aveva caratterizzato il clima sindacale dell’Arsenale e riesce a realizzare momenti di reale unità con il movimento degli studenti e con le “avanguardie operaie” che, anche al di fuori delle tradizionali organizzazioni sindacali, cominciano ad emergere nelle varie situazioni.

La lotta, che si conclude vittoriosamente con l’assunzione degli allievi operai, conosce anche momenti particolarmente aspri: una pacifica assemblea di operai, studenti e militanti della sinistra che si stava svolgendo in piazza Europa davanti al Comune veniva caricata a freddo dalla polizia e dispersa a colpi di manganello.

La seconda esperienza è la lotta degli operai della SAIPEM che sfocia nell’occupazione della SNAM di Panigaglia.

I contenuti di questa lotta stravolgono le consuetudini, anche sindacali dell’epoca.

Gli operai della SAIPEM, società collegata alla SNAM, una volta terminata la costruzione del terminal di Panigaglia, nella quale erano impegnati, sarebbero stati utilizzati dalla società per costruire altri cantieri e la SNAM avrebbe fatto funzionare il terminal spezzino facendo ricorso ad altra mano d’opera, in particolare trasfertista.

 Questa era la consuetudine, ma questa volta gli operai della SAIPEM non ci stanno.

“Siccome questo terminal l’abbiamo costruito noi, e siamo quasi tutti spezzini, è giusto che sia qui il nostro posto di lavoro” dicono.

Comincia così la lotta che, in un crescendo di iniziative, sfocia nell’occupazione del terminal di Panigaglia.

La mattina dell’occupazione un lungo corteo di studenti parte dalla città e, dopo una “lunga marcia” di qualche chilometro, arriva davanti al cantiere occupato dove ha luogo una memorabile assemblea operai e studenti.

La lotta si conclude con un accordo che rappresenta, indubbiamente, un parziale successo per i lavoratori, che ottengono anche il diritto a partecipare a corsi di riqualificazione professionale pagati dalla SNAM (!!!), ma che lascia l’amaro in bocca a molti di loro che avevano intravisto la possibilità di una vittoria completa.

Come “conseguenza “ della lotta, la SNAM di Panigaglia sarà una delle prime realtà operaie in Italia a superare la vecchia Commissione Interna e dar vita ad un Consiglio di fabbrica che rappresenterà, fino ai primi anni ’70, un’esperienza particolarmente avanzata.

La battaglia per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, che i sindacati, pressati dalla ripresa di forti scioperi alla FIAT, sono costretti ad anticipare al settembre del ’69, trova quindi la classe operaia spezzina già in pieno movimento.

La partecipazione degli operai spezzini alla lotta è esaltante.

OTO Melara, INMA, Muggiano, Termomeccanica, San Giorgio sono scosse da un’ondata senza precedenti di scioperi, di manifestazioni e di assemblee.

Più volte i metalmeccanici, con immensi cortei partiti dalle fabbriche, si prendono il centro della città.

Tutti i giorni la lotta si articola e si radica sul terreno della fabbrica e gli operai spezzini partecipano in massa alla manifestazione nazionale di Torino che da il via alla lotta e a quella di Roma che vuole dare la “spallata finale”.

Con l’autunno riprendono il via anche le lotte degli studenti che spesso manifestano in città assieme agli operai e che, a pochi giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico, danno vita ad un riuscito corteo di protesta per l’intervento della polizia contro una manifestazione antifascista a Pisa, che ha causato l’uccisione di uno studente.

Le lotte dell’autunno caldo nelle fabbriche spezzine portano a piena maturazione i processi innescati nei mesi precedenti.

Lo scontro è certo per il contratto, ma va oltre il contratto.

L’intera condizione operaia in fabbrica e la stessa organizzazione capitalistica del lavoro sono messe in discussione e il terreno del conflitto tende a diventare quello del potere, in fabbrica e, in prospettiva, nella società.

Gli operai rompono l’isolamento sociale e cominciano a costruire “egemonie”, si rompono gli steccati: nelle fabbriche spezzine cominciano a scioperare anche gli impiegati.

Il padrone non riesce più ad “usare” i “colletti bianchi” contro gli operai.

 E’ la conseguenza del clima nel paese che sta cambiando e dell’ingresso nelle fabbriche di una nuova generazione di tecnici, figli di operai, usciti dalla scuola che, negli anni ’60, è diventata di massa e non è più un privilegio per pochi.

Anche le forme di lotta sono cambiate: lo sciopero articolato e a scacchiera, per provocare più danno possibile alla produzione, intaccando il meno possibile la busta paga, diventa quella più praticata.

E’ una nuova generazione di operai che scende in campo e spesso travolge ogni consuetudine.

Anche i sindacati sono in difficoltà: pressati dalla spinta operaia vengono frequentemente scavalcati.

“Sono le lotte a fare l’unità e non le mediazioni dei vertici sindacali” grida un operaio dal microfono dopo che i lavoratori della SAIPEM hanno “conquistato” il palco di un comizio sindacale in p.za del Mercato.

Le lotte “cambiano” anche il sindacato.

La CGIL è investita da contraddizioni, talvolta anche aspre, tra che intende riaffermare le tradizionali modalità di iniziativa sindacale e i quadri che invece vogliono aprire l’organizzazione al rinnovamento espresso dal movimento.

Nella CISL lo scontro si fa lacerante: molti quadri operai provenienti dalle fabbriche si confrontano duramente con l’impostazione stile anni ’50 che ancora caratterizza pezzi consistenti dell’organizzazione, in particolare le categorie dei lavoratori del pubblico impiego.

E’ attraverso questi processi, che in modo tortuoso e talvolta anche contraddittorio, comincia a nascere quel sindacato di consigli che sarà, pur con molti limiti, la spina dorsale dell’organizzazione di classe negli anni ’70.

L’autunno caldo finisce nel dicembre del ’69 con la firma del contratto dei metalmeccanici che rappresenta una conquista storica per il movimento operaio italiano e con la Strage di Stato del 12 dicembre del 1969 che inaugura quella strategia della tensione messa in atto dalle classi dominanti, da settori dello Stato e dei servizi e dalla CIA per fermare l’avanzata dei lavoratori e delle masse popolari che, ancora per tutti gli anni ’70, faranno tremare i polsi a “lor signori”.

 

 

GLI ANNI ‘80 ALLA SPEZIA IN CRISI STRUTTURALE

 

Spezia città—stato va in crisi perché è messa in mora dallo stesso padrone — stato.

Dopo la crisi della Fiat, la manifestazione dei 40.000 a Torino, i boiardi di stato, coloro che si erano prima opposti alla nazionalizzazione dell’energia per diventare al momento opportuno paladini dell’economia pubblica, avvertono che sta avvicinandosi, dopo essere partita da lontano, una crisi strutturale.

Non voglio qui approfondire questioni che spettano agli studiosi, però come spesso accade coloro che hanno nelle mani il potere economico, quando si accorgono dei cambiamenti che si prospettano per il futuro, non solo non vogliono restare indietro, ma diventano punta di lancia di que­ste trasformazioni.

La preparazione della crisi nella nostra provincia dovrebbe essere oggetto d’indagine e di approfondimento, ma io affermo, assumendomene an­che la responsabilità, che è stata studiata a tavolino la destabilizzazione economica, e non solo, per poter modificare il ruolo dello stesso Sta­to. Parlerei, senza abusare del termine, di un “golpe industriale” che non poteva che agire in diverse direzioni; e innanzitutto accettare le decisio­ni delle singole competenze industriali che venivano da Roma, in sostanza tirare i freni dello sviluppo, passando da settori produttivi e trainanti a quelli senza futuro, scegliendo la strada del degrado e dell’abbandono senza più programmare e pilotare lo sviluppo, ingolfando le strutture produttive, gonfiando ad esempio gli apparati impiegatizi con l’intento esplicito di “far comandare i tanti e far lavorare e produrre i pochi”.

Insomma è a questo punto che si va formando la cosiddetta piramide rovesciata, tutta burocratizzata e gerarchizzata, in settori produttivi di primo piano.

Si doveva introdurre una organizzazione del lavoro che bloccasse la capacità produttiva e “cuocesse” le aziende che avevano un’alta qualità del prodotto, poiché in esse si era investito in ricerca e progettualità. E ciò si è ben capito nella vendita della S. Giorgio, che è stata la più grande azienda pubblica ad andare incontro allo scellerato processo di svendita e di privatizzazione.

La sperimentazione della “modernizzazione” è avvenuta in questi termini e certamente erano generalizzati i robusti segnali di questa poli­tica voluta da teste pensanti, che avevano intuito bene come a Roma i go­verni avevano bisogno di sostegno per depotenziare le lotte di massa, la crescita del PCI e la forza di un sindacato che stava difendendo al meglio gli interessi, e non solo quelli immediati dei lavoratori: salario, occupazione, organizzazione del lavoro, ambiente, ritmi, sicurezza, ecc.

Di fronte a un sindacato che poneva anche tutta la questione degli investimenti: come, dove e quando produrre, si può dire senza forzature che i Consigli di fabbrica si erano impadroniti della capacità di control­lo delle aziende, come se fosse vissuta in termini nuovi la vecchia storia dei “consigli di gestione”, comprendendo che quelli avevano fallito, perché si erano messi contro i lavoratori. Ora negli anni ‘70 le grandi lot­te avevano trasformato la cultura e per la prima volta appariva appli­cato l’art. 10 della Costituzione: ”L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”.

Il livello culturale e di consapevolezza politica del movimento ope­raio era di grande livello; la stessa conquista delle 150 ore, il modo con cui venivano gestite, aveva mostrato la capacità di legare il lavoro con il                    diritto allo studio e con la scuola.

Si compilavano i primi libretti sanitari, si parlava di delega consensuale, perché era il Consiglio di Fabbrica che decideva con rappre­sentanti dei lavoratori che davano fiducia, le fabbriche non erano sol­tanto luoghi di produzione, ma anche di incontro con il territorio.

L’unità sindacale era una realtà in molti settori, ma in quello dei metalmeccanici era una costante, al punto che essa nasceva spontaneamente tra i lavoratori, trovava nel C.d.F. la sintesi delle elaborazioni e tut­to diventava unitario, compresa la stampa che veniva prodotta, dai giornalini ai volantini. Insomma il sindacato orizzontale, verticale e di base era una realtà che operava in ogni campo e settore e si legava con l’ester­no al punto che in Emilia—Romagna, in Lombardia, in Toscana, ma anche in Liguria e a Spezia si costituiscono i primi Consigli Unitari di Zona.

Per schematizzare ciò che voglio dire, basta ricordare il famoso ar­ticolo che Amendola scrisse su Rinascita e che contestava questo tipo di sindacato perché metteva in ombra gli stessi partiti della sinistra e in primo luogo il PCI.

Non voglio soffermarmi sulle lotte che erano spontanee ovunque, è suf­ficiente pensare che per dieci lire di aumento della benzina si scendeva in piazza; per farla breve, dopo il’68 gli anni ‘70 avevano portato a ter­mine un ciclo.

E quando si parla di convergenze a più livelli per far fallire questa grande esperienza del movimento operaio, per fermare il sindacato dei Consigli, non si può tacere il ruolo svolto dalle Brigate Rosse, in sintonia con la strategia della “destabilizzazione stabilizzante”.

Le BR, fenomeno del nord, si erano insediate anche nella nostra provincia; anni inquietanti e bui sotto quest’aspetto, però nel ripensare al­la storia di quel periodo, occorre chiedersi come mai è stato possibile veder crescere il terrorismo senza averlo soffocato sul nascere, come ne­mico della classe lavoratrice e soprattutto delle sue avanguardie.

E anche gli anni ‘80 vanno indagati, ricostruiti per capire come mai un movimento forte, unito come quello dei lavoratori, pur nelle sue differenze si sia poi dissolto. Unito e forte, dicevo, perché se anche c’era chi cercava di entrare nelle pieghe del movimento per frenare, spostare l’asse e determinare l’egemonia, dentro i luoghi di lavoro il cemento e la cultura unitari erano solidi nei lavoratori e anche nei dirigenti sin­dacali.

Lontano da me esprimere giudizi storici su un periodo a me vicino e vissuto da milioni di compagni e amici, quello che voglio dire è che di fronte a un movimento operaio capace di grandi lotte e con un alto livello di consapevolezza, padronato e forze moderate dovevano trovare il siste­ma per piegare la classe lavoratrice. Così nella nostra città i boiardi di Stato non potevano che farsi interpreti di una politica di sfascio, soffiando sul fuoco dell’immobilismo produttivo, anziché spingere sulla strada dello sviluppo.

Non produrre, non innovare, ma fermarsi ad aspettare che le aziende fossero decotte, attendere l’arrivo di un ciclo che modificasse la stessa cultura del lavoro: questa la strategia messa in campo dal padronato per poter vincere.

Ci sarà chi la pensa diversamente, però io ritengo che gli anni ‘80 sono stati quelli in cui finisce una "rivoluzione”, una stagione di conquiste dei lavoratori, portati poi gradualmente nell’alveo del qualunquismo dalla “rivoluzione bianca degli invisibili”, dei grandi poteri economi­ci. Io penso che quando si arriva al taglio dei quattro punti di contingenza, questa non è stata che la spallata definitiva per un’inversione di tendenza nella cultura del lavoro.

Ed è con questa consapevolezza che anche a Spezia, come in ogni cit­tà gli “autoconvocati” si mobilitano, a fianco a una CGIL costretta a re­cuperare il rapporto con il movimento.

Il          famoso milione di persone in piazza e tutto ciò che ne consegue diventano il punto di svolta di una politica del sindacato, che riflette il configurarsi di una strategia delle classi dirigenti volta, come già dicevamo, a piegare i lavoratori.

Così nascono le prime rotture dentro il sindacato, la CGIL in modo particolare, per coinvolgervi tutto il movimento, e prendono vita le prime organizzazioni “di sinistra” all’interno della CGIL, non ultima “Carta ‘90”, poi approdata ad “Essere Sindacato

Nel 1986 si va al Congresso Confederale con due documenti e già si anticipa una rottura all’interno dei luoghi di lavoro e nelle stesse strutture sindacali.

Un fatto è bene ricordare, che in quel periodo molto difficile e com­plesso non vi è stato uno scontro tra sinistra moderata e PCI, ma al­l’interno del movimento sindacale, dentro il PCI, anche dentro la stes­sa DC, come nella CISL. Insomma l’attacco degli “invisibili” si stava sferrando in ogni settore, compreso quello di competenza dei boiardi di Stato, che certamente non erano gli unici e i più importanti per determi­nare la “rivoluzione bianca”, ma sicuramente lavoravano per anticipare e creare la crisi strutturale che alla fine degli anni ‘80 colpisce duramen­te la classe lavoratrice complessiva.

Ho la convinzione che vi sia una questione di non poco conto, e da non sottovalutare ai fini del cambiamento della stessa natura del sinda­cato, che è stato spinto a ricercare altre strategie compresa la cosiddet­ta “concertazione” — e ciò dall’osservatorio della nostra città è stato ancor più evidente. Parlo della legge 146 sulla regolamentazione del diritto di sciopero. Con essa si è compiuto un esproprio di un diritto, in modo tale che da quel momento si sono messe a punto due questioni: come “cambiare pelle” al sindacato e come trasformare la politica salariale e sociale dello stesso sindacato.

Qui certamente le opinioni contrasteranno, come sarà diversa l’anali­si che fanno i dirigenti sindacali; però pongo un’esigenza: chi studierà e scriverà la storia del movimento operaio dovrà farlo nell’onestà e nel rispetto della verità più assoluti. Io mi chiedo: ma se non si metteva in discussione il diritto di sciopero con il meccanismo di preavviso e tutto il resto, come si poteva pensare di privatizzare le ferrovie, l’Enel, la sanità e così via?

Non pretendo di avere ragione però sono convinto che limitare il diritto di sciopero, introdurre il metodo della concertazione tra le parti, hanno contribuito fortemente, se non determinato, il passaggio a un sindacato non più di classe e di lotta, ma “di servizi”.

none'>Esaminare le ragioni della crisi strutturale della nostra provincia significa far riferimento a fattori internazionali. Sulle ristrutturazioni ha avuto un grande ed importante peso la crisi mondiale, però l’allineamento                europeo, come poi abbiamo visto chiaramente negli anni ‘90, ha avuto il suo sbocco più dirompente perché non si trattava solo di indebolire i lavoratori con gli strumenti storici, ma bisognava passare at­traverso la collaborazione dei governi, con i loro esecuto­ri, appunto i “boiardi di Stato”.

E così si parte da lontano, dal debito pubblico, che certamente è una verità, ma in nome del quale vengono fatti saltare tutti i parametri produttivi e competitivi (cosa che è bene dire non è invenzione di oggi) si fanno “cuocere” le aziende perché il Fondo Monetario internazionale, che detta oggi con forza le sue politiche, già prima degli anni ‘90 im­pone regole di dismissioni. Si incominciò con la siderurgia, stabilendo quote, dismissioni e privatizzazioni, così si fece con l’agricoltura, per poi chiedere di praticare determinate politiche in ogni settore, sen­za contropartita.

E se la politica energetica assume il ruolo di volano di tutta l’eco­nomia messa in mano alle multinazionali, vengono da esse imposte regole che non sono altro che la rottamazione di aziende, inadeguate certo per gli anni ‘90; il fatto è che mantenere ferme la tecnologia e la ricerca applicata, non proteggere i nostri settori, ha determinato una crisi e una destrutturazione profonda anche in questo campo.

Sul finire degli anni ‘80 esplode una questione che oggi ha cambiato positivamente anche le nostre ragioni politiche: la questione ambientale che noi intrecciamo sempre a quella del lavoro. Però essa non viene com­presa nel modo giusto da molti.

Nella nostra provincia, a far prendere coscienza del problema ai lavoratori e ai cittadini è stata la questione-Enel, aprendo una discussione sia pure limitata, anche se era già esploso il caso dell’Intermarine con il ponte della Colombiera.

Anche se con limiti e contraddizioni la questione dell’Enel fu un momento molto importante; però si trattava di farne non solo un pro­blema dei lavoratori/cittadini, ma di aprire una discussione sull’economia e sul ruolo del nostro territorio, che ha visto il prodursi di un carico energetico tra i più alti del mondo.

Un discorso analogo va fatto per l’amianto, e qui non si tratta sol­tanto di un problema di riconoscimento, certamente giusto. Su tale que­stione, sottovalutata dal mondo del lavoro, è ancora da scrivere la storia, che contiene una delle pagine più nere per la nostra comunità. Né possia­mo fermarci agli archivi; è invece necessario farne un momento di studio per avviare una politica sanitaria che indaghi e ricostruisca la mappatura delle ubicazioni e dei siti.

Se è vero che Spezia è la capitale dell’amianto, dei danni alla sa­lute e delle morti registrate, è necessario — visto che molti sono i decessi non catalogati e che il dramma non è ancora finito —che si apra un’inchiesta vera, che guardi alla prevenzione per salvare vite umane e individui i colpevoli.

Così è importante “ricostruire la storia” per capire come mai, quan­do eravamo a un passo dal conoscere i danni sulle persone nei luoghi di lavoro, individuando con le mappature le sostanze cancerogene, poi — anche con il cambiamento del sindacato, con l’attacco all’occupazione e ai sala­ri, con la crisi delle aziende — una volta avviata la pubblicazione dei dati, si è bloccato tutto, e la questione è passata, come si dice, “nel dimenticatoio”.

Così le centinaia di morti sul lavoro: non dico che occorre costrui­re un angolo di storia per farne un muro del pianto, ma per individuare tutte le responsabilità, per affrontare il futuro, considerando che il problema va visto nelle sue sfaccettature, comprese le nuove leggi e normative. Certo è che bisogna scavare nel passato e portare alla luce gli omicidi bianchi.

Così penso che spetti in prima persona alla classe lavoratrice cono­scere le ragioni di alcune scelte che sono state fatte sulla pelle dei la­voratori, mi riferisco ad esempio all’insediamento dell’Enel, della Snam ecc., accettati come fatto di progresso, difesi dai lavoratori, pagandone anche altissimi prezzi, mentre altri si avvantaggiavano e si arricchivano, senza neppure pagare i danni arrecati, assolti come sempre da ogni responsabilità.

Oggi è più facile capire le contraddizioni che si aprivano quando si creavano cantieri e insediamenti con lo scopo di fare arricchire poche persone e danneggiarne tante altre. Oggi sappiamo che il territorio oltre i cancelli di una fabbrica è un luogo di vita e di civiltà e come tale va visto con gli occhi di chi sa che non solo è stata distrutta una grande parte del nostro territorio, ma in esso sono state imposte scelte sbagliate (rimando in proposito al nostro Progetto/Spezia e alle ultime relazioni: sulla Centrale di Moratti, sulla Vallata del Ma­gra e sulle Cinque terre).

Oggi non possiamo più subire scelte che avvantaggiano i pochi e danneggiano i più: le scelte vanno fatte nell’interesse generale. Se negli anni ‘80 è cominciata la ristrutturazione del nostro territorio è perché anch’essa andava in quella direzione: perché le strutture produttive, le aree, il territorio non erano altro, per chi aveva in mano il potere di decidere, che il “giardino di casa” da usare e da godere a onore della propria ricchezza.

 

 

GLI ANNI ‘90 TRA RISTRUTTURAZIONI E MONOCULTURA

- NUOVO SVILUPPO E TIMIDE TRASFORMAZIONI -

 

Per verificare qual’è stata nel nostro territorio ed è la politica del lavoro e qual’è la condizione dei lavoratori, è sufficiente andare nelle aree indu­striali e vedere i cimiteri industriali, dove gli insediamenti sono definitivamente se­polti o ristrutturati e riconvertiti.

Le ragioni di questa situazione sono, come detto, molteplici; noi riteniamo che non aver lottato a difesa dell‘industria per le sua trasformazione e riconversione, può aver lasciato, come si dice, la città in pace e può al limite giustificare la li­nea di coloro che sostenevano l’inesistenza di una classe dirigente e così via; pe­rò ha lasciato il posto a quella che. noi di Rifondazione Comunista. abbiamo schematicamente definitivo come “economia del Galles”.

Negli anni ‘90 il movimento si è venuto man mano affievolendo, anche se ogni tanto dei “colpi di frusta” davano fuoco alle polveri con azioni che molti speravano dessero gambe ad un nuovo movimento, e che nel ‘94 trovano i lavoratori pronti alle grandi manifestazioni contro il governo Berlusconi, sino a farlo cadere.

Spezia era tra le prime città dove il movimento di lotta si era espresso spon­taneamente, opponendosi, di fatto, anche alle ristrutturazioni che i vari governi, pri­ma e dopo Berlusconi, stavano portando avanti.

In crisi erano già i settori della cantieristica civile e militare, la Termomeccanica, l‘OTO Melara, l’Arsenale, La crisi si trasmette subito al fragile indotto che trascina piccole e medie aziende, molte messe sul lastrico. Così per la questione ambientale, l’IP rimane chiusa.

Le scelte vengono avanti dirompenti, i governi dicono che “il cavallo non beve più”, si salva al ribasso la Termomeccanica, con un operazione per molti buona, per noi assai mediocre, dato che ancora oggi pensiamo che potessero essere scelte strade più redditi­zie per i lavoratori.

 

Lo stesso Porto va in crisi, Messina abbandona Spezia e si trasferisce a Genova, la Tarros è anch’ essa in crisi, la compagnia portuale regge nel suo pic­colo, ma incomincia quella politica che noi abbiamo definito da “rnandriani del por­to”, non in chiave offensiva per nessuno, ma perché il Porto occupa ogni spazio possibile, a partire dal fronte a mare sino dentro il quartiere della Pianta, in modo disordinato e abusivo, per non parlare della zona di Santo Stefano.

Nasce intanto lo scandalo della discarica di Pitelli e, per rimediare, da molte parti viene invocato il forno inceneritore, poi battuto dalla lotta di Rifondazione Comunista e dei comitati ambientalisti.

Si diffonde comunque la coscienza che la città è in crisi, che anche le infrastrutture costituiscono un grosso problema. I rimedi noi di Rifondazione Comunista li abbiamo con forza contestati, per questo alla fine del 1999 abbiamo presentato il Progetto-Spezia chiedendo una profonda svolta economica con un risarcimento alla città che è stata nella sua storia sacrificata alle servitù militari, al po­lo armiero e con un carico energetico che è tra i più alti del mondo, se si pensa alla collina di Vezzano, alla Centrale Enel con il fossile, alla IP, a Panigaglia, all’Arsenale, al nucleare, alla polveriera di Pitelli, al depositi dei container.

Insomma di fronte ad una pesantissima crisi, nessuno — fatta eccezione per Rifondazione Comunista - chiama in causa lo Stato, si lancia la politica del “fai da te”, e così nascono piccole occasioni di lavoro, per la grande parte precario, dal commercio al servizi.

Si mantiene qualche “commessina” di lavoro all’Intermarine, all’OTO, perché si sceglie la strada della ristrutturazione e dismissione graduale, togliendo di volta in volta un pezzo della produzione: e così è per la Termomeccanica, per l’OTO. per l’ex INMA, mentre il futuro della produzione industriale sembra essere quello del far posto, in immense aree, a piccole aziende, ad artigiani e a piccole indu­strie che occupano sì e no 40 lavoratori. E’ il caso per es. dell’area OTO.

Qui siamo al totale cambiamento strutturale e, come direbbe qualcuno, subito e non contrattato; o meglio: si tratta la dismissione e le aree industriali e demaniali diventano un vero affare.

 

La storia, come si dice, nasce da lontano, le responsabilità sono di tan­ti, ora però si stanno chiudendo i cerchi attorno all’OTO, all’Arsenale, all’Ocean, all’Intermarine, mentre si privatizza l’energia, la sanità, i trasporti e tutto il resto.

Di fronte alla crisi noi abbiamo lanciato una proposta complessiva che abbia­mo esposto in convegni, in dibattiti, in iniziative, in interviste e nei moltepli­ci documenti scritti, a cominciare dal Progetto/Spezia. Non è questa la sede per entrare nel merito dì tali proposte: esse possono essere sintetizzate nella richie­sta di un risarcimento alla città - per il disastro ambientale subito e per essere stata asservita agli interessi dello Stato italiano - e nella conseguente richie­sta di una legge speciale, come è stata fatta per Venezia per la riconversione e lo sviluppo della nostra economia. E qui abbiamo indicato come simbolo possibi­le di questa riconversione, il caso della Ruhr (con la speranza che gli altri la smettano di “copiare” le nostre idee nel tentativo di togliere spazi a Rifondazione Comunista).

Anche le esperienze che dovranno vivere andranno, mi auguro, nella “Casa del­la Cultura” e sono sicuro che i lavoratori non si faranno sfuggire questa possibi­lità di un loro contributo con azioni di lotta, idee e progetti. Così la “Casa” e il suo archivio saranno costruiti da tante mani, di uomini e donne di cui magari non si ricorderà il nome, ma che renderanno grande e viva la storia del mondo del lavoro.

 

 

UNA CASA DI VETRO

 

La propongo , questa “casa di vetro”, alla città, ai protagonisti delle lotte di tanti anni, vissute con tanti sacrifici, amarezze, ma anche con orgoglio e gioia. Perciò nessun documento deve andare perduto e così mi rivolgo ai padri, ai nonni ai figli perché tirino fuori dai cassetti giornali, fotografie, pezzi di ricordi fatti importanti che trovino nella “Casa” l’accoglienza diretta.

 

La “Casa della Cultura e della Storia dei lavoratori spezzini” deve essere un luogo di trasparenza, di verità, di vita vissuta, e vorrei dire, che abbia occhi, orecchie e memoria, per farne un luogo di impegno, di rispetto delle diffe­renze, di democrazia non dichiarata , ma partecipata.

Io mi rivolgo a te, Giorgio, in quanto Sindaco della città, a Piero Tivegna, segretario del più grande sindacato, ma che rappresenta qui anche Cisl e Uil e direi tutti gli altri sindacati, che hanno una storia più breve, ma devono sentire questa “Casa” come appartenente anche a loro.

Così mi rivolgo a Banti , che rappresenta la storia cattolica, e a Ferruccio, protagonista di tante lotte democratiche, un talento creatore di civiltà. A Luigi Faccini che con la sua arte ed il suo genio sta dando mo1to alla ricostruzione della nostra sto­ria, e a Marco Ferrari, il responsabile culturale della città.

Mancano certo molti protagonisti e persone interessate, ma il compito che io mi sono assunto a none di Rifondazione Comunista è di annunciare la nascita di questa “Casa”, e se il Sindaco Pagano assume questa idea e awia un Forum, con spe­cialisti che preparano un progetto da sottoporre all‘attenzione di tutta la città, bé, io penso che tutti assieme avremo fatto un buon lavoro per la nostra comunità e per tutti coloro che hanno costruito la storia, con le luci e le ombre che natural­mente porta con sé.

 

 

Ormai Il termine globalizzazlone è entrato nel linguaggio comune, ma essa non è solo Il mercato globale, l’azienda-pianeta con le grandi concentrazioni economico-finanziarie che dettano legge a livello mondiale; è una svolta epocale che ha trasformato il mondo come non mai nella sua storia in ogni forma dl attività umana: nella produzione, nel lavoro, nella politica, nel rapporto con l’ambiente, nelle strategie militari, nella comunicazione, nella cultura, nel comportamenti.

La televisione, Internet, le tecnologie satellitari e digitali, i sistemi di comunicazione Istantanea (che saltano e rendono inefficienti i controlli) impongono sempre più un modello unico di “sapere”, dove persino le differenti lingue sono un ostacolo, tanto che l’uso della lingua inglese è d’obbligo per chiunque non voglia essere e sentirsi un “perdente” nel 2000.

In questa americanizzazione della cultura che tende a pervadere l’intero pianeta, l’etica dominante è quella dell’Individualismo e dei consumismo, del culto del denaro, mentre tacciono emozioni e sentimenti come quelli della solidarietà e l’occhio non lacrima di fronte ai drammi dell’umanità. In un deserto di valori, di principi, dl consapevolezza e dl morale, dl sapere critico e dl creatività, dl senso collettivo e dl memoria storica, questa proposta della “Casa della Cultura” non e un macigno, ma certamente un mattone contro chi pensa che la civiltà umana comincia ora, che tutto il resto non conta. All’egoismo e alla sete di potere, alla passività e al­l’opportunismo, al rifiuto della verità e della storia,, io dico: “va pure avanti… uomo qualunque, vai a romperti la testa nel luogo dove altri l’hanno già battuta e se la seno rotta”.

Ciò che non può essere permesso a nessuno, è dire e credere che la verità non interessa e ognuno può costruirsela come vuole. No. questo non è permesso a nessuno.

Perché si spingerebbe ulteriormente gli uomini a vivere sul valore dei soldi, a sognare ciò che non sono, a proiettare i propri desideri sulla ricchez­za, a non dare valore alla cultura del lavoro, alla fatica, all’ingegno.

No. la storia non può essere messa in vetrina, o sui banchi del mercato o dei bazar; come i principi, la storia non può essere messa in vendita.

Per noi comunisti non è certo tempo di nostalgie di atteggiamenti rinunciatari o di pessimismo: è tempo di verità.

Ed è perciò che, per la Casa della Cultura e della Storia dei lavoratori spezzini, chiediamo all‘Arsenale Militare, all‘OTO Melara e a tutte le aziende grandi e piccole del nostro territorio, di aprire i loro archivi, di togliere i sigilli alle carte segretate: i lavoratori, i cittadini hanno diritto di conoscere ciò che è accaduto e perché è stato possibile. Come chiediamo ai corpi militari, a Carabinieri e Polizia di aprire i cassetti e gli archivi, non per spirito “giustizialista”, ma per conoscere la nostra storia e i drammi in essa contenuti.

Nel presentare le linee di percorso per la “Casa della Cultura del movimento operaio” non abbiamo fatto nomi, non abbiamo esaltato personaggi, anche perché vo­gliamo che questa sia una “Casa” di vetro. E non perché essa debba essere fragi­le, ma perché renda possibile a chi è fuori di guardare dentro e a chi è dentro di vedere cosa accade fuori.

Una cosa è certa: essa è il simbolo della trasparenza e al tempo stesso del­la concretezza, e perché no, anche dei sogni interrotti o di realtà vissute come sogni. Guardare dentro la “Casa” significa per noi conoscere non soltanto ciò che è accaduto, ma la storia come civiltà, con la radice di tutti quegli alberi che possono anche flettere sotto i colpi del vento, senza rompersi né sotto la scu­re della prepotenza, né sotto l’uragano della disonestà. La storia sono le nostre radici: guai piantare piante sull‘asfalto o sulla sabbia per non avere radici.

La “Casa della cultura”, la “casa di vetro” che noi proponiamo è per avere un luogo dove una comunità possa ritrovarsi e ricostruirsi, come nelle “case del popolo” di un tempo, e con un patrimonio di cultura come quello dell’Archivio Storico della Re­sistenza.

La storia della nostra città è relativamente giovane, ma ricca, tanto preziosa da spenderci sopra una proposta, che chiama in causa tutta la popolazione. Si deve, si può, noi faremo la nostra parte.

     

 

“GUARDATE IN SU:IL CAMINO FUMA”

(B. BRECHT)